CAPITOLO X

Morte di Giustiniano e di Belisario — Nuove difficoltà in cui si trova l'Impero — Narsete, richiamato a Costantinopoli, non obbedisce

Questo era il momento in cui i Franchi potevano avanzarsi dalla Gallia in Italia; ma il loro re Teudebaldo non era uomo da imprese ardite. Consentì solo che due fratelli alamanni, i quali erano grandi del suo regno, s'avventurassero, per proprio conto, a passare le Alpi con un esercito di 75,000 uomini. Se vincevano, l'Italia avrebbe fatto parte del suo regno; se perdevano, egli avrebbe respinto da sè ogni responsabilità. I due fratelli s'avanzarono baldanzosi, perchè speravano di potere in ogni caso saccheggiare il paese, e portare a casa la preda; ma dovettero ben presto avvedersi che l'Italia era esausta, che si poteva finire di rovinarla, non però più sperare di farvi ricca preda. Anzi era divenuto in essa assai difficile trovar da vivere per un esercito che non avesse ricevuto aiuto di fuori.

Comunque sia di ciò, Narsete aveva ora contro di sè gli avanzi dei Goti, i quali erano chiusi nelle città fortificate, e l'esercito franco-alamanno, che non era piccolo, e se la fortuna lo secondava o la guerra andava in lungo, poteva avere rinforzi da casa sua. Egli lasciò quindi che si continuasse il blocco di Cuma, nella quale Aligerno pareva deciso a fare ostinata resistenza, e col [242] grosso de' suoi si recò in Toscana, dove le città occupate dai Goti s'arresero tutte facilmente, salvo Lucca che si difese con energia, sperando soccorso dai Franco-Alamanni, i quali allora appunto s'avanzavano con audacia. Infatti i Bizantini, che Narsete aveva mandati verso Parma, per affrontarli o almeno arrestarli nel loro cammino, furono invece battuti, e dovettero retrocedere verso Faenza, lasciando libera ai Franchi la via di Toscana. Tutto questo portò, come era naturale, un grande sgomento nel campo imperiale presso Lucca, temendosi di potere essere contemporaneamente assaliti alle spalle e di fronte, per qualche sortita fatta dalla città. Narsete però dette prova di tale e tanta fermezza, che non solo rialzò l'animo de' suoi; ma indusse la città ad arrendersi. Anche Aligerno, che si trovava sempre in Cuma, vedendo che era inevitabile arrendersi o all'Impero o ai Franco-Alamanni, che continuavano, come barbari che erano, a saccheggiare, a distruggere tutto quello che incontravano, si decise d'andare in persona a Classe, per presentarsi a Narsete, il quale s'era allora avanzato fino a Ravenna. Colà non solamente il Goto si arrese; ma egli, fratello di Teja, divenne fedele soldato dell'Impero, pel quale d'ora in poi si battè valorosamente (553).

Restavano adesso da vincere solo i Franco-Alamanni, che continuavano rapidamente il loro cammino verso il sud. Narsete riuscì a farne battere due mila da poche centinaia de' suoi, che li assalirono presso Ravenna. Si ritirò poi verso Roma, perchè quei nemici s'avanzavano saccheggiando senza mostrare nessuna voglia di venire a battaglia. Passato l'Appennino, essi si divisero in due schiere, una delle quali comandata da Butelin, che gl'italiani chiamavano Buccellino, si spinse per la Campania e la Lucania nei Bruzi; l'altra, comandata da Leutari, s'avanzò per la Puglia e l'antica Calabria fino ad Otranto. [243] Ma i due fratelli ben presto non andarono più d'accordo. Buccellino voleva continuare l'impresa; Leutari voleva invece ritirarsi verso casa coi prigionieri e la preda già fatta. A Pesaro però questi venne assalito dai Bizantini; perdette i prigionieri, che si dettero alla fuga, e la preda che gli fu tolta. Arrivato nel Veneto, la peste uccise con lui la più parte de' suoi. Non molto diversa fu la sorte di Buccellino. Avanzandosi attraverso un paese già devastato, che Narsete gli faceva trovar sempre più devastato, per privarlo d'ogni vettovaglia, dovè cibare i suoi soldati di sola uva, il che produsse una violenta diarrea, la quale costrinse anch'essi a retrocedere. Arrivato con 30,000 uomini sul Volturno, e saputo che i Bizantini gli venivano incontro con soli 18,000, si fortificò col fiume da un lato, i carriaggi da un altro, pronto a resistere. Narsete a sua volta rinforzò le ali del proprio esercito, con animo di cedere al centro, per ricevere il nemico che s'avanzava in forma di cuneo, e così facilmente circondarlo. La battaglia, in cui prese parte anche Aligerno, fu lunga e sanguinosa. I Franco-Alamanni vennero totalmente distrutti, e il loro capitano Buccellino fu ucciso (554). Scomparsa questa nuova e sanguinosa meteora, Narsete potè ritirarsi colla preda a Roma. Non rimaneva adesso che un sol luogo fortificato, a cinquanta miglia da Napoli, detto Campsa da alcuni, Conza da altri. Ivi si trovavano 7000 Goti, che finalmente s'arresero anch'essi, salva la vita; e furono mandati a Costantinopoli, dove assai probabilmente accettarono di servire l'Impero.

Così ebbe fine la guerra greco-gota, durata venti anni, che ridusse l'Italia all'estrema rovina. Il regno degli Ostrogoti, durato sessantaquattro anni, fu distrutto per sempre, ed essi, come popolo, scomparvero affatto al pari dei Vandali, quasi un esercito di ventura che si fosse disciolto. Alcuni, come vedemmo, passate le Alpi, andarono [244] in Oriente; altri restarono in Italia, combattendo per proprio conto o uniti ai Franchi. Certo è che nei quattordici anni, nei quali Narsete continuò ancora a comandare in Italia, dovè sostenere cogli uni e cogli altri parecchi scontri sanguinosi, dei quali pur troppo non abbiamo nessuna notizia precisa. La distruzione dei due fratelli alamanni e delle loro genti aveva naturalmente irritato molto i Franchi, i quali occupavano sempre alcune terre dell'alta Italia; e questa irritazione cresceva tanto più adesso che s'erano uniti a loro i Goti fuggiaschi, pieni anch'essi d'ira e rancore, assetati di vendetta contro i Bizantini. Nel 555 si trova infatti ricordato che i Franchi vinsero un esercito romano, il quale potè poi pigliar la rivincita, cacciando dall'Italia quei barbari (Muratori, Annali, VIII, 302). Paolo Diacono accenna più tardi ad un altro combattimento, nel quale un generale franco venne ucciso, ed un Conte goto fu preso e mandato prigioniero a Costantinopoli. Altri fatti d'arme sono ricordati nel 563 e nel 565, sempre a vantaggio degl'Imperiali. In sostanza si può affermare che, finita la guerra gotica, vi fu il pericolo, anzi addirittura il principio di un'altra guerra per parte dei Franchi, la quale sarebbe potuta divenire assai pericolosa, se essi non fossero stati appunto allora, come del resto continuamente seguiva, travagliati dalle civili discordie che per qualche tempo resero loro impossibile il passare le Alpi in gran numero. E così vi furon solo grosse scaramucce con quelli che già si trovavano nell'alta Italia, e che dovettero finire coll'abbandonarla, tornandosene a casa.

Narsete allora, alla testa del suo esercito, assunse il governo di tutta la Penisola col titolo di Maestro dei militi e di Patrizio. Egli non ebbe mai (come per errore fu creduto da alcuni) il titolo di Esarca, che in Italia apparisce ufficialmente solo più tardi. La Prammatica Sanzione [245] riconobbe il valore degli editti emanati dai primi re goti fino a quelli di Totila e di Teja, che rimanevano esclusi, perchè questi due sovrani erano tiranni e non re, non essendo mai stati riconosciuti a Costantinopoli. E perciò vennero annullate tutte le disposizioni prese da essi, quelle specialmente a vantaggio del popolo, dei contadini, dei piccoli proprietari, che i Goti avevano cercato di rendersi amici; e furono in loro vece messe in vigore le disposizioni delle leggi romane, quasi sempre favorevoli ai latifondisti. La Prammatica Sanzione inoltre manteneva, teoricamente almeno, il potere militare separato affatto dal civile, pel quale restava in Italia sempre un Prefetto del Pretorio. Ma Narsete era un generale, che alla testa del suo esercito, aveva riconquistato l'Italia, e con esso continuava a governarla, a difenderla. E però, non ostante ogni opposta teoria, i due poteri rimasero di fatto concentrati in lui, che continuò ad essere una specie di dittatore militare. Per la stessa ragione i Duchi che, sotto la sua dipendenza, erano sparsi nelle province, ed i Tribuni, che dipendevano dai Duchi, furono anch'essi ufficiali civili e militari ad un tempo. Tutto ciò portava incertezza e disordine. Sarebbe stato necessario riordinare il paese, dando forza alle leggi, sollevandolo alquanto dalle crudeli calamità così lungamente sopportate. Ed invece bisognava pensare a trovare in Italia danaro, per mantenere un grosso esercito, ora che da Costantinopoli non c'era da sperarne, perchè Giustiniano non ne aveva, e trovavasi sempre più immerso nella teologia. Si continuò quindi a dissanguare le già esauste popolazioni.

E ciò seguiva quando il malcontento era cresciuto anche a causa della questione religiosa. Morto infatti papa Vigilio, tanto malmenato a Costantinopoli, era stato eletto Pelagio, già da molto tempo favorito dall'Imperatore. Egli tergiversò alquanto nella questione dei Tre Capitoli, [246] ma finì poi col condannarli, pur dichiarandosi ossequente al Concilio di Calcedonia. Questa sua condotta provocò subito uno scoppio di sdegno nei vescovi e prelati italiani, massime del nord, alcuni dei quali lo accusarono perfino d'avere procurato la morte del suo predecessore, per potergli succedere. L'irritazione arrivò al colmo quando Narsete, pel quale, secondo il concetto orientale, la Chiesa doveva essere sottoposta all'Impero, fece prendere alcuni vescovi più riottosi, inviandoli a Costantinopoli, perchè colà venissero puniti. Così il disordine civile ed il conflitto religioso aumentavano la confusione. Tutte le opere pubbliche erano abbandonate; le mura cittadine, le case, le chiese, gli acquedotti andavano in rovina: alcune delle città, come ad esempio Milano, erano state nella guerra addirittura distrutte. Il mantenimento delle strade era abbandonato; i fiumi, lasciati senza argini, inondavano le campagne, ed aumentavano la malaria. Finalmente scoppiò la peste, che ammazzava in tre giorni, e desolò sopra tutto l'Italia superiore. Le campagne e le loro case, dice Paolo Diacono, rimanevano deserte; gli armenti vagavano pei campi senza pastore. Le messi abbandonate marcivano; le uve seccavano sui tralci delle viti, già privi di foglie. Ai primi casi del morbo, le città rimanevano spopolate per la fuga degli abitanti. I figli lasciavano insepolti i cadaveri dei genitori, e questi, senza aver viscere di pietà, abbandonavano i figli ammalati. Se qualcuno voleva seppellire le vittime del morbo, era preso dal male, e restava egli insepolto. Non era possibile numerare i morti, perchè gli occhi non bastavano a tanto: visum oculorum superabant cadavera mortuorum (II, 4).

Tale era lo stato delle cose in cui Giustiniano lasciava l'Impero. Non tutti i guai da noi accennati si possono dire conseguenze dirette della sua politica; ma conseguenze [247] più o meno indirette ne erano certamente. Egli era stato senza dubbio guidato da alcuni concetti i quali, se non sempre pratici, erano sempre elevati, ed esercitarono una grande azione nella storia del mondo. Ma se, come abbiam detto più volte, maravigliosa fu davvero la sua abilità nella scelta delle persone, per attuare questi concetti, la sua cattiva amministrazione, le spese eccessive che faceva sempre, i larghi tributi che allora si solevan dare ai barbari, quando non si poteva con essi adoperare il ferro, e le continue guerre esaurirono sempre più le forze d'un Impero in cui l'agricoltura era assai decaduta, e non fiorivano nè l'industria, nè il commercio. Tutto ciò, unito alla corruzione della società imperiale e della Corte, alla cui malefica azione Giustiniano non potè sempre sfuggire, gli resero impossibile il fondar mai nulla di veramente stabile.

In un Impero composto di tante parti e così diverse, circondato da tanti nemici, senza la possibilità di un vero patriottismo nazionale, e per la sua corruzione privo affatto di un'alta guida morale, v'era sempre il pericolo che un qualche generale, potente e fortunato, riuscisse ad insorgere, formando per suo proprio conto uno Stato separato ed indipendente, che qualcuno dei grandi ufficiali della Corte cospirasse a danno degli altri o dello stesso Imperatore, per accrescere il proprio potere. Era quindi una continua lotta degli uni contro gli altri, e se ne vedevano perciò sempre rapidamente salire e rapidamente precipitare, come era seguito allo stesso Belisario, nonostante la sua provata fedeltà, i continui e grandi servigi resi all'Impero. E se a tutto ciò s'aggiunge che negli ultimi anni Giustiniano, divenuto vecchio, trascurava assai il governo dell'Impero, si capirà facilmente a che punto dovessero allora essere giunte le pubbliche calamità. Tuttavia un grande risultato, se non duraturo, [248] temporaneo certamente, egli lo aveva ottenuto. I Persiani erano stati respinti; i Vandali e gli Ostrogoti distrutti; la Romanità aveva avuto una splendida vittoria sul Germanesimo; l'Africa, l'Italia erano state riconquistate. Tutto ciò dimostrava chiaro che, nonostante ogni contraria apparenza, v'era pur sempre nell'Impero una grande vitalità, quella che riuscì infatti a farlo vivere per otto secoli ancora, sebbene fosse continuamente circondato da sempre nuovi pericoli. Prodigiosa veramente dovette essere quella civiltà greco-latina che anche nella sua decadenza potè riunire, assimilare elementi così diversi, ed in mezzo a tanto disordine veder sorgere un grandissimo numero di accorti amministratori, di grandi e gloriosi generali, che seppero con intelligenza e valore difenderlo.

Ma alla morte di Giustiniano si vide subito, che i pericoli da noi qui sopra accennati dovevano crescere non poco. Da una parte minacciava la Persia eterna nemica dell'Impero; da un'altra ripigliavano vigore le popolazioni germaniche, specialmente pel rapido crescere della potenza dei Franchi. Nello stesso tempo gli Slavi s'avanzavano in gran numero verso l'Occidente, e così pure s'avanzavano dall'Asia le popolazioni finniche, mongoliche, tartare, che dovevano portare nel mondo un'altra grande rivoluzione. Sarebbe stato necessario che a Giustiniano succedesse nell'Impero un uomo di uguale o maggiore capacità; ma avvenne, come vedremo, precisamente il contrario. E peggio di tutti si trovava l'Italia. Esausta, disfatta da una lunga guerra, senza speranza di ricevere aiuto da nessuna parte; oppressa da Narsete, che per mancanza di danari vedeva ogni giorno scemare i suoi soldati, essa restava senza difesa efficace in un momento nel quale i barbari ripigliavano forze, e minacciavano d'avanzarsi. La distruzione del regno ostrogoto, [249] il quale si era esteso anche al Norico ed alla Pannonia, lasciava indifesa l'Italia appunto da quel lato di dove le genti barbariche eran sempre passate, e ricominciarono ben presto a passare.

E questo era il momento in cui a Giustiniano succedeva Giustino II, figlio d'una sorella di lui, la quale era nipote di Teodorico. Il nuovo Imperatore dichiarò subito di voler fare grandi economie, il che voleva dire mutar sostanzialmente politica. Egli infatti rinunziò alle grosse guerre, e sospese i sussidi fino allora pagati ai barbari, che si scatenarono perciò nuovamente contro l'Impero, nel quale mancavano ora i danari ed i soldati per difenderlo. Scontentissimo fra tutti era Narsete, il quale si vedeva ridotto all'impotenza nel momento in cui sarebbe stato necessario apparecchiarsi a difendere i confini nuovamente minacciati; nè poteva sperar nulla in Italia. Infatti allora appunto arrivava a Costantinopoli un'ambasceria di nobili romani, venuti per dire all'Imperatore che non era più possibile sopportare il dispotismo di Narsete, il quale aveva ridotto l'Italia a tale che ogni altro governo era divenuto preferibile. Se non si trovava modo di provveder subito, sarebbe stato agl'Italiani necessario gettarsi in braccio ai barbari, che certo li avrebbero trattati meglio. Le cose erano infatti giunte a tale estremità, che vedendo non esser ormai possibile indurre a mutare strada un uomo assai vecchio, usato a far sempre quel che voleva, si dovè finire col richiamarlo nel 567, nominandogli un successore, che ebbe ordine di partir subito.

E qui ha origine una leggenda, che non è ricordata dagli scrittori bizantini, ma si diffuse allora assai largamente in Italia, e fu narrata anche da Paolo Diacono. Secondo questa leggenda Narsete avrebbe ricusato d'obbedire, e l'imperatrice Sofia avrebbe allora esclamato: — Saprò [250] ben io rinchiudere il vecchio eunuco nel gineceo, che è il suo vero posto, costringendolo a filar lana con le donne. — Ed io, così avrebbe risposto Narsete, quando gli furon riferite le ingiuriose parole, saprò filarle una tale matassa, che in tutta quanta la sua vita ella non riuscirà mai a dipanarla. — Aggiungendo poi alle parole i fatti, Narsete avrebbe, per vendetta, chiamato i Longobardi in Italia, inviando, per meglio allettarli, ambasciatori, i quali portaron loro le più belle frutta che il fertile paese produceva. I Longobardi allora, accettando l'invito, si sarebbero mossi, passando le Alpi nel 568. Narsete che, sempre più accecato dallo sdegno, s'era ritirato a Napoli, s'avvide finalmente dell'errore commesso; e quando papa Giovanni III, successo a Pelagio nel 561, lo scongiurò, perchè si movesse a difendere il paese, andò subito a Roma; ma ivi fu sorpreso dalla morte. Il carattere leggendario di questo racconto è troppo evidente perchè vi sia bisogno di dimostrarlo. I Longobardi, come noi abbiam visto più sopra, erano in buon numero già stati in Italia, dove avevano combattuto sotto Narsete, e non avevano quindi bisogno, per conoscerne la fertilità, che egli ne mandasse loro le frutta, le quali poi, massime se spedite da Napoli, si può ben immaginare in quali condizioni sarebbero arrivate. Le ragioni che mossero i Longobardi a passare le Alpi furono ben altre che il dispetto capriccioso d'un uomo, sebbene non sia da escludere affatto, che questo dispetto possa avere contribuito ad agevolar loro la strada, lasciando andar tutto a rovina, senza apparecchiar nessuna difesa.

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