IX

Arrigo s'apparecchiava intanto a partire per Roma; nel campo imperiale i menestrelli cantavano la morte pietosa di Corradino, e la musa popolare dei Ghibellini continuava a salutare ed esaltare il giusto giudice, il celeste paciaro. Poeti, letterati, giuristi, filosofi s'ostinavano a vedere in lui un nuovo redentore, che doveva restituire a Roma la corona imperiale, all'Italia dar pace e libertà. Cino da Pistoia esclamava: Nunc dimittis servum tuum, Domine, quia viderunt oculi mei salutare tuum. Ma piú di tutti s'era esaltato Dante Alighieri, che in questo momento fu come il rappresentante principale del partito imperiale in Italia. Fin da quando Arrigo s'era avvicinato alle Alpi, egli aveva scritto una lettera ai principi e governi d'Italia, esclamando: «Osanna a te, misera Italia, che ormai sarai da tutti invidiata, perché Sponsus tuus et mundi solatium et gloria plebis tuae, clementissimus Henricus, Divus et Augustus et Caesar, ad nuptias properat. Si rallegrino gli oppressi, che la loro salute è vicina. Perdonino, perdonino coloro che come me hanno sofferto ingiurie, perché ora il Pastore, mandato da Dio, ci ricondurrà tutti all'ovile». Ma piú tardi, quando Arrigo stava per andar contro Cremona, e i Fiorentini già gli si erano dichiarati aperti nemici, la gioia dell'Alighieri si mutò in ira, e dalle sorgenti dell'Arno, sui monti del Casentino, scriveva il 31 marzo 1311, una nuova Epistola indirizzata: Scelestissimis Florentinis. «Non sapete voi che Iddio ha ordinato il governo del genere umano sotto un solo Imperatore, a difesa della giustizia, della pace, della civiltà, e che l'Italia fu sempre in preda alle guerre civili ogni volta che l'Impero mancò? E osate, voi soli, ribellarvi al giogo della libertà, e cercare nuovi regni, come se alia sit florentina civitas, alia sit romana? Voi, vanissimi ed insensati, soccomberete all'aquila imperiale. Non sapete che la libertà vera sta nell'obbedire volontariamente alle leggi divine ed umane? E mentre che presumete di volere la libertà, cospirate contro tutte le leggi!» Quando poi Arrigo, invece d'andare innanzi, si fermava in Lombardia a combattere le città sollevategli contro dai Fiorentini, lo sdegno di Dante arrivò al colmo, ed il 16 di aprile dello stesso anno gli scriveva nuovamente: «Si dice che tu esiti nella tua impresa, e che, scoraggiato, vuoi tornare indietro. Ma non sei tu dunque l'aspettato da tutti noi? Quando le mie mani toccarono i tuoi piedi, io esultai, esclamando: Ecce agnus Dei, ecce qui abstulit peccata mundi. Che indugi? Se non ti muove la tua propria gloria, ti muova quella almeno di tuo figlio:

Ascanium surgentem, et spes haeredis Iuli

Respice, cui regnum Italiae, romanaque tellus

Debetur...

(Aen, iV, 272).

A che ti giova fermarti a sottomettere Cremona? Insorgeranno Brescia, Bergamo, Pavia, altre città, fino a che non estirperai la radice del male. Ignori tu forse dove riposa e cova la fetida volpe? Essa s'abbevera nell'Arno, che avvelena con le sue labbra. Non sai che si chiama Firenze? Questa è la vipera che s'avventa al seno della madre, la pecora che corrompe il gregge, la Mirra incestuosa col padre. Infatti è dessa che dilania il seno della madre Roma, che la fece a sua similitudine, e viola gli ordini del Padre dei fedeli, che è teco d'accordo. E mentre che dispregia il proprio sovrano, parteggia con re non suo, diritti non suoi. Dunque non esitare, e colla frombola della tua sapienza, colla pietra della tua fortezza abbatti il nuovo Golia».

Questo linguaggio scolastico, biblico e classico ad un tempo, spesso anche ampolloso, dipinge mirabilmente le idee del tempo, e dimostra quanto si fosse esaltato lo spirito di Dante. Egli è certo il primo che chiaramente esponga il nuovo concetto dei Ghibellini, che s'era andato svolgendo e maturando nella sua mente, quando egli si separò sdegnosamente dai compagni d'esilio, per chiudersi nello studio. Questo concetto che, come già dicemmo, trovasi ampiamente delineato nella Monarchia, era di certo piú teorico e letterario, che pratico; ma esso aveva profonde radici nelle idee del tempo, e nel libro che lo espone si vede già assai chiara la tendenza del secolo a trasformarsi. Leggendo, noi siamo assai spesso ricondotti nel Medio Evo, ma una nuova aurora biancheggia pure dinanzi ai nostri occhi. «L'Impero rappresenta il diritto, che è il saldo fondamento dell'umana società; deriva perciò da Dio, da cui l'Imperatore riceve il suo potere, non altrimenti che il Papa». Come si vede, è già la società laica, indipendente, emancipata dalla Chiesa, ed è la prima volta che l'idea d'uno Stato fondato sul diritto, idea ispirata dall'antica Roma, suggerita da nuove necessità pratiche, viene formolata in sull'uscire dal Medio Evo, che l'aveva negata. Dante però non s'accorge che il nuovo Stato deve di sua natura essere nazionale, e non vede che l'Impero universale, rappresentato da Arrigo VII, che egli invoca, è quello appunto che rende impossibile questo Stato. Cosí ciò che v'ha di nuovo, quasi di profetico, nel suo libro, è distrutto da ciò che vi ha di teorico e di scolastico. Lo Stato laico, indipendente, che egli già vede con la sua gran mente, deve trionfare; ma questo trionfo farà sparire l'Impero medioevale, di cui egli, col suo libro, voleva scrivere l'apoteosi, e scriveva invece l'epitaffio, come fu giustamente osservato. Eppure il concetto non solo dello Stato, ma dello Stato nazionale, sebbene in confuso e da lontano, piú d'una volta balena nel suo libro, svolgendosi faticosamente attraverso il classicismo che risorge. L'Impero infatti è inseparabile dalla Città Eterna, da cui deriva, di cui è l'erede. La venuta dell'Imperatore a Roma, sua sede naturale, permanente, dovrà ricondurla all'antica grandezza. E Roma e l'Italia non sono una sola e medesima cosa? Arrigo VII è il rappresentante non solamente del diritto, ma della pace, della libertà, della civiltà, e l'Italia troverà in lui la fine delle sue miserie, la garanzia delle sue libertà. Non è egli il padrone del mondo? Epperò nulla può desiderare di piú, e non potrà non essere a tutti giusto signore e padre, rispettando tutti i diritti e le giurisdizioni legalmente acquisite. Ma era appunto questo suo voler esser signore di tutto e di tutti, ciò che si opponeva a quello spirito nazionale, che già si cominciava a sentire da molti, e che, quasi a sua insaputa, veniva cosí vivamente esaltato dall'Alighieri, nel momento stesso che lo negava col chiedere la resurrezione dell'Impero.

Una tal contraddizione rendeva tragica davvero la condizione in cui lo spirito di Dante si trovava. Egli era profondamente sincero e convinto della verità delle sue idee. Pieno di santo sdegno contro coloro che aiutavano il Papa e gli Angioini, memore di ciò che aveva visto operare da Bonifazio VIII e da Carlo di Valois in Firenze, prevedeva, quasi vedeva le molte calamità che i suoi avversari avrebbero, colla loro ostinazione, fatto ripiombare su tutta Italia. Ma non vedeva che il suo concetto politico avrebbe ricondotto l'Italia al Medio Evo feudale, resa vana l'opera dei Comuni, e le loro lotte secolari, alle quali egli stesso non era stato estraneo. In mezzo a questo conflitto, che era nella sua mente, nacque la Divina Commedia, nella quale due mondi sono in presenza, spesso a contrasto, ed uno spirito nuovo, rianimando il passato, lo trasforma e ne fa sgorgare l'avvenire, un'arte, una letteratura, una civiltà nuova. Nel grande poema la realtà umana delle passioni e della vita, penetrando nelle mistiche nebbie del Medio Evo, le dissipa finalmente per sempre. Il filosofo, lo storico vi trovano quindi tutti gli elementi che costituirono quel secolo, in cui una società muore, ed un'altra, quasi sotto i nostri occhi, apparisce e si forma. Ma se da tale conflitto sgorgò una poesia immortale, non ne sgorgò, e non poteva, una politica pratica.

Ed era ciò che dava il vantaggio ai Fiorentini, i quali si tenevano invece stretti alla presente a prossima realtà. Essi contavano e pesavano le balle della seta e della lana; calcolavano di quanto sarebbero, col trionfo dell'Impero in Italia, diminuite la loro importazione e la loro esportazione; e vedevano in esso la rovina del loro commercio; il trionfo dei loro nemici, dei Grandi, di Pisa, dei molti piccoli tiranni italiani; la rovina delle loro libertà e del governo delle Arti. I fatti di Milano, di Cremona, di Brescia non davano loro ragione? E perciò essi chiamavano a raccolta le città guelfe, e nel nome d'Italia, della libertà e della comune indipendenza, le confederavano a difesa contro lo straniero. Ma s'alleavano anche con Roberto, e sposavano la causa della Francia e del Papa, il cui trionfo sarebbe stato a sua volta, come fu di fatto, funesto alla libertà ed alla indipendenza italiana. La nazione, noi lo abbiamo già detto, poteva cominciare a formarsi solo colla distruzione, sulle rovine dell'uno e dell'altro partito. Il lungo e faticoso processo di storica evoluzione, che doveva apparecchiare un avvenire lontano, era allora ignoto a tutti. I Fiorentini pensavano solo a salvare il presente, ed in ciò ebbero ragione e furono fortunati.

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