CAPITOLO III

Pipino eletto re dei Franchi, consacrato dal Papa per mezzo di S. Bonifazio — Il Papa, minacciato da Astolfo, va in Francia a chiedere aiuto

A Carlo Martello che di fatto, sebbene non di nome, era divenuto re dei Franchi, successero i figli Carlomanno e Pipino, i quali legalmente non erano anch'essi che Maestri di Palazzo, tanto che fu sentito il bisogno di cavar dal convento Childerico dei Merovingi, e metterlo su quel trono (743), sul quale egli fu l'ultimo dei rois fainéants, l'ombra addirittura d'un re.

C'era da aspettarsi prima o poi una lotta aspra e sanguinosa tra i due fratelli; ma invece Carlomanno, dopo le stragi da lui compiute nella guerra contro gli Alamanni [361] (746), si ritirò, disgustato del mondo, prima in un convento da lui fondato sul Soratte, poi a Montecassino; e così Pipino restò senza rivali. Se non che allora appariva anche più chiaro che, giuridicamente parlando, unico sovrano legittimo era Childerico, per quanto non sembrasse altro, e di fatto altro non fosse che un re spodestato. Era una questione che non si poteva risolvere colla violenza, e senza risolverla Pipino sarebbe restato sempre nella falsa posizione di un usurpatore. Pensò quindi di rivolgersi a papa Zaccaria III, perchè coll'autorità della religione facesse quello che la spada non poteva fare. E mandò a lui una solenne ambasceria chiedendo se era lecito che assumesse il titolo di re colui che non faceva nulla addirittura, e non piuttosto colui che di fatto governava, ed in tutto ne esercitava l'ufficio. In vero solo il Papa poteva sciogliere i sudditi dal giuramento d'obbedienza, e tranquillizzando la loro coscienza, por fine ad uno stato anormale di cose. Che doveva, che poteva rispondere Zaccaria III? La nuova dinastia ormai esisteva di fatto, era padrona della monarchia, aveva difeso la religione ed era essa sola in grado di dare alla Chiesa quell'aiuto che nessun altro più le voleva o poteva dare. Nell'Impero il principio ereditario di successione al trono non era stato mai sanzionato, e nei barbari era assai comune la elezione dei loro re. Il Papa adunque rispose, che ove fosse a vantaggio del paese, e se ne promovesse davvero il benessere, era conveniente che assumesse il titolo di re colui che di fatto ne esercitava l'ufficio. E così fu che Pipino si decise a compiere il suo colpo di Stato. Nel novembre del 751, in un'assemblea di Grandi radunati a Soissons, egli venne solennemente innalzato al trono, e proclamato re, «per consiglio e consenso di tutti i Franchi, coll'assenso della Santa Sede, per elezione della Francia intera, con la [362] consacrazione dei vescovi e l'obbedienza dei Grandi.» A questa elezione, che fu fatta secondo il costume germanico, s'aggiunse la consacrazione celebrata, in nome del Papa, da S. Bonifazio alla testa dei vescovi, consacrazione che ricordava quella di Saul per mano di Samuele. Il misero Childerico ebbe la tonsura, e fu chiuso in un convento insieme col figlio.

Se si getta ora uno sguardo a tutto quello che abbiam detto finora, si vedrà subito quante e quanto gravi ragioni spingessero i Papi a favorire i Franchi, per esserne poi protetti. Ma Zaccaria III, che voleva star bene con tutti, s'era incontrato con Liutprando, ed aveva fatto ogni opera per concludere con lui una pace durevole. Il re longobardo gli aveva promessa la restituzione dei beni patrimoniali usurpati alla Chiesa nell'Esarcato, nella Pentapoli ed altrove; aveva promesso anche di ripigliare e restituire al Papa i quattro castelli che nel Ducato romano erano stati indebitamente occupati da Trasimondo. Se non che, appena fissate queste condizioni d'una pace che doveva durare venti anni, occupò invece lo Spoletino, e lo dette ad un proprio nipote; pose a Benevento Gisulfo il figlio di Romualdo II (742). Poco dopo, avuto a Terni un altro colloquio col Papa, restituì i castelli e mantenne la più parte delle promesse fatte. Ma nel 743, essendo tornato a Pavia, di nuovo mandò l'esercito nell'Esarcato, contro Ravenna. E di nuovo stava per cedere alle preghiere di papa Zaccaria, che andò a visitarlo in Pavia nel 742, quando nel gennaio del 744 morì.

Gli successe il figlio Ildebrando, che si dimostrò assai inetto, e fu subito sostituito da Rachi, duca del Friuli, che regnò cinque anni, dei quali si sa assai poco: ritiratosi più tardi dal mondo, vestì l'abito monacale. Allora ascese al trono Astolfo, valoroso, impetuoso in guerra, ma politico assai poco accorto; e s'avanzò verso Ravenna che [363] prese, ponendo in tal modo fine all'Esarcato. Subito dopo si diresse minaccioso verso Roma nel 752, quando era già morto Zaccaria. Allora fu eletto Stefano II, che morì tre giorni dopo. Il successore prese lo stesso nome, e per la brevità del Papato di colui che lo aveva preceduto, venne chiamato anch'egli Stefano II e non III (752-57). Questi che fu uomo di molto valore politico, uno dei grandi Papi, mandò subito ambasciatori ad Astolfo per conchiudere un'altra pace, che doveva durare quarant'anni, e venne rotta invece dopo quattro mesi, senza possibilità di rinnovarla (752). Alle ripetute ambascerie il re longobardo rispondeva con minacce contro il Ducato romano. Da questo lato adunque non v'era adesso nulla da sperare.

Il Papa trattava perciò con Costantinopoli, donde arrivava ambasciatore il silenziario (capitano della guardia imperiale) Giovanni; e lo mandò col proprio fratello Paolo ad Astolfo, provandosi a chiedere la retrocessione dei possessi e delle città indebitamente occupate nell'Esarcato e nella Pentapoli: ut Reipublicae loca.... usurpata proprio restitueret dominio. Ma Astolfo rispose che di ciò avrebbe trattato, per mezzo di suoi ambasciatori, direttamente coll'Imperatore. Il Silenziario allora tornò indietro, ed il Papa mandò con lui i suoi messi a Costantinopoli, per dire che era omai inutile fidarsi dei Longobardi; piuttosto era il caso di spedire un esercito per difendere Roma e l'Italia contro le loro aggressioni. Finora dunque le relazioni del Papa coll'Imperatore appaiono amichevoli. A questo infatti Stefano II si rivolgeva quando Astolfo, dopo d'avere occupato l'Esarcato, fremens ut leo, minacciava di tutta la sua ira Roma ed il popolo romano. Il pericolo era veramente grande e vicino. Il Papa fece [364] infatti solenni preghiere e litanie, andando in processione con gran seguito, scalzo e coperto di cenere, a S. Pietro, a S. Maria Maggiore, a S. Paolo, portando innanzi, sospeso ad una croce, il patto di pace violato da Astolfo. Da Costantinopoli non veniva intanto nessun aiuto, nè c'era speranza che venisse. Lo stato delle cose pareva disperato.

Si presentava quindi più che mai naturale il pensiero di rivolgersi ai Franchi. Pipino non poteva dimenticare che ai Papi doveva la sua consacrazione. A lui dunque Stefano II si rivolse, facendogli sapere che desiderava andare solennemente a visitarlo; ma voleva prima essere invitato, sia per rispetto alla propria dignità, sia per essere garantito contro gli ostacoli che al suo viaggio poteva mettere Astolfo. Il re non esitò a manifestare il suo buon volere; prima però di dare un passo che avrebbe potuto obbligarlo a far poi la guerra, volle esser sicuro dell'assenso dei Grandi, senza i quali non sarebbe stato facile, quando la necessità se ne presentasse, di condurre l'esercito in Italia. I magnati franchi non potevano avere ragione di speciale avversione contro i Longobardi, che, appena invitati, s'erano mossi per venir loro in aiuto nella guerra contro gli Arabi. A quei Grandi perciò il Papa, che era anche politico accortissimo, scrisse una lettera che ci è rimasta, esortandoli a non venir meno all'amore verso S. Pietro e la Chiesa. Quando Pipino li convocò in assemblea, fu subito deliberato d'inviare a Roma una solenne ambasceria, con le più ampie assicurazioni, per invitare il Papa a venire in Francia. Ambasciatori furono due grandi dignitari franchi, Crodegango vescovo di Metz ed il gloriosissimo duca Auticario. Essi arrivarono a Roma nel 753, quando i Longobardi di Astolfo s'erano impadroniti di Ceccano, che faceva parte del Ducato di Roma. Poco prima (settembre 753) era tornato [365] da Costantinopoli il silenziario Giovanni, con la missione d'invitare il Papa a recarsi in persona da Astolfo, per indurlo a restituire all'Impero le terre che gli aveva tolte. Ed il 14 ottobre 753 Stefano II insieme col Silenziario, con i due ambasciatori franchi e con gran seguito, andò a Pavia per tentar di persuadere Astolfo a restituire a chi di diritto, propria restitueret propriis, le terre indebitamente usurpate. Ma non si concluse nulla, perchè Astolfo accettò i doni che gli furono recati, e ricusò ogni concessione.

Il Papa allora continuò il suo cammino, e nonostante ogni tentativo contrario fatto dal re longobardo per dissuaderlo, passate le Alpi, andò in Francia. Nel mese di dicembre, quando era ancora cento miglia lontano dalla villa di Ponthion, fra Vitry e Bar-le-Duc, incontrò il giovanetto Carlo primogenito del Re, quegli che fu poi noto nella storia col nome di Carlo Magno. Il 6 gennaio 754 incontrò il Re stesso che, sceso da cavallo, lo accompagnò per un buon tratto. Assai solenne fu l'ingresso in Ponthion, fra una moltitudine festante, che cantava sacri inni. Non erano appena entrati nel palazzo, che il Papa chiese al Re che volesse egli personalmente difendere la causa di S. Pietro e della Repubblica romana, causam Beati Petri et Reipublicae Romanorum. Ed il Re senza esitare giurò di «restituire in ogni modo l'Esarcato e gli altri luoghi e diritti della Repubblica». Come mai questo mutamento di linguaggio? Dopo avere chiesto la restituzione delle terre all'Impero, si parla invece di S. Pietro e della Repubblica dei Romani; e d'ora in poi si continua a parlar sempre della Repubblica, di S. Pietro e della santa Chiesa di Dio, lasciando l'Impero assolutamente da parte.

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Dopo l'esplicito rifiuto di Astolfo, era chiaro che la restituzione delle terre richieste si poteva ottener solo colle armi. Ed il Papa, che naturalmente pensava sopra tutto ai casi suoi, arrivato in Francia, dovette accorgersi con gran piacere, che se Pipino era ben disposto ad aiutar lui e la Chiesa, non aveva nessuna voglia di fare una guerra nell'interesse dell'Imperatore. Le terre che gli fosse riuscito di prendere colle sue armi, quando non le avesse egli ritenute per diritto di conquista, avrebbe potuto darle, in forza del sentimento religioso, alla Chiesa ed al suo Capo, non però mai ad altri. Anche i Longobardi, piuttosto che vederle in mano dei Franchi o dell'Imperatore, avrebbero preferito che fossero concesse al Papa, a cui più facilmente potevano sperare di ritoglierle. Era perciò naturale che Stefano II, uomo assai accorto, cercasse profittare di un tale stato di cose. E quindi nei suoi discorsi, nelle sue lettere, invece di restituzione all'Impero, cominciò a parlare di restituzione a Roma, a S. Pietro, alla Chiesa. Pipino intanto lo aveva invitato a passar l'inverno nella Badia di S. Dionigi, presso Parigi, e di là così l'uno come l'altro fecero ripetuti, ma vani tentativi d'indurre Astolfo a volere, per evitare ogni effusione di sangue, pacificamente «restituire alla Repubblica, alla santa Chiesa i suoi diritti, le sue proprietà.» In sostanza par che si chiedessero ora pel Papa l'Esarcato e la Pentapoli, che dai Longobardi erano stati tolti all'Impero. L'idea di succedere a questo in Italia era balenata nella mente dei Papi fin dal momento in cui Astolfo aveva occupato l'Esarcato. Non volevano che, impadronendosi di esso e della Pentapoli, i Longobardi divenissero troppo potenti. E se Pipino, dopo aver conquistato quelle province, avesse ricusato di restituirle all'Impero, l'occasione sarebbe stata opportunissima per rendere potente la Chiesa, facendole dare ad essa. E così fu che [367] invece d'Impero si cominciò a parlare di Repubblica e di popolo romano, che, secondo le idee del tempo, erano sotto la speciale protezione di S. Pietro, rappresentato in terra dal Papa, capo visibile della Chiesa. Il popolo romano aveva eletto l'Imperatore, ed eleggeva il Papa; era una cosa sola coll'Impero e con la santa Repubblica, la quale, nel linguaggio comune, si confondeva allora colla Chiesa. Sostituire quindi all'Impero la Chiesa ed il Papa pareva la cosa più semplice e naturale del mondo. Anche le quattro terre o castelli, che da Liutprando erano stati tolti al Ducato romano, il quale, teoricamente almeno, era già tenuto come legittimo possesso del Papa, furono dallo stesso Liutprando restituiti «a S. Pietro.»

Il vero è che Astolfo, senza punto occuparsi di queste sottili distinzioni, non voleva ceder nulla a nessuno. Bisognava quindi fare la guerra. Pipino radunò i Grandi in due assemblee, tenute la prima il giorno 1º marzo 754 a Braisne, non lungi da Soissons, e la seconda il 14 aprile, giorno di Pasqua, a Quierzy, presso Laon. In questa fu deliberata la guerra. Si parla anche d'uno scritto, nel quale Pipino avrebbe allora fatto solenne promessa, che le terre le quali egli si proponeva di conquistare, sarebbero da lui restituite al Papa. Della esistenza di un tale scritto alcuni dubitano non poco; certo è però che, scritta o non scritta, la promessa fu fatta, e venne poi mantenuta.

Le ansietà del Papa erano state in questo tempo grandissime. L'aver dovuto passare le Alpi nella fine di autunno, il crudo inverno della Francia, le continue opposizioni che alcuni dei Grandi avevano fatte alla guerra, erano state più che sufficienti a turbarne l'animo ed alterarne la salute. A tutto ciò s'aggiunse che, in questo mezzo appunto, Carlomanno, il fratello di Pipino, per istigazione, [368] a quanto pare, di Astolfo, uscito improvvisamente dal convento di Montecassino, era venuto in Francia a perorare presso il fratello la causa longobarda. Il che aumentò lo sgomento del Papa, ed irritò non poco anche Pipino, il quale naturalmente temeva che questa venuta potesse ridestare nei figli di suo fratello la speranza di succedere al trono paterno. Ma che cosa poteva mai fare un frate contro l'autorità del Papa, e contro la forza del Re, che ormai era padrone di tutto il regno riunito? Carlomanno infatti fu ben presto costretto a rinchiudersi in un convento di Vienne presso il Rodano, dove poco dopo morì. Anche i suoi figli dovettero prendere la tonsura.

Fra tante angoscie Stefano II finalmente s'ammalò, e durante la malattia gli apparvero, secondo la leggenda, S. Dionigi, S. Pietro e S. Paolo, che gli promisero guarigione perfetta, a condizione che facesse erigere un nuovo altare in S. Dionigi. Ed il 28 luglio 754 non solamente l'altare era costruito, ma nella stessa chiesa si compieva un atto solenne, il quale dimostrava la grande accortezza e perseveranza del Papa. In questa stessa chiesa egli consacrava ed incoronava Pipino e la moglie Bertrada, consacrava anche i due figli Carlo e Carlomanno. Ma Pipino, si può qui domandare, non era stato già coronato, non era stato consacrato da S. Bonifazio per ordine del Papa? A che fine ripeter la cerimonia? Non solamente la consacrazione per mano propria del Papa era assai più autorevole; ma questi, consacrando anche la regina ed i figli del Re, consacrava addirittura la dinastia. Quel giorno infatti, sotto pena di scomunica, egli imponeva ai Grandi franchi di non mai più eleggere nell'avvenire un re «che fosse disceso da altri lombi». Così erano per sempre messi da parte non solo i diritti dei Merovingi, ma quelli ancora che potevano avanzare i figli di Carlomanno.

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Oltre di ciò Stefano II, nel consacrare Pipino, gli dette anche il titolo di Patrizio, cosa che ha fatto molto disputare, perchè questo era un titolo dato solo dall'Imperatore a grandissimi personaggi come Odoacre, Teodorico, gli Esarchi; ed ora veniva concesso dal Papa a Pipino, senza che l'Imperatore protestasse. Qualcuno ha supposto che questi avesse dato a Stefano l'incarico di conferirlo, quando lo aveva inviato a chiedere la restituzione delle terre all'Impero. Arrivato però il Papa in Francia, e conosciuto lo stato vero delle cose, mutato animo, decidendosi a prendere esso in Italia il posto dell'Impero, avrebbe creduto anche di poter conferire in suo proprio nome il titolo di Patrizio. Questo titolo era semplicemente onorifico, ma soleva darsi solo a chi aveva già un altissimo ufficio; ed il Papa lo dava a re Pipino come a difensore della Chiesa. Questi infatti è d'ora in poi chiamato indistintamente Patrizio o Difensore della Chiesa.

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