CAPITOLO IV

Pipino e i Franchi vengono in Italia e vincono i Longobardi — Donazione dell'Esarcato e delle Pentapoli al Papa — Muore Astolfo — Desiderio re dei Longobardi — Disordini in Roma — Elezione di Paolo I e sua morte

Nell'estate del 754, poco dopo la sua consacrazione, Pipino raccolse l'esercito per l'impresa d'Italia, non senza fare un ultimo tentativo di risolvere pacificamente la gran lite, promettendo ad Astolfo anche buona somma di denaro. Ma fu tutto inutile, e l'esercito franco dovè porsi in cammino. I Franchi s'avanzarono con alla testa il loro Re; li accompagnava il Papa col suo cappellano, con l'abate Fulrado di S. Dionigi, e con altri prelati. [370] Passato il Cenisio, alle Chiuse presso Susa, vi fu uno scontro nel quale l'avanguardia dei Franchi sostenne l'urto di tutto l'esercito longobardo, che nella ristrettezza del luogo non potè spiegare le proprie forze, e fu così fieramente battuto, che la disfatta venne attribuita a miracolo.

Astolfo dovette allora ritirarsi a Pavia, dove fu ben presto assediato e costretto a venire a patti, che furono: restituire Ravenna e diverse altre città, con la promessa di non più molestare il Ducato romano, dando in garanzia quaranta ostaggi. E questi patti, secondo il Libro pontificale (I, 451), sarebbero stati formulati in una pagina scritta. Le terre così ottenute vennero da Pipino cedute al Papa, che ormai senza più esitare cercava di sostituirsi in Italia all'Imperatore. Più volentieri, più risolutamente che mai lo faceva adesso che questi aveva radunato un sinodo (753), il quale condannò il culto delle immagini, dichiarandolo nuova idolatria. Ma quando i Franchi ed il Papa si furono ritirati, ciascuno a casa sua, Astolfo, dopo che ebbe ceduto Narni ai Franchi, non solamente violò i patti, senza ceder più nulla a nessuno; ma s'avanzò col suo esercito nel Ducato romano, saccheggiando perfino le chiese. Il 1º di gennaio 756 egli era sotto le mura di Roma, e minacciava che se non gli aprivano le porte, e non gli davano nelle mani la persona stessa del Papa, avrebbe messo i cittadini a fil di spada.

Stefano II allora mandava a Pipino lettere sopra lettere, con solenni ambascerie, descrivendo le «stragi e le iniquità dei nefandissimi Longobardi». L'ultima di queste lettere era indirizzata al Re ed ai suoi figli, in nome addirittura di S. Pietro, il quale, dopo aver detto che le ingiurie recate alle popolazioni, ai luoghi sacri e profani erano tali che le pietre stesse ne avrebbero pianto, [371] finiva invocando il pronto aiuto del popolo franco, eletto da Dio a difesa della Chiesa. Ogni indugio diveniva adesso una grave colpa, di cui si sarebbe dovuto rendere stretto conto a Dio.

Pipino non fu sordo all'invito del Santo, e nella primavera del 756 mosse di nuovo per la stessa via contro Astolfo, che, abbandonato l'assedio di Roma, durato già tre mesi, corse a Pavia. Di là mandò l'esercito contro i Franchi; ma questi, passato il Cenisio, dettero una nuova rotta al nemico, e procedettero oltre. Nel suo cammino Pipino s'incontrò con un ambasciatore che veniva da Costantinopoli, e che si provò a persuaderlo di restituire all'Impero le terre indebitamente occupate dai Longobardi. Egli allora rispose chiaro, che non era venuto in Italia a far la guerra «per nessun interesse mondano, in favore di nessun uomo; ma per amore di S. Pietro e venia de' suoi peccati.» Dopo di che andò all'assedio di Pavia, dove Astolfo dovette ben presto arrendersi di nuovo. E questa volta naturalmente i patti furono assai più duri che nel 754. Oltre una forte contribuzione di guerra ed un annuo tributo, dovette cedere un maggior numero di città, e dar nuovi ostaggi. Il Libro pontificale dà la lista di queste città, comprendendovi Comacchio, Ravenna, tutto il paese fra l'appennino ed il mare, da Forlì a Sinigaglia: la Marca d'Ancona, Faenza, Bologna, Imola e Ferrara non vi sono comprese. Si tratta in sostanza dell'Esarcato e della Pentapoli, quali però erano stati ridotti dopo le conquiste fatte dai Longobardi prima di Astolfo. L'abate Fulrado fu allora incaricato d'andare personalmente, con buon numero di soldati franchi, a prendere la consegna delle città, facendosi dare le chiavi, e per maggiore sicurezza anche nuovi ostaggi. Le chiavi furono in Roma consegnate al Papa insieme con l'atto di donazione [372] «a S. Pietro, alla Santa Repubblica romana, ed a tutti i successivi pontefici». Questa donazione scritta fu messa nella Confessione di S. Pietro, e vi si trovava ancora, secondo l'autore della vita di Stefano II, quando egli scriveva (L. P., I, 453). Ben presto, come vedremo, i Papi cominciarono a chiedere assai di più.

In quello stesso anno 756, pochi mesi dopo che Pipino s'era ritirato in Francia, Astolfo moriva. Egli era stato un sincero cattolico, aveva fondato chiese e conventi, e se aveva portato via dalla Campagna romana reliquie e corpi di Santi, lo aveva fatto per averli nelle chiese del suo regno: tuttavia era stato in lotta continua col Papa. Valoroso in guerra, seguì anch'egli, come la più parte dei re longobardi, una politica capricciosa ed inconseguente, che lo condusse nella seconda parte del suo regno a perdere tutto quello che aveva guadagnato nella prima. Alla sua morte vi fu tra i Longobardi una minaccia di guerra civile, a causa della successione. Rachi uscì dal convento di Montecassino, per tentar di succedere al fratello; ma ebbe a competitore Desiderio duca di Toscana, che, mediante larghe promesse al Papa, ne ottenne il favore. Questi indusse Rachi a tornarsene nel suo convento; scrisse a Pipino esaltando i meriti di Desiderio, e le molte promesse che aveva fatte alla Chiesa; pregava perciò anche lui di volerlo favorire e d'incoraggiarne le buone intenzioni. Si trattava adesso, diceva il Papa, di condurre a compimento la bene incominciata impresa, facendo restituire a S. Pietro ed alla Chiesa anche le terre che prima di Astolfo avevano fatto parte dell'Esarcato e della Pentapoli. Non era possibile governare quel paese, tenendo separate popolazioni che assai lungamente erano state unite. «Ora, così concludeva il Papa, che è morto Astolfo seguace del demonio, divoratore del sangue dei cristiani, e che, mediante [373] l'aiuto vostro e dei Franchi, è successo Desiderio, uomo mitissimo e buono, noi vi preghiamo non solo di spronarlo a perseverare nella retta via; ma di cooperare con lui a liberarci dalla pestifera malizia dei Greci, ed a farci riavere le proprietà indebitamente tolte alla Chiesa.»

È chiaro che ora non si tratta più della pura e semplice attuazione delle antiche promesse fatte da Pipino, ma di nuove domande. Il Papa chiedeva l'Esarcato e la Pentapoli nella loro primitiva ed assai più vasta estensione; chiedeva inoltre anche le terre, le proprietà della Chiesa, sparse altrove, che erano state indebitamente occupate dai Longobardi o dai Bizantini. Il momento pareva opportuno per attuare ciò che Desiderio gli aveva fatto sperare in compenso dei grandi servigi a lui resi per farlo salire sul trono. Se non che ben presto si vide, che neppure il nuovo re dei Longobardi aveva voglia di mantenere le sue promesse. Infatti, dopo aver ceduto Faenza e Ferrara, non dette più altro. Stefano II però fu dalla morte, che lo colpì il 26 aprile 757, liberato dal dolore di questo crudele disinganno.

La successiva elezione, che fu assai tumultuosa, cominciò a mettere in evidenza i grandi mutamenti che dovevano seguire a Roma, in conseguenza della nuova politica dei Papi. La donazione di Pipino rendeva il capo della Chiesa sovrano temporale. Se era divenuto padrone dell'Esarcato e della Pentapoli, voleva naturalmente essere anche padrone effettivo del Ducato romano. Infatti a Roma d'ora in poi non si trova più un Duca, perchè il Papa vuol farne esso le veci. Ma questo appunto sollevò la nobiltà laica, o sia i Judices de Militia, i quali si trovavano alla testa dell'esercito, e vennero in fierissima lotta con la nobiltà ecclesiastica, o sia i Judices de clero, i quali, per la nuova autorità assunta dal Papa, avrebbero voluto comandar essi in Roma. Fortunatamente, il 29 maggio [374] 757, venne consacrato nuovo papa il fratello del defunto, che prese il nome di Paolo I. Questi dovette subito accorgersi che c'era ben poco da fidarsi di Desiderio; si volse perciò a Pipino, annunziandogli la sua elezione, come prima soleva farsi all'Esarca, e chiedendogli aiuto contro i nobili, che divenivano sempre più riottosi. Ad essi Pipino scriveva raccomandando obbedienza al Papa; ed abbiamo la lettera con cui il Senatus atque universi populi generalitas rispondevano «all'eccellentissimo Signore da Dio eletto, e vittorioso Pipino re dei Franchi, patrizio dei Romani.» In essa promettevano obbedienza al Papa, che chiamavano «Padre comune.»

Il conflitto principale continuava però sempre ad essere coi Longobardi, e si complicava ora, perchè Desiderio era d'un carattere mutabilissimo, che doveva poi essere la rovina sua e del suo regno. Quando i duchi di Benevento e di Spoleto accennavano a ribellarsi a lui, avvicinandosi invece al Papa ed ai Franchi, egli, per mantenere intatta la sua autorità, andò subito con la forza a deporli, sostituendoli con altri di sua fiducia. E dopo di ciò il suo primo pensiero fu di volgersi all'imperatore Costantino V, detto Copronimo, promettendo d'aiutarlo a ripigliare l'Esarcato e la Pentapoli. Ma quando s'accorse che per questa via non riusciva a nulla, perchè l'Imperatore era occupato altrove, mutò nuovamente pensiero, e da capo s'avvicinò al Papa, che, sebbene di mala voglia e senza fidarsene, pur lo accolse. In verità anche il Papa si trovava in una difficilissima posizione. Non poteva sperar nulla da Pipino, trattenuto ora nelle guerre d'Aquitania e di Sassonia; e doveva nello stesso tempo impensierirsi delle nuove difficoltà che gli suscitava l'Imperatore, giacchè al conflitto politico coll'Oriente s'aggiungeva ora quello religioso a causa delle immagini. Costantino Copronimo, infatti, profittando della tendenza [375] del clero franco, che sembrava essere avverso al Papa non solo nella disputa delle immagini, ma anche in quella sulla Trinità, cercava di venire con Pipino ad un accordo religioso, cui sperava dovesse facilmente seguire l'accordo politico. Ma Pipino, sebbene accettasse la discussione, finì col restar fedele alla Chiesa di Roma.

Siamo evidentemente in un periodo di transizione, nel quale lo stato delle cose muta ogni giorno, ed ognuno quindi muta la sua condotta politica. Pipino trattava coll'Imperatore, ed era amico del Papa, che scriveva e riscriveva in Francia, perchè lo difendessero dai Bizantini, eretici e nemici di Santa Chiesa. Il Papa, disperato, s'avvicinava ai Longobardi nemici suoi e dei Franchi, i quali da lui e dal suo predecessore erano stati chiamati a combatterli. L'Imperatore cercava d'avvicinarsi ai Franchi, che gli avevano tolto l'Esarcato e la Pentapoli dandoli al Papa, contro cui egli ora voleva spingerli.

Ma il 28 giugno 767 moriva Paolo I, il 24 settembre 768 moriva Pipino, e ciò doveva necessariamente dare origine ad un nuovo e grande mutamento.

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