Nel 1310, lasciata al figlio la cura delle cose di Germania, Arrigo si mosse per l'Italia. Aveva mandato innanzi Luigi di Savoia, eletto Senatore di Roma, che il 3 di luglio era in Firenze, con due prelati tedeschi. Questi furono ricevuti in Consiglio; ma alla loro domanda, che s'apparecchiassero a ricevere con onore l'Imperatore, Betto Brunelleschi rispose: «Che i Fiorentini mai per niuno signore inchinaro le corna»; risposta che era certo poco conveniente, ma che in sostanza esprimeva il sentimento comune. Infatti i messi imperiali, bene accolti dovunque, nulla poterono ottenere in Firenze, neppure far sospendere la guerra contro Arezzo. Ed a Losanna, Arrigo ricevette gli ambasciatori di quasi tutte le città italiane; ma quelli di Firenze non v'erano. Essa, con grande operosità, si apparecchiava invece alla difesa; rialzava le nuove mura per altre otto braccia, e circondavale di fossati da Porta al Prato fino a Porta San Gallo, e da questa fino all'Arno. Il 30 di settembre Roberto venne da Avignone, dove il Papa lo aveva coronato re di Napoli, e nominato anche vicario di Romagna, per tema che Arrigo volesse impadronirsi di quella provincia da poco alienatasi dall'Impero. Ben presto s'intese coi Fiorentini, e fece con essi gli accordi per la comune difesa. Ciò non ostante, Arrigo s'avanzava, intitolando sempre i suoi atti, in nomine regis pacifici, ed assumendo la persona di giudice imparziale e giusto. Invitava a sé Guelfi e Ghibellini, che tutti voleva ricevere con uguale amplesso. Il 24 di ottobre era a Susa, ed il 6 gennaio 1311, giorno dell'Epifania, prese la corona di ferro nella chiesa di Sant'Ambrogio di Milano.
Ma colà invece della pace da lui sognata, scoppiò subito la guerra civile. I Torriani che erano guelfi, furono cacciati dai Visconti sotto gli occhi stessi d'Arrigo; e da questo momento egli, trascinato con violenza in mezzo ai partiti, cessava d'essere il pacificatore, e tornava Imperatore tedesco, straniero, barbaro. Si disse che i Fiorentini avevano mandato danaro a Guido della Torre, per ribellarlo, il che sarebbe stato causa della sua cacciata. Questo non è certo, ma certo è invece che essi mandarono danari, lettere, ambasciatori a Cremona, Lodi, Brescia, Pavia, ad altre città lombarde, per sollevarle contro Arrigo, e vi riuscirono. Inviarono inoltre ambasciatori a Napoli, in Francia, sopra tutto in Avignone, dove spendevano e spandevano per corrompere le genti della Curia, a fin di sapere quando il Papa diceva davvero e quando fingeva. La loro febbrile attività era tale per tutto, che il Cardinale da Prato esclamò un giorno, dinanzi al Re di Francia: «Quanto grande ardimento è quello dei Fiorentini, che con loro dieci lendini ardiscono tentare ogni signore».
Ma neppure in cosí difficili momenti i Grandi sapevano smettere in Firenze i loro odi, e di tanto in tanto turbavano la città con qualche nuova zuffa. Nel febbraio del 1311 i Donati uccisero Betto Brunelleschi, che tenevano autore della morte di Mess. Corso, di cui andarono subito dopo a dissotterrare il cadavere a San Salvi, celebrandogli, ora che l'avevano vendicato, solenni esequie. L'ordine però fu rimesso assai presto, perché non c'era tempo da perdere in gare private, e gli animi erano occupati di ben altro. Ai primi di giugno 1311 fu firmata la lega guelfa fra i Fiorentini, Pisani, Pistoiesi, Lucchesi, Sanesi, Volterrani, giurando tutti insieme di resistere con le armi ad Arrigo. Il 26 i Fiorentini mandarono a Bologna il De la Rat con 400 cavalieri catalani, mentre che i Senesi ed i Lucchesi mandavano altre genti in servizio del re Roberto in Romagna, dove esso perseguitava, imprigionava i Ghibellini e gli esuli Bianchi di Firenze, che allora cercavano ribellare le città della Chiesa. Ed al re stesso, non appena corse la voce che egli cercava accordi con Arrigo, scrivevano, invitandolo ad entrar subito in Roma come aveva promesso, avvertendolo che se esitava, se tentava accordi coll'Imperatore, essi, che non volevano mezze misure, avrebbero ritirato le loro genti dalla Lega. «Piú volte la vostra regia potestà ci ha promesso che col re tedesco non voleva accordo nessuno, che avrebbe inviato lo sforzo delle sue armi, e personalmente sarebbe andato in Roma a sterminio del nemico comune». E non fu senza effetto, perché ben presto Roberto mandò suo fratello Giovanni, il quale con 400 cavalieri e l'aiuto degli Orsini, cominciò ad occupare i giunti principali di Roma. Il Re fingeva ancora d'operare come amico dell'Impero; ma nessuno piú s'illudeva, ed i Fiorentini erano contenti.
Arrigo VII, fisso sempre nella sua idea, senza punto accorgersi dello straordinario mutamento che intorno a lui seguiva, dopo aver sottomesso Cremona, trovavasi ad assediar Brescia, che gli opponeva una piú viva resistenza. Il pacifico sovrano incrudeliva adesso contro i prigionieri, e faceva morire fra i piú atroci tormenti uno dei capi guelfi. Ma i Bresciani non cedevano per ciò, ed il fiore dell'esercito tedesco moriva di malattie o di ferite, e di ferite moriva lo stesso fratello d'Arrigo. In mezzo a queste stragi, i Fiorentini scrivevano ai Bresciani: «Ricordatevi che dalla vostra difesa dipende la salute d'Italia tutta e dei Guelfi. I Latini debbono in ogni modo aver per nemica la gente tedesca, d'opere, di costumi, d'animo e volere avversa; impossibile, non che servire ad essa, averla comecchessia compagna». E nello stesso tempo scrivevano ad altre città, incuorandole alla difesa, alla rivolta. Invitavano i Perugini a «scuotere il vassallaggio sotto cui si trovavano, a proclamare la dolce libertà»; e a tutti ripetevano che essi non si sarebbero mai stancati di mandar contro Arrigo armi, uomini, danaro. Nello stesso tempo, per dare maggior forza alla cittadinanza ed alla parte guelfa, levarono il bando a tutti gli esuli che si potevano credere amici dei Guelfi, lasciandolo solo contro quelli che ritenevano ghibellini, i quali arrivavano sempre a parecchie centinaia, e fra di essi era Dante Alighieri. Questo ribandimento di esuli fu chiamato la riforma di Baldo d'Aguglione, il quale era uno dei Priori che lo deliberarono il 2 di settembre 1311.
Intanto Brescia, dopo un'eroica resistenza, s'era dovuta arrendere a patti, ed Arrigo s'avviò subito a Genova, dove era il 21 ottobre 1311. Ivi fu grandemente addolorato dalla perdita della moglie, ma non per questo rallentò punto i preparativi necessari a continuare il suo cammino per la via di Pisa a Roma. E a tali notizie i Fiorentini raddoppiarono i loro sforzi. Fornirono di genti S. Miniato al Tedesco; richiamarono da Bologna il De la Rat con i suoi; fecero provvedere d'uomini Lucca, Sarzana, Pietrasanta, i castelli di Lunigiana, il Valdarno di ponente. Ma, quello che è assai notevole, neppure in questi cosí difficili momenti perdevano di vista il loro commercio. Infatti essi scrivevano allora appunto al Re di Francia, facendogli conoscere le gravi difficoltà, in cui la venuta d'Arrigo li aveva messi, e dolevansi che la presente guerra facesse pigliare al Re provvedimenti che danneggiavano il commercio dei loro mercanti, dai quali dipendeva in gran parte la prosperità di Firenze: «cum Civitas nostra ex predictis Florentinis ex maiori parte consistat. Voi,» essi concludevano, «li avete sempre protetti, e nella Maestà Vostra noi poniamo, dopo Dio, il fondamento principale della nostra speranza, massime ora che Arrigo minaccia di andare a Pisa, e venir contro di noi, qui firmavimus et parati sumus nostram quam a vobis et a vestris recognovimus, defendere libertatem». E chiedevano che il Re provvedesse in modo che, anche durante la guerra, il loro commercio potesse continuare in Francia senza interruzione.
Intanto l'Imperatore aveva mandato a Firenze nuovi ambasciatori, Niccolò vescovo di Botrintò e Pandolfo Savelli; ma essi, dopo mille traversie, che incontrarono per via, arrivati alla Lastra, furono prima derubati, e poi messi anche a pericolo della vita. Le campane sonarono a stormo, la loro dimora venne invasa da gente armata, ed a fatica furono salvati dal Podestà e dal Capitano giunti da Firenze, i quali li consigliarono a partir subito, il che essi fecero piú che in fretta. L'Imperatore allora citò (20 novembre 1311) i Fiorentini a comparire in Genova dinanzi a lui, per scusarsi e prestargli obbedienza. Ma, non avendo, come era da prevedere, obbedito, pronunziò (24 dicembre) contro la loro città il bando dall'Impero, di che essi fecero il conto medesimo che avevano fatto degl'interdetti del Papa. Richiamarono però da Genova i loro mercanti, continuando ad armare.
E qui noi abbiamo un'altra fra le tante prove della condotta sempre turbolenta dei Grandi. In questi giorni appunto, senza curare i gravi pericoli nei quali la Repubblica si trovava, essi misero colle loro private vendette la città a soqquadro. Il dí 11 gennaio 1312, Pazzino dei Pazzi, assai amato dal popolo, e uno dei maggiorenti, andando a cavallo a caccia, fu raggiunto ed ucciso da Paffiera dei Cavalcanti, per vendicare la morte al Pazzi attribuita di Masino dei Cavalcanti e di Betto Brunelleschi. Il corpo dell'ucciso fu portato al Palazzo dei Priori, ed il popolo indignato, prese le armi, corse sotto il proprio gonfalone alle case dei Cavalcanti, che furono arse. La Signoria allora, per metter subito un freno a questi tumulti, esiliò i Cavalcanti, e nominò cavalieri quattro dei Pazzi, ai quali dette in premio alcuni beni e rendite del Comune. Cosí anche ora l'ordine fu subito ristabilito.