CAPITOLO VI

Arcadio ed Onorio — Rufino, Stilicone ed Alarico

Sino dai tempi di Diocleziano l'Impero era stato quasi sempre diviso in varie parti, sotto imperatori diversi, più o meno dipendenti da uno di essi. Questa divisione, che non escludeva il concetto della unità, era stata suggerita dalla grande difficoltà, che un solo doveva incontrare a voler governare e difendere tutto l'Impero contro i nemici, che da ogni parte contemporaneamente lo assalivano. Teodosio, come vedemmo, potè riunirlo sotto il suo scettro; ma alla sua morte lo lasciò nuovamente diviso fra i suoi due figli, Arcadio, cui assegnò l'Oriente, ed Onorio, cui assegnò l'Occidente, senza che intendesse con ciò di formare due Imperi separati, come si è più volte ripetuto. Se non che, questa divisione seguiva ora in condizioni affatto nuove, che ne mutarono il carattere, e col tempo la resero definitiva. Nella elezione [58] degl'imperatori, fatta in modi assai diversi, sempre però con la partecipazione dell'esercito, s'era fin dal tempo di Costantino, e più ancora di Valentiniano I, andato introducendo il principio ereditario, cercandosi, per quanto era possibile, di non uscire dalla stessa famiglia. Prima di morire, Teodosio s'era a questo fine associati i due figli, che ora gli succedevano, l'uno affatto indipendente dall'altro. Ma essi erano ambedue di minore età, Arcadio avendo 18 anni, Onorio soli 10, e però l'uno e l'altro ancora incapaci di governare. E Teodosio, che ben lo sapeva, aveva lasciato il primo affidato alle cure del prefetto Rufino, suo primo ministro; il secondo, al valoroso generale Stilicone, Magister utriusque militiae, un Vandalo che aveva gloriosamente combattuto sotto di lui contro Eugenio, e ad esso aveva raccomandata la difesa dell'Impero. Così non solo i due imperatori minorenni erano l'uno indipendente dall'altro; ma erano stati affidati alle cure di due uomini potenti ed ambiziosi del pari, che tra di loro non potevano andare d'accordo. Tutto ciò portava inevitabili difficoltà per l'avvenire.

L'ordinamento del governo continuava sempre quale lo avevano formato Diocleziano e Costantino. Quattro Prefetti del Pretorio alla testa delle quattro Prefetture: l'Italia cioè con le sue isole e l'Africa, la Gallia con la Spagna e la Britannia, l'Illirico, l'Oriente. A Costantinopoli come a Roma v'era un Prefetto della città con un Senato, che andava sempre più perdendo il suo potere politico, per divenire come una Curia municipale. Le Prefetture erano divise in Diocesi, e queste in Province, a lor volta suddivise in Municipi, i quali erano ordinati a similitudine di Roma, col loro Senato o Curia e la plebe. Essi restarono, nel disfacimento generale dell'Impero, l'unico organismo destinato a sopravvivere, trasformandosi però sostanzialmente. Accanto a quest'amministrazione civile, [59] come abbiamo già visto, era l'ordinamento militare, coi Magistri peditum e Magistri equitum, due uffici che si univano spesso in una persona sola, chiamata allora Magister militum o Magister utriusque militiae. Il numero di questi grandi ufficiali militari variava spesso: in Oriente ne vediamo fino a cinque. In Italia si trova non di rado un Magister utriusque militiae, quale adesso era appunto Stilicone.

Se non che questo doppio ordinamento civile e militare, che procedeva parallelamente, avrebbe dovuto, come abbiamo già visto, metter capo alla sola autorità suprema dell'Imperatore. Ma ciò era divenuto impossibile ora che a due imperatori inesperti e indipendenti l'uno dall'altro, si aggiungeva la gelosia e l'antagonismo dei due consiglieri che dovevano guidarli. Rufino, oriundo della Gallia, avido, furbo, ambizioso e crudele, era per queste sue stesse qualità di grado in grado salito ai primi onori. Costretto a raccogliere danaro per l'amministrazione e per l'esercito, doveva aggravare di tasse il popolo, cui era perciò divenuto odioso. Ma essendo egli Prefetto del Pretorio per l'Oriente, avendo la sua sede nella capitale, ed essendosi a tempo di Teodosio, che negli ultimi anni di sua vita aveva riunito l'Impero, trovato a far le parti di primo ministro, presumeva ora di poter dirigere non solo la politica generale dell'Oriente, ma quella ancora dell'Occidente. Stilicone dall'altro lato, avendo colle armi contribuito a ricostituire l'antica unità, e trovandosi ancora alla testa dell'esercito, col quale aveva a tal fine vittoriosamente combattuto, godeva di questo la piena fiducia. Aveva inoltre sposato Serena, la nipote di Teodosio, che morendo (così generalmente si diceva) gli aveva affidato il mandato di vigilare sui due suoi figli. E però, se Rufino pretendeva di comandare politicamente, Stilicone pretendeva di comandare militarmente [60] su tutto l'Impero. S'aggiungeva a ciò, che come capo dell'amministrazione, Rufino rappresentava i Romani, e come capo dell'esercito, Stilicone, il quale era un barbaro egli stesso, per forza delle cose, rappresentava i barbari, che nell'esercito prevalevano. I due principali personaggi dell'Impero si trovavano adunque fatalmente alla testa di due partiti, con pericolo evidente in un avvenire non lontano.

Certo la posizione di Rufino era assai più difficile, perchè se egli aveva in mano la borsa, Stilicone aveva le armi. E per riempire la borsa erano necessarie le tasse, che partorivano odio. Nella Corte stessa non mancavano intrighi contro di lui, tanto più che Arcadio, non essendo come Onorio un fanciullo, già cominciava a mostrarsi intollerante d'una tutela permanente ed incomoda. E ne diè prova sposando la figlia d'un generale franco, Eudoxia, celebre per la sua bellezza, che gli era stata raccomandata dall'eunuco Eutropio, il quale aveva l'ufficio di Praepositus sacri cubiculi: tutto ciò a dispetto di Rufino, che avrebbe voluto dargli la propria figlia. Nondimeno la sua autorità era sempre grandissima, come si vide ben presto.

I Goti federati, dolendosi ora di non avere i consueti sussidi, e più di tutti dolendosi Alarico loro capo, perchè non aveva potuto avere il titolo chiesto di Magister militum, cominciarono a percorrere il paese, tumultuando e saccheggiando. Stilicone allora s'avanzò alla testa dell'esercito, per sottometterli; ma Rufino potè, in nome d'Arcadio, ordinargli che s'occupasse solo delle cose d'Occidente, e rimandasse a Costantinopoli i soldati che appartenevano all'Oriente, e che erano la più parte barbari, anzi Goti. Stilicone dovette obbedire, e li fece partire sotto il comando del generale goto Gainas, il quale si vuole che cospirasse con lui, d'accordo con [61] l'eunuco Eutropio, contro Rufino. Certo è in ogni modo, che quando i soldati furono presso Costantinopoli, ed il 27 novembre 395 vennero passati in rivista da Arcadio insieme con Rufino, questi si trovò a un tratto circondato; e subito si avanzò un soldato, che dicendo, — con questa spada ti colpisce Stilicone, — lo ferì mortalmente. Il suo cadavere venne dalla moltitudine fatto a pezzi. Alcuni ne portarono in giro pel campo la testa infitta sopra una lancia; altri ne portarono un braccio, con la mano tenuta in attitudine di chieder nuove tasse.

In conseguenza della morte di Rufino crebbe assai il potere di Eutropio, che gli successe; e pareva ancora che i barbari fossero addirittura divenuti i padroni in Costantinopoli, essendo riusciti ad occupare i principali uffici militari e civili. Ma ciò appunto provocava una reazione vivissima del sentimento romano. E di esso il retore Sinesio rendevasi interpetre presso l'Imperatore, incitandolo a porsi «alla testa dell'esercito, come gli antichi Cesari; e non permettere che i barbari piglino posto perfino nel Senato, che portino la toga da essi disprezzata, che riempiano le legioni e facciano tumulto, che mettano a pericolo l'Impero. L'esercito deve essere, egli concludeva, di Romani che difendano la patria.» Ma ciò nonostante il potere di Gainas e dei Goti era sempre grandissimo. Era cresciuto, è vero, anche il potere di Eutropio, che nel 399 fu nominato Console; ma questi, generalmente odiato, venne in discordia con la Imperatrice e con Gainas. Il quale riuscì a farlo condannare a morte, dopo di che assunse l'ufficio di Magister utriusque militiae, e fu davvero l'uomo più potente in Costantinopoli. Se non che, questo suo potere appunto ridestò più che mai la violenta reazione del partito nazionale, la quale s'accese maggiormente quando all'antagonismo politico s'aggiunse il religioso.

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Allora era vescovo di Costantinopoli S. Giovanni Crisostomo, uomo di grande autorità e fermezza, irremovibile anch'esso nella sua dottrina atanasiana, già fatta prevalere da Teodosio. I barbari erano invece ariani, e però Gainas loro capo mal tollerava che nella capitale dell'Oriente non vi fosse una sola chiesa destinata al loro culto, e che essi dovessero trovarsi costretti a cercarla fuori delle mura. Se non che tutto ciò era secondo le leggi e gli ordini di Teodosio; e Crisostomo, deliberato a non cedere in nulla, li fece leggere a Gainas, ricordandogli che aveva accettato di servire l'Impero, con l'obbligo di rispettarne le leggi. Non volendosi cedere nè da una parte nè dall'altra, gli animi s'accesero per modo che il 12 luglio 400 scoppiò contro i barbari un tumulto assai violento. Molti ne furono uccisi, gli altri si dovettero ritirare dalla città, e Gainas, combattuto, inseguito, cercò di salvarsi nella Dacia, passando il Danubio con alcuni dei suoi. Ivi fu ucciso dagli Unni, che credettero con ciò di far cosa grata all'Impero. Questo fu il più notevole avvenimento nella vita di Arcadio, giacchè Costantinopoli fu così libera dai barbari; l'Impero orientale riprese il suo carattere greco-romano, che serbò fino alla sua caduta; e l'Imperatore potè governare coll'appoggio del partito nazionale ortodosso. Restavano però sempre i Goti federati, che occupavano la Tracia e si stendevano nella Mesia, ingrossandosi ora con tutti i fuggiaschi dell'esercito sbandato di Gainas, trovandosi sempre più irritati e scontenti, perchè era un pezzo che i soldati non ricevevano le paghe. Che cosa bisognava dunque fare di questa enorme massa di gente scontenta, di questo popolo in armi e minaccioso?

Sin dal tempo di Rufino c'era stato in Oriente il disegno di spingere Alarico coi suoi in Occidente. Così non [63] solo si liberavano colà da un pericolo continuo, ma si dava del filo da torcere a Stilicone. Si voleva però evitare il pericolo che i due generali barbari facessero causa comune contro Costantinopoli; o pure che Stilicone, decidendosi a combattere sul serio i Goti e riuscendo a vincerli, finisse col divenire più potente che mai. E fu perciò che, poco dopo la morte di Teodosio, Rufino lo aveva costretto a fermarsi, togliendogli una parte dell'esercito. Da un altro lato Stilicone, sebbene fido soldato dell'Impero, era un barbaro anch'esso, e non poteva desiderare, quando anche avesse potuto, distruggere affatto i Goti. Non gli conveniva neppure umiliarli troppo, senza addirittura disfarli, perchè così li avrebbe resi sempre più avversi e pericolosi ad Arcadio e ad Onorio. Avrebbe quindi voluto dimostrar loro che poteva colle proprie armi tenerli a freno, e poi, secondo il pensiero stesso di Teodosio, aggregarli all'Impero, aumentandone così la forza. In tal modo se ne sarebbe anche avvantaggiata non poco la sua posizione militare e politica, quello appunto che a Costantinopoli si voleva evitare. Ne seguì quindi per qualche tempo, che l'Oriente spingeva i Goti verso l'Occidente, che a sua volta li rimandava indietro: erano come ballottati da una parte all'altra.

Tutto ciò doveva naturalmente sempre più irritarli. E così finirono verso il 395 (la data non è però sicura) coll'eleggersi un proprio re nella persona appunto di Alarico, che noi abbiam visto fin dalla sua prima gioventù combattere valorosamente in Italia sotto Teodosio. Esso era della nobile stirpe dei Balti, nome che Jordanes dice significare audace (id est audax), e che risponde infatti alla parola inglese bold, ardito. Educato alla disciplina militare romana, egli veniva adesso levato sugli scudi dai suoi connazionali; e ciò aveva una grande importanza, perchè così i Visigoti federati si ricostituivano come nazione, [64] o almeno come esercito indipendente dentro l'Impero. Tanto maggiore si doveva quindi a Costantinopoli sentire il bisogno di liberarsene, spingendoli sempre più verso l'Occidente. Se non che Stilicone si trovava anch'esso alla testa d'un formidabile esercito, di cui, per la debolezza d'Onorio, disponeva a suo arbitrio, e poteva quindi energicamente resistere. Infatti, quando Alarico s'avanzò, saccheggiando, nella Grecia (396), gli andò subito incontro, e respintolo dal Peloponneso, lo chiuse nei monti. Pareva allora che lo avesse già in suo potere; ma invece si seppe a un tratto, che Alarico, insieme con tutti i suoi e col bottino raccolto, s'era per l'Epiro settentrionale messo in salvo. Molte furono le voci allora diffuse. Chi diceva che era stata una sua abile manovra; chi supponeva che era stata negligenza o tradimento di Stilicone, e chi finalmente affermava che tutto era conseguenza di segreti accordi d'Alarico con Costantinopoli. Certo è che Stilicone se ne tornò tranquillo in Italia, senza inseguirlo, e che Alarico se ne andò in quella parte dell'Illirico che apparteneva all'Oriente. Ivi rimase col consenso di Arcadio, che gli concesse anche l'ambito ufficio di Magister militum. E si trovò come a cavallo fra l'Oriente e l'Occidente, con grande facilità di ripigliare la strada momentaneamente abbandonata. Intanto aveva modo non solo di nutrire i suoi, ma di provvederli anche largamente delle armi, che si trovavano nei magazzini dell'Impero.

La sua mira costante era adesso, per più ragioni, divenuta l'Italia. Ve lo spingevano da Costantinopoli, per liberarsi una volta di lui e dei suoi. Dopo la rivolta nazionale del 12 luglio 400, e lo sterminio dei barbari, l'Oriente non poteva più essere una sede nè sicura nè gradita ai Goti. Ve lo spingeva anche la sua personale ambizione ed un vero spirito di avventure. Secondo [65] la leggenda, una voce interiore gli andava continuamente ripetendo: Penetrabis ad Urbem! Quale fosse allora il suo disegno, è difficile dirlo con precisione; probabilmente non lo sapeva lui stesso. Alarico era un ardito soldato, senza un vero genio politico o militare; una specie di capitano di ventura, come la più parte dei generali barbarici di quel tempo, che non avevano una patria, e combattevano sopra tutto per meglio assicurare la loro posizione personale. Si trovava però a capo d'una immensa moltitudine di soldati, vecchi, donne, bambini, e questo gl'imponeva molti doveri, gli dava grandi pensieri. Che sognasse farsi imperatore dell'Occidente, non è possibile. Non avrebbe saputo come governarlo; ed inoltre un tale pensiero sarebbe allora ad un barbaro sembrato quasi un sacrilegio. S'avanzava quindi minacciando, saccheggiando, sperando sempre di trovar finalmente modo di far parte integrante e normale dell'Impero.

In Italia era intanto assai cresciuta la forza e l'autorità di Stilicone, specialmente dopo che gli era riuscito di far domare la ribellione di Gildone, seguìta in Africa nel 398. Egli aveva sposato una nipote di Teodosio, ed aveva dato sua figlia Maria in moglie ad Onorio; nel 400 fu anche nominato Console. Tutto questo lo faceva apparire come un possibile pretendente all'Impero, almeno pel suo figlio; e ciò gli cresceva autorità, ma gli procurava anche nemici. Per necessità delle cose si trovava divenuto come il difensore naturale dell'Italia. E quindi appena seppe che i barbari s'avanzavano, corse nella Rezia e respinse un esercito giunto colà sotto il comando di Radagasio, che era d'accordo, a quanto pare, con Alarico. Raccolse poi quanti più uomini potè, e col suo esercito così ingrossato, discese nell'alta Italia. Ivi pensò, innanzi tutto, a liberare e mettere al sicuro Onorio, che trovavasi allora in Asti, esposto al pericolo d'essere circondato [66] dai nemici. Lo indusse a trasferire la sua sede da Milano, ove s'era quasi sempre fermato, a Ravenna, che si poteva più facilmente difendere, ed aveva il vantaggio del mare. Così dal 402 al 475 essa restò sempre capitale dell'Impero d'Occidente, e poi fu capitale dell'Esarcato, che di là potè facilmente comunicare con Costantinopoli.

Ma ora bisognava provvedere alla difesa contro Alarico, che s'avanzava con un esercito numerosissimo. Stilicone richiamò quindi dalla Britannia la dodicesima legione, e quel che era assai più grave, richiamò anche le legioni che si trovavano a guardia del Reno, lasciando così da quel lato aperta la porta ad altri barbari. Voleva provvedere al pericolo imminente, pensando che, una volta vinto Alarico, avrebbe facilmente potuto respingere gli altri barbari, forse anche facendosi aiutare da lui, dopo averlo battuto. Il 6 aprile 402 (data incerta anche questa), i due eserciti s'incontrarono a Pollenzo sul Tanaro, a venti miglia da Torino, e vi fu una vera battaglia. Era di settimana santa, e Stilicone, senza occuparsi di ciò, sorprese il nemico nel campo, mentre celebrava le sacre feste. La vittoria fu sua, ma i Goti si poterono liberamente ritirare. E sebbene fossero di nuovo battuti presso Verona, se ne andarono a casa senza essere inseguiti. Si tornò quindi, come era naturale, a parlar di tradimento. Nondimeno nel 404 Onorio, accompagnato da Stilicone, entrò da trionfatore in Roma. E furono, in questa occasione, celebrati quei giuochi dei gladiatori, che più volte, per istigazione dei Cristiani, erano stati invano proibiti. Questa volta però un monaco orientale, Telemaco, si gettò in mezzo ai combattenti nell'arena del Colosseo, per separarli in nome di Gesù Cristo. Egli fu lapidato dalla folla, tra le grida d'indignazione; ma si afferma che d'allora [67] in poi i giuochi inumani cessassero davvero. La condotta ardita di Telemaco era un'altra prova dell'energia sempre maggiore, che lo spirito cristiano andava manifestando.

Dopo che Alarico si fu ritirato, Radagasio che era stato già prima battuto nella Rezia, si avanzò con un esercito, che Orosio porta a duecentomila uomini, altri fanno ascendere fino a quattrocentomila, il che prova la poca credibilità di queste cifre. Era in ogni modo un esercito assai numeroso, che Stilicone affrontò in Toscana, riuscendo a chiuderlo nei monti presso Fiesole, dove lo affamò e disfece, pigliando prigioniero lo stesso Radagasio, che fu poi ucciso (405). Tutti gli altri morirono o si sbandarono, andando per fame raminghi. E questa vittoria che avrebbe dovuto crescer favore al capitano che l'aveva ottenuta, rese invece più clamorose le voci di tradimento, massime quando poi arrivò la notizia che moltitudini di Alani, di Svevi e di Vandali, passato il Reno, rimasto indifeso, erano penetrati nella Gallia (406) e liberamente si avanzavano. — Se ha così facilmente disfatto Radagasio, si diceva, è segno che poteva, volendo, fare lo stesso con Alarico. Ma è un barbaro, e vorrebbe lasciar l'Impero in balìa dei barbari. Perciò ha richiamato le legioni dal Reno, lasciando invadere la Gallia, come fra poco sarà invasa anche la Spagna. Onorio dovrebbe imitar suo fratello Arcadio, che seppe liberarsi di Gainas, il quale se non era insieme coi suoi distrutto, avrebbe dato in mano dei Goti l'Oriente, che è invece tornato ad essere romano. Se in ugual modo non si provvede in Occidente, ben presto anche Roma e l'Italia saranno dominate dai barbari. —

Questi sentimenti infiammarono tutta la parte romana dell'esercito, a segno tale che le legioni della Britannia nel 407 proclamarono nuovo imperatore uno il quale pareva [68] non avesse altro titolo che il nome di Costantino, ma che nel fatto poi dimostrò maggiore energia che non si supponeva. Egli venne subito nella Gallia, per combattere i barbari; ma ormai non era più possibile ricacciarli al di là del Reno. Riuscì nondimeno a ripigliar la guardia del fiume, per impedire almeno che ne passassero altri. Intanto arrivavano dall'Italia nella Gallia nuove legioni, mandate da Onorio a ristabilire la sua autorità contro il tiranno, come era chiamato Costantino, perchè non si riteneva legittima la sua elezione. Così in Occidente si trovavano a contrasto due imperatori fra di loro e coi barbari. Tutto ciò si attribuiva a colpa di Stilicone, che veniva perciò sempre più odiato, sempre più calunniato. Infatti, sebbene avesse con tanta energia e fortuna combattuto Radagasio, il quale era pagano, pure lo accusavano di esser fautore dei pagani, aggiungendo che tale era suo figlio, e che egli aspirava a farlo imperatore d'Occidente. Più tardi, quando morì Arcadio (1º maggio 408), si affermava invece che egli presumeva farlo imperatore d'Oriente. — Non contento, dicevano, d'aver dato sua figlia Maria in moglie ad Onorio, dopo la morte di lei, lo aveva indotto a sposar l'altra sua figlia Termanzia, senza curarsi che il clero cristiano condanna le seconde nozze con la sorella della prima moglie. — Insomma ogni arme era buona contro di lui, e si riuscì infatti a renderlo odioso ai Cristiani ed ai Pagani.

Ma quello che era peggio, cominciava ora ad ingelosirsi ed insospettirsi di lui anche Onorio, il quale aveva un certo sentimento tradizionale dell'autorità imperiale, e mal tollerava, sebbene non lo dimostrasse ancora aperto, questo Vandalo che suscitava l'avversione di tutto il partito nazionale romano. Se non che la sua indole incerta e titubante lo faceva sempre oscillare. Dopo la battaglia di Pollenzo, pareva che avesse accettato [69] il disegno di Stilicone, che era di lasciare ad Alarico, sotto la dipendenza dello stesso Onorio, tutta la Prefettura d'Illiria, sebbene questa fosse stata da qualche tempo divisa fra l'Occidente e l'Oriente. Stilicone pensava che così si sarebbero resi contenti i Goti; si sarebbe avuto a propria disposizione tutto l'esercito di Alarico, e si sarebbe, col suo aiuto, potuto rimettere l'ordine nella Gallia e nella Spagna, contro i barbari e contro Costantino, che ora vi spadroneggiava. In conseguenza di ciò, Alarico s'era già mosso dall'Epiro, quando, per ordine improvviso di Onorio, fu inaspettatamente fermato. Un tal fatto, come era naturale, lo sdegnò in estremo grado, e quindi egli s'avanzò minaccioso verso l'Italia, chiedendo quattromila libbre d'oro, per essere indennizzato delle spese che aveva fatte. Ed essendosi Onorio sbigottito, la domanda fu col suo assenso portata e sostenuta da Stilicone in Senato, con la dichiarazione che bisognava consentire, perchè non s'era in grado di resistere. Ed il Senato dovè cedere anch'esso; ma parve che per un momento almeno l'antico spirito, l'antica energia romana si ridestassero, e che il senatore Lampridio esprimesse il sentimento comune, quando esclamò: Non est ista pax, sed pactio servitutis!

In verità Stilicone era un barbaro romanizzato. Dall'unione di questi due elementi, che ne costituivano la personalità, scaturivano la sua forza e la sua debolezza. Essi coesistevano nell'Impero, e fino a che vi si tenevano in equilibrio, e potevano continuare l'uno accanto all'altro, senza venire a conflitto, la personalità di Stilicone rappresentava la società in cui egli si trovava. Di qui la sua forza. L'idea di valersi dei Goti a vantaggio dell'Impero, poteva sembrare una continuazione della politica di Teodosio, che a lui lo aveva raccomandato, sperando che volesse e sapesse difenderlo. Una volta però [70] che dentro l'Impero fosse sorto il conflitto fra i due elementi che lo costituivano, la personalità politica di Stilicone sarebbe stata distrutta, ed egli avrebbe dovuto inevitabilmente soccombere. Purtroppo il conflitto si poteva dire adesso già cominciato. Infatti i Goti, anche dopo ottenuta la chiesta indennità, erano scontenti e minacciavano. Lo sdegno del partito romano era salito al colmo, e si accennava perciò a Stilicone come ad una vittima necessaria alla salute dell'Impero. Nè mancava chi soffiava nel fuoco più che poteva, e fra gli altri un ufficiale della guardia imperiale, di nome Olimpio. A Ticino (Pavia) si trovavano allora le legioni romane, destinate, a quanto pare, a ripigliare la guerra contro Costantino e contro i barbari nella Gallia, dove tutto era in disordine. La colpa d'ogni danno, d'ogni pericolo presente, veniva colà attribuita a Stilicone, che si trovava a Bologna. — Egli, così dicevano, aveva voluto salvare ad ogni costo i Goti; aveva lasciato indifeso il passaggio del Reno, perchè altri barbari come lui inondassero l'Impero, ciò che pur troppo era avvenuto. — Onorio allora si trovava appunto a Pavia, dove a un tratto scoppiò un tumulto violento (408). La città andò a sacco; gli amici di Stilicone furono messi a morte; e l'Imperatore, da nessuno offeso, pareva uno spettatore indifferente, forse già prima consapevole di ciò che ora avveniva.

Alla notizia della rivolta, Stilicone era per muovere subito da Bologna, alla testa de' suoi soldati barbari, per difendere Onorio e domare i ribelli. Ma quando seppe che questi non correva nessun pericolo, che non dava neppur segno di disapprovare quello che sotto i suoi occhi avveniva, non volle, egli generale dell'Impero, al quale era affezionato, provocare una sanguinosa battaglia fra una parte e l'altra dell'esercito. Questo fece scoppiare la rivolta anche fra i suoi, pronti a difendere [71] lui, ed a vendicare i compagni. Il tumulto fu tale che la sua persona si trovò in grave pericolo, e fu costretto a rifugiarsi a Ravenna, in una chiesa. Colà giunsero i messi di Olimpio, che gl'intimarono d'arrendersi, giurando solennemente d'avere ordine di prenderlo in custodia, salva la vita. Ma quando poi, stando alla fede giurata, Stilicone s'arrese, dissero subito che era sopravvenuto l'ordine di ucciderlo. Alcuni de' suoi, che lo avevano colà accompagnato, si dimostrarono pronti a metter mano alle armi, per difenderlo fino all'estremo. Ma esso aveva capito che ormai tutto era inutile; e pensando, anche in quell'ultima ora, alla salute dell'Impero più che alla sua propria, non volle, morendo, provocare la guerra civile. E ordinò ai suoi di deporre le armi, dichiarando d'essere deciso ad arrendersi. Il 23 agosto 408 sottomise tranquillo la testa alla scure. Suo figlio fu ucciso in Roma, sua figlia Termanzia venne dal palazzo imperiale rimandata alla madre Serena, cui era poco dopo serbata, nella stessa Roma, un'assai trista fine. Molti degli amici e parenti di Stilicone, sopra tutto i soldati barbari, vennero perseguitati; le loro mogli e i loro figli uccisi. E quasi a coronare l'opera nefasta, Onorio pubblicò un editto contro gli eretici, ai quali vietava di far parte della milizia palatina, e si mostrò avversissimo ai pagani, confiscando i beni dei loro tempii, ordinando la distruzione dei loro altari.

La prima conseguenza di tutta questa disgraziata tragedia fu, che un numero grandissimo di soldati barbarici, trentamila circa, così almeno si dice, andarono ad ingrossare l'esercito di Alarico, il quale divenne a un tratto più potente e minaccioso che mai. Ma che cosa poteva, che cosa voleva egli fare adesso? Certo non sognava neppure di rovesciare l'Impero o d'impadronirsene. Egli non se ne dichiarava neanche nemico. Si [72] trovava alla testa d'una moltitudine armata, che aveva bisogno di vivere, e però voleva, insieme coi suoi, in un modo o l'altro, ma in un modo riconosciuto e legale, far parte dell'Impero, pronto anche a servirlo, a ricostituirne l'autorità contro i ribelli nella Gallia o altrove, assumendo il grado di Magister utriusque militiae. Ma quando ciò fosse avvenuto, l'Impero sarebbe rimasto in balìa de' barbari, ed era quello appunto che Onorio non voleva consentire. Figlio di Teodosio, per quanto debole e vacillante, esso sentiva, in parte almeno, la dignità del suo grado, e pensava che, cedendo alle voglie d'Alarico, difficilmente avrebbe potuto resistere poi a domande simili di altri barbari. Meno che mai tutto ciò sembrava possibile ora, dopo la insurrezione vittoriosa a Pavia contro il partito barbarico, quando Costantino, alla testa delle legioni, minacciava di staccare dall'Italia la Gallia, la Britannia e la Spagna. Queste erano le grandi difficoltà di trovare una soluzione pratica; e di qui il pericolo gravissimo che correva adesso l'Impero.

Alarico intanto s'avanzava in Italia, con animo d'assediare Roma, e dettare le sue condizioni. Impadronito infatti che egli si fu della foce del Tevere e del porto d'Ostia, la Città eterna, che non aveva un esercito per difendersi, e non era stata approvvigionata, si trovò subito stretta dalla fame, cui tenne dietro la pestilenza. Fu forza quindi venire a patti; ma egli si dimostrava così duro, che gli abitanti, spinti dalla disperazione, minacciavano di uscire in massa fuori delle mura per combattere. — Più fitto è il fieno, così avrebbe risposto il barbaro, meglio si falcia. — E invece di scendere a più miti consigli, alzava sempre più le sue pretese. — Ma che cosa ci lascerai tu allora? — dissero i Romani. Ed egli: — La vita! — Le notizie però che noi abbiamo di questi tempi sono così incerte, e sempre così esagerate in un senso o nell'altro, che poca fede [73] si può prestare alla verità intera di simili aneddoti, tanto più che, se Alarico era un barbaro rozzo e feroce, non voleva essere tenuto un nemico, e molto meno un distruttore dell'Impero. Ma egli aveva bisogno di vivere coi suoi, che erano con le armi in mano, stretti dalla fame. Bisognò quindi rassegnarsi a pagare un tributo di cinquemila libbre d'oro e trentamila d'argento, oltre una quantità di vesti di seta e di droghe. E per raccogliere questa somma voluta dai barbari, i Romani dovettero fondere le statue delle antiche divinità, e gli ornamenti dei tempii pagani. Il che fu non solo una grande umiliazione; ma a molti pareva anche di sinistro augurio, perchè i Pagani non erano allora scomparsi affatto, e fra i Cristiani stessi non mancavano di quelli che speravano tuttavia qualche aiuto da quegli idoli, che sembravano avere così lungamente protetto Roma.

Un gran turbamento invase gli animi nel vedere l'antica capitale del mondo ridotta ad una umiliazione creduta fino allora impossibile, e che pur doveva essere superata da altre ancora più crudeli. Si vuole che ora appunto venisse uccisa l'infelice Serena, accusata, perchè vedova di Stilicone, di benevolenza verso Alarico. Si pretese, che dell'atto inumano e crudele fosse stata istigatrice Galla Placidia, la figlia di Teodosio, celebre per la sua maravigliosa bellezza. Ma essa aveva allora diciotto anni o poco più, e se è facile credere che la sorella d'Onorio dovesse essere avversa a Stilicone ed ai suoi, non è ugualmente facile persuadersi, che in sì giovane età potesse avere l'animo così perverso, ed anche l'autorità necessaria per riuscire a muovere essa il popolo alla vendetta.

Anche in questo momento Alarico era lontano dal voler abusare della forza. Cercava invece di venire ad un accordo, rinunziando a molte delle sue antiche pretese. Non chiedeva più d'esser Magister utriusque [74] militiae; gli bastava d'avere per sè e per i suoi la provincia del Norico, invece delle più vaste e fertili terre domandate in passato. Ma Onorio che, per la morte di Arcadio, sperava si potesse ristabilire l'armonia, se non l'unione dell'Oriente coll'Occidente, ed aspettava gli aiuti che aveva chiesti a Teodosio II, respinse ogni idea d'accordo. Nè bastò a muoverlo il vedere, che molte e molte migliaia di schiavi fuggitivi e di barbari sbandati dell'esercito imperiale, che alcuni fanno in tutto ascendere a quarantamila, andassero liberamente saccheggiando il paese.

Alarico allora impazientito, vedendo di non poterne cavar nulla, circondò Roma per la seconda volta, e tentando di mettersi d'accordo coi Pagani, che ivi si trovavano, e cogli Ariani, gli uni e gli altri irritati per gli ultimi editti contro di essi emanati da Onorio, proclamò nuovo imperatore Attalo, un greco allora Prefetto della Città (409). Sperava d'averlo docile strumento della propria volontà, e indurlo a sanzionare, con qualche forma legale, le sue pretese. Ma invece pareva che nessuno riuscisse a prenderlo sul serio. Lo stesso Onorio, che dapprima se n'era impensierito, e pensava a mettersi in salvo, avuto ora da Costantinopoli l'aiuto d'alcune migliaia di soldati, riprese animo, sentendosi sicuro di potersi con essi difendere in Ravenna. E quello che è più, neppure Alarico riusciva a mettersi d'accordo con Attalo, al quale, come greco, ripugnava d'abbandonare Roma e l'Impero in mano ai barbari, mentre che poi non sapeva prendere nessuna propria iniziativa. E la fame intanto era a Roma giunta a tale, che la moltitudine gli gridava furibonda: Pone praetium carni humanae. Quasi volessero dire: dobbiamo noi dunque mangiarci addirittura fra di noi? Così Alarico, persuaso che non c'era da cavar nulla neppure da lui, finì col deporlo, strappandogli le insegne [75] imperiali, che rimandò ad Onorio, col quale tentò di nuovo, ma sempre invano, d'intendersi. Si decise allora al passo più audace della sua vita, e che doveva avere un seguito funesto, una grande importanza nella storia del mondo.

Il giorno 24 agosto 410, sia per tradimento, sia per strattagemma di guerra, Alarico, senza incontrare resistenza, entrò col suo esercito per la Porta Salara nella città di Roma. Era un fatto nuovo, da otto secoli non mai avvenuto, nè creduto possibile. La maraviglia fu perciò così grande, che tutti restarono come sbalorditi, e lo stesso re visigoto sembrava esserne così sgomento, che dopo tre soli giorni s'affrettò a ripartire. Certo un esercito di barbari, venuti in sostanza come conquistatori, non potè restare in Roma senza molte violenze e saccheggi. Ma tutto quello che noi sappiamo di sicuro c'induce a credere che le violenze furono assai minori di quel che poteva supporsi, e che s'andò più tardi dicendo. Il palazzo di Sallustio, presso la Porta Salara, fu subito bruciato, ma d'altri incendi non si parla determinatamente, sebbene possa supporsi che ne siano avvenuti. E tutti gli aneddoti tramandatici dagli storici o dalla leggenda tendono solo a provare il grande rispetto che Alarico dimostrò ai Cristiani, alle loro chiese, sopra tutto alle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo, e al diritto di asilo. Infatti coloro che si rifugiarono nei luoghi sacri furono salvi. Ma anche fuori delle chiese i Cristiani, quelli sopra tutto che eran dati a vita religiosa, o che avevano la custodia di sacri oggetti, furono dai Goti rispettati, tali essendo gli ordini severissimi del loro capo. Orosio, S. Agostino, S. Girolamo parlano di questo sacco di Roma con orrore; ma vi riconoscono una giusta punizione di Dio contro gl'increduli, che ancora non s'erano convertiti e speravano aiuto dagl'idoli pagani. Per essi Alarico non è che uno strumento nella mano [76] di Dio, il suo ingresso in Roma è destinato ad accelerare il trionfo del Cristianesimo; e riconoscono che i danni furono assai minori di quanto poteva supporsi, e di quanto si disse da molti.

Onorio intanto se ne stava chiuso in Ravenna, dove si trovava anche il Papa, invano andato colà, per tentare un qualche accordo fra Alarico ed il sempre titubante Imperatore. Si narra, a provare sempre più la indifferenza ed indolenza d'Onorio, che, quando gli fu recata la desolante notizia, Roma è perita, egli credette che si trattasse d'un suo gallo prediletto, cui aveva dato il nome appunto di Roma; ed esclamò: «Ma come mai è ciò possibile, se poco fa gli ho dato da mangiare colle mie proprie mani?» Questo aneddoto però lo abbiamo da Procopio, che scrisse centocinquanta anni più tardi, e che quando s'allontana dai suoi tempi, non è più un autore molto credibile.

Certo è invece che, dopo tre giorni di dimora in Roma, Alarico mosse per l'Italia meridionale, e s'avanzò saccheggiando sino a Reggio di Calabria. Colà si apparecchiava ad imbarcarsi, per andare non si sa ben dove. Secondo alcuni voleva recarsi in Sicilia, secondo altri in Africa, che era il granaio dell'Impero, cui sperava così d'imporre condizioni d'un accordo tollerabile. Ma ad un tratto andò tutto a monte. Le navi, su cui doveva traversare lo stretto, naufragarono; ed egli stesso, improvvisamente ammalatosi, morì (410). I suoi, secondo si narra, deviarono il letto del fiume Busento e, dopo averlo colà seppellito, fecero riprendere alle acque il corso primitivo, per nascondere così a tutti la tomba del loro valoroso duce.

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