CAPITOLO II

I Barbari

L'assalto improvviso che nel 114 a. C. dettero i Cimbri, i quali si avanzarono con un impeto inaspettato, disfacendo ripetutamente i Romani, aprì a questi la prima volta gli occhi sul pericolo che li minacciava dalla Germania. C. Mario, è vero, in due grandi battaglie (102 e 101 a. C.), li disfece compiutamente, e per circa mezzo secolo i confini rimasero tranquilli. Ma Giulio Cesare, dopo molte vittorie, si trovò anch'esso di fronte ad un esercito germanico, comandato da Ariovisto che, passato il Reno, era penetrato nella Gallia, combattendo valorosamente. Cesare lo disfece e lo inseguì al di là del fiume. Ma ivi trovò come un mondo nuovo: un popolo numeroso, bellicoso e quasi nomade; una società in tutto profondamente diversa dalla romana; un clima assai rigido; un suolo pieno di paludi e di boschi, senza possibilità di approvvigionamenti, infesto all'avanzarsi d'un esercito romano. Col suo sguardo penetrante, col suo grande senno pratico, capì subito, che non era il caso di pensare ad una stabile conquista, molto meno a romanizzare quelle genti, e si ritirò novamente al di qua del Reno.

Dopo la sua morte, i Romani non imitarono la prudenza del valoroso capitano. Ripassarono il Reno, penetrarono nel cuore della Germania; vi portarono le loro leggi, la loro amministrazione, le loro tasse. E la conseguenza fu una tremenda insurrezione capitanata da Arminio, che distrusse un esercito di tre legioni. Il console Varo ed i principali suoi ufficiali, per non sopravvivere al disastro e al disonore, si dettero la morte (9 d. C.). Arminio era stato educato nell'esercito romano; [11] insieme col fratello aveva in esso valorosamente combattuto, ed era stato colmato di onori. Ad un tratto, tornato fra i suoi, messosi alla testa della insurrezione, aveva tratto in agguato gli antichi commilitoni, dei quali si fingeva sempre amico, e si era scagliato contro di essi con un impeto addirittura feroce. I prigionieri romani furono mutilati, impiccati, trucidati. A molti furono cavati gli occhi, fu strappata la lingua, insultandoli con ogni specie d'ingiurie più sanguinose. Venne perfino disseppellito il cadavere del Console, per poterlo insultare. Anche Marbodio, capo dei Marcomanni e nemico di Arminio, che aveva cercato di fondare un regno a similitudine delle istituzioni dei Romani, dai quali era stato educato, e dei quali si dichiarava fido alleato, venuta l'ora del pericolo, si manifestò nemico aperto. Da tutto ciò appariva evidente, che nelle popolazioni germaniche v'era un odio istintivo, inestinguibile contro i Romani; che nè i benefizi, nè la educazione o la disciplina militare potevano in modo alcuno estinguere. Germanico fu mandato a vendicare la disfatta di Varo, ma le vittorie del valoroso capitano furono pagate ad assai caro prezzo. Nel clima, nei boschi, nelle paludi, più di tutto nell'odio persistente delle popolazioni, trovò ostacoli sempre maggiori. Una formidabile tempesta, distrusse una parte non piccola dell'esercito, che si ritirava dalla parte del mare.

Negli ultimi anni della sua vita, Augusto si era persuaso che l'Impero doveva fermarsi al Reno ed al Danubio, senza pensare a nuove conquiste, e lo raccomandò nel suo testamento. Lungo i due fiumi venne infatti costruita una linea di fortificazioni, e l'Impero si attenne generalmente al savio programma. Solo Traiano, lasciatosi vincere dall'ambizione della gloria, passò il Danubio, avanzandosi vittoriosamente. E se più tardi, rinsavito [12] anch'esso, tornò indietro, la Dacia, al di là del fiume, restò sempre provincia romana, il che fu un grave errore, come poi si vide. Infatti la difesa del Danubio, che facilmente si poteva fortificare, venne trascurata, perchè esso non segnava più i confini dell'Impero, che s'erano portati innanzi fino alla Dacia orientale, dove non era ugualmente agevole fortificarli. Tuttavia, per circa duecentocinquant'anni dopo la disfatta di Varo, gli assalti dei barbari vennero sempre vittoriosamente respinti. Questa difesa anzi fu la costante occupazione dell'Impero, e quasi la sua principale ragione di essere.

Ma chi erano, che cosa volevano questi barbari, che assalivano con tanta persistenza? Vissuti una volta, come è generalmente ammesso, nell'Asia, insieme con coloro che più tardi furono i Greci ed i Romani, avevano con essi fatto parte di quella che venne dai moderni chiamata la famiglia ariana. Dopo un periodo di vita in comune, si divisero, partendo per direzioni diverse. Il clima più mite, il suolo più fertile, la posizione geografica più fortunata, la vicinanza dei Fenici e degli Egiziani, fecero fare un rapido progresso a quelli tra di essi che andarono nella Grecia e nell'Italia. Lo stesso non poteva seguire in Germania, dove invece, per le avverse condizioni del suolo e del clima, per il nessun contatto con popoli civili, s'andò formando, in un periodo di molti secoli, una società affatto diversa, che ai Romani poteva apparire di selvaggi. Non erano però selvaggi, ma barbari, e per poco che fossero mutate le condizioni in cui si trovavano, potevano, al contatto colla civiltà, come poi avvenne, progredire rapidamente.

Giulio Cesare è il primo che ci dia su di essi qualche notizia precisa. Li trovò, esso dice, in uno stato seminomade, con un'agricoltura affatto primitiva. Vivevano della caccia, della pesca, sopra tutto del prodotto degli [13] armenti, loro cura principale. Il latte, la carne, il formaggio erano il loro cibo consueto. Adoravano il sole, la luna, il fuoco, le forze della natura, tutto ciò che vedevano, e da cui ricevevano benefizio. Pieni di grossolane superstizioni, di costumi crudeli, non avevano ancora un ordine sacerdotale. Ma il fatto che sopra tutti richiamò la sua attenzione, si fu il vedere che queste popolazioni, in continuo moto, non conoscevano la proprietà privata della terra, la quale era invece posseduta collettivamente dai villaggi, anzi dalle parentele, Cognationes come esso le chiamava, Sippen come le dicono i Tedeschi. Appena si fermavano, i Magistrati o sia i loro capi, dividevano fra di esse il terreno occupato. E dopo un anno, le costringevano ad andare altrove, dividendo di nuovo, nello stesso modo, il terreno. Le case erano specie di capanne da potersi facilmente decomporre e trasportare, come proprietà mobile, sui carri, colle masserizie, coi vecchi ed i fanciulli. Era un genere di vita che educava mirabilmente alle armi. La caccia, le razzìe, le guerre coi vicini, per acquistar nuove terre, erano la loro occupazione continua, il bisogno costante d'una gente, la quale con la sua rozza agricoltura esauriva subito il terreno che aveva occupato. Cesare restò assai maravigliato in presenza d'un genere di vita tanto diverso da quello dei Romani, e ne chiese spiegazione agli stessi barbari. Gli risposero, che vivevano a quel modo, perchè una troppo assidua cura dei campi non li dissuefacesse dalla guerra, ed una costruzione più accurata e solida delle case, non li rendesse inabili a sopportare il freddo ed il caldo. Ed ancora perchè la disuguaglianza delle fortune e l'avidità del possedere non arricchisse i potenti, spogliando i deboli; si evitasse quella cupidigia da cui hanno origine le fazioni e le guerre civili; si mantenesse con la equità soddisfatta la plebe, che vedeva [14] i suoi campi uguali a quelli dei più potenti.. È difficile credere che questo fosse proprio il linguaggio dei barbari. Ma è di certo il concetto che più o meno sorgeva allora in tutti, paragonando la società romana alla barbarica.

Ed è il concetto che domina anche più esplicitamente nella Germania di Tacito, la fonte principale che abbiamo, per conoscere un po' più da vicino quelle popolazioni. Le notizie che ci dà Cesare sono poche e frammentarie, ma chiare e precise, suggerite dalla sua osservazione, dalla sua esperienza personale. Tacito invece ci dà addirittura un breve trattato sul paese. Non sappiamo con certezza se egli lo avesse davvero visitato. In ogni modo ne vide, se mai, una piccola parte, e le notizie che ci dà sono il più delle volte di seconda mano, cavate da Cesare, che egli chiama summus auctor, e da altri, che erano stati oltre Reno. A ciò si aggiunge, che il suo scritto ha uno scopo, anzi una tendenza politica e morale visibilissima. Egli s'era persuaso (simile in ciò agli scrittori del secolo XVIII) che i popoli primitivi, più vicini allo stato di natura, sono perciò, come erano stati gli antichi Romani, più puri, più onesti e valorosi di quelli che una civiltà raffinata ed artificiale ha corrotti, come era seguito ai Romani del suo tempo. Ispirato da un ardente patriottismo, con un sentimento quasi profetico della rovina che minacciava l'Impero, voleva scongiurarla col ricondurre i suoi connazionali all'antica virtù. E quindi descriveva con entusiasmo, esaltava, idealizzava la vita, i costumi dei barbari. Egli è certo un grande storico e pensatore; ma, a differenza di Cesare, sempre chiaro, sobrio e preciso, è anche un manierista, il cui stile vigoroso, ma spesso anche oscuro, si presta a [15] molte e diverse interpetrazioni. Ciò ha dato luogo a dispute infinite, massime quando egli non va pienamente d'accordo con Cesare, il che gli succede spesso. Ma siffatte divergenze hanno un'assai facile spiegazione. Tacito scriveva un secolo e mezzo dopo di Cesare, ed a suo tempo la Germania s'era non poco mutata. Il lungo contatto avuto dai barbari coi Romani, l'avere in questo mezzo trovato chiuso il passaggio del Reno e del Danubio, quando forse altre popolazioni li sospingevano dall'oriente, tutto questo cominciò a rendere impossibile quella vita seminomade dei tempi di Cesare, e li costrinse a prendere sulla terra occupata una dimora, in parte almeno, più stabile.

Comunque sia di ciò, Tacito descrive anch'esso gli abitanti della Germania in uno stato di barbarie, ignari delle lettere dell'alfabeto, con scarsa conoscenza dei metalli, tanto che ne facevano poco uso anche nelle armi; con nessuna conoscenza della moneta, della quale solamente coloro che erano ai confini avevano appreso l'uso dai Romani. Occupati anch'essi, come i loro antenati, principalmente nella caccia e nella guerra, lasciavano per quanto potevano la cura della casa e la cultura dei campi alle donne ed ai vecchi. Si cibavano tuttavia, più che altro, del prodotto dei loro armenti. Conoscevano il frumento e ne cavavano una bevanda, che usavano invece del vino. Temperati in tutto, meno che nel bere e nel giuoco, non vestivano più di sole pelli, ma usavano mantelli di lana. Le loro antiche divinità avevano cominciato ad assumere una forma personale, e Tacito cerca assomigliarle alle romane. Il Tius (Dyaus vedico), Dio supremo del cielo luminoso, divenuto, pel carattere bellicoso del popolo, anche Dio della guerra, è da lui confuso con Marte, e messo perciò in secondo luogo; in primo egli pone invece Wuotan (l'Odino dell'Edda), il Dio dell'aria e delle tempeste, che [16] chiama Mercurio. Donar, figlio di Wuotan, Dio dei fulmini e dei tuoni, dotato di forza prodigiosa, è confuso ora con Ercole, ora con Giove. Queste e le altre poche divinità hanno passioni umane, lottano fra di loro, si mescolano alle querele degli uomini. Ad esse s'aggiungeva una quantità di demoni, che popolavano l'aria, la terra, l'acqua, i boschi, i monti. Un ordine sacerdotale, che Cesare non aveva trovato, si era adesso già formato. Per placare le loro divinità, i barbari usavano anche sacrifizi umani. E quindi non si può credere a ciò che Tacito dice poco dopo, che cioè essi non costruivano tempii ai loro Dei, quasi per non profanarli con un culto materiale, adorandoli invece, come in ispirito, nei boschi, quali esseri invisibili e presenti.

Questi barbari, come già accennammo, avevano ora preso dimora alquanto più stabile sulle terre che occupavano. Ma non conoscevano ancora le città, che ad essi sembravano prigioni, nelle quali «anche i più feroci animali si sarebbero infiacchiti.» Le case non erano più mobili capanne di solo legno; ma l'uso del cemento e dei mattoni era sempre ignoto. Poste, come anche oggi vediamo nei villaggi della Svizzera, del Tirolo, della Germania, le une separate dalle altre, eran circondate da piccoli orti, che insieme con esse appartenevano alla famiglia che vi abitava. E qui si può notare un primo passo verso la proprietà privata, immobiliare. La terra rimaneva però sempre proprietà collettiva del [17] villaggio divenuto più stabile. Non si mutava luogo ogni anno, ma solo quando la necessità di emigrare lo imponeva, sia che fosse del tutto esaurita la fertilità dei campi, e che perciò non bastassero più alla popolazione, sia che le conseguenze di qualche guerra sfortunata costringessero a cercare altra sede. Ma dentro il territorio occupato dal villaggio, o come alcuni dicono la Marca, la mutazione era continua. In che modo poi la terra occupata venisse divisa, e la cultura si avvicendasse, e le famiglie mutassero il terreno che coltivavano, Tacito lo accenna in un luogo, che è dei più oscuri, interpetrato perciò in non meno di sei modi diversi. E la confusione delle molteplici interpetrazioni fu non poco aumentata dal volere in esso cercare, non solamente ciò che lo scrittore aveva voluto dire, ma quello anche di cui non aveva parlato, e che forse ignorava.

Dopo aver detto, che i barbari non conoscevano l'usura, la quale tante rovine aveva portato nella società romana, Tacito continua: «le terre sono occupate da tutti, secondo il numero dei coltivatori, fra i quali vengono divise; e questa divisione è resa più agevole dalla vastità del terreno che occupano. D'anno in anno si mutano i campi messi a cultura, e sempre ne avanza una parte (quella probabilmente abbandonata al pascolo). Non rimangono confinati in breve spazio, non si adoperano a mantenere la fertilità della terra. Si contentano del solo frumento, senza coltivare pometi, prati artificiali o giardini.» Il villaggio aveva dunque perduto l'antica mobilità dei tempi di Cesare; ma dentro di esso la mutazione era continua, nessuno restando più di un anno a coltivare lo stesso campo. La parte via via lasciata a pascolo, rimaneva sempre d'uso comune, perchè la proprietà della terra [18] continuava ad essere collettiva. Altri particolari Tacito non ci dà, ed è superfluo cercarli. Dello stato di cose da lui descritto noi possiamo però farci un'idea più chiara, se gettiamo uno sguardo al modo in cui si trovava costituita la Marca germanica assai più tardi, nel Medio Evo. Era questo uno stato di cose certamente diverso da quello dei tempi di Tacito, ma che pur s'andò da esso, per processo naturale, lentamente svolgendo, e che ne serbava perciò alcune tracce visibili. Una parte del terreno era occupata da case sparse per la campagna, cogli orti come li descrive Tacito. Un'altra era lasciata a pascolo comune. Una terza finalmente veniva posta a cultura con regole assai minute e determinate, che non sarebbero state possibili ai tempi di cui noi ci occupiamo. Questa parte era divisa fra i vari capi di famiglia, i quali dovevano coltivare il loro campo in maniera, che ogni anno un terzo di esso riposasse, ed ogni triennio tutte le tre parti avessero avuto il loro periodo di riposo. Sebbene questi campi fossero, coll'andar del tempo, per un periodo sempre più lungo, assegnati ai capi delle famiglie, pure la parte da ciascuno di essi lasciata a pascolo, tornava ad essere d'uso comune, il che ricordava l'origine antica, ancora non scomparsa del tutto, di proprietà collettiva. Come si vede, un tale stato di cose, pur non essendo quello descritto da Tacito, derivava da esso e giova a farcelo meglio comprendere.

Questi barbari, che non conoscevano le città, molto meno conoscevano lo Stato. Cesare e Tacito li trovarono divisi in molti popoli diversi, ciascuno dei quali ordinato, suddiviso in quelli che, con nomi latini, essi chiamarono [19] Vicus, Pagus e Civitas. Il Vicus o villaggio era l'associazione più elementare, ancora poco determinata, costituita dai vincoli di sangue, che formavano le parentele (Cognationes, Sippen, Sippenschaften), con le quali spesso si confondevano addirittura. La riunione di alcuni Vici formava il Pagus, in tedesco Gau, una specie di Cantone svizzero, che era il nucleo più forte, quasi l'unità organica di questa società. L'unione di più Pagi costituiva la Civitas, il popolo, la schiatta, come dicono alcuni, la maggiore unità sociale barbarica, che a tempo di Cesare apparisce assai più debole che a tempo di Tacito.

Questa società barbarica era in tutto militarmente costituita, tanto che populus ed exercitus, uomo libero ed uomo in armi, erano una sola e medesima cosa. Si direbbe che fin d'allora vi si ritrovasse il primo germe di ciò che, dopo secoli, doveva essere il servizio militare obbligatorio, e l'ordinamento distrettuale dell'esercito germanico. L'esercito era allora formato, secondo un sistema decimale, per centurie, che si raccoglievano e costituivano nei Pagi, con uomini venuti dai villaggi, fra loro imparentati, e comandati dai capi dei villaggi stessi o delle parentele, giacchè anche qui, come sempre, predominavano i legami di sangue. Tutto questo fece sì che alcuni scrittori moderni dettero al Pagus o Gau il nome di Centena, Hundertschaft. Se non che, il Gau era d'assai varia estensione, qualche volta grosso quasi come una Civitas, ed allora naturalmente le centurie si costituivano nei centri minori, e si era quindi indotti ad attribuire piuttosto ai villaggi il nome di Centene, ed a confonderle con essi. Da ciò altre dispute infinite. Ma l'ordinamento civile ed il militare, per quanto sieno in stretta relazione fra di loro, non potevano essere allora, come non furono mai, una sola e medesima cosa. E però, quando anche venisse dimostrato con assoluta certezza, che la [20] centuria si formava solo nel Vicus o solo nel Pagus, non ne seguirebbe perciò che centuria e vicus o pagus potessero confondersi fra di loro. Oltre di che bisogna pur notare che, per quanto simili fossero allora i molti popoli germanici, ed i caratteri generali del loro ordinamento civile e militare, v'era sempre nei particolari una grande varietà da luogo a luogo, da popolo a popolo. Solamente una esatta conoscenza, che pur troppo non abbiamo, e forse non avremo mai, di questi particolari, potrebbe darci modo di definire e determinare con precisione i caratteri generali d'uno stato di cose tanto diverso dal nostro, e che dovrà quindi, in alcune parti almeno, rimaner sempre per noi incerto ed oscuro.

Nel villaggio comandavano i Majores natu, i capi cioè delle famiglie o delle parentele, che nelle cose di più grave importanza consultavano il popolo, di cui in guerra assumevano il comando. Alla testa del Gau si trovavano uno o più Principes, ai quali gli scrittori romani dettero nome anche di Magistratus, e qualche volta di Reges. Erano eletti fra le principali famiglie dei villaggi, essendovi fra i Germani anche una nobiltà ed una schiavitù. La prima era composta delle famiglie più antiche, che avevano formato il nucleo primitivo del villaggio, attirando a sè le altre, o di quelle che più si erano distinte nelle armi. La schiavitù par che fosse abbastanza mite; lo schiavo riceveva dal suo padrone un campo da coltivare, pagando un canone in derrate o animali. Questi Principes erano circondati dai capi dei villaggi, che formavano intorno ad essi una specie di Consiglio ristretto, che decideva le cose di minore importanza. Per le faccende più gravi, sopra tutto se si trattava di deliberare la guerra, si consultava sempre il popolo. Le sue adunanze erano ordinarie, in alcune determinate stagioni dell'anno, e straordinarie. In tempo di pace i Principes [21] amministravano la giustizia nel Gau e nel villaggio; in guerra comandavano l'esercito. Ai tempi di Cesare par che avessero anche un carattere religioso, scomparso in quelli di Tacito, essendosi allora formato già un ordine sacerdotale, che prima non c'era.

La Civitas, come dicemmo, sembra essere stata in origine assai debolmente costituita. Cesare infatti affermava di non avere in essa trovato, in tempo di pace, nessun comune magistrato (in pace nullus est communis magistratus). E l'assemblea della Civitas (Consilium Civitatis), che in Tacito ha una così grande importanza, è di rado menzionata da lui, tanto da far dubitare che fosse allora veramente un organo vitale di quella società. Il Gau o Pagus aveva perciò ai tempi di Cesare maggiore indipendenza; faceva razzìe per proprio conto, senza troppo occuparsi di quel che voleva o non voleva la sua Civitas, da cui qualche volta si staccava addirittura, per andare a far parte di un'altra. Alla testa di essa erano i Principes, che formavano una specie di Senato, il quale deliberava sugli affari minori, ed apparecchiava le deliberazioni più gravi da sottomettere all'assemblea popolare, che approvava col percuotere le armi, disapprovava con grida di fremito. Quest'assemblea aveva le sue ordinarie adunanze in tempo di luna nuova o di luna piena, e le straordinarie, in tempi indeterminati, secondo l'occorrenza. In essa venivano eletti i Principes, e possiam credere che ciò si facesse confermando coloro che erano stati prima proposti dai Pagi. Nella stessa assemblea venivano concesse le armi a quelli che avevano raggiunta l'età legale, il che, secondo [22] la espressione di Tacito, era il primo onore, la toga virile, con la quale venivano ammessi a far parte della Repubblica.

Il governo della Civitas sembra davvero essere stato generalmente ordinato a repubblica, sebbene spesso apparisca un capo con la forma monarchica, massime quando uno dei Gau riusciva a prevalere sugli altri. Quello però che sopra tutto contribuiva a dar forte unità alla Civitas, e stringeva intorno ad essa anche Pagi di altri popoli o addirittura altre Civitates, formando così una confederazione, che pigliava nome dalla principale di esse, era la guerra. Questa richiedeva naturalmente un capo militare, un Dux, quali furono Ariovisto ed Arminio, una specie di dittatore, con assoluto potere, il quale, fatta la pace, rimaneva spesso al suo posto, divenendo allora un vero e proprio re, come di tanto in tanto ne troviamo, e più specialmente nella Germania orientale. Il duce veniva naturalmente eletto per le sue qualità militari; i principi invece per la nobiltà delle loro famiglie: Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt .

Un'altra istituzione assai diffusa in questa società barbarica era il così detto Comitatus (Gefolgschaft), che circondava così il Princeps come il Dux. Lo formavano i giovani più nobili ed animosi, che si stringevano, quasi specie di paladini, intorno ad uno dei loro capi, di cui divenivano indivisibili compagni d'arme. E come era per essi un disonore il sopravvivere nella pugna al proprio capo, così era per questo un disonore il lasciarsi da essi vincere in valore.

Se ora, gettando uno sguardo generale su quanto abbiam [23] detto, paragoniamo la società romana alla barbarica, il contrasto apparirà assai evidente. La prima era formata da una popolazione urbana, divisa in un gran numero di città collegate da strade, con campagne deserte, coltivate da schiavi o coloni. La seconda era invece una società rurale, sparsa pei campi che liberamente coltivava. E sebbene anche in essa vi fossero nobili e schiavi, v'era tuttavia un'assai maggiore uguaglianza. La differenza delle fortune si limitava più specialmente al numero degli armenti. La proprietà collettiva della terra contribuiva non poco a riunire gl'interessi di tutti, che colle armi difendevano il territorio comune, e nelle popolari assemblee deliberavano insieme. Quasi nulla era l'azione dello Stato, che in realtà non esisteva, e tutto aveva un carattere personale. La pena era una vendetta affidata all'offeso ed ai suoi parenti, e si poteva comporre dando soddisfazione ad essi, non alla comunanza. I legami di sangue costituivano la base stessa della società, ed in parte anche dell'esercito, ordinato in gruppi di parentele. A Roma invece predominava su tutti lo Stato, e la società era fondata interamente sulle relazioni giuridiche. I Romani erano stati inoltre i primi a creare la proprietà privata, liberandola dalla forma arcaica, dando così uno slancio febbrile all'attività individuale, al progresso sociale. Ma nella lotta per l'esistenza i più forti e più fortunati spogliarono i più deboli, e distruggendo la piccola proprietà, crearono i latifondi. Si ebbero da una parte fortune enormi; dall'altra una moltitudine tumultuosa di nullatenenti affamati, cui s'aggiungeva un esercito che aggravava ognuno di tasse.

Se ora per un momento, colla nostra immaginazione, ci provassimo a fondere insieme queste due società, noi vedremmo da un lato sorgere maggiore ordine e disciplina, con l'idea dello Stato, della legge, del diritto impersonale; [24] dall'altro vedremmo rinascere la piccola proprietà, ripopolarsi le campagne di liberi agricoltori. Ma queste chimiche combinazioni nella storia si fanno solo con la violenza, con la guerra; e però nell'urto sanguinoso delle due società, una, pur modificando sè stessa, doveva vincere ed abbattere l'altra. Chi doveva vincere? La società romana era una vasta, maravigliosa organizzazione, con una grande forza espansiva ed assimilatrice. Se non fosse stata minacciata da interna decomposizione, avrebbe di certo potuto continuare a sottomettere, a riunire ed assimilare nuove genti, respingendo qualunque assalto. È quello che aveva fatto per più secoli. Se non che, colle vittorie crescevano gli elementi di decomposizione all'interno, di debolezza all'estero. E intanto le popolazioni germaniche tornavano continuamente all'assalto, spinte dal bisogno irresistibile di nuove terre da coltivare, bisogno che tutte spingeva verso l'occidente. Si avanzavano tumultuose, in numero sempre maggiore, sempre crescente, come le onde di un mare in tempesta.

Fortunatamente per l'Impero, questo mare germanico, diviso in una moltitudine di popoli diversi, di continuo in guerra fra di loro, non aveva unità nazionale, come era provato dal fatto, che nel chieder nuove terre essi si offerivano spontanei a servire sotto le bandiere dell'Impero, e combattevano con valore contro i propri connazionali. Molte infatti delle battaglie romane contro i barbari furon vinte con soldati germanici. Questo poteva far nascere l'illusione, che fosse possibile, per mezzo della disciplina, impadronirsi d'una gran parte di loro, ed assimilarli, per sottomettere, con essi, stabilmente gli altri. Ma l'esempio di Arminio dimostrava la vanità d'una tale illusione. I barbari educati sotto le bandiere romane, divenivano soldati e capitani eccellenti; ma non perdevano mai il loro carattere germanico, fieramente avverso [25] al nome romano ed all'Impero, che pur tanto ammiravano. Anche quando non bastava a tenerli uniti la comune origine, li univa il comune odio. Nè questo, per benefizi ricevuti, si estingueva mai. I più grandi nemici di Roma, quelli che distrussero l'Impero, Alarico, Odoacre, Teodorico, erano stati educati nelle legioni romane. Il sentimento della comune origine, se nei tempi ordinari di calma s'infiacchiva, di fronte ad un pericolo comune, sopra tutto quando trovavano un capo valoroso che li guidasse, si ridestava potentemente, e riusciva ad unirli con una fulminea rapidità, in vastissime confederazioni, animate da uno stesso furore. Si avanzavano allora come un sol uomo, con un impeto irresistibile. Ciò s'era visto fin dal tempo dei Cimbri, di Ariovisto, di Arminio, e continuò a ripetersi continuamente. Questa unione, è ben vero, non durava a lungo. Dopo il pericolo imminente si scioglieva; ma finchè durava, poteva da un momento all'altro riuscire fatale all'Impero, massime se si pensa al numero stragrande di genti che la Germania poteva mettere in armi, ed al numero già grandissimo di barbari che erano nell'esercito e fra gli schiavi romani. Se non che, una volta aperta la breccia sul Reno o sul Danubio, ed inondato l'Occidente, ai barbari sarebbe stato assai difficile, anzi impossibile, organizzare qualche cosa di stabile. Questo, essi, lo sentivano, ed era un'altra causa di debolezza, perchè scemava non poco la loro fiducia in se stessi, di fronte all'Impero, che vedevano sempre fortemente costituito, civilmente non meno che militarmente; e però lo ammiravano come qualche cosa di sacro ed eterno, nel momento stesso che lo aggredivano con tanto furore.

Ma i guai, come abbiamo già visto, erano dall'altro lato anche maggiori. Per poco che quella mirabile unità, che riannodava e stringeva tutte le forze molteplici dell'Impero, [26] dinanzi all'impetuoso urto barbarico, si fosse anche per un momento solo spezzata, avesse in qualche punto ricevuto un forte strappo, tutto sembrava a un tratto minacciare rovina, appunto perchè tutto era collegato, e da questo collegamento riceveva la forza e la vita. L'individuo, educato a vivere per lo Stato e sotto la sua protezione, non capiva come senza di esso si potesse esistere. Quando appena si sentiva abbandonato a se stesso, era come un atomo perduto nel caos; non immaginava neppure che fosse possibile resistere a quella società germanica, di cui ognuno s'avanzava con una sete feroce di sangue. Era un sentimento simile a quello di chi veda improvvisamente, per tremuoto, crollare le case, e senta il terreno mancargli sotto i piedi, o si trovi chiuso in un teatro minacciato d'incendio. Questo sentimento invece era affatto ignoto ai barbari, i quali facevano parte d'una società divisa e suddivisa non solo in popoli, ma in gruppi o cantoni diversi, che colla massima facilità si univano e si separavano, per riunirsi di nuovo. Quando una Civitas era vinta e decomposta nei suoi Pagi, questi facilmente si reggevano da sè soli, o si fondevano con quelli di un'altra, senza perciò sentirsi punto sgomenti. L'individuo, che per la distruzione del villaggio o del gruppo cui apparteneva, si fosse trovato isolato e abbandonato, usato com'era nella foresta, a contare sopra tutto sulla forza del suo braccio e sul suo coraggio personale, non provava nessuno sgomento, si univa facilmente a quelli che prima incontrava. Tutto questo fece assai spesso credere ai barbari, e fece a molti ripetere poi, che dinanzi ad essi i Romani si spaventavano e tremavano come donne. E ciò, sebbene questi li avessero poco prima disfatti, ed ogni volta che riuscivano a riannodare le fila spezzate, tornassero a vincerli ed a metterli in precipitosa fuga.

Così fu che per circa due secoli e mezzo l'Impero [27] dovè non solo respingere i continui assalti parziali d'oltre Reno e d'oltre Danubio; ma più di una volta si trovò di fronte a formidabili eserciti di barbari confederati, che penetrarono dentro l'Impero, e resero necessarie a salvarlo battaglie addirittura gigantesche. Una di queste fu quella da noi già ricordata, combattuta da Marco Aurelio. A un tratto, non si sa come nè perchè, forse cacciate da altre genti, si videro le popolazioni germaniche avanzarsi, riunite in una immensa moltitudine, nella quale primeggiavano i Marcomanni ed i Quadi. Penetrarono nella Dacia, passarono il Danubio, invasero l'Impero, e per la prima volta il sacro suolo d'Italia venne toccato dal piede di soldati germanici (167 d. C.). Fu allora che Marco Aurelio, abbandonati i suoi studi, assunse il comando dell'esercito, e conducendosi da gran capitano, in una serie di battaglie fortunate, respinse il nemico al di là del confine, e combattè sino alla sua morte, seguita il 17 marzo 180. Ma in quella lunga e gloriosa lotta, si vide che le forze dell'Impero cominciavano ad esaurirsi. Era stato necessario combattere i barbari con altri barbari, ed alcuni di essi si erano anche dovuti accogliere dentro i confini, esempio pericoloso che più tardi riuscì funesto. Tuttavia si potè continuare per un secolo ancora a vivere abbastanza tranquilli, fino a che gli stessi eventi, ripetendosi in proporzioni sempre maggiori, portarono finalmente conseguenze assai più gravi.

Infatti un'altra di queste grandi battaglie si dovè dare contro i Goti, sui quali dobbiamo ora un istante fermarci, perchè furono essi che dettero più tardi il colpo mortale all'Impero. Una opinione largamente diffusa, li fa venire dalla Scandinavia, di dove, per ragioni a noi ignote, si sarebbero avanzati verso il sud. A tempo degli Antonini li troviamo nella Prussia orientale, alla bocca della Vistola; circa la metà del terzo secolo erano nella Russia [28] meridionale, verso il Mar Nero, insieme coi Gepidi, divisi in Ostrogoti e Visigoti, cioè Goti orientali ed occidentali. Questa derivazione dalla Scandinavia e questo lungo cammino verso il sud è messo in dubbio da altri scrittori, i quali ritengono invece che i Goti siano addirittura popolazioni germaniche orientali, e più che un popolo, un amalgama di genti diverse, le quali si distesero al nord ed al sud, avanzandosi poi verso l'occidente. Alcuni li fecero derivare dai Geti, coi quali vorrebbero confonderli. Sono però questioni difficili a risolversi con certezza, anche perchè nel Medio Evo il nome di Goti si dava a genti assai diverse.

Comunque sia di ciò, dalla Russia meridionale, avanzandosi verso occidente, cominciarono ad assalire i confini dell'Impero, che, come dicemmo, erano, sin da quando s'era fatta l'annessione della Dacia, divenuti da questo lato assai più deboli. E dopo molti assalti sanguinosi, si mossero finalmente nel 268, con un formidabile esercito, ad una vera e propria invasione, menando seco le donne ed i vecchi. Trovarono però anche questa volta virile resistenza nelle legioni romane, comandate dall'imperatore Claudio. Questi scriveva al Senato che, nonostante il disordine in cui i suoi predecessori avevano lasciato l'Impero, nonostante la mancanza d'armi e d'ogni cosa più necessaria, s'avanzava per difenderlo contro un esercito di 320,000 Goti, che avevano già passato il confine, deciso a vincere o morire. Un sì gran numero di armati è probabilmente esagerato, essendovi forse compresi anche i non combattenti. E così pure deve ritenersi esagerato il numero di 6000 navi, che alcuni danno ai Goti, e che altri riducono a sole 2000. In ogni modo, trattavasi d'una invasione, di cui non s'era mai vista l'uguale, e che pure in due grandi battaglie (268 e 269) fu vinta e respinta da Claudio. La prima ebbe luogo a Naissus, nella Serbia, [29] e fu d'incerto resultato. Pure coloro stessi che la dissero perduta dai Romani, ammisero che vi perirono 50,000 Goti. Nella seconda battaglia questi furono dalla cavalleria romana chiusi nei Balcani, ove dalla fame, dalla peste e dal ferro vennero quasi totalmente distrutti. Dei sopravvissuti una parte si salvò colla fuga, altri rimasero prigionieri o schiavi addirittura, altri accettarono di servire nelle legioni romane. Molta fu la preda, e così grande in essa il numero delle donne, che ogni soldato romano ne ebbe due o tre per sua parte. Il che viene a confermare sempre più, che si trattava non d'un esercito solamente, ma d'una vera e propria invasione. Claudio allora scriveva di nuovo al Senato, dicendo: — Ho disfatto un esercito di 320,000 Goti, ho mandato a picco 2000 delle loro navi. — E per questi fatti egli ebbe il soprannome di Gotico. Ma il gran numero di cadaveri fece scoppiare una peste crudelissima, che uccise anche lui, il quale così potè dirsi vittima della sua stessa vittoria.

Questa vittoria era certamente una prova novella della forza ancora grandissima dell'Impero. Ma quello che nello stesso tempo dimostrava le forze inesauribili dei barbari, si fu il vedere che, dopo perdite così enormi, essi continuarono i loro assalti senza interruzione. È chiaro che le perdite erano subito risarcite da altre e diverse genti, le quali da ogni parte sopravvenivano. L'imperatore Aureliano (270-75), che successe a Claudio, ed era buon soldato, non meno che accorto politico, dopo avere valorosamente resistito, finì col venire ad un accordo, cedendo spontaneamente ai Goti la Dacia, a patto che non avrebbero passato il Danubio. E così si abbandonava ai barbari una provincia fertile, in gran parte già romanizzata, dalla quale moltissimi de' suoi abitanti dovettero emigrare. Si restringevano però, secondo i consigli di Augusto, i confini dell'Impero alla linea più sicura del [30] Danubio. Di ciò infatti Aureliano venne generalmente lodato; e vi fu coi Goti quasi un altro secolo di pace relativa, interrotta solo da tre guerre, mosse a tempo di Costantino, nelle quali essi furono sempre respinti, l'ultima volta con la perdita, si dice, di 100,000 uomini, morti di fame, di freddo e di ferro. Tuttavia questa linea del Danubio, da lungo tempo indifesa, rimaneva ora il lato più vulnerabile dell'Impero. I Goti si trovavano nella Dacia in grandissimo numero, e andavano aumentando pel continuo sopravvenire di nuove genti. E ciò, quando era andato sempre crescendo il numero dei barbari che facevan parte di quell'esercito, che doveva contro altri barbari difendere il Danubio.

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