V

Gli esuli ritornarono a scorrere la campagna, sollevando i vicini castelli; e i Fiorentini si mossero subito per sottometterli. Fra questi castelli primo fu quello delle Stinche, ribellatosi per opera dei Cavalcanti. Esso venne facilmente preso (agosto 1304), e i prigionieri furono condotti nelle carceri nuove, che d'allora in poi si chiamarono le Stinche. Piú grossa guerra si dové fare contro Pistoia, che si ribellò nel 1305 in favore di parte bianca, con l'aiuto degli Aretini e dei Pisani, ed era comandata da Tolosato degli Uberti. Ne seguí un lungo e rigoroso assedio, posto dai Lucchesi e dai Fiorentini, sotto gli ordini di Roberto duca di Calabria, il quale, chiamato come capitano della lega, era venuto con molti fanti e 300 cavalieri catalani. L'assedio durò tutto l'inverno, e nell'aprile del 1306 i Pistoiesi, estenuati dalla fame, dovettero arrendersi. Le loro torri e e le mura furono disfatte, il loro territorio diviso tra i Fiorentini ed i Lucchesi. Invano Clemente V s'era adoperato a far cessare questa guerra, che portò un altro duro colpo ai Ghibellini di Toscana. Egli era francese, aveva trasferito ad Avignone la sede pontificia, e non conosceva l'Italia, che non poteva amare un Papa straniero, il quale abbandonava Roma. Infatti ai suoi messi di pace, venuti al campo, i Fiorentini non dierono ascolto, né si curarono dell'interdetto contro di loro pronunziato. Il duca di Calabria si ritirò; ma fu solo per gettar polvere negli occhi, avendo lasciato al campo le sue genti col capitano Pietro de la Rat. E cosí la guerra venne condotta a termine.

Né fu piú fortunato l'altro legato di pace, il cardinal Napoleone Orsini, che in Toscana e nella Romagna non solamente fu male ricevuto, ma venne derubato, e si trovò anche in pericolo della vita. Delle sue scomuniche, de' suoi interdetti, dei suoi consigli di pace ridevano tutti. I Fiorentini ormai volevano andar fino in fondo, e non avevano finito la guerra di Pistoia, che incominciarono quella contro il forte castello di Montaccenico, rocca principale degli Ubaldini, da cui dominavano tutto il Mugello, e dove era il quartier generale degli esuli. Il castello finalmente fu preso a tradimento, provocato con danaro sparso fra gli Ubaldini stessi, e venne demolito dai Fiorentini, che subito deliberarono di fondare colà le due terre di Scarperia e di Firenzuola, «per fare battifolle agli Ubaldini, e torre i loro fedeli», rendendo liberi da ogni vassallaggio tutti coloro che entravano in quelle due piccole città, a tale scopo fondate. La prima pietra di Scarperia fu messa subito, il 7 settembre 1307; la costruzione di Firenzuola cominciò invece assai piú tardi (1332).

Ma a che cosa s'arrivava, qual fine raggiungeva la Repubblica con queste continue guerre, cui anche i Grandi pigliavano parte; con questa sottomissione delle città ghibelline; con questa demolizione di castelli in tutto il territorio? Da una parte cresceva rapidamente il suo predominio politico in Toscana, e si aprivano nuove vie al suo commercio; da un'altra la potenza dei Grandi fuori di Firenze veniva distrutta con l'aiuto di quelli che erano dentro, e che, accecati dall'odio contro gli esuli, non sapevano quel che si facevano. Gli antichi popolani avevano demolito i castelli, che una volta arrivavano fin quasi alle mura di Firenze; avevano costretto i baroni a venire in città, sottoponendoli alle leggi repubblicane, fiaccando il loro orgoglio, escludendoli dal governo. Valendosi delle loro discordie, li spinsero piú tardi a distruggersi fra di loro; e finalmente si facevano ora da essi aiutare per combattere i nobili piú lontani, e demolirne i castelli nel Casentino, nel Valdarno, in Mugello, il che tutto ritornava sempre a vantaggio del popolo e delle Arti. Infatti nel 1306, quando continuava ancora la guerra contro Pistoia, i Fiorentini rinnovarono le compagnie del popolo armato sotto 19 gonfalonieri. E questa fu la costituzione del «buon popolo guelfo», riforma, secondo il Villani, fatta perché «i Grandi e possenti non presumessero di pigliare forza e baldanza, per le molte vittorie ottenute contro i Bianchi ed i Ghibellini».

Ma ciò, non era tutto, che anzi la parte sostanziale della nuova riforma fu la legge del 23 dicembre 1306, con la quale vennero rafforzati gli Ordinamenti, e fu creato l'Esecutore di Giustizia, che doveva curarne una piú rigorosa applicazione. Il fine della legge era chiaramente espresso nelle sue prime parole, che la dicevano fatta «a conservare la libertà del Popolo di Firenze, ed a rompere la superbia de li iniqui, la quale tanto è cresciuta che piú oltre, con gli occhi riguardando, non si puote passare». Le Arti, in sostanza, non davano quartiere ai Grandi, neppure quando combattevano insieme con essi i nemici comuni. L'Esecutore doveva essere popolare e guelfo, forestiere, cioè non toscano, e di luogo lontano almeno 80 miglia da Firenze, di città o terra non sottoposta ad alcun signore. Non poteva essere cavaliere né giudice di legge, e ciò per l'odio sempre crescente contro i perversi giudici, e per la funesta esperienza che, negli ultimi anni, s'era fatta del Podestà. Durava in ufficio sei mesi, e doveva menar seco un giudice, due notai, 20 masnadieri o berrovieri, tutti guelfi e forestieri, due cavalli armigeri. Il suo ufficio era: difendere il popolo e i deboli contro i potenti, ad ogni maleficio che occorresse chiamando le compagnie sotto le armi, per venire subito all'applicazione delle pene. Toccava ora a lui principalmente provvedere all'esecuzione degli Ordini della giustizia, ed ogni volta che il Podestà o il Capitano non facevano la parte che loro era imposta, doveva subito assumerne le veci, secondo le norme minutamente prescritte dalla nuova legge, che fece d'ora innanzi parte integrante degli Ordinamenti. Toccava inoltre a lui punire le falsità e baratterie commesse negli uffici del Comune. E quando il Podestà non disfaceva i luoghi (salvo sempre le chiese), in cui s'erano tenute conventicole o adunanze senza legale permesso, doveva egli provvedere subito, e multare il Podestà stesso in 500 lire. Se le adunanze si erano tenute contro la libertà ed il governo popolare, allora c'era addirittura la pena di morte. E questa, trattandosi di Grandi, veniva inflitta dal Podestà, il quale se non procedeva subito, era al solito punito dall'Esecutore, che doveva farne le veci. Quando i colpevoli erano popolani, spettava al solo Esecutore condannarli a morte, dichiarando Grandi i loro discendenti. E cosí pure i popolani che aiutavano i Grandi nel commettere maleficî, dovevano dall'Esecutore essere condannati ad una pena doppia di quella richiesta dalle leggi comuni. Il sindacato del Podestà e del Capitano che uscivano d'ufficio, spettava all'Esecutore, il quale, a sua volta, era sottomesso al sindacato di persone elette dai Priori e dai Gonfalonieri delle Compagnie.

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