CAPITOLO IX

La disputa dei Tre Capitoli— Ritorno di Narsete in Italia — Disfatta di Totila e di Teja — Fine del regno ostrogoto

La definitiva ritirata di Belisario dagli affari segna la fine, anzi si può dire il fallimento della politica estera di Giustiniano. Da ogni parte infatti i barbari sembravano ora avanzarsi di nuovo. Più di tutti orgogliosi e sicuri del loro avvenire parevano i Franchi; la fortuna di Totila sembrava anch'essa rapidamente risorgere. In Roma v'era una guarnigione di soli 3000 soldati imperiali, poco o punto pagati, privi di tutto, e però scontentissimi, i quali avevano ucciso il generale Conon, che sembrava voler come Bessa, in mezzo alla comune calamità, far guadagno colla vendita del grano. Li comandava ora Diogene, stato già della guardia di Belisario, e che alla testa de' suoi aveva respinto gli ultimi ripetuti assalti di Totila. Questi potè tuttavia occupar Porto, di dove riuscì ad affamare la Città, fino a che alcuni soldati isaurici, stanchi di soffrire senza mai avere le paghe, la tradirono al nemico, aprendo la Porta S. Paolo, per la quale esso entrò, facendo strage della guarnigione. Diogene si salvò con parte de' suoi; altri 400 si chiusero nella tomba d'Adriano, ma dovettero poi anch'essi arrendersi per fame, unendosi ai soldati di Totila (549), che si mostrò generoso verso di loro, giacchè si riteneva omai sicuro di vincere, e cercava perciò di vivere in armonia colla popolazione romana. Diverse città s'andavano infatti ogni giorno arrendendo a lui come [229] fecero Rimini e Taranto, come promettevano di fare, se non venivano presto soccorse dagl'Imperiali, anche Civitavecchia ed Ancona. Egli pensò quindi d'andare verso il sud, prendere le isole, e colla flotta rendersi padrone del mare, per interrompere le comunicazioni degl'Imperiali con Costantinopoli. Passato quindi il Faro, sbarcò in Sicilia, e trovando resistenza a Messina, penetrò nell'interno dell'isola, e ne occupò facilmente la campagna.

Questo sarebbe stato per Giustiniano il momento di provvedere con energia alla guerra, se non voleva addirittura rinunziare all'Italia. Sfortunatamente però egli, già assai vecchio e più o meno invaso sempre da una manìa religiosa, s'era da qualche tempo siffattamente immerso nella teologia, che per essa trascurava i bisogni più urgenti della guerra e dello Stato. Aveva l'ambizione d'essere il sostenitore della vera fede, il restauratore della unità non solo dell'Impero, ma anche della Chiesa. Se non che l'Oriente e l'Occidente non riuscirono mai ad andar pienamente d'accordo sul concetto fondamentale della suprema autorità religiosa. Nelle cose della fede il Papa non poteva ammettere nè superiori, nè uguali, qualunque fossero d'altronde i meriti e i servigi che altri avesse resi alla Chiesa. Giustiniano invece, che faceva derivare la sua autorità politica non dal popolo, dal Senato o dall'esercito, ma direttamente da Dio, sebbene riconoscesse la superiorità del potere spirituale sul temporale, riteneva che l'uno e l'altro dovessero metter capo all'Imperatore. E però voleva, anche nelle cose della fede, stare alla testa della Chiesa, dei sacerdoti e dei credenti. «La nostra principale sollecitudine, così egli scriveva, è rivolta ai veri dogmi di Dio, alla onestà del clero.» Condannava perciò gli eretici e le dottrine eterodosse; non voleva riconoscere valore definitivo ai decreti dei Sinodi e del Papa, ma [230] solo a quelli del Concilio ecumenico, convocato da lui, che ne sanzionava e promulgava le deliberazioni. A tutto ciò Roma non poteva mai consentire.

Animato costantemente da siffatti pensieri, Giustiniano s'era da un pezzo stranamente esaltato per la scoperta che era stata fatta d'alcuni errori o piuttosto inavvertenze in cui era caduto il Concilio di Calcedonia, e voleva avere la gloria di correggerli: a tal fine si chiudeva assai spesso nel suo studio a meditare, a discutere ardentemente con preti e con frati. La questione di cui da qualche tempo s'occupava, è nota sotto il nome dei Tre Capitoli o sia tre punti controversi. Essa era molto oscura, molto intricata, e senza grande valore teologico; ma aveva per lui anche una importanza politica. Ora come sempre l'Imperatore desiderava piena concordia con Roma; ma questa concordia, appena veniva conclusa, suscitava la discordia in Oriente, dove, come in Egitto, numerosissimi e passionati erano i seguaci della dottrina monofisita, fieramente avversata dalla Chiesa romana. La nuova controversia versava sulle dottrine di tre vescovi orientali, nelle quali s'erano scoperte tracce evidenti d'eresia, sebbene il Concilio di Calcedonia non le avesse notate. Pare che Teodoro Ascida, iniziatore di questa disputa, facesse sperare all'Imperatore che, avendo quei tre vescovi aspramente combattuto la dottrina monofisita, il condannarli gli avrebbe potuto indirettamente conciliare i seguaci di essa, senza irritare la Chiesa romana. E Giustiniano, persuaso, non senza ragione, che i tre vescovi avessero veramente errato, ne fu come infatuato, ed «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», anatemizzò i Tre Capitoli, invitando i Monofisiti a fare adesione alla vera dottrina da lui esposta (544 e 551). Ma s'era questa volta pienamente ingannato. Il suo decreto non gli guadagnò punto i Monofisiti, [231] e suscitò invece una viva opposizione in Occidente, dove si vedeva in esso un'offesa all'autorità del Concilio di Calcedonia (451), ed a quella del Papa. Oltre di che, i tre vescovi condannati col decreto imperiale, non solo erano stati rispettati a Calcedonia, ma erano già morti da un secolo. A che dunque turbare adesso le loro ceneri? La disputa sollevata era per lo meno inopportuna, e senza pratico valore. Pure Giustiniano non sapeva pensare ad altro, e non voleva in nessun modo recedere.

Chi si trovava ora peggio di tutti era papa Vigilio, il quale, per gl'intrighi di Teodora salito sulla cattedra di S. Pietro, era stato chiamato a Costantinopoli, dove pareva che fosse fra l'incudine ed il martello. Se infatti condannava i Tre Capitoli, destava un vespaio in Occidente; se non li condannava, si poneva in lotta coll'Imperatore. E finì col cedere a questo, pubblicando nel 548 la condanna dei Tre Capitoli. Ma quando vide la fiera tempesta che si sollevò in Occidente contro di lui, della quale Giustiniano non teneva nessun conto, mutò avviso, ponendosi in aperta opposizione con l'Imperatore. Non intervenne nel Concilio ecumenico, del quale egli stesso aveva suggerito la convocazione, anzi protestò contro di essa (553). Il Concilio, come era da aspettarsi, condannò esplicitamente i Tre Capitoli; e ne seguirono disordini, nei quali fu in pericolo la vita stessa del Papa, che, dopo aver sopportato gravi violenze, venne confinato in un'isola del Mar di Marmara. Dopo sei mesi finalmente, stanco delle patite calamità, oppresso dagli anni, tormentato dal mal della pietra, cedette, ed il 23 di febbraio 554 pubblicò la condanna dei Tre Capitoli. Potè allora ripartire per l'Italia; ma appena che fu arrivato in Sicilia, morì il 7 gennaio del 555.

Pur tali erano allora la potenza della Chiesa e l'autorità dei Papi, che anche in questi anni di debolezza [232] e di patite violenze, si ottennero per essa dall'Impero nuove e notevoli concessioni. Nel 554 infatti era stata pubblicata quella Prammatica Sanzione, che sanzionando definitivamente il diritto giustinianeo in Italia, concedeva al clero nuova autorità anche nelle cose temporali. I giudici dovevano essere eletti dai Vescovi e dai principali cittadini; nei pesi e nelle misure si dovevano osservare le norme fissate dai Vescovi e dal Senato. E tutto ciò dopo molte altre concessioni fatte anche prima. Sin dal 546 era stato deciso che il clero doveva esser giudicato dai soli tribunali ecclesiastici. In molti casi si poteva dai giudici ordinari appellare al Vescovo, che diveniva così come una specie di tribuno della plebe: a lui era affidata la cura dell'annona, degli edifizi pubblici, degli acquedotti. Di certo tutte queste concessioni erano fatte ai Vescovi come ufficiali dipendenti dall'Impero. Ma la Chiesa le accettava senza discutere, e quando l'autorità dell'Impero cominciò a decadere, ed essa potè sempre più affermare la propria indipendenza spirituale, una uguale indipendenza si estese naturalmente anche all'esercizio di quelle temporali facoltà che, senza riflettere alle inevitabili conseguenze, le erano state concesse. L'Impero aveva dato alla Chiesa le armi con le quali essa doveva poi combatterlo. E la Prammatica Sanzione che poneva come il suggello a tali e tante concessioni, era stata pubblicata da Giustiniano, come in essa è detto esplicitamente, per seguire i consigli di quello stesso papa Vigilio che egli aveva così maltrattato, così umiliato!

Giustiniano, è vero, poteva esser lieto d'aver trionfato nella questione dei Tre Capitoli, essendo riuscito a farli condannare dal Papa; ma era ben lungi dall'avere ottenuto lo scopo finale che s'era prefisso, giacchè egli non aveva guadagnato alla sua causa un solo Monofisita, e s'era invece sempre più alienato l'animo delle popolazioni [233] italiane. La lotta religiosa da lui provocata aveva inoltre messo in chiaro, che sotto i Bizantini il Papa non era, non poteva essere libero. Per sei anni infatti Vigilio era stato costretto a fermarsi in Costantinopoli, dove risiedeva il Patriarca a lui avverso, ed era stato malmenato dall'Imperatore, che lo aveva trattato come un suo dipendente.

Certo la condotta di papa Vigilio era stata poco onorevole, e risultò a grave danno della Chiesa, che dopo di lui soffrì circa un mezzo secolo d'oscurità e di decadenza fino a che non venne a sollevarla Gregorio Magno. Ma in tutto ciò il procedere di Giustiniano fu assai imprudente, e causa non ultima della caduta del dominio bizantino in Italia e della venuta dei Longobardi. Il vero è che egli voleva ricostituire l'unità dell'Impero, ed i papi volevano invece fondare l'unità e l'autorità universale della Chiesa cattolica; ma nessuno di questi due disegni poteva essere pienamente attuato, perchè l'Oriente doveva politicamente e religiosamente separarsi dall'Occidente.

Già da gran tempo Giustiniano, chiuso nel suo studio, era talmente immerso nelle sue sottigliezze teologiche, che avrebbe per esse abbandonato anche quella guerra d'Italia, con tanto ardore da lui intrapresa, ma che con grande spargimento di sangue, con crudele rovina delle misere popolazioni, era durata assai più a lungo, che egli non avrebbe mai pensato. Se non che da tutte le parti gli si facevano premure, perchè conducesse una volta a compimento la restaurazione dell'Impero, e molti emigrati erano dall'Italia stessa venuti per deciderlo a ciò. Il problema principale per lui era allora: trovare un generale in capo, cui affidare quella unità di comando così necessaria a condurre con fortuna la guerra. A Belisario, dopo gli ultimi fatti, non era più da pensare. Elesse [234] quindi Germano suo nipote che, avendo sposata una nipote di Teodorico, vedova di Vitige, pareva dovesse ispirare qualche simpatia anche nei Goti. Egli era ricco di suo, e per poter condurre la guerra ebbe a sua libera disposizione la cassa dell'Impero. Ben presto si vide quindi da ogni parte accorrer gente sotto le sue bandiere, non esclusi anche alcuni Goti. Ma quando aveva raccolto in Dalmazia buon numero d'armati, ed era pronto a partire, fu colpito dalla morte. L'esercito rimase perciò a svernare presso Salona (550-551).

Totila aveva intanto assediato Ancona, città assai importante per gl'Imperiali, massime quando avessero voluto fare uno sbarco dalla Dalmazia nell'Italia centrale. E per questa ragione il generale Giovanni, uomo ardito ed ambizioso, che assai bene conosceva l'Italia ed i Goti, si decise, non ostante gli ordini avuti in contrario, a muoversi dalla Dalmazia per tentar di liberare quella città dalla parte del mare. Messosi quindi d'accordo con Valeriano, che era a Ravenna, riunirono i loro navigli, e nelle acque di Sinigaglia s'affrontarono con la flotta dei Goti, i quali sul mare non avevano potuto mai tener testa ai Bizantini, e la distrussero affatto, rimanendo padroni dell'Adriatico, che liberamente poterono percorrere. I Goti allora, levato l'assedio da Ancona, si ritirarono in Osimo, e Totila s'indusse a far nuove proposte di pace, dichiarandosi pronto a lasciare la Dalmazia e la Sicilia all'Impero, cui avrebbe anche pagato un tributo, riconoscendone la superiore autorità. In questo modo, egli diceva, si sarebbe impedito che tutto finisse a vantaggio dei Franchi, i quali occupavano sempre parecchi punti importanti nell'alta Italia. Ma ormai ogni discussione era vana, perchè Giustiniano aveva già nominato il nuovo generale in capo nella persona di Narsete (551).

Questo celebre eunuco aveva allora circa settantatrè [235] anni, era curvo e piccolo della persona. Fino a sessant'anni era stato sempre nell'amministrazione, acquistando in essa gran nome e grande perizia. Estremamente accorto ed ambizioso, era cattolico ardente, ed aveva la reputazione d'essere sotto la diretta protezione della Vergine, per la quale professava un culto speciale. Giustiniano, col suo istinto divinatore, lo aveva nominato generale la prima volta, quando era già arrivato a sessant'anni, senza aver mai avuto occasione di dare una prova qualunque delle grandi qualità militari che poi mostrò di possedere, e delle quali nessun altro s'era fino allora accorto. Mandato in Italia quando v'era sempre Belisario, non aveva potuto allora far conoscere il suo valore, perchè, venuto subito in urto col comandante in capo, aveva più che altro recato danno all'esito della guerra. Pure dimostrò un singolare ascendente non solo sui soldati, ma anche sui generali suoi compagni d'arme. Questo valse sempre più a confermar l'Imperatore nella grande opinione che di lui s'era come per istinto formata. E perciò lo mandava ora nuovamente in Italia, generale in capo, a rialzare le sorti della guerra e dell'Impero. Narsete, che era anch'egli ricchissimo, e sapeva come cavar danari dall'Impero, pensò innanzi tutto di porre insieme un grosso esercito, non parendogli punto sufficiente quello che era stato già riunito in Dalmazia. Fece quindi leva di uomini a Costantinopoli, nella Tracia, nell'Illirico. Raccolse anche 2500 Longobardi, i quali menaron seco altri 3000 armati, ed erano comandati da Audoino, padre di quell'Alboino, che sedici anni più tardi occupò coi suoi l'Italia; raccolse 3000 Eruli; ebbe a suo comando Gepidi, Unni, perfino Persiani. E con queste genti si recò nella Dalmazia, per unirsi a coloro che già v'erano, ordinarli, organizzarli tutti, e partire poi per l'Italia.

Sebbene gl'Imperiali fossero ora padroni dell'Adriatico, [236] pure non avevano naviglio capace di trasportare un grosso esercito. In ogni caso dava pensiero il pericolo d'una possibile tempesta o d'un improvviso assalto dei nemici contro navi da trasporto, cariche d'uomini e di materiale da guerra. Narsete decise quindi d'avanzarsi per terra, lungo la costa, accompagnato per mare da navi con vettovaglie, e di esse si giovò anche per traversare i grossi fiumi come il Tagliamento, l'Isonzo e la Brenta. Continuando il suo cammino, evitò i luoghi fortificati, e le terre occupate dai Franchi. Verona, che era tenuta dai Goti, sotto il comando del valoroso generale Teja, si trovava assai lontana. E così gl'Imperiali poterono arrivare sicuri fino a Ravenna, poi a Rimini, ove, disfatta una parte della guarnigione che uscì a sfidarli, ucciso il generale che la comandava, continuarono verso il sud per la via Flaminia. L'abbandonarono però nel punto in cui essa, allontanandosi dal mare, ripiega verso l'Appennino, che traversa al passo detto del Furlo o di Pietra Pertusa. È questo una specie di tunnel naturale, fortificato e tenuto allora dai Goti, difficilissimo quindi a sforzarlo. Narsete lo evitò, proseguendo la sua marcia lungo il mare, e volgendo poi a destra, raggiunse di nuovo la via Flaminia. Passato che ebbe l'Appennino, pose il campo là dove si distende una vasta pianura, tra Scheggia e Todino, che distano fra loro circa quindici miglia: ivi dette la sua prima grande battaglia.

Totila si trovava allora presso Roma, aspettando che le genti di Teja lo raggiungessero. Ed arrivata che fu la più parte di queste genti, s'avanzarono insieme contro gl'Imperiali, sebbene li sapessero in forze preponderanti. Narsete, esaminato il luogo, mise un manipolo di 50 uomini sopra un piccolo colle da lui riconosciuto come il punto strategico del campo. Quei pochi militi, durante una giornata intera, difesero il colle con un [237] valore, con un eroismo degno degli antichi Romani, respingendo i ripetuti assalti della cavalleria gota. Narsete aveva messo nel centro i barbari, dei quali poco si fidava, ordinando che, scesi da cavallo, combattessero a piedi, acciò più difficilmente, per paura o tradimento, potessero darsi alla fuga. A sinistra ed a destra erano i Romani, ed in ciascuna delle due ali si trovavano 4000 arcieri che, contro l'uso adottato da Belisario, combattevano anch'essi a piedi. Cinquecento cavalieri erano a sostegno dell'ala sinistra, distendendosi verso il colle, che abbiam visto già occupato come punto strategico del campo. Mille altri cavalieri eran tenuti in riserva, pronti ad ogni evento.

Il concetto di Narsete era: attendere l'assalto del nemico, il quale, trovando più debole il centro, avrebbe contro di questo diretto lo sforzo maggiore, e così, avanzandosi, sarebbe stato facilmente circondato dalle due ali. Totila che aveva allora indugiato, per aspettare altri aiuti da Teja, giunti che furono gli ultimi 2000 uomini, cominciò la battaglia. Gli arcieri imperiali fecero grande strage dei Goti. I Longobardi e gli Eruli, dopo un momento di esitazione, assalirono anch'essi con gran vigore il nemico, che volse le spalle. E la cavalleria gota, su cui Totila aveva fatto il maggiore assegnamento, si dette a così precipitosa fuga, che molti dei fanti morirono calpestati dai cavalli. Egli stesso, ferito gravemente, si dovè ritirare dal campo, e morì nella capanna d'un villaggio, detto allora Caprae, ora Caprara, a quindici miglia dal luogo della battaglia, fra Gubbio e Tadino (552).

I barbari dell'esercito imperiale, sopra tutto i Longobardi, insofferenti della disciplina, si dettero ad ogni eccesso, saccheggiando, bruciando le capanne dei contadini, violando le donne, suscitando un tale malcontento, che Narsete, il quale non era di certo nè mite, nè pietoso, [238] si dovette decidere a disfarsi dei Longobardi. Mediante buona somma di danaro li indusse quindi a tornarsene a casa, col loro seguito, per la via delle Alpi Giulie, accompagnati da Valeriano. Questi voleva nel ritorno assediare Verona; ma vi si opposero i Franchi, che occupavano molte terre nella parte orientale della regione transpadana, e che agl'Imperiali preferivano i Goti, più deboli assai ed aspramente combattuti ora nell'Italia meridionale. Oltre di che, avendo i Goti appunto consentito che i Franchi occupassero le terre che ora tenevano in Italia, poteva a questi sembrare atto di buona e leale politica il favorirli, ben inteso, fino a quando il proprio interesse non avesse consigliato altrimenti. Valeriano perciò, non volendo suscitare una seconda guerra, quando non era anche finita la prima, si fermò, cercando solo d'impedire che i Goti, i quali s'andavano raccogliendo sempre più numerosi nel nord, andassero verso Roma a rinforzare i loro compagni d'arme ora che nuovi scontri parevano inevitabili al sud. Dopo la disfatta e la morte di Totila, essi s'erano andati adunando a Pavia, la quale sin da quando perdettero Ravenna, era divenuta una delle loro principali città, e colà elessero a loro re il valoroso Teja, che venne accettato con favore universale. Questi cercò subito d'assicurarsi la sempre incerta amicizia dei Franchi; ma riuscì solo ad ottenere che restassero neutrali, ed anche ciò l'ottenne abbandonando ad essi il tesoro dai re Goti raccolto a Pavia. Certo ai Franchi metteva conto di starsene ora a guardare, aspettando che i due rivali si consumassero a vicenda, per dar poi addosso al vincitore.

Intanto le città dell'Italia centrale e meridionale s'arrendevano rapidamente ai Bizantini. Così fecero Narni, Spoleto, Perugia, così fece anche la guarnigione di Pietra Pertusa. Narsete già camminava verso Roma, occupata dai [239] Goti, i quali s'erano concentrati presso la Mole Adriana, che Totila aveva fortificata. Essi non erano in numero tale da poter difendere le mura della città, ma gl'Imperiali non erano sufficienti a circondarla. Si venne perciò da capo ad una serie d'assalti e difese alla spicciolata, fino a che uno dei capitani di Narsete, essendo riuscito a scalar le mura in un punto dimenticato, potè aprire le porte ai suoi, che entrarono rapidamente. I Goti si dettero allora alla fuga, e quelli che erano chiusi nella Mole Adriana, poco dopo s'arresero. Così furono di nuovo mandate a Giustiniano le chiavi di quella Roma invitta, che cinque volte, sotto questo solo imperatore, era stata presa e ripresa.

Ne seguì un periodo di nuove stragi. Molti dei Senatori ancora prigionieri nell'Italia meridionale, furono uccisi. E Teja macchiò la sua fama di valoroso, facendo trucidare anche 300 giovanetti romani, che erano stati scelti come paggi, ma che in realtà erano tenuti in ostaggio. Il fatto è che i Goti, omai pochi e dispersi, erano come inferociti per la disperazione; e così le più selvagge passioni si scatenarono sulla misera Italia, di cui pareva s'avvicinasse la fine. Alcuni di essi da Pavia andarono ad unirsi coi Franchi nel nord; altri nel sud, sotto il comando di Aligerno fratello di Teja, si chiusero in Cuma, dove era un'altra parte del tesoro nazionale. E Narsete vi mandò subito un drappello de' suoi, per tentare d'impadronirsene dopo aver preso la città. Ne mandò altri in Toscana, ad impedire che Teja, avanzandosi di là, s'unisse col fratello e cogli altri compagni nel sud. Ma quel valoroso riuscì ad evadere ogni ostacolo, e traversato l'Appennino, andò oltre verso il sud, ove da capo i Goti erano in gran numero. Una nuova battaglia era quindi inevitabile. Narsete perciò si mosse ad incontrare Teja prima che riuscisse ad unirsi al fratello; e lo raggiunse [240] presso Napoli, a Nocera, sul fiume Sarno. Colà il re goto s'era fermato, avendo alle spalle il Monte S. Angelo, e ricevendo dalle sue navi aiuto continuo di vettovaglie. Ma queste navi lo tradirono ad un tratto, passando ai Bizantini; ed allora egli retrocesse alquanto fra le balze del Monte Lettere (Lactarius), che è parte del Monte S. Angelo. Colà egli non poteva, per mancanza di vettovaglie, restare a lungo; dette perciò l'ordine di attaccare. I suoi allora si spinsero con irresistibile impeto contro il nemico, che non ebbe neppure il tempo d'ordinarsi: si dovette perciò combattere alla spicciolata. Teja si condusse eroicamente, alla testa de' suoi. Gl'Imperiali miravano tutti a lui, e le loro frecce restavano infisse nel suo scudo. Di tanto in tanto, non potendo pel grave peso più reggerlo, lo dava ad un soldato, che glielo mutava con un altro. Ed in uno di questi momenti, il suo petto essendo rimasto scoperto, egli venne mortalmente ferito. I nemici allora gli tagliarono la testa, e sopra una lancia la portarono in giro pel campo, dinanzi ai due eserciti. I Goti combatterono ancora due giorni, ma poi s'arresero, salva la vita, con facoltà di portar via i loro beni mobili, con l'obbligo però di non continuare a combattere contro l'Impero. Così molti di loro passarono le Alpi, andando a confondersi con altre genti; non pochi si sparsero per le terre d'Italia, con la speranza di farsi dimenticare. Nè mancarono quelli che, non avendo accettato i patti, s'andarono ad unire coi Franchi, cercando d'indurli ad attaccare i Bizantini, i quali, essi dicevano, dopo aver disfatto i Goti, avrebbero certamente voluto disfare e cacciar via dalla Penisola anche i Franchi. Altri finalmente preferirono chiudersi e difendersi, per proprio conto, in alcune città fortificate. Così fecero quelli che erano in Crema, così un migliaio che si rifugiarono a Pavia, così altri in altre città; ma furon tutti prima o [241] poi costretti ad arrendersi anch'essi. Il regno dei Goti ormai più non esiste in Italia; colla morte eroica di Teja esso è finito. Dopo aver fatto ancora in più punti una debole resistenza, scomparisce affatto dalla storia.

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