CAPITOLO IX

Attila e gli Unni — La battaglia di Châlons — Il generale Ezio — Papa Leone I

Il problema che si presentava adesso nella storia di Europa, osserva il Ranke, era questo: i popoli latini e germanici, variamente sparsi e mescolati fra di loro, potevano amalgamarsi, fondersi insieme, dando origine ad un popolo solo, ad una civiltà nuova? O pure uno di essi doveva necessariamente sottomettere l'altro, levandogli del tutto la propria fisonomia? Un grande ed inaspettato avvenimento contribuì non poco ad avvicinarli di fronte ad un comune nemico.

Gli Unni, di stirpe, come vedemmo, affatto diversa dai popoli latini e germanici, erano rimasti per mezzo secolo nell'antica Dacia, al di là del Danubio. Fra di essi e l'Impero si trovavano le popolazioni germaniche, che da loro erano state spinte verso l'occidente. Più tardi Alarico era coi suoi Visigoti entrato per la Porta Salara; i Vandali, gli Svevi, gli Alani avevano passato il Reno. Tuttavia le relazioni degli Unni coll'Impero durarono lungamente abbastanza amichevoli, avendogli essi più di una volta reso utili servigi, col mandare in suo aiuto soldati, i quali combatterono accanto alle legioni. Questo contribuì ad insegnar loro una parte della disciplina romana, al che si aggiunse che, avendo Attila adoperato nell'amministrazione anche qualche Greco e qualche Romano, potè renderla più ordinata. Certo è che il suo regno s'era andato estendendo con una straordinaria rapidità, aggregandosi nuovi popoli, i quali restavano sotto i propri [96] capi, che dipendevano da lui, divenendogli subito obbedienti e devoti. Un tale processo d'ingrandimento pareva che si potesse continuare all'infinito sino a che durava l'autorità del comandante supremo. E intanto, secondo l'espressione del Thierry, la valle del Danubio somigliava ad un immenso formicaio di popoli, rovesciato a un tratto. Essi facevano da ogni lato, specialmente nell'Impero, escursioni minacciose, tanto che Teodosio II ricorse all'uso, sempre frequente in Costantinopoli, di pagare ad Attila un tributo, perchè insieme coi suoi restasse tranquillo. Ma ciò dava invece pretesto a nuove minacce, perchè i barbari solevano chieder sempre che il tributo venisse aumentato, e non ottenendolo, tornavano ai saccheggi.

Nel 445 Attila, dopo la morte del fratello Bleda, che forse da lui stesso era stato fatto uccidere, si trovò solo alla testa degli Unni. Per le sue selvagge crudeltà, egli è nella storia conosciuto col nome di Flagellum Dei. Basso di statura, di testa grossa, naso schiacciato, occhi piccoli, aveva il colore olivastro dei Tartari, agitava lo sguardo feroce a destra ed a sinistra: v'era nel suo incesso qualche cosa che gli dava veramente l'aspetto d'un dominatore di popoli. Non si può dire però che fosse un genio militare, perchè, oltre alle sue molte scorrerie, saccheggi e stragi, una sola grande battaglia esso dette, e la perdè. Non mancò a momenti d'una certa generosità, e quasi grandezza d'animo, per quanto ciò era possibile in un barbaro come lui. Ma pur singolare assai dovette essere la sua potenza di comandare e di organizzare, essendo riuscito ad aumentare di molto i popoli che lo seguivano, fra i quali erano Gepidi, Alani, Ostrogoti, Svevi. E si formò così uno dei più vasti regni conosciuti nella storia. Secondo gli scrittori contemporanei infatti, il dominio di Attila s'estendeva dalla Scandinavia alla Persia, [97] e minacciando Persepoli, confinava da una parte colla China, da un'altra coll'Impero. In sostanza però questa era più che altro una vasta agglomerazione di popoli indipendenti, sotto di lui confederati, e che a lui obbedivano, quando sapeva secondarli nelle loro voglie di guerra e di rapina, dalle quali egli stesso cavava profitto. Il potere effettivo e diretto lo esercitava nella Transilvania e nell'Ungheria. Dovendo però contentare e tenere occupate tutte queste genti irrequiete e feroci, egli fu per diciannove anni, dal 434 al 453, come una spada di Damocle sull'Impero d'oriente e su quello d'occidente, i quali perciò si trovarono finalmente uniti contro il comune nemico.

Ambasciatori andavano ed ambasciatori venivano da Costantinopoli e da Ravenna alla Corte di Attila, e viceversa. Invano si cercava di frenare le pretese sempre crescenti di quel barbaro, che si tirava dietro così sterminata moltitudine di popoli. Sin dal 433 due oratori erano stati mandati da Teodosio alla Corte degli Unni, sui quali regnavano allora i due fratelli. Si presentarono ad Attila, che li ricevette a cavallo, e neppur essi scesero di sella. Il resultato dell'ambasceria fu, che bisognò rassegnarsi a raddoppiare il tributo, che l'Impero d'oriente pagava. Ma non bastava; e non molto dopo Attila richiedeva minacciosamente gli arredi sacri d'una città da lui presa, sebbene fossero stati già impegnati per grossa somma di danaro. Il più singolare pretesto di guerra fu però un altro. Onoria, sorella di Valentiniano III, era stata nella sua età di sedici anni scoperta in intrigo amoroso con un basso ufficiale della Corte di Ravenna, e fu per punizione mandata dalla madre a Costantinopoli. Ivi il Palazzo pareva divenuto un convento, e Teodosio II passava la vita raccogliendo reliquie di santi, miniando manoscritti religiosi. Egli [98] era sempre dominato dalla sorella Pulcheria, che nel 421 gli aveva fatto sposare Atenaide, figlia d'un filosofo greco, battezzata col nome di Eudocia. Tutti della Corte passavano colà la vita in orazioni, salmi, visite ai poveri, processioni; e però, quando Onoria vi giunse, si sentì come chiusa in una carcere. Si narra che per disperazione ricorresse allora allo strano partito di mandare il proprio anello ad Attila, perchè venisse a liberarla, accogliendola fra le molte sue mogli. Attila avrebbe dapprima fatto della singolare proposta il conto che si meritava. Ma più tardi, quando voleva attaccar lite con l'Impero, se ne valse di pretesto per chiedere non solo la mano d'Onoria, ma anche l'eredità cui essa aveva, secondo lui, diritto. Nel 447 s'era avanzato fin sotto le mura di Costantinopoli, obbligando colle minacce Teodosio a triplicare il sussidio o tributo come lo chiamava. Ogni anno con nuove ambascerie aggiungeva domande a domande, pretese a pretese.

Fra queste ambascerie, ve ne fu una notevole fra tutte, perchè ne abbiamo assai minuta e autentica descrizione da chi ne fece parte. Nel 448 arrivarono a Costantinopoli Edecone, che alcuni credettero padre di Odoacre, il primo re barbaro in Italia, ed Oreste, padre di quel Romolo Augustolo, che fu l'ultimo degl'Imperatori d'occidente. Essi fecero varie domande, fra cui la restituzione d'alcuni Unni fuggitivi. E mentre che di ciò si trattava, un eunuco della Corte, promettendo danaro a Vigila, che era l'interpetre di quegli ambasciatori, fece, per mezzo suo, la proposta di far uccidere Attila. Edecone finse d'accettarla con animo però di rivelar poi tutto al suo Signore. E intanto, perchè meglio rimanesse nascosta la tenebrosa trama, si faceva, insieme cogli ambasciatori d'Attila, partir Massimino ed il retore Prisco, quello che ci descrisse il viaggio, lasciandoli [99] ambedue affatto ignari della tenebrosa trama ordita accanto a loro. E ciò perchè, ingannati, potessero inconsapevolmente ingannar meglio Attila. Menavano con loro diciassette fuggitivi Unni che dovevano restituire. Con essi, con Edecone, Oreste e Vigila traversarono paesi disertati dalle ripetute scorrerie degli Unni, trovando il suolo sparso di ossa e di teschi umani, e città quasi distrutte, nelle quali erano rimasti solo pochi vecchi e malati abbandonati. Passato il Danubio, arrivarono alla tenda di Attila, che tornava allora da una razzìa. Questi accolse i donativi; ma, sdegnato nel veder soli diciassette fuggitivi, rimandò indietro l'interpetre a chiedere gli altri, e invitò i due inviati di Costantinopoli a seguirlo più oltre nel paese, là dove era il suo palazzo, e dove avrebbe dato loro risposta.

Così Massimino e Prisco s'avanzarono nell'Ungheria, traversando i fiumi sopra alberi scavati o tavole connesse, e giunsero alla capitale unna. Colà videro Attila che arrivava a cavallo, preceduto da fanciulle, le quali cantavano canti nazionali; e passarono tutti sotto veli tenuti distesi da altre giovanette. Il re si fermò a cavallo dinanzi alla porta del suo primo ministro, la cui moglie uscì ad offrirgli cibo e vino, mentre altri tenevano una tavola d'argento accanto a lui. Il palazzo di Attila era come una grossa capanna costruita con tavole di legno, non senza qualche eleganza. Intorno ad essa si vedevano sparse le abitazioni delle sue varie mogli. Un solo edifizio di pietra si trovava colà, ed era un bagno costruito da un Romano. Ma ciò che v'ha di più notevole in questo singolarissimo viaggio, è il dialogo di Prisco con un Greco, che era a servizio degli Unni, dei quali aveva adottato il costume e gli abiti. — Qui, egli diceva, esaltando i barbari, quando non c'è guerra, si gode una piena libertà. Ma voi state male nella guerra [100] e peggio nella pace. Chiamate gli stranieri a difendere l'Impero, perchè i vostri tiranni non vi lasciano libero neppure l'uso delle armi, e siete oppressi dal fisco, dalle spie, dalla grande disuguaglianza: i ricchi sfuggono alle pene ed alle tasse, che s'aggravano invece sul povero. Tutto dovete pagare, perfino chi difende i vostri diritti. — Al che Prisco rispondeva: — Ciò dipende dalla divisione del lavoro, e dal concedere a ciascuno la dovuta mercede. Noi non possiamo, al pari di voi, ammazzare gli schiavi, ma cerchiamo invece come padri correggerli. Le vostre pretese libertà si restringono nel poter tutti andare alla guerra, senza disciplina. Abbiamo leggi a difesa di ogni giusto diritto. È sacra per noi anche la volontà dei morti, che possono per testamento lasciare a chi vogliono i loro averi. — Ah! sì, esclamò piangendo il Greco, le leggi son buone, la legislazione romana eccellente; ma chi le esegue, chi le rispetta? I vostri governanti, non più degni dei loro antenati, spingono lo Stato alla rovina. —

Dopo aver visto Attila rendere sommaria giustizia dinanzi al suo palazzo, i due inviati s'incontrarono cogli ambasciatori d'Occidente, dai quali sentiron dire che esso si teneva padrone del mondo, voleva comandare a tutto l'Impero, e si reputava invincibile, credendo possedere la spada di Marte. Un contadino l'aveva scoperta, confitta in terra, fra l'erba, andando dietro le tracce di sangue d'una sua bestia, che vi s'era ferito il piede nel camminare. Finalmente assisterono ad un gran banchetto nella sala del palazzo reale. Attila sedeva sopra una specie di canapè, dietro cui erano scalini, che conducevano ad un letto nascosto da cortine. Accanto a lui sedeva silenzioso il suo primogenito, alla loro destra ed alla sinistra erano il primo ministro Onégesh, ed un nobile Unno. «Così neppur [101] questi posti furon serbati a noi», osservava Prisco. Di fronte erano i figli del re; intorno alla sala, lungo le mura di legno, stavano i convitati, ai quali fu portato in giro del vino, e poi servito il cibo su piccoli deschi, ciascuno per tre o quattro persone: su di essi erano piatti d'argento e coppe d'oro. Attila invece, con grande semplicità, mangiava solo carne su piatti di legno, e di legno erano anche le coppe. Nè l'elsa della sua spada, che dietro di lui pendeva, nè la briglia del suo cavallo, nè i fermagli dei suoi stivali erano, secondo il costume barbarico, ornati di pietre preziose. Verso sera si cantarono, fra un generale entusiasmo, canzoni in lode delle imprese di lui. E poi vennero buffoni, fra cui un Moro, nano e gobbo, coi piedi torti, che fece ridere tutti, meno Attila, il quale ne pareva piuttosto disgustato. Sebbene egli si dimostrasse assai irritato, per aver saputo della trama contro di lui ordita, pure gli oratori, che sinceramente negarono tutto, dopo lunghe trattative, obbligandosi a pagar nuove somme di danaro, par che riuscissero finalmente a concludere un accordo temporaneo.

Nel 450 però lo stato delle cose mutò affatto. Teodosio moriva per una caduta da cavallo, senza lasciar figli maschi. La moglie Eudossia era da più tempo in esilio per accusa d'infedeltà. Successe la sorella di lui Pulcheria con Marciano, soldato valoroso, avanzato in età, cui pel bene dello Stato ella dette nome di marito, a condizione di non avere nessun contatto con lui. Ed egli cominciò a governare, condannando a morte l'eunuco Crisafio, che aveva ordito la trama segreta contro la vita di Attila. Ciò fece credere che il nuovo Imperatore volesse rendersi benevolo il re degli Unni. Ben tosto però si vide che egli non era della tempra mite di Teodosio II, perchè quando Attila, con le solite minacce, richiese il pagamento del tributo, rispose subito: «Agli [102] amici i doni, ai nemici il ferro.» Così la guerra si poteva ritenere ormai inevitabile.

Attila si trovava allora nell'auge della sua potenza, alla testa d'un formidabile esercito, che alcuni fanno ascendere a 500, altri a 700 mila uomini. Tutto era pronto per mettersi in moto; bisognava solo decidere se attaccar l'Oriente o l'Occidente. Ad attaccar l'Oriente, che era più vicino, sarebbe stato necessario traversare un paese già più volte saccheggiato, per trovarsi poi sotto le mura di Costantinopoli, posizione fortificata, che avrebbe presentato una formidabile resistenza, specialmente ora che Marciano era deciso a difendersi. Inoltre un esercito barbarico come quello di Attila, composto di genti assai diverse, se non vinceva nel primo impeto, facilmente poteva disciogliersi. Nell'Occidente invece, sebbene più lontano, tutto pareva che promettesse una facile vittoria agli Unni. L'unico generale che vi fosse, era Ezio, valoroso di certo, ma stato sempre in buoni termini con Attila, e più volte da lui aiutato. La Gallia era occupata quasi tutta da barbari fra loro in discordia. Una parte dei Franchi già incitava gli Unni a passare il Reno. Il forte regno dei Visigoti era alleato dei Vandali, che promettevano di secondare l'impresa di Attila con uno sbarco nella Gallia meridionale. Pretesti di guerra a lui non mancavano mai. Chiese allora appunto non solo la mano d'Onoria, che gli aveva mandato il proprio anello, ma anche la parte d'Impero che le sarebbe, secondo lui, spettata in dote. E quando gli fu risposto, che essa era già moglie d'un altro, disse che lo avevano fatto per non darla a lui, e ordinò ai suoi di avanzare.

Se non che, lo stato delle cose in Occidente era in [103] realtà ben diverso da quel che pareva, e che Attila credeva. Prima di tutto Teodorico re dei Visigoti, uomo di molto valore, non che essere avverso ai Romani, inclinava non poco ad essi. Egli, è ben vero, aveva data la propria figlia in isposa al figlio di Genserico, e così s'era legato con vincolo di sangue ai Vandali, nemici acerrimi del nome romano. Ma Genserico, credendo o fingendo di credere, che la figlia di Teodorico lo volesse avvelenare, l'aveva rimandata al padre, mutilata del naso e delle orecchie. Così l'alleanza s'era mutata in nimicizia mortale, che richiedeva una delle sanguinose vendette barbariche. Il generale Ezio era stato amico degli Unni, ma si trovava in una posizione simile a quella di Stilicone; anzi, se questi era stato un barbaro romanizzato, egli era invece un Romano lungamente vissuto coi barbari. Non si poteva quindi supporre che, quando l'Impero si fosse trovato in guerra cogli Unni, Ezio potesse esitare, e non sentire scorrere nelle sue vene il sangue romano. Ma v'era di più. Gli Unni, essendo di sangue e di razza diversa affatto da quella dei Germani non meno che dei Romani; essendo nomadi, pagani e poligami, la loro vittoria sarebbe stata un trionfo della barbarie orientale, delle popolazioni turaniche e tartare sulle ariane. Sarebbe stato come se i Persiani avessero vinto a Salamina, o i Turchi a Lepanto. La storia del mondo avrebbe potuto non poco mutare il suo cammino. In ciò stava la grande importanza storica della prossima lotta. Tutto dipendeva ora dal sapere se i Visigoti erano di ciò consapevoli, e se nell'interesse comune di razza e di civiltà, si sarebbero uniti ai Romani. Ezio, per mezzo del suo amico Avito, cittadino autorevolissimo dell'Impero, seppe indurli a stringere l'alleanza. Lo scontro decisivo s'avvicinava a gran passi.

Nel 451 Attila, passato il Reno, s'avanzava saccheggiando [104] il paese, trucidando gli abitanti, che sembravano incapaci di resistenza, salvo in alcune poche città, nelle quali lo spirito religioso s'accendeva contro la pagana barbarie. Dopo infatti che Metz e Rheims furono desolate, santa Genoveffa riuscì ad animare la popolazione, assai scarsa allora, di Parigi, che restò, come per miracolo, incolume. Orléans, resa più tardi assai celebre dalla difesa di Giovanna d'Arco, fece anche allora viva resistenza, per eccitamento del suo vescovo, il quale, quando la vide d'ogni parte circondata, andò ad avvertire Ezio, che non era possibile tener testa all'onda sterminata dei nemici oltre il 24 giugno. E già la città era agli estremi, quando apparvero gli eserciti riuniti di Teodorico e di Ezio, che obbligarono Attila a retrocedere, per apparecchiarsi alla battaglia, la quale non molto dopo ebbe luogo, fra Châlons sur Marne e Troyes. Anche questa seconda città, che era aperta e poteva facilmente essere saccheggiata, fu salva per opera del suo vescovo Lupo, il quale seppe in modo singolare, quasi misterioso, imporre rispetto ad Attila.

Questi, secondo il suo costume, prima di cominciar la grande battaglia, fece consultar le viscere degli animali, e la risposta degli auguri fu, che gli Unni avrebbero perduto, ma che il generale nemico sarebbe morto. Ciò lo impensierì non poco; pure i due eserciti s'attaccarono finalmente (451). Gl'Imperiali si schierarono, ponendo al centro gli Alani, di cui non parevan molto sicuri. A destra erano i Romani, comandati da Ezio; a sinistra i Visigoti, comandati da Teodorico. Invece Attila stette al centro coi suoi Unni; a destra e sinistra pose i popoli a lui confederati: i Gepidi e gli Ostrogoti erano di fronte ai Visigoti. Questa battaglia, notevolissima per la sua storica importanza, fu anche una delle più terribili che si ricordi. Bellum, dice Jordanes, atrox, multiplex, immane, pertinax, cui simile [105] nullum narrat antiquitas. Ed aggiunge che il sangue versato fu tale e tanto, che mutò in grosso e rosso torrente un vicino ruscello, liquore concitatus insolito, torrens factus est cruoris augmento: e in esso dovevano dissetarsi i feriti! I Visigoti si batterono con molto valore, ma Teodorico perde la vita sul campo. Attila fece coi suoi sforzi sovrumani, e pareva un leone ferito. Ma ben presto cominciò a dubitare del resultato finale, tanto che aveva fatto apparecchiare un monte di selle, per farsi su di esse bruciar vivo, se la fortuna gli fosse stata veramente avversa. Jordanes afferma che in quel giorno morirono 162,000 combattenti, senza tener conto di 15,000 caduti in uno scontro precedente. Idazio fa arrivare i morti a 300,000. Ciò dimostra la parte non piccola, che in tutte queste notizie ebbe la fantasia, allora e per molto tempo di poi. Una leggenda posteriore illustrata dalla poesia e dalla pittura, aggiunge che, nella notte seguita alla battaglia, si videro in cielo le anime dei morti affrontarsi, e cominciar di nuovo a combatter fieramente fra di loro. Certo è che, sebbene l'esito della battaglia non fosse stato veramente decisivo, pure Attila si ritirò. E così, essendo morto Teodorico, si potè affermare che la profezia fatta dagli auguri si era avverata. Il merito principale del felice resultato fu certo di Ezio, che, oltre all'essersi mostrato soldato assai coraggioso e di gran valore strategico, era riuscito ad assicurare all'Impero l'alleanza dei Visigoti. Ma pareva fatale che il suo destino dovesse sempre somigliare a quello di Stilicone. Infatti, non avendo egli inseguito Attila, subito si disse che tradiva, che non voleva la totale distruzione dei nemico, per non lasciar divenire ancora più potenti i Visigoti, i quali avevano, secondo lui, già troppo contribuito alla vittoria. La verità è invece, che i Visigoti proclamarono sul campo stesso di battaglia il successore [106] di Teodorico nella persona di Torismondo, che dovè subito ritirarsi nel suo regno, per rafforzare la propria posizione già assai incerta e combattuta. Così non era facile allora misurarsi nuovamente con Attila, il quale dapprima, non vedendo che lo inseguivano, temette di qualche agguato; ma poi, fattosi animo, ripassò il Reno, e si ritirò nella Pannonia, per riordinare i suoi ed apparecchiarsi a nuove imprese.

Pareva che egli meditasse ora d'andare a Roma, giacchè s'avanzò subito verso l'Italia, e nel 452 era già sotto le mura d'Aquileia, dove trovò una così tenace resistenza, che stava per levare, scoraggiato, l'assedio. Narra però la leggenda, che in quel momento appunto vide alcune cicogne le quali, volando coi figli, abbandonavano la città; il che gli fece capire che dentro le mura non c'era più cibo per nessuno. Sospese quindi l'ordine di ritirata, e poco dopo la città si arrese a lui, che la distrusse a segno tale da lasciarne appena le vestigia. Altino, Concordia, Padova sopportarono la stessa sorte; altre terre si salvarono dalla distruzione, aprendo le porte e sottomettendosi, senza resistenza, al saccheggio.

Questi sono i fatti che fecero in Italia dare ad Attila il nome di Flagellum Dei, e spinsero i profughi d'Aquileia e delle vicine città a riparare nella laguna veneta, dove fu così fondata la città di Venezia, unica al mondo per la sua storia, la sua posizione e la sua incantevole bellezza. Molti fiumi, come l'Adige, la Brenta, la Piave, il Tagliamento, il Po ed altri, a breve distanza, l'uno dall'altro, sboccando nel mare Adriatico, e quasi tutti, eccettuato il Po, scendendo rapidamente dai monti vicini, portano sassi che, secondo la grossezza ed il peso, si arrestano più o meno lontano dalla riva. Così si formarono prima la Laguna, e poi il Lido, che costituisce dalla parte del mare come un forte antemurale, superato il quale, può navigare [107] nella Laguna solamente chi ne è assai pratico. Tutto questo costituisce come una grande fortezza naturale, a sicura guardia delle isole che vi sono sparse. Su di esse i profughi italiani, per salvarsi dalle orde finniche degli Unni, fondarono la città che, come osserva l'Hodgkin, doveva più tardi eroicamente difendere l'Europa contro i Turchi.

Nulla pareva che potesse ora fermare l'avanzarsi di Attila verso Roma. Se non che il suo numeroso esercito, che tutto distruggeva, facendo intorno a sè il deserto, cominciava a soffrire la fame, e ad essere decimato dalle malattie. Ezio, è vero, non s'era anche mosso, di che molti lo accusavano; poteva però da un momento all'altro apparire. L'imperatore Marciano non solo prometteva di mandare aiuti da Costantinopoli, ma pareva accennare a volere esso stesso direttamente attaccare le terre degli Unni. Tutto ciò poneva naturalmente non poca incertezza nell'animo di Attila. Pagano, barbaro e feroce, egli era anche superstizioso. Il nome stesso dell'Impero metteva a lui, come a molti dei barbari, una specie di spaventoso terrore, e la fine di Alarico gli era sempre presente. La religione cristiana, a cui egli non credeva, ma che pure, pel numero grande de' suoi credenti e per la sua propria natura, esercitava su tutti una straordinaria azione, anche a lui ispirava un'istintiva, misteriosa, irresistibile reverenza. A coloro che in nome di essa autorevolmente gli parlavano, pareva che non sapesse più che cosa rispondere: restava confuso. E fu quando era in queste disposizioni d'animo, che gli venne annunziata una solenne ambasceria, arrivata da Roma, e della quale facevano parte l'ex-console Avieno, l'ex-prefetto Trigezio. La guidava lo stesso capo venerabile della cristiana religione, il successore di Pietro, il rappresentante di Dio sulla terra, Leone I, il vescovo di Roma, l'uomo forse più grande in quel secolo.

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Nato da genitori romani, egli univa al suo spirito altamente cristiano l'antico spirito di Roma. Da questa unione nasceva e si determinava in lui per la prima volta chiaramente il concetto della chiesa universale cristiana, quale possiamo leggerlo anche oggi formulato ne' suoi discorsi. «S. Pietro e S. Paolo sono, egli diceva, i Romolo e Remo della nuova Roma, tanto superiore all'antica, quanto la verità è superiore all'errore. Se Roma antica fu alla testa del mondo pagano, S. Pietro, il principe degli apostoli, venne ad insegnar nella nuova Roma, perchè da essa si diffonda sulla terra la luce del Cristianesimo.» Questo concetto ricorre continuamente nei suoi discorsi semplici, chiari, precisi, pieni di senno pratico. Essi non hanno nulla della passionata sottigliezza teologica dei Greci, anzi non si occupano di teologia. Parlano assai poco dei santi e della Vergine, molto invece di Gesù Cristo; raccomandano la carità, condannano l'usura. E quando le questioni teologiche si presentavano inevitabili, egli non disputava, ma, con uno sguardo sempre sicuro, vedeva quale, fra le opposte dottrine, era destinata a trionfare nell'interesse della fede e della Chiesa, e la proclamava senza esitare. Non fu solo una grande intelligenza, ma sopra tutto un grande carattere. Mirabile è l'energia, la fermezza incrollabile di volontà, con la quale, in mezzo alla tumultuosa, disordinata agitazione di quel secolo, sostenne l'unità e l'autorità della Chiesa di Roma, fondata da S. Pietro, che solo ebbe da Dio la facoltà di legare e di sciogliere, e solo poteva trasmetterla ai suoi successori. Intorno ad essa vuole raccogliere tutto il mondo cristiano. «L'autorità regia e la ecclesiastica debbono, egli diceva, procedere d'accordo. La prima è data all'Impero per reggere i popoli e difendere la Chiesa, alla quale è affidato il governo delle anime. [109] Esulta, o Roma, festeggia i natali di S. Pietro e S. Paolo, pei quali da maestra d'errore sei fatta discepola di verità, e messa alla testa del mondo, per tenere con l'opera della religione più alta ancora la tua dignità.» E questi pensieri non solo riempiono i suoi discorsi, i suoi scritti, ma animarono tutta quanta la sua vita, formarono, costituirono il suo carattere; lo misero al di sopra di tutti i suoi contemporanei. Leone I lavorò continuamente per sottomettere all'autorità del Papa, come capo della Chiesa romana i vescovi non solo dell'Occidente, ma quelli anche della Chiesa d'Oriente. È ben vero che, fin da quando il Concilio di Sardica (344) sottopose alla decisione di Roma la questione sorta in Oriente per la deposizione di Atanasio, i Papi cercaron sempre di fondare su questo caso speciale un diritto generale a favore dell'autorità superiore della Chiesa romana. Ma Leone I dedicò la vita intera a far riconoscere, a porre in atto questo principio, ed in parte vi riuscì, avendo investito in nome di S. Pietro un vescovo della Macedonia; il che voleva dire estendere la sua autorità ecclesiastica in tutta la Prefettura dell'Illirico, anche in quella parte di essa che apparteneva all'Oriente. Così apparecchiò l'avvenire, entrando per la via che doveva essere costantemente percorsa dai suoi successori, fino al raggiungimento dello scopo prefisso, di fare cioè di Roma la capitale della Chiesa universale. Ed è singolare davvero l'osservare come tutta la storia posteriore del Papato si trovi già quasi in germe nella mente superiore e nella volontà incrollabile di questo grande vescovo, e che da esso si vada lentamente svolgendo attraverso i secoli.

Era questi appunto l'uomo, il quale, animato da quella fede inconcussa che nulla teme, si presentò ad Attila, alla testa dell'ambasceria venuta da Roma, come il vero rappresentante della Città eterna, la personificazione vivente [110] della Chiesa universale, e della sola vera religione, con la ferma persuasione che tutti ad essa, volenti o nolenti, dovevano obbedire. L'incontro ebbe luogo nella state del 452, presso Peschiera. Nessuno sa che cosa il Papa veramente dicesse ad Attila. Certo è che, dopo il colloquio, con generale maraviglia, questi si ritirò. Qual parte abbiano avuto a promuovere una tale risoluzione le parole e l'autorità del Papa, quale invece v'abbiano avuto lo stato generale delle cose, e le condizioni difficili in cui l'esercito unno si trovava allora, non è possibile dirlo.

La leggenda s'impadronì del fatto, dando tutto il merito a Leone I. Alludendo a lui ed al vescovo Lupo, che gl'impedì di saccheggiare Troyes, Attila avrebbe detto: Io so vincere gli uomini; ma un leone ed un lupo hanno saputo conquistare il conquistatore. Un'altra di queste leggende fu resa immortale dal pennello di Raffaello, il quale ci rappresentò nelle sale vaticane Attila spaventato al vedere dietro del Papa, che tranquillamente s'avanza a cavallo e gli fa segno di retrocedere, S. Pietro e S. Paolo librati in aria, colle spade sguainate e fiammeggianti. Ma quello che rese ancora più singolare, circondandola di maggiore mistero, la ritirata di Attila, fu il fatto che, avendo poco dopo sposato una nuova moglie, finito appena il lauto banchetto nuziale, venne soffocato da una emorragia. Quella stessa notte l'imperatore Marciano disse d'aver visto in sogno l'arco di Attila spezzato. Gli Unni deposero nelle pianure d'Ungheria, sotto una tenda, il corpo del loro eroe, tagliandosi il viso col ferro, perchè vi scorresse sangue invece di lacrime. E intorno alla tenda correva rapidissima una squadra di cavalieri, cantando canzoni nazionali, le quali celebravano le doti dell'estinto, e deploravano che fosse morto, non per mano nemica, non in mezzo ai pericoli di guerra, ma fra i piaceri e la gioia; e quindi non v'era [111] contro chi vendicarlo. Per gl'Italiani Attila restò sempre il Flagellum Dei, e tale ce lo rappresentano le loro leggende. Quelle degli Ungheresi, degli Scandinavi e anche dei Teutonici ne esaltano invece le gesta. Dopo la improvvisa sua morte, il vastissimo regno si decompose e scomparve colla stessa rapidità con cui s'era formato.

Se l'ambasceria di papa Leone è il primo fatto che ci renda visibile la enorme potenza morale che andava assumendo il Papato, la battaglia contro gli Unni, che fu chiamata di Châlons, quantunque avvenuta assai lungi da questa città, fu a giusta ragione considerata come l'ultimo fatto eroico dell'Impero di Roma. La vittoria essendo stata attribuita al generale Ezio, questi fu tenuto come il salvatore dell'Impero, sebbene non si fosse poi fatto vivo quando gli Unni s'avanzarono in Italia. Certo esso era un gran capitano, di valore strategico singolare, di straordinaria forza muscolare: era perciò instancabile nel lavoro, che pareva gli aumentasse energia, come si legge nel suo panegirico. Ma la grande fortuna che ebbe e gli eminenti servigi che rese all'Impero, ne aumentarono l'ambizione a segno tale, che voleva farla addirittura da padrone, e si rese quindi sempre più insopportabile a Valentiniano III, il quale era senza figli maschi, e gli aveva promesso in isposa la propria figlia. Ma ora che non aveva più la paura degli Unni, divenuto orgoglioso e intollerante, mandava in lungo l'adempimento della fatta promessa, per la quale Ezio insisteva con tale alterigia, che l'Imperatore meditò di liberarsene, come Onorio s'era liberato di Stilicone. Verso la fine del 454 lo invitò [112] al suo palazzo in Roma, e quando egli tornò ad insistere sul promesso matrimonio, Valentiniano gli saltò addosso ferendolo colle proprie mani, ed aiutato subito da sicari ivi apprestati, lo finirono. Procopio racconta che, avendo l'Imperatore chiesto ad un Romano, se credeva che avesse fatto bene o male a disfarsi di Ezio, gli fu risposto: — Se bene o male non saprei; certo è però che con la sinistra voi avete tagliato la vostra destra. — E così fu veramente.

L'anno seguente Valentiniano venne ucciso nel Campo Marzio, mentre guardava i giuochi atletici, da due soldati, i quali vollero vendicare il loro generale, ed uccisero poi anche l'eunuco Eraclio, che aveva ordito il tradimento, facendo la parte stessa di Olimpio contro Stilicone. Con Valentiniano si estinse affatto la dinastia di Teodosio, la quale aveva governato settantaquattro anni in Oriente (379-453), e sessantuno in Occidente (394-455). Cominciava così per l'Impero un'epoca nuova, la quale si può dir veramente il principio della fine. Già la rapida decomposizione cui esso andava incontro appariva sempre più chiara nello straordinario potere politico, che erano andate assumendo le donne da un lato, i generali dall'altro. Dopo la morte d'Arcadio aveva di fatto governato Pulcheria, la quale ridusse la Corte ad un convento, e prese poi a compagno Marciano, che era un capitano valoroso. In Occidente aveva lungamente governato Placidia, e sotto di lei erano divenuti potentissimi Bonifazio ed Ezio, il quale ultimo, rimasto solo, divenne onnipotente fino a che non fu levato di mezzo a tradimento. Colla estinzione della casa di Teodosio quei generali simili a capitani di ventura divennero sempre più frequenti nell'Impero d'occidente, e ne affrettarono la precipitosa rovina. Intanto ora la sede di esso era vacante, ed i Vandali s'avanzavano minacciosi, facendo [113] escursioni continue nella Sicilia, nella Corsica, nella Calabria e più oltre ancora, senza che qualcuno fosse in grado di opporvisi.

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