CAPITOLO III

Ordinamento del regno longobardo e del governo bizantino

Importa ora formarsi un'idea chiara, almeno sommariamente, della forma di governo, che ebbero fra di noi i Longobardi, perchè se mai una volta, come alcuni pretesero, il filo della tradizione romana si spezzò del tutto in Italia, se ogni traccia di leggi e d'istituzioni romane sparì affatto, questo non potrebbe essere avvenuto che sotto il loro dominio. Non solamente esso durò su di noi più a lungo di ogni altro dominio barbarico; ma è certo che gli Ostrogoti lasciarono in vigore le leggi e le istituzioni romane, i Bizantini non ne avevano altre essi stessi, e i Franchi quando vennero più tardi erano già in parte romanizzati. I Longobardi, come vedemmo, avevano [275] invece avuto assai minore contatto coll'Impero, col quale s'erano messi in aperta guerra, per cacciarlo addirittura dall'Italia. Avendo però da lungo tempo abbandonate le loro antiche sedi, vagando sotto forma più o meno d'una compagnia di ventura, non potevano neppur essi aver serbate intatte le primitive istituzioni germaniche. E quelle che ora avevano, non potevano dirsi naturalmente, esclusivamente svolte dalle antiche, che di necessità erano state profondamente alterate dalle nuove condizioni in cui s'erano trovati, dal contatto che avevano avuto con altri popoli. Rimase tuttavia costante in essi la loro tendenza disgregatrice, la incapacità di costituirsi in una forte unità. Questo fu causa del disordine continuo in cui vissero; rese loro impossibile arrivar mai alla conquista di tutta Italia, e portò finalmente la totale rovina del regno.

Alla loro testa era un Re non del tutto ereditario, nè del tutto elettivo. Il popolo lo eleggeva o ne sanzionava la elezione fatta dai suoi capi, la quale soleva essere circoscritta nella cerchia d'una stessa famiglia o parentela. Qualche volta il popolo trasmetteva ad altri la facoltà di fare l'elezione. Così dopo la morte d'Autari, si dette facoltà alla sua vedova Teodolinda d'eleggersi un marito, che sarebbe stato, come poi fu, il nuovo Re dei Longobardi. Questi era il capo civile e militare della nazione; comandava l'esercito, amministrava la giustizia in compagnia di assessori, che di volta in volta sceglieva. Le leggi proclamate in suo nome erano le consuetudini stesse formatesi nel popolo, le quali egli, d'accordo coi grandi, formulava e sottoponeva poi all'approvazione dell'assemblea popolare, perchè decidesse se riproducevano esattamente le consuetudini. Il Re poteva anche di sua autorità emanare ordini o decreti, i quali, coll'andare del tempo e sotto l'azione persistente del diritto romano, [276] andarono crescendo di numero e d'importanza. Quello che soprattutto determinò il carattere di questa monarchia, fu la sua divisione in Ducati, i cui Duchi, nominati dal Re a vita, erano specie di Vicerè indipendenti, piuttosto che veri e propri ufficiali regi. Essi tendevano a rendersi non solo sempre più indipendenti, ma anche ereditari; e qualche volta vi riuscirono, come fecero quelli del Friuli, di Spoleto e di Benevento. Il duca di Spoleto assunse il titolo di Dux gentis Langobardorum, quello di Benevento divenne addirittura un vero e proprio sovrano autonomo ed ereditario. Tutto questo non poterono tuttavia riuscire a fare gli altri Duchi meno lontani, perchè il Re, come era naturale, vi si opponeva, per tenerli sottomessi alla propria autorità. Di qui un conflitto permanente, che fu causa di rivoluzioni continue, della morte violenta di molti Re, e produsse la debolezza continua del regno, che non si riuscì mai ad organizzare fortemente. Ed in più di due secoli di dominio, di violenze e di prepotenze i Longobardi, invece di germanizzare gl'Italiani, finirono coll'essere essi romanizzati, formando coi vinti un popolo solo.

Nel regno longobardo v'erano alcuni veri e propri ufficiali regi, chiamati Gastaldi, e nominati dal Re, che poteva revocarli. Essi amministravano la Curtis Regia, cioè i beni della corona nei Ducati, nei quali erano mandati. Sorvegliavano i Duchi, e là dove esercitavano il proprio ufficio, facevano anche da giudici e capi militari. Aumentare il numero di questi Gastaldi fu il pensiero costante dei Re, perchè era il solo mezzo di accrescere l'autorità propria, di dare una qualche organica unità al regno. E però, coll'andare del tempo, nelle terre nuovamente conquistate, cercaron sempre di porre Gastaldi invece di Duchi. Intorno al Re erano anche i Gasindi, specie di familiari o cortigiani, il cui potere andò col tempo anch'esso [277] aumentando. Ma quel che è più, v'era un Consiglio di Duchi, del quale naturalmente non facevano di regola parte i Romani; v'entravano però i Vescovi, i quali, massime in principio, erano sempre romani.

Tutto ciò, come è evidente, non bastava a formare un regno saldamente costituito. I Duchi cercavano continuamente ed in ogni cosa d'imitare il Re. Giudicavano nel proprio Ducato, ne comandavano l'esercito, facevano anche spedizioni militari per loro conto; qualche volta, per ordine del Re, assumevano in tutto o in parte il comando dell'esercito nazionale. Avevano anch'essi i loro Gasindi, ed ufficiali che facevano le veci di Gastaldi, ed altri che chiamavano Sculdasci, i quali tutti avevano, più o meno, poteri amministrativi, giudiziari e militari. Al Re sarebbe di diritto spettato il nominare gli ufficiali dei Duchi; ma questi tendevano sempre a nominarli essi, e spesso vi riuscirono. Nel Ducato di Benevento non vi furono i Gastaldi regi, ma solo ufficiali nominati dal Duca.

Si è molto disputato per sapere se i Longobardi in genere o i Duchi in ispecie risiedevano nelle città o nella campagna. E certo non è difficile trovare molti argomenti per sostenere che risiedevano in città, soprattutto nelle principali. Queste avevano ciascuna un proprio territorio, determinato dalle antiche circoscrizioni romane, su cui si erano formate le Diocesi vescovili, identiche alle così dette Giudiciarie dei Ducati. Tutto ciò, insieme riunito, aveva il nome di Civitas, ed in essa di certo dovevano risiedere i Longobardi in genere, e i Duchi in ispecie. Ma che risiedessero generalmente dentro le mura delle città, le quali erano ab antico la sede della popolazione romana, è, secondo noi, più facile affermarlo che dimostrarlo. Colle invasioni germaniche il centro di gravità fu trasferito nelle campagne. I Tedeschi erano popolazioni rurali, che non conoscevano le città; nei castelli del contado [278] si costituì più tardi il feudalismo, che dette la forma predominante alla società medioevale; ed i grandi feudatari del contado sono dai nostri cronisti continuamente chiamati i Teutonici, i Lombardi.

Di fronte al governo dei Longobardi, in tutti i luoghi di cui essi non riuscirono ad impadronirsi, restava sempre il governo bizantino, il che doveva contribuire non poco a far sì che, pel mutuo contatto, si modificassero l'un l'altro. Secondo la Prammatica Sanzione il potere civile ed il militare dovevano essere divisi. Alla testa del primo restava infatti il Praefectus Praetorio, che risiedeva a Ravenna; a Roma c'era un Vicarius Urbis; a Genova un Vicarius Italiae, e tutti e tre dovevano curare l'amministrazione. Le liti fra Romani venivano decise da Judices provinciarum eletti dai Vescovi. La Prefettura d'Italia, separata dalla Rezia e dalle isole, s'era andata sempre più restringendo, e s'era adesso ridotta ad alcuni brani solamente della Penisola. La Sicilia aveva un suo proprio Prefetto; la Sardegna e la Corsica dipendevano dall'Esarca dell'Africa. Siccome però lo stato di guerra continuava sempre, nè poteva cessare per ora, così, nonostante l'esistenza del Prefetto e dei Vicari, il potere civile ed il militare si riunivano di fatto nei Duchi bizantini. Questi, mandati a governare e difendere le province ancora dipendenti dall'Impero, le quali spesso erano non solo separate, ma anche assai lontane le une dalle altre, si trovavano di fronte ai Duchi longobardi, anch'essi separati e indipendenti. Così fin da ora l'Italia andò sempre più dividendosi e suddividendosi.

La tendenza burocratica, accentratrice dei Bizantini rendeva necessario un capo che rappresentasse l'Impero nella Penisola, e nel quale tutti i poteri si riunissero come nell'Imperatore. Questo capo era l'Esarca, cui si attribuiva [279] anche la dignità assai onorifica di Patrizio, e risiedeva a Ravenna. Il titolo di Esarca era generalmente dato a tutti coloro che conducevano una spedizione all'estero, ed in questo senso potè esser da qualcuno attribuito anche a Belisario ed a Narsete. Ma esso ebbe in Italia un significato, un valore affatto speciale, perchè concesso solo a chi governava in nome dell'Imperatore e lo rappresentava, quasi una continuazione o trasformazione dell'ufficio affidato già a Teodorico. In questo senso Belisario e Narsete non furono Esarchi, ma solo capi dell'esercito, e con esso governarono. Si è molto disputato per sapere chi fosse il primo Esarca in Italia. La più antica menzione ufficiale di questo ufficio si trova, come già dicemmo, nella lettera di papa Pelagio II, scritta in data 4 ottobre 584, che alcuni credono di dover mutare in 585. Decio perciò fu di certo Esarca, e prima di lui si ritiene da alcuni che anche Baduario (575-76) avesse quel titolo. A Decio, che governò breve tempo, successe (585) Smeraldo. I Duchi bizantini teoricamente dipendevano dall'Esarca, che li nominava; ma, separati e lontani gli uni dagli altri, agivano di fatto come indipendenti; e così l'Esarcato andò a poco a poco divenendo anch'esso una specie di Ducato, da cui gli altri dipendevano solamente perchè in esso governava il rappresentante supremo dell'Imperatore.

In questo senso più ristretto l'Esarcato si estendeva dall'Adige alla Marecchia, dall'Adriatico all'Appennino; conteneva Ravenna e Bologna coi loro territori, ed altre città di minore importanza. Accanto ad esso erano la Pentapoli marittima (Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona) e la Pentapoli annonaria (Urbino, Fossombrone, Jesi, Cagli, Gubbio), che, insieme riunite, secondo alcuni formavano la Decapoli, secondo altri invece questo nome [280] davasi alla seconda Pentapoli. Nel settimo secolo appartenevano ai Bizantini anche il Ducato di Venezia, parte dell'Istria, l'Apulia e la Calabria (Terra d'Otranto), il Bruzio (Calabria moderna), Napoli, Roma, Genova con la Riviera. In generale tutte le città della costiera adriatica e mediterranea restarono ai Bizantini, non essendo i Longobardi stati mai navigatori. L'Esarca era mandato a governare Regnum et Principatum totius Italiae, perchè l'Impero restava attaccato sempre alle antiche formole, anche quando non rispondevano più alla realtà. Da principio l'Esarca nominava i Duchi ed i Maestri dei militi, due ufficiali che spesso si confondon tra loro, sebbene in origine questi fossero inferiori a quelli, e più esclusivamente militari: a Roma il Maestro dei militi comandava le milizie della città, il Duca quelle di tutto il Ducato. Di fatto poi finirono, così gli uni come gli altri, coll'esercitare le funzioni giudiziarie e militari, spesso anche amministrative, e vi fu fra di loro poca differenza. I Ducati eran divisi in sezioni, nelle quali comandavano i tribuni, che vennero spesso confusi coi Conti, risiedevano nelle città secondarie, e dipendevano dal Duca o dal Maestro dei militi, che risiedevano nelle città principali e comandavano in tutto il Ducato. Il numero e la estensione di questi Ducati variavano secondo le necessità della guerra. Prima della venuta dei Longobardi ne erano stati già formati parecchi ai confini, verso le Alpi, con soldati limitanei, che in pace coltivavano i campi loro concessi, lasciandoli poi in eredità ai figli con lo stesso obbligo della difesa. La tendenza a rendere ereditari gli uffici era, come è noto, assai generale presso i Bizantini. Colla venuta dei Longobardi, con la divisione e suddivisione dell'Italia, che [281] per opera loro ne seguì, i confini si moltiplicarono. Essi furono a poco a poco quasi per tutto, perchè ai Bizantini era necessario difendersi per tutto dal nemico. E s'andarono continuamente formando nuovi Ducati, i quali variarono di numero e di estensione, secondo che per le vicissitudini della guerra s'avanzava o si retrocedeva.

L'Esarca, come nominava i Duchi, perchè rappresentante dell'Imperatore, così per la stessa ragione s'ingeriva nelle cose ecclesiastiche. Esso presumeva di dover ricondurre i sudditi alla vera fede, imprigionava i vescovi, sorvegliava ed approvava la elezione del Papa: qualche volta ebbe da Costantinopoli persino l'ordine d'imprigionarlo. Da un tale stato di cose sorgevano, come era naturale, cause infinite di conflitti; e non solamente con Roma. A Costantinopoli si temeva sempre che l'Esarca volesse rendersi indipendente: più d'uno di essi infatti ci s'era provato. Si cercava quindi d'indebolirne il potere, favorendo invece l'autorità dei Duchi, facendoli nominar direttamente dall'Imperatore, o confermandoli quando il popolo cominciò esso ad eleggerli. E ne seguì non solo che i Ducati bizantini s'andarono sempre più separando gli uni dagli altri e dall'Esarca, dividendo sempre più l'Italia; ma finirono coll'emanciparsi, qualche volta proclamando addirittura la loro indipendenza. Questo avvenne a Venezia, a Napoli, a Roma ed anche a Ravenna, come vedremo.

Nel 584 noi vedemmo come papa Pelagio II, si dolesse che a Roma non vi fosse nè un Duca nè un Maestro dei militi. Nel 592 invece Roma aveva già un suo Maestro dei militi che ne difendeva le mura, e nel 625 l'Exercitus Romanus (che nel 640 è ricordato la prima volta dal Libro Pontificale) assisteva ufficialmente alla elezione del Papa. E non molto dopo troviamo che Gregorio Magno fa obbligo alle popolazioni del Ducato di difendere colle [282] loro armi contro i Longobardi le mura della città, la quale sembra così già avviarsi ad una propria autonomia. Si è lungamente voluto supporre, che sotto i Longobardi fosse scomparso ogni avanzo di diritto e di istituzioni romane, e che degli antichi municipi non fosse rimasta traccia alcuna. L'antica Curia, si è mille volte ripetuto, era ridotta a riscuoter tasse, che i Decurioni dovevano pagare anche quando non riuscivano a riscuoterle. L'appartenervi non era quindi più un onore, ma un onere incomportabile, che tutti cercavano di fuggire, anche col volontario esilio; nè dopo il 625 essa si trova più ricordata nei documenti. Nella stessa Italia bizantina, dove la legge romana era in pieno vigore, l'amministrazione municipale, si disse, era scomparsa, cadendo nelle mani del Vescovo e di ufficiali quasi governativi come il Curator ed il Defensor. Nell'Italia longobarda, secondo i medesimi scrittori, tutto sarebbe stato assorbito dalla Curtis regia, dai Duchi, dai Gasindi, più tardi dai Vescovi. Ma sono teorie ed ipotesi ora in gran parte abbandonate da coloro stessi che una volta le sostenevano con grande ardore. Se tutto ciò fosse vero, riuscirebbe assai difficile capire in che modo i Longobardi avrebbero potuto amministrare e governare le popolazioni italiane, in gran numero raccolte nelle città. Di queste popolazioni essi dovevano pure occuparsi, ne avevano bisogno, perchè esse esercitavano i mestieri, l'industria ed il commercio. Qualunque fosse poi lo stato legale delle cose, è assai difficile, per non dire impossibile, il credere che, anche volendo, i Longobardi avessero potuto impedire che, almeno di fatto e per consuetudine, continuasse fra gl'italiani a vivere una qualche parte della giurisprudenza e delle istituzioni romane. Esse avevano create fra di loro un gran numero di relazioni civili, delle quali i Longobardi ignoravano affatto l'esistenza e perfino il nome. Quanto poi a ciò che [283] seguì a tempo dei Bizantini, i quali vivevano essi stessi con le istituzioni e con la legge romana, la totale scomparsa del Municipio sotto il loro dominio, renderebbe inesplicabile il suo pronto riapparire a Venezia, a Roma ed in molte città del Mezzogiorno, che erano rimaste più o meno alla dipendenza di Costantinopoli. Ma è superfluo qui anticipare la discussione d'un argomento, che si presenterà più tardi con assai maggiore insistenza ed evidenza.

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