CAPITOLO X

Massimo Imperatore — I Vandali saccheggiano Roma — Ricimero, Oreste ed Augustolo

Nel marzo 455 venne eletto imperatore Petronio Massimo, senatore romano, che era già stato Console e Prefetto: un uomo di circa sessant'anni, ritenuto avverso alla dinastia di Teodosio, e però a molti assai poco gradito. Questo malumore venne aggravato dal fatto che egli accolse subito fra i suoi protetti i due uccisori di Valentiniano, il che fece nascere il sospetto che avesse tenuto mano all'assassinio, di cui ora profittava. S'aggiunse che volle per forza sposare la giovane Eudossia, la quale aveva soli trentaquattro anni; era figlia di Teodosio II, vedova di Valentiniano III, ed avversissima ad unirsi con un vecchio, creduto assassino del proprio marito. Tutto ciò fece al solito nascere la leggenda che, per vendetta, ella avesse invitato a venire in Italia i Vandali, i quali allora presero e saccheggiarono Roma. Ma questa notizia, che è data da Procopio, è ignota affatto ai contemporanei, o è ricordata da qualcuno di essi con un semplice si dice. Il tempo che sarebbe corso fra la chiamata e la venuta dei Vandali è troppo breve, per potere dar fede alla leggenda. Il dubbio è poi confermato anche dal fatto, che Eudossia non fu risparmiata, ma venne menata in Africa, prigioniera colle due sue figlie. In ogni modo neppure qui v'è bisogno di artificiose spiegazioni, [114] giacchè l'invito d'avanzarsi veniva ai Vandali, che già più volte avevano fatto scorrerie sulle coste dell'Italia meridionale, dallo stato d'anarchia in cui si trovava adesso Roma, priva d'ogni mezzo di difesa, incapace affatto di qualunque resistenza. I Vandali, uniti ai Mori d'Africa, coi quali avevano ingrossato il loro esercito, erano divenuti una specie di pirati, che mettevano terrore nel Mediterraneo; e le loro selvagge crudeltà venivano esagerate dalla leggenda. Si raccontava, fra le altre cose, che quando non potevano subito prendere una città, facevano strage nel contado, accumulando i cadaveri sotto le mura di essa, perchè vi scoppiasse la peste, che obbligava poi la popolazione ad arrendersi; come se in questo caso non sarebbero stati essi i primi a soffrirne. Certo è che distruggevano le chiese, trucidavano o pigliavano prigionieri i prelati, i vescovi: spesso anche li menavano schiavi. La parola vandalismo è perciò rimasta nel linguaggio comune.

Per tutte queste ragioni, quando si seppe che i Vandali erano alle bocche del Tevere, vi fu a Roma come un timor panico, non avendo l'imperatore Massimo provveduto a nulla addirittura per la difesa delle mura. Egli non seppe far altro che dichiarare di lasciar libero chiunque volesse abbandonare la Città, apparecchiandosi egli stesso alla fuga. Ma di fronte a questa condotta vigliacca lo sdegno del popolo romano fu così grande, che ne scoppiò un tumulto violentissimo. L'Imperatore venne ucciso, ed il suo cadavere, fatto a brani, con grida feroci d'imprecazione fu portato in giro per le vie, e poi gettato nel Tevere. Intanto la Città restava senza Imperatore, senza governo e senza difesa, contro un barbaro nemico, che rapidamente s'avanzava. Il disordine e l'anarchia furono al colmo. V'erano amici della dinastia teodosiana, che maledicevano l'elezione di Massimo; pagani, [115] che si rivolgevano agli antichi Dei; cattolici, che di ciò restavano inorriditi, e prevedevano la vicina vendetta di Dio; barbari soldati in armi, i quali, essendo ariani, invece d'apparecchiarsi alla difesa, stavano a guardare che cosa stessero per fare i Vandali, ariani anch'essi.

In mezzo a questo spaventoso disordine, una sola voce si alzò ferma, dignitosa, sublime, e fu anche questa volta quella di Leone I. In uno de' suoi più celebri discorsi, fatto nel giorno di S. Pietro e S. Paolo, egli esclamava: «Umilia il dirlo, ma non si può tacere, che si ricorre adesso più ai demoni ed agl'idoli, che agli Apostoli, e più attenzione si presta ai nuovi spettacoli che ai beati martiri. Ma chi difende, chi salva questa Città, i giuochi del circo o la fede nei Santi? Tornate al Signore, intendendo le cose mirabili che Esso ha operato per noi, riconoscendo la nostra libertà non già, secondo l'opinione degli empi, dalla influenza degli astri, ma dalla misericordia dell'onnipotente Iddio, che s'è degnato di mitigare il cuore dei furenti barbari.» Questo discorso, che secondo alcuni (Papencordt) si riferisce appunto alla venuta dei Vandali, e secondo altri (Baronio e Milman) alla invasione degli Unni, ci descrive in ogni modo qual'era in Roma, nella metà del secolo quinto, lo stato degli animi, e quale la condotta del Papa. Anche questa volta Leone I fu il solo che osò uscire dalla Città per affrontare i barbari; ma con Genserico non potè ottenere lo stesso resultato che aveva avuto con Attila. I Vandali, insieme coi Mori anche più selvaggi, erano già vicini alla Città eterna, assetati di preda e di sangue. Fu tuttavia promesso che le chiese cristiane non sarebbero state bruciate, che sarebbe stata risparmiata la vita di coloro che non avessero fatto resistenza.

Pochi giorni dopo la morte di Massimo, i Vandali entrarono [116] in Roma (giugno 455), aiutati, a quanto pare, dal tradimento d'un barbaro ariano, che avrebbe insegnato loro la via più facile. Per quattordici giorni la Città andò a sacco; e tutto ciò che avevano di prezioso il palazzo imperiale e i tempii pagani fu messo sulle navi e portato via: oro, argento, pietre preziose, un gran numero di statue greche e romane. Lo stesso si fece nella Campania. Furono imbarcati anche i sacri e venerati arredi, che dal tempio di Gerusalemme erano stati portati in trionfo a Roma, e che si vedono ancora oggi scolpiti sull'Arco di Tito. Sebbene questo fatto sia stato messo in dubbio, esso trova conferma nel racconto di Procopio, il quale narrò più tardi, che Belisario li tolse in Africa ai Vandali, e li portò a Costantinopoli. Certamente si può credere che la rovina generale di Roma per opera dei Vandali, quale alcuni la descrivono, sia esagerata, come è provato dal fatto che, dopo la loro partenza, la Città si trovava tuttavia piena di chiese e di monumenti splendidi. Ma è certo pure, che dai tempi di Brenno in poi, essa non aveva sopportato mai uguale sventura e vergogna. Insieme colle statue, coi metalli e colle pietre preziose, i Vandali portaron via moltissimi prigionieri, la più parte dei quali ridussero in ischiavitù. E fra questi prigionieri v'erano, oltre un gran numero di religiosi, anche l'ex-imperatrice Eudossia con le due figlie Eudocia e Placidia. La prima di esse venne poi da Genserico data in isposa al suo figlio Unnerico, che così mescolava il sangue vandalico con l'imperiale; la seconda invece fu con la madre tenuta sette anni in onorevole prigionia, per essere finalmente rimandate entrambe in Costantinopoli all'imperatore Leone, che da lungo tempo le richiedeva. Tutti gli altri prigionieri vennero divisi come schiavi fra i barbari conquistatori, separati i genitori dai figli, i mariti dalle mogli. Grandi furono le loro sofferenze, alleviate [117] solo dalla carità veramente eroica del vescovo Deogratias in Cartagine. Egli trasformò le chiese in ospedali per i prigionieri ammalati; vendette gli arredi sacri d'oro o argento, i vasi preziosi, per comprare e liberare gli schiavi, riunire i figli ai genitori, i mariti alle mogli. La sua chiesa divenne l'infermeria generale, nella quale egli, vecchio com'era, assisteva giorno e notte i malati, fino a che ne morì di fatica e di stento. I suoi fedeli lo seppellirono allora devotamente in luogo segreto, per metterlo al sicuro dalle violenze ingiuriose dei barbari. E così, in mezzo alla spaventosa rovina del mondo romano, solo i rappresentanti della religione e della Chiesa sapevano dar prova di umana dignità e di eroica grandezza. Certo è che col sacco dato dai Vandali, l'antica Roma è caduta, la nuova già comincia a sorgere, facendo prova d'una grandezza diversa, ma non meno ammirabile. La gloria del Campidoglio più non esiste, comincia quella del Vaticano.

Lo sgomento in cui rimase l'Italia, dopo la partenza dei Vandali, fu tale, che per alcuni mesi essa non pensò punto ad eleggersi un nuovo Imperatore. Se ne occupò invece il re dei Visigoti, Teodorico II, il quale, secondato dall'aristocrazia gallo-romana, radunata in Arles, e dall'esercito romano, fece eleggere Avito, che nel luglio del 455 assunse la porpora. Questi era un nobile dell'Auvergne, valoroso soldato di Ezio, che per mezzo suo era riuscito a concludere l'alleanza dei Visigoti coi Romani contro Attila. Ma la sua elezione, come quella che rappresentava la prevalenza della provincia e dei barbari, piacque poco a Roma ed al Senato, sebbene venisse approvata a Costantinopoli.

Il pericolo maggiore per tutto l'Occidente, veniva adesso dai Vandali; e perciò contro di essi Avito mandò il valoroso generale Ricimero, figlio di padre svevo e [118] di madre gota, il quale era loro acerrimo nemico, e si mosse subito a combatterli. Nel 456 ottenne contro di essi una clamorosa vittoria, secondo alcuni nelle acque della Sardegna, secondo altri, della Corsica; ma in verità par che si combattesse presso l'una e presso l'altra isola. Questa vittoria fece di Ricimero un uomo più potente dello stesso Imperatore.

Egli si trovò a un tratto nella condizione medesima di Stilicone e di Ezio. Se non che, fatto accorto dalla esperienza del passato, pensò di non lasciarsi, come era seguito ad essi, disfare dagl'imperatori; ma invece disfarsi egli di loro appena che li vedeva divenire a lui pericolosi. E così, l'un dopo l'altro, ne mandò via dal mondo quattro, sostituendoli con sue creature, alle quali serbava sempre la stessa sorte. E fu questo il processo della finale distruzione dell'Impero d'Occidente, che, per mezzo appunto di Ricimero, passò definitivamente in mano dei barbari. Ciò avvenne non solo perchè un generale barbarico come lui faceva e disfaceva a sua posta gl'imperatori, ma ancora perchè, lasciando egli correre più mesi tra la morte dell'uno e l'elezione dell'altro, l'Occidente restava qualche tempo senza un proprio sovrano. E questi lunghi interregni finirono col persuadere, che si poteva facilmente fare a meno di un Imperatore, sostituendovi un barbaro, ciò che avvenne poi con Odoacre, che assunse il potere in suo proprio nome.

Primo a subire il duro destino che Ricimero serbava ai suoi eletti, fu Avito. Quando egli s'avvide che a Roma non trovava favore, che il barbaro faceva da padrone, si sentì come mancare il terreno sotto i piedi, e pensò d'andarsene nella Gallia, dove era stato eletto, per raccogliere colà un esercito e tornare con esso in Italia, sperando così di potersi meglio raffermare sul trono. Ma questo suo intendimento accrebbe invece le antipatie dei Romani, ai [119] quali non poteva certamente piacere il vederlo andare a cercare aiuto nella provincia, diffidando della capitale. E nell'ottobre del 456 Ricimero potè arrestarlo a Piacenza, costringendolo poi a prendere la tonsura ed a farsi vescovo. Il potere imperiale si trovò allora nelle sue mani, fino a che egli non si decise a far eleggere un successore.

Uno stato di cose affatto simile si riproduceva quasi contemporaneamente in Costantinopoli, per arrivare però ad opposti resultati. Dopo la morte di Marciano, si poteva dire anche in Oriente estinta ogni traccia della dinastia di Teodosio. Il potere effettivo cadde del pari nelle mani d'un generale barbarico, Aspar, il quale era ariano e comandava i soldati goti. Ciò nonostante, egli fece eleggere imperatore Leone I, valoroso soldato della Dacia, ortodosso, che fu acclamato dall'esercito il 7 febbraio 457. Questi assunse la porpora e fu consacrato dal patriarca di Costantinopoli, consacrazione che era un fatto assolutamente nuovo. Si volle forse con essa supplire alla mancanza d'ogni titolo ereditario. Non parendo che bastasse la sola acclamazione dell'esercito, si dette alla Chiesa un'autorità che essa non aveva mai avuta in passato, e della quale seppe meravigliosamente profittare nell'avvenire. Se ne avvantaggiò intanto il nuovo Imperatore, che ben presto dimostrò di essere un uomo atto più a disfare gli altri che a lasciarsi disfare.

Vedendo che l'Italia dal 456 ai primi mesi del 457 era rimasta senza imperatore, egli propose che s'eleggesse Giulio Valerio Maioriano. Questi era stato un altro valoroso soldato di Ezio, era amico di Ricimero; e dopo aver con onore combattuto i Vandali, l'aveva aiutato a deporre Avito, ricevendone in compenso la nomina di Magister militum. La proposta della sua elezione fu subito accolta con favore, non tanto da Ricimero, che in sostanza [120] pareva più che altro piegarsi per prudenza alla volontà di Leone I, quanto dai Romani e dal Senato, i quali, dopo un imperatore straniero come Avito, ne vedevano assai volentieri uno che tenevano dei loro. E così il 1º di aprile, presso Ravenna, Maioriano prese la porpora, e subito dopo scrisse al Senato una lettera nella quale, con un linguaggio degno degli antichi tempi di Roma, assicurava che la giustizia, la virtù, la lealtà avrebbero sotto di lui trionfato. E fece quanto potè per mantenere la promessa. Cercò di sollevar le province dalle troppo gravi tasse, sopra tutto dagli arbitrii del fisco, che le rendeva ancora più incomportabili; e tutte le sue leggi furono ispirate da questi nobili sentimenti. Egli sapeva d'essere stato messo sul trono con uno scopo più militare, che politico; appoggiandosi quindi al Senato ed ai Romani, cominciò col tenere a freno le province, sopra tutto i Visigoti, verso i quali die' prova di grande energia in una spedizione che fece nella Gallia.

Il pericolo dominante erano però sempre i Vandali. A combatterli, nell'interesse dell'Occidente e dell'Oriente, egli s'apparecchiò per tre anni continui, cercando di mettere insieme un poderoso esercito, che venne ingrossato ancora cogli aiuti mandati da Costantinopoli. Apparecchiò una flotta di 300 navi, essendo suo intendimento andare nella Spagna, e di là passare poi in Africa. Ma le difficoltà furono assai maggiori che non pensava. Ricimero sembrava starsene a guardare senza aiutarlo; i Visigoti nella Spagna gli si mostravano avversi. Genserico, sempre minaccioso e forte, devastò la costa africana, perchè il nemico non vi trovasse vettovaglie, ed avvelenò anche l'acqua dei pozzi. Ma quello che è più, riuscì a forza d'astuzie e di tradimenti ad impadronirsi d'una parte della flotta di Maioriano, ed a distruggerne il resto. Se questi fosse riuscito nella sua impresa contro i Vandali, [121] sarebbe certo divenuto potentissimo, ed avrebbe annullato la forza e l'autorità di Ricimero. Ma successe invece il contrario: fu vinto, e dovette ritirarsi umiliato. Traversando la Gallia, venne poco a poco abbandonato dai suoi alleati; e giunto al di qua delle Alpi, colla propria guardia, fu il 2 agosto del 461, a Tortona, affrontato, disfatto ed ucciso dai soldati di Ricimero, che di nuovo restò solo padrone in Italia.

Nel novembre egli fece eleggere Libio Severo, che stette quattro anni sul trono; ma di lui non si sa nulla, giacchè par che Ricimero continuasse a farla da padrone. Genserico intanto, il quale non aveva mai dimenticato la rotta che da questo aveva avuta nel '56, cercava ora di rendergli avverso Leone I, con la speranza, dopo averli prima o poi separati del tutto, di riuscire a far eleggere in Occidente un imperatore di suo gradimento. A tal fine aveva già mandato a Costantinopoli Eudossia con la figlia. Ma Ricimero sapeva anche giocare d'astuzia; e quando dopo la morte di Severo (novembre 465) l'Italia era restata diciotto mesi senza imperatore, e Leone I mostrò desiderio che venisse eletto Procopio Antemio, egli, pigliando la palla al balzo, lo fece subito eleggere (467), e poco dopo ne sposò la figlia. Così l'Oriente e l'Occidente si trovarono invece nuovamente alleati, e si cominciarono insieme grandi apparecchi di guerra, per farla una volta finita coi Vandali. Si narra che a Costantinopoli raccogliessero 130,000 libbre d'oro e mille navi, che partirono con 100 mila uomini nella primavera del 468. A questa impresa però, con tanta cura apparecchiata, nocque assai l'attitudine ostile dei due generali barbari, onnipotenti l'uno a Roma, l'altro a Costantinopoli. Essi temevano che la vittoria aumentasse, a loro grave danno, l'autorità dei due Imperatori. E quindi Ricimero colla sua opposizione fece sì che Maioriano mandasse poca gente [122] all'impresa, alla quale Aspar metteva dal suo lato più ostacoli che poteva. Fu lui che appoggiò l'infelice idea d'affidare la direzione della guerra a Basilisco, affatto incapace, ma fratello della imperatrice Verina che lo aveva proposto. E così, nonostante il numero preponderante ed il valore grandissimo dimostrato dai soldati romani, l'impresa andò a male, per gl'inesplicabili errori commessi dai generali, sopra tutto da Basilisco. La pubblica fama accusò di tradimento Aspar e più ancora Ricimero, il quale in un momento decisivo avrebbe, così almeno si diceva, impedito che andassero in Africa i rinforzi, necessari ad assicurare il resultato dell'impresa.

Le conseguenze di questa guerra furono molte e gravi. L'orgoglio dei Vandali ne crebbe a dismisura, l'Oriente ne sentì il danno finanziario per moltissimi anni; ma quello che è più, le relazioni tra Leone I ed Aspar s'inasprirono per modo da rendere inevitabile un'aperta rottura. Aspar andava da un pezzo divenendo sempre più insolente. S'era fatto promettere, che uno de' suoi figli sarebbe stato assunto dall'Imperatore a compagno nel governo, e più volte richiese con modi poco rispettosi l'adempimento della promessa. Queste sue pretese destavano nella popolazione vivissimo scontento anche perchè egli era ariano. S'abbandonò poi a una vita dissoluta, e nell'ultima guerra aveva, come vedemmo, per sua colpa messo a gravissimo pericolo l'Impero. A tutto questo s'aggiungeva che egli non aveva nè l'audace energia, nè il valore di Ricimero; che Leone I non era uomo da rassegnarsi a rimanere strumento passivo nelle mani d'un suo generale; e i barbari non potevano mai sperare d'acquistare in Oriente la forza che avevano in Occidente. Consapevole di tutto ciò, l'Imperatore aumentò nel suo esercito il numero degl'Isaurici, montanari indipendenti e valorosi del Tauro. Con essi cominciò subito a porre un argine alla prepotenza [123] dei Goti e degli altri soldati germanici; e quando nel 471 gli parve giunto il momento opportuno, per mezzo di questi suoi nuovi soldati, e di Tarasicodissa loro capo, che poi gli successe nell'Impero col nome di Zenone, fece uccidere Aspar. Ordinò anche l'uccisione dei tre figli di lui; ma uno si trovava lontano, un altro si riebbe dalle ferite avute, e quindi ne morì uno solo. Per questi fatti a Leone I fu dato il titolo di Macellus. Egli s'era però liberato da un padrone incomodo e minaccioso, liberando l'Impero dalla prepotenza dei Goti e dei loro compagni.

In Italia le cose finirono assai diversamente. Ogni giorno cresceva la discordia fra Ricimero e l'imperatore Antemio, che pubblicamente si doleva d'aver dovuto dare sua figlia in isposa ad un barbaro ancora vestito di pelli. Anche qui un conflitto era quindi divenuto inevitabile; se non che la forza e l'accortezza del generale barbarico erano assai preponderanti. Ricimero trovavasi a Milano, alla testa d'un esercito, col quale nel 472 mosse addirittura all'assedio di Roma, dove era Antemio, che aveva sempre il favore d'una parte della popolazione. Nell'esercito assediante si trovava Olibrio, un romano, che Ricimero voleva far salire sul trono dopo d'aver deposto Antemio. E così si vide un generale dell'Impero assumere la parte d'Alarico, assediando la Città eterna, dentro la quale era l'Imperatore stesso. L'assedio durò alcuni mesi, e finalmente Ricimero entrò in Roma, che s'arrese, parte per fame, parte per tradimento. Antemio fu ucciso l'11 luglio 472; poco dopo lo stesso Ricimero morì di emorragia (18 agosto), e ben presto lo seguì nella tomba Olibrio (28 ottobre). Così ebbe fine il lungo, confuso e penoso dramma di Ricimero, che lasciò tuttavia dietro di sè un breve strascico di avvenimenti non molto diversi da quelli finora narrati.

Egli era stato per sedici anni il padrone dell'Italia, [124] che per opera sua venne in piena balìa dei barbari. In ciò sta anzi il suo vero carattere storico. Egli fu il precursore di Odoacre e di Teodorico, che sono ora per sorgere sulla scena: quasi anello di congiunzione fra di essi e i generali Stilicone ed Ezio. Durante la sua vita l'Italia si assuefece a vedere il potere effettivo esercitato da un barbaro, spesso anche senza pur l'ombra di un Imperatore, che questo potere esercitasse almeno di nome. E non solo essa venne allora in piena balìa dei barbari, ma si andò sempre più staccando dall'Africa, dalla Spagna, dalla Gallia, per costituire una nuova unità politica. I vari elementi che costituivano ancora l'Impero, l'esercito, cioè, il governo di Costantinopoli e quello di Ravenna, finirono col venire fra di loro a conflitto, chiudendo un'epoca, iniziandone un'altra.

Pareva che a Ricimero, nella stessa singolare condizione, collo stesso potere, dovesse succedere il nipote Gundobaldo, un soldato burgundo, venuto in Italia per far fortuna coll'aiuto dello zio. Dopo aver lasciato per cinque mesi vacante il trono d'Occidente, egli fece nominare imperatore Glicerio, che era Comes domesticorum, e fu proclamato a Ravenna il 5 marzo 473. Ma ora appunto scoppiò il dissenso con Costantinopoli, dove essendo vicino a morte Leone I, sua moglie Verina, sempre inframmettente, fece nominare imperatore d'Occidente Giulio Nepote, suo parente, che però rimase in Oriente fin verso la metà del 474. Giunto in Italia, esso venne acclamato il 24 giugno di quell'anno, e vediamo scomparire dalla scena Gundobaldo, che pare andasse a prendere il posto di suo padre, re dei Burgundi, allora morto. Glicerio scomparve anch'esso, senza che si sappia nè come, nè perchè. Certo è solo che fu costretto a lasciarsi consacrare vescovo in Dalmazia, e che non molto dopo morì.

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Del governo di Giulio Nepote, che pur rappresenta la fine di un periodo storico, sappiamo assai poco. Imposto da Costantinopoli per opera del partito che aveva colà vinto i barbari, non piaceva punto all'esercito, che in Italia era barbarico ed aveva eletto Glicerio. Il fatto più notevole del suo regno fu la pace conclusa coi Visigoti della Gallia. Con essa, per salvare l'Italia dalla guerra, egli concedeva a quei barbari ariani l'Auvergne, che dopo essersi validamente difesa, voleva rimanere unita all'Impero. E ciò gli fece perdere la stima dei Romani, senza fargli riguadagnare quella dei barbari, che già aveva perduta. Così lo scontento andò sempre crescendo, e finalmente scoppiò una nuova ribellione, della quale, come per forza naturale dalle cose, si trovò a capo il generale Oreste. Questi non ebbe nessuna difficoltà, ora che l'Impero d'Oriente era in gravissimi disordini, a vincere Nepote, che, assalito a Ravenna, si rifugiò nell'agosto del 475 a Salona. Colà si trovava probabilmente ancora vivo Glicerio, che da lui era stato vinto e costretto a divenir vescovo in quella stessa città della Dalmazia.

Oreste è l'ultimo di quei generali, che per molti anni fecero e disfecero gl'Imperatori, tenendo nelle loro mani il potere, fino a che non lo lasciarono addirittura ai soli barbari. E questo definitivo mutamento fu compiuto appunto per mezzo suo. Nato nell'Illirico, egli era d'origine romana, e tale era anche sua moglie. Aveva però dimorato lungamente presso Attila, che lo aveva, come vedemmo, mandato ambasciatore a Costantinopoli. S'andò così immedesimando sempre più coi barbari; ed è questa forse la ragione per la quale, riuscito come i suoi predecessori barbarici ad impadronirsi del potere, non osò neppur lui assumere la porpora. Osò invece attuare quello che era stato il disegno invano vagheggiato lungamente da Stilicone e da Ezio. Fece cioè eleggere imperatore [126] suo figlio, il quale non era vissuto coi barbari, da parte di madre era più romano di lui: portava il nome di Romolo Augusto, che per la sua giovane età, venne mutato in quello alquanto dispregiativo di Romolo Augustolo. E così, come per ironia della sorte, colui che fu l'ultimo imperatore d'Occidente, portava il nome del primo re e del primo imperatore di Roma.

Sembrerebbe che Oreste, alla testa dell'esercito, col figlio ancora minorenne dichiarato imperatore, avesse dovuto sentirsi in una posizione incrollabile, tanto più che ora appunto Genserico, divenuto vecchio, s'era indotto a concludere con Ravenna e con Costantinopoli una pace, per la quale, durante due generazioni, l'Occidente e l'Oriente furono lasciati tranquilli dai Vandali. Ma invece il germe della debolezza era nascosto appunto là dove pareva che dovesse essere l'origine della forza. Le qualità di romano e di barbaro non si potevano facilmente immedesimare; una delle due doveva soccombere. In Stilicone noi vedemmo il barbaro soccombere al romano; in Oreste, pei tempi mutati, avvenne il contrario. L'esercito, alla testa del quale egli si trovava, era composto di molti e vari elementi: Turcilingi, Sciri, Eruli, che tutti poco differivano dai Goti. Questi barbari erano andati da principio aumentando, mediante una continua infiltrazione; ed ora che essi formavano addirittura l'esercito imperiale in Italia, volevano prendervi stabile dimora, assicurandosi nella pace e nella guerra la propria sussistenza, come era seguito in altre province occidentali dell'Impero. Chiesero perciò il terzo delle terre. Ma qui appunto nacque il conflitto, che doveva portar la rovina d'Oreste. La concessione delle terre voleva dire la permanente dimora dei barbari nell'Italia, lasciata in loro balìa. A questo passo Oreste, che era e si sentiva di origine romana, non potè decidersi, anzi deliberatamente [127] si oppose. Ne nacque allora una ribellione dei soldati che lo abbandonarono, levando sugli scudi Odoacre (23 agosto 476), un barbaro dell'esercito di Ricimero, con cui aveva assediato Roma. Egli promise di dare ai soldati quello che avevano chiesto, e che era stato loro negato. Oreste dovette fuggirsene a Pavia, dove fu inseguito dal suo rivale, e donde potè a mala pena scampare. La città venne messa a sacco con una strage che durò due giorni interi, e cessò solamente quando giunse la notizia che il 28 agosto 476 Oreste era stato preso ed ucciso a Piacenza. Questa tragedia somiglia molto a quella di Stilicone, nel 408 avvenuta nella stessa città. Allora però il grido era stato: morte al barbaro; ora invece era: morte al romano.

Odoacre corse a Ravenna, dove trovò il misero Augustolo, ultimo avanzo della imperiale romanità. Non lo uccise, ma lo confinò nella villa Lucullana a Pizzofalcone, presso l'antica Napoli, con una pensione di 6000 solidi. Colà questi visse tranquillo, non si sa bene quanto tempo, e si adoperò, come vedremo, ad agevolare il trionfo di Odoacre. Dopo poco tempo morì Genserico, ed anche questo contribuì molto a rendere più sicura la condizione di Odoacre, col quale si chiude l'antichità e s'inizia finalmente il Medio Evo. L'Impero d'Occidente è caduto, la storia d'Italia incomincia.

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