CAPITOLO I

La caduta dell'Impero

Perchè cadde l'Impero Romano? La risposta che subito si presenta è questa: i Romani eran corrotti e dalla corruzione infiacchiti; i barbari, più rozzi, erano anche più morali e più forti. Quando passarono il Reno e il Danubio, la vittoria non poteva essere dubbia; l'Impero doveva crollare, una società nuova doveva formarsi. Ma perchè mai si corruppe e s'infiacchì un popolo, che per tanti secoli era stato l'esempio della disciplina, della virtù e della forza; che aveva saputo conquistare il mondo? La corruzione non era la causa, era la conseguenza, il primo segno della decadenza già cominciata. L'Impero, che Tito Livio già vedeva piegarsi sotto il peso della sua stessa grandezza, non poteva durare eterno.

Esso aveva formato l'unità civile e morale del mondo antico, la quale era stata necessario apparecchio alla costituzione delle nazionalità. Per vivere e prosperare, queste hanno infatti bisogno di essere in relazione fra di loro, di sentirsi come parti diverse d'una stessa famiglia. Ma il loro sorgere rendeva impossibile l'esistenza del [2] mondo antico, il quale riconosceva l'assoluto predominio d'una civiltà sola, al di fuori della quale tutti erano barbari. Se perciò da una parte, e vista da lontano, la caduta dell'Impero ci apparisce come qualche cosa d'inaspettato e straordinario; da un'altra reca maraviglia invece la sua lunga durata. Sotto una forma o l'altra, noi lo vediamo infatti sopravvivere a sè stesso in tutto il Medio Evo. E più tardi ancora tenta, sebbene invano, di rinascere dalla tomba, prima con Carlo V, poi con Napoleone I. Il vero è che l'unità dell'Europa e la diversità dei popoli che l'abitano sono due fatti innegabili del pari, dai quali risultano le vicende della storia moderna.

Roma era stata una città, un municipio, che aveva cominciato col conquistare e romanizzare le popolazioni vicine, con esse l'Italia, con l'Italia quasi tutto il mondo allora conosciuto. Ma il dominio d'una città sola sopra un così vasto territorio, sopra genti così diverse, imponendo a tutte lo stesso governo, la stessa legislazione, la stessa lingua ufficiale, doveva, con l'estendersi, incontrare difficoltà sempre maggiori. Era stato comparativamente facile assimilare le popolazioni romane; ma l'Africa, la Spagna, la Rezia, la Gallia resistettero invece sempre più ostinatamente. E una difficoltà nuova s'incontrò nell'Asia Minore e nella Grecia, dove per la prima volta i Romani trovarono una civiltà superiore alla loro. Conquistato colle armi il paese, furono essi conquistati dalla cultura greca, cui dovettero assimilare la propria, per diffonderle ambedue nel mondo. E così, quando l'Impero fu giunto al Reno ed al Danubio, esso non aveva più nessuna vera unità intrinseca, corrispondente a ciò che di fuori appariva. Non era uno Stato, non era una nazione; era un amalgama di popoli diversi, uniti insieme dalla forza, e sottomessi alla stessa civiltà. Al di là dei confini c'era un paese vastissimo, abitato da popolazioni [3] bellicose e barbare, che s'avanzavano minacciose come un fiume che straripa.

Da un tale stato di cose, la società romana fu profondamente turbata. E prima di tutto ne fu alterata la costituzione stessa dell'esercito, che era stato lo strumento principale della conquista e della fondazione dell'Impero. Una volta, così osservava giustamente il Gibbon, gli eserciti della Repubblica erano formati di proprietari e coltivatori del suolo, i quali pigliavano parte alle assemblee, votavano le leggi di Roma, e la difendevano colle armi. Il benessere della patria era immedesimato col proprio. Una battaglia vinta era la loro fortuna, una battaglia perduta era la loro rovina personale. Tutti gl'interessi morali e materiali, consacrati dalla religione, si univano a fare di essi cittadini e soldati eroici, che dopo la guerra tornavano tranquilli e modesti ai loro campi. Chi potrebbe mai supporre che gli abitanti della Rezia, della Spagna, della costa africana potessero combattere con lo stesso ardore, con la stessa fede, per difendere una potenza alla quale si sentivano spesso estranei o avversi? Questi eserciti mandati a difendere confini sempre più estesi, più lontani e continuamente assaliti, divennero di necessità eserciti stanziali. Chi era chiamato a farne parte, abbandonava il luogo nativo, i campi, se ne aveva, i quali perciò spesso restavano incolti, e rimaneva sotto le bandiere, in paese straniero, fino a che gli bastavano le forze. Di qui il bisogno sempre maggiore e le difficoltà sempre crescenti di trovar nuove reclute, che bisognava allettare con nuovi privilegi, con paghe maggiori. E quindi l'uso d'accogliere sotto le bandiere perfino gli schiavi, ma sopra tutto i barbari, che ben presto formarono la parte maggiore degli eserciti romani. La guerra divenne così un mestiere, e la forza delle armi risiedeva più nella disciplina che nel patriottismo. Pure tale era la potenza di questa disciplina, [4] tale il fascino maraviglioso che il nome sacro di Roma e dell'Impero esercitava sugli animi, che di elementi così diversi si riuscì a formare un esercito formidabile, il quale, per più secoli ancora, continuò ad operare miracoli.

A mantenere questo esercito numeroso e lontano occorrevano spese enormi. Era perciò necessario d'aggravare il paese di tasse. A poco a poco l'occupazione continua della Curia e dei Decurioni nei Municipi si ridusse a cavar denari da popolazioni già dissanguate. Costretti ad essere responsabili di ciò che occorreva, anche se i contribuenti non potevano pagarlo, il loro ufficio, una volta ambito come un onore, divenne un peso da cui ognuno cercava liberarsi, perfino con la fuga, con l'esilio volontario. E così anche qui l'interesse privato, che in altri tempi era immedesimato col pubblico, si trovava ora con esso a conflitto: principio inevitabile di debolezza e di decadenza morale in tutte le società.

Le continue guerre andarono sempre più aumentando il numero degli schiavi. I capi degli eserciti avevano accumulato enormi fortune, al pari dei fornitori di esso, e dei governatori delle province. I ricchi divenivano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, e l'usura li riduceva alla miseria. Questi finivano allora col mettersi alla dipendenza dei vasti possessori di terre, sotto forma di coloni più o meno attaccati alla gleba, pagando un affitto sulle terre che erano state già loro proprietà. Ne nacque una vera questione agraria-sociale, causa non ultima delle guerre civili e della totale decadenza. La classe media fu distrutta, e si formò quella dei latifondisti, che furono possessori di più diecine di migliaia di schiavi, di trenta, di quaranta miglia quadrate di terre, quasi d'intiere province. Il latifondo, che di sua natura tende ad ingrandirsi, aggregandosi le terre vicine, porta seco la cultura estensiva dei campi, esaurisce la fertilità [5] del suolo, e ne diminuisce il prodotto. Così l'Italia non bastò più a se stessa, al suo esercito, anche il grano della Sicilia essendo scemato. E cominciò a dipendere dall'Africa, senza il cui aiuto correva pericolo d'essere affamata.

Tutto il vasto territorio dell'Impero era disseminato d'un gran numero di città, molte delle quali, colonie civili o militari. Queste città erano ordinate a similitudine della capitale, colle loro assemblee, coi loro magistrati, le scuole, i tempii, i bagni, gli acquedotti, le caserme, gli anfiteatri. Esse erano congiunte tra di loro da una rete di strade, che è fra le opere più maravigliose di tutta l'antichità. Partendo dal Foro Romano, in mille direzioni diverse, arrivavano ai confini. Ad ogni cinque o sei miglia si trovava un numero sufficiente di cavalli, per tenere fra loro in pronta comunicazione tutte le parti dell'Impero. La campagna affatto deserta, sparsa qua e là di ville o masserie, era coltivata da schiavi e coloni, che non differivano molto fra di loro. La sera si riducevano nelle città o nelle ville. Anche l'industria, assai limitata, era affidata agli schiavi, che arrivarono ad un numero sterminato. Il Gibbon afferma che ai tempi di Claudio la popolazione dell'Impero contava 120 milioni, dei quali 60 erano schiavi. Ma anche senza dar piena fede a queste cifre, è certo che più d'una volta le ribellioni degli schiavi condussero l'Impero all'orlo dell'abisso.

Alla testa d'una tale società si trovava un sovrano con assoluto potere, e sotto di lui spadroneggiavano l'esercito ed i latifondisti. L'esercito volle ben presto fare e disfare, o almeno approvare esso gl'imperatori, dividendosi qualche volta in partiti, e proclamandone più d'uno nel medesimo tempo; il che fu causa di assai gravi e spesso sanguinosi conflitti. I latifondisti avevano i più alti uffici dello Stato, divenuti ereditari nelle loro famiglie, e [6] si trovavano alla testa d'una numerosa burocrazia. Abitavano nelle città insieme con una plebe di nullatenenti oziosi, alla quale, perchè non tumultuasse, era necessario far larghe e continue distribuzioni di grano, allettandola con spettacoli e giuochi: panem et circenses. Se a tutto ciò s'aggiunge che in una società così vasta, divisa e disorganizzata, quegli stessi barbari che la minacciavano al confine, erano già in maggioranza fra gli schiavi e nell'esercito, si capirà facilmente che ormai non c'era più forza umana che potesse evitare una spaventosa catastrofe.

A tutte queste cause civili, militari, economiche di divisione e debolezza, s'aggiungeva non ultima la questione religiosa. Il Cristianesimo s'avanzava trionfante dall'Oriente, annunziando il principio di una nuova rivelazione, d'una nuova vita morale. La sua teologia nasceva, è vero, dall'innesto della filosofia greca col Vangelo; ma esso mirava alla distruzione del Paganesimo, su cui l'Impero era fondato. Il monoteismo era la negazione del politeismo; la rivelazione non s'accordava con la filosofia antica. Il Cristianesimo condannava la forza e la violenza, proclamava tutti gli uomini, tutti i popoli uguali innanzi a Dio, e l'Impero aveva, colla forza e colla violenza, sottomesso tutti i popoli a Roma. Il Cristianesimo inoltre sottoponeva la Città terrena e degli uomini alla Città celeste e di Dio. Per esso la vita sociale in questo mondo aveva valore solo come apparecchio alla vita d'oltre tomba. La società, la patria, la gloria, tutto ciò per cui Roma era stata grande, per cui aveva vissuto, che più aveva ammirato, perdeva il suo valore. E così non si trattava solo di sostituire una religione ad un'altra; si trattava di demolire i principii fondamentali di una filosofia, di una letteratura, di una civiltà intera, di tutto un mondo morale, per sostituirvene un altro. È facile immaginarsi qual profondo sovvertimento tutto ciò dovesse portare [7] nell'animo dei Romani, quali profonde ferite vi dovesse lasciare. E si capiscono perciò le feroci persecuzioni, più crudeli che mai da parte dei migliori e più convinti imperatori. Ma il sangue dei martiri sembrava solo innaffiare la nuova pianta, per farla crescere più rigogliosa. Tutti gli oppressi accoglievano con ardore la nuova fede, che valendosi delle vecchie istituzioni romane, fondava una Chiesa universale, la quale s'impadroniva rapidamente di tutta la società. Abbatteva gli antichi altari, per costruirne dei nuovi; trasformava gli antichi tempii; fondava ospedali, istituti di beneficenza, scuole, che erano tante fortezze destinate a demolire sempre più la vecchia società. La caduta dell'Impero non spaventava punto i Cristiani, perchè menava seco la caduta del Paganesimo. La stessa venuta dei barbari, la più parte già convertiti, appariva loro come provvidenziale, perchè destinata a punire quelli che ancora adoravano gli Dei falsi e bugiardi, che tenevano sempre aperto il tempio di Giano.

Che tutto ciò portasse un profondo disordine morale, che gli uomini dell'antica società si abbandonassero allo scetticismo, alla disperazione, ai vizi più bassi ed osceni, non è da far maraviglia. Ma pur grande veramente doveva esser sempre la vitalità dell'Impero, se potè continuare a resistere più secoli, respingendo l'un dopo l'altro i ripetuti assalti delle numerose orde barbariche. Di questa sua vitalità, non solo materiale ma anche morale, fu prova la diffusione e la importanza in esso assunta dalla filosofia stoica, che venne di Grecia, ma ebbe in Roma un suo proprio carattere pratico, col quale tentò assumere la direzione della vita, pigliando quasi il posto della religione. Difficilmente nella storia del mondo si troverebbe un tentativo più nobile, più eroico e più disperato ad un tempo, di quello fatto dagli stoici. In mezzo alla unione forzata di tanti popoli, alla [8] fusione e confusione di tante religioni, di tante forme diverse del Paganesimo, che crollava da ogni lato, essi cercarono di rinnovarlo e salvarlo dagli assalti vittoriosi del Cristianesimo, fondandosi sul concetto, sul culto della più pura, disinteressata virtù. Rinunziando alla speranza d'una vita futura, ad ogni ricompensa in questo o nell'altro mondo, disprezzando la gloria presso i posteri, non curando la opinione dei contemporanei, raccomandavano la virtù come fine a sè stessa, scopo unico della vita, come quella che trovava in sè ogni compenso, sgorgava spontanea, irresistibile dal cuore dell'uomo. La serena tranquillità con cui gli stoici affrontavano la morte, per difendere la giustizia, parve un momento divenir contagiosa, quasi volessero con una nuova serie d'eroi rinnovar la gloria dell'antica Roma. Ma pur troppo non era che un tentativo filosofico, il quale non poteva esser che l'opera di pochi spiriti eletti. Non era sperabile che penetrasse nelle moltitudini e le esaltasse, come faceva il Cristianesimo, che parlava a tutti e di tutti s'impadroniva. Pure fu come un baleno, che per breve tempo illuminò di luce vivissima l'Impero, e che più tardi sembrò ripetersi novamente colla diffusione del Neoplatonismo, predicato da Plotino e da Porfirio.

Marco Aurelio fu la vivente e più splendida personificazione dello Stoicismo, il quale salì con lui sul trono imperiale. Indifferente alla gloria, disprezzatore d'ogni materiale ed appariscente grandezza, amico della giustizia e della virtù, era nemico della guerra. Ma quando i confini dell'Impero furono minacciati dai Marcomanni, che insieme con altri barbari avevano passato il Danubio, egli assunse il comando dell'esercito, e combattendo fino alla morte con valore di gran capitano, li respinse e disfece. Nè durante il conflitto tralasciò le sue meditazioni filosofiche; ma ritirandosi la sera nella tenda, continuava a [9] scrivere quei Pensieri che rimasero immortali. «Nessuno, dice il Renan, scrisse mai con uguale semplicità, per solo suo uso, senza volere altri testimoni che Dio. Il suo pensiero morale, puro, libero da ogni legame sistematico o dommatico, si sollevò ad un'altezza che non fu mai superata. Ed il suo libro, il più puramente umano che sia stato mai scritto, visse d'una eterna giovinezza.» Nè egli fu il solo dei veramente grandi Imperatori. Dalla morte di Domiziano all'ascensione di Commodo al trono (96-180 d. C.), noi troviamo, con Nerva, Traiano e i due Antonini, una serie di sovrani che rappresentano la giustizia, la sapienza e la virtù chiamate a governare il mondo. Il Machiavelli, repubblicano, aspro nemico di Cesare, esaltato lodatore di Bruto, è pieno della più entusiastica ammirazione per quel periodo dell'Impero. Il Gibbon afferma, che se gli fosse chiesto, in qual tempo mai, durante tutta la storia del mondo, il genere umano fu più felice, non saprebbe indicarne un altro. Ma egli, che qui appunto sorvola più che mai sulle crudeli persecuzioni dei Cristiani, per parte d'alcuni di questi medesimi imperatori, è pur costretto ad aggiungere, che tutto dipendeva allora dalla volontà d'un uomo solo e dall'esercito. Infatti prima e dopo di tali imperatori, ve ne furon dei pessimi. E subito le forze disorganizzatrici, che solo per breve tempo poterono rimanere latenti, si scatenarono, portando alla superficie quella corruzione e decomposizione sociale, che non poteva più essere fermata, e che doveva inesorabilmente aprire la via ai barbari.

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