CAPITOLO IV

Gregorio I — Agilulfo sposa Teodolinda e pacifica il regno — Gregorio I fa pace coi Longobardi di Spoleto — Agilulfo assedia Roma — L'imperatore Maurizio è deposto; viene eletto Foca — Morte di Gregorio I e di Agilulfo — S. Colombano

Nel 590 morirono Pelagio II e Autari. Mutavano così nello stesso tempo il capo della Chiesa e il re dei Longobardi, e ad essi succedevano due uomini, il Papa soprattutto, di grandissimo valore. Gregorio I, che prese il posto di Pelagio II, era nato a Roma circa il 540 da illustre famiglia senatoria. La madre ed il padre erano pieni di tanto zelo cristiano, che appena nato il figlio si dettero addirittura a vita religiosa. Questi studiò con ardore le lettere e la filosofia, ebbe alti uffici, e poco dopo la invasione longobarda, verso il 573, era Prefetto di Roma e Presidente del Senato. Ben presto però si sentì anch'egli invaso dallo zelo religioso, e cominciò a spendere il suo ricco patrimonio fondando conventi benedettini in Sicilia ed altrove. Uno di questi conventi, nel quale si chiuse poi egli stesso, vestendovi l'abito, a quanto sembra, nel 575, lo fondò a Roma, nel suo palazzo avito, sul monte Celio. [284] Si narra che, vedendo un giorno nel mercato alcuni bellissimi e biondi Inglesi, pagani, esposti alla vendita come schiavi, esclamasse: — Non Angli, ma Angeli si debbono chiamare; — e partì subito per andare in Inghilterra, con animo di convertir quelle popolazioni. Ma il popolo lo fece richiamare dal Papa, che lo nominò diacono; più tardi fu inviato apocrisario a Costantinopoli, dove seppe far sentire efficacemente nella Corte imperiale la sua azione personale a favore della Chiesa romana. Tornato a Roma, fu segretario del Papa, cui poi successe, eletto a voti unanimi. Dicono che facesse di tutto per evitare la enorme responsabilità d'assumere il Papato, che era in assai difficili condizioni; ma non gli fu possibile. La peste faceva strage, ed egli, per invocare l'aiuto divino, ordinò una processione solenne di tutto il popolo, la quale durò tre giorni continui. Vuole la leggenda che Gregorio allora vedesse apparire sulla tomba d'Adriano un angelo, il quale rimetteva la spada nel fodero, a significare che le preghiere erano state esaudite, e che la strage sarebbe cessata. In memoria di ciò, su quella tomba monumentale venne poi messa la statua dell'angelo in bronzo, da cui essa ebbe il nome di Castel Sant'Angelo. La statua che oggi si vede è però del 1740.

Venuta da Costantinopoli la conferma, il nuovo Papa fu il 3 settembre 590 consacrato col nome di Gregorio I, rimanendo per quattordici anni sulla cattedra di S. Pietro, fino cioè al marzo del 604. In lui v'era il doppio carattere d'un uomo contemplativo e ardentemente religioso, unito a quello d'un uomo operosissimo e pratico: due qualità che sembrano a molti poco conciliabili fra di loro, ma che pur si trovano assai spesso riunite in uno stesso individuo. Questo doppio carattere si riscontra anche ne' suoi scritti, alcuni dei quali, come i Dialoghi, le Omelie e i libri morali ci mostrano l'uomo contemplativo; altri mirano invece ad [285] uno scopo pratico, come son quelli che danno regole per la liturgia. Queste regole furono lungamente osservate: la messa si celebra anche oggi in gran parte secondo le norme fissate da papa Gregorio. A lui si deve anche la riforma della musica sacra, e la fondazione delle scuole di quel canto, che fu perciò chiamato gregoriano. I quattordici libri delle sue Epistolae sono un monumento davvero immortale per la sua vita e per la storia dei tempi. In esse impariamo a conoscere con sicurezza il carattere nobilissimo di quest'uomo, che si può dire il secondo fondatore del Papato; e vi risplendono di viva luce il suo senno pratico, la sua febbrile attività e carità cristiana, il suo ardore religioso. Vi si vede chiaro come egli fosse divenuto il primo personaggio del secolo, che guidava non solo la Chiesa, ma la politica italiana, e in parte quella anche dell'Europa. Dovette occuparsi d'amministrare l'enorme patrimonio che, per le continue donazioni dei fedeli, allora già aveva la Chiesa in Sicilia, in Sardegna, in tutta Italia. Di esso non è possibile determinare con esattezza il valore, che si fa da alcuni ascendere ad una estensione di 1800 miglia, con una rendita di 7,500,000 lire. E di questo denaro, che gli dava una gran forza, si valeva per aiutare non solo i conventi, il clero, la Chiesa; ma in assai più larga misura anche gli ospedali ed i poveri. Le sue lettere sono piene di savissime norme amministrative, di un affetto, di una cura singolare per l'interesse dei contadini. E oltre di ciò egli fa in esse una costante guerra ai Longobardi; anima le popolazioni italiane alla resistenza, alla difesa delle mura cittadine, invitando qualche volta il clero stesso a prendere le armi. Tutto questo suo ardore operoso, fervido, giovanile si manifesta in mezzo ad un mondo che sembra da ogni parte cadere in rovina, e nel quale egli sta sempre fermo a lottare, per salvarlo colla fede inconcussa in Dio [286] e nella virtù, con una passione, un affetto inestinguibile pel bene degli uomini. «I tempi sono tristissimi, egli scrive, i campi desolati e deserti, le città vuote, il Senato è morto, il popolo più non esiste, la spada pende sul capo di coloro che sono rimasti: noi siamo in mezzo alla rovina del mondo.» Eppure non cede, non piega, non si scoraggia mai. Con una energia indomabile, sostiene di fronte all'Impero la dignità della Chiesa romana, combattendo il Patriarca di Costantinopoli, il quale pretendeva d'assumere il titolo di patriarca ecumenico, che spettava solo al Papa, capo della Chiesa universale. E, come per contrasto, continuava sempre a portare il titolo già assunto di Servo dei Servi, sostenendo la lotta, senza mai piegare fino a che non ebbe ottenuto la vittoria.

Le sue lettere all'Imperatrice sono piene delle più nobili massime in favore degli oppressi, contro la corruzione amministrativa, contro gli eccessi degli agenti del fisco. «Piuttosto, egli le scriveva, che gravar di tasse i miseri a segno tale che per pagarle alcuni son costretti a vendere schiavi i propri figli, mandateci meno danaro per le spese d'Italia, ed asciugate invece le lacrime degli oppressi.» Indefessa, costante fu la sua opera per guadagnare al cattolicismo i Longobardi. Per convertire il loro re Agilulfo si valse della moglie di lui Teodolinda, che già era cattolica. Dell'arcivescovo Costanzo, che raccomandò ai Milanesi, si valse per combattere l'arianesimo nell'alta Italia. Molto fece per diffondere sempre più il cattolicismo tra i Franchi e nella Spagna; ma soprattutto si adoperò per convertire gli Anglo-Sassoni, presso i quali mandò una prima missione nel 596, una seconda nel 601. Rafforzò l'unità della Chiesa, sottomettendo a Roma i vescovi, sulla cui elezione vegliò severamente, per combattere la simonia e la scelta di uomini poco degni, pericolo che allora minacciava assai. A rafforzare la papale [287] autorità in Italia e fuori giovò molto anche il favore che egli dette al monachismo, sul quale il Papato aveva cominciato e continuò sempre più ad esercitare un'azione diretta, restringendo quella esercitata dai vescovi. Ma nello stesso tempo rafforzò il divieto d'accogliere nei monasteri chi ancora non aveva compiuti i diciotto anni, e chi aveva moglie, se questa non si dava anch'essa alla vita religiosa. In tutto si dimostrò un uomo superiore. Un giorno egli rimproverò il vescovo di Terracina, per avere a forza cacciati gli Ebrei dai luoghi in cui celebravano i loro riti religiosi, dicendo che coloro i quali dissentivano dalla vera fede, si dovevano richiamare alla dottrina di Gesù Cristo colla mansuetudine e la persuasione, non colla violenza.

Nell'anno stesso in cui fu eletto Gregorio I, si procedeva alla elezione del nuovo re dei Longobardi. Questi dissero a Teodolinda, di cui avevano giustamente un alto concetto, che si scegliesse un secondo marito, capace di governare, ed essi, fidando nel buon giudizio di lei, lo avrebbero senz'altro accettato per loro re. Teodolinda che aveva già cominciato a governare, e dato subito prova della sua accortezza politica cercando di stringere alleanza coi Franchi, tenuto ora consilium cum prudentibus, scelse Agilulfo duca di Torino, originario della Turingia, parente di Autari, bello, giovane, valoroso, prudente. Deliberata la scelta, si mosse francamente per andargli incontro verso Torino. E trovato che l'ebbe a Lumello, lo invitò a bevere nella stessa tazza, dopo di che, cum rubore subridens, si lasciò baciare in bocca, come per confermare la scelta che aveva fatta. Le nozze furono celebrate con generale letizia; e nel maggio del 591 Agilulfo assunse la potestà regia, solennemente acclamato dal popolo congregato a Milano.

La posizione in cui si trovava ora Agilulfo era assai [288] difficile. Da una parte minacciavano i Franchi, da un'altra i Bizantini. A Roma c'era un Papa avversissimo agli ariani ed agli stranieri, che aveva grandissima autorità sulle popolazioni italiane. Se questi tre nemici si fossero una volta messi veramente d'accordo, ai Longobardi non sarebbe rimasto da far altro che ripassare le Alpi. Ma fortunatamente per essi quest'accordo non esisteva e non era possibile. Il Papa era tutt'altro che contento dei Bizantini, dei quali scontentissime si mostravano le popolazioni. I Franchi, continuamente paralizzati dalle sanguinose discordie interne, quando queste cessavano, si ponevano, è vero, assai facilmente d'accordo coi Bizantini, per muover guerra ai Longobardi. Se non che, tanto essi quanto i Bizantini avrebbero voluto ciascuno l'Italia per sè; e così appena erano sul punto di abbattere i Longobardi, tornava subito la discordia fra di loro, e ognuno di essi cercava d'avvicinarsi al nemico, a danno dell'amico. Si formò così una specie di equilibrio instabile, in mezzo al quale Agilulfo poteva sperare di destreggiarsi a suo modo. A questi pericoli esterni si aggiungevano però anche gl'interni. Alcuni dei Duchi, scontenti per la speranza delusa di salire essi sul trono, minacciavano di ribellarsi. Altri non pochi, sopra tutto quelli assai potenti che erano ai confini, aspirando a sempre maggiore indipendenza, dimostravano di volersi anch'essi ribellare.

In mezzo a tutte queste gravi difficoltà, Agilulfo seppe dar prova di tale e tanta prudenza, da reggersi non solo, ma da riuscire anche ad essere, come fu giustamente affermato dal Ranke, il vero fondatore del regno longobardo. E prima di tutto, seguendo il savio concetto di Teodolinda, riuscì a concludere coi Franchi un accordo, del quale ignoriamo i termini precisi. Sappiamo però che, per lungo tempo, da questo lato vi fu pace. Ma il merito di un tale accordo non deve attribuirsi tutto [289] ad Agilulfo. Childeberto che aveva unito sotto di sè l'Austrasia e la Borgogna, lasciò morendo (596) due fanciulli, che si divisero fra loro le due parti del suo regno, dal quale la Neustria era adesso separata. Così tra i Franchi scoppiò di nuovo la guerra civile; ed il re dei Longobardi seppe trarne profitto, per concludere un accordo, che gli permise di darsi interamente a domare i Duchi ribelli, ed a mettere ordine nel Regno, per poter poi combattere vigorosamente i Bizantini.

Cominciò quindi col rivolgersi contro Mimulfo, duca dell'Isola di S. Giuliano, sul lago d'Orta, che fu da lui vinto ed ucciso. Andò poi contro Gaidulfo, duca assai potente di Bergamo, col quale, dopo averlo vinto, fece la pace; ma fu poi nuovamente assalito da lui, quando combatteva Ulfari duca di Treviso. Ciò non ostante, Agilulfo, vinto ed imprigionato Ulfari, si rivolse subito contro Gaidulfo, che s'era ritirato e fortificato nell'Isola comacina. Gli levò l'isola ed il tesoro ivi raccolto, lo inseguì a Bergamo, vincendolo di nuovo e facendolo prigioniero. Quando però tutti s'aspettavano di vederlo messo a morte, Agilulfo da vero uomo di Stato, dominando l'impeto delle sue passioni, gli fece grazia della vita. Sapendolo assai potente e di alto lignaggio, non voleva aumentar troppo il numero dei propri nemici. Rivolse poi il suo pensiero a Benevento, per far riconoscere anche in quel Ducato, già troppo indipendente, la regia autorità. Colà era morto il duca Zottone, ed Agilulfo invece di fargli succedere un parente come s'era fatto in passato, per arrivare, colla successione ereditaria, alla totale indipendenza di quel Ducato, vi mandò invece Arichi nobile longobardo del Friuli.

Il ducato di Spoleto aveva una estensione assai minore di quello di Benevento, ma gli dava grande importanza la sua posizione geografica. Posto sulla via [290] Flaminia, la quale va da Roma a Rimini, che per altra via è congiunta con Ravenna, esso trovavasi fra la Pentapoli e Roma, che di continuo minacciava. Papa Gregorio infatti si doleva ora amaramente all'Imperatore che l'esarca Romano, il quale pur era un uomo valoroso, lo lasciasse esposto ai nemici assalti, senza muovere un passo in sua difesa, tanto che doveva egli solo provvedere a tutto. Lo pregava perchè si movesse finalmente a difesa della causa Italiae. «Io non so più, egli diceva, se ora adempio l'ufficio di pastore o di principe temporale. Debbo provvedere alla difesa, a tutto; sono divenuto il pagatore dei soldati.» E veramente egli pensava a restaurare le mura, a dare ordini per la difesa; era l'anima della guerra in Roma e fuori; avvertiva i capi dei militi a stare di continuo attenti ai movimenti degli Spoletini. In qualche città inviava soldati, scrivendo che la difendessero sotto l'ordine del Magister militum (27 settembre 591). Con un'altra lettera, circa dello stesso tempo, indirizzata: Clero, ordini et plebi consistenti Nepae, mandava il clarissimum Leontium a difenderla. Nel giugno del 592 scriveva a due Maestri dei militi come a suoi dipendenti, dando loro ordini per la guerra. E nello stesso anno, alla città di Napoli che si trovava senza armi, ed era minacciata da Benevento d'accordo con Spoleto, il Papa mandava il «Magnifico tribuno» Costanzo, ordinando che gli si affidasse il comando dei soldati, perchè potesse dirigere la difesa. E intanto, senza aver dall'Esarca aiuto nè di uomini nè di danari, doveva difendersi da Ariulfo, che s'avanzava per assediare Roma. «I soldati regolari che qui sono, così egli scriveva al vescovo di Ravenna, non avendo più le paghe, hanno abbandonato la Città; gli altri a stento s'inducono a far la guardia alle mura. Ormai non resta che concludere la pace coi Longobardi. Questa è divenuta per Roma questione di vita o di morte.» Ed [291] assumendo sopra di sè ogni responsabilità, quasi fosse divenuto il capo legale, il rappresentante legittimo del Ducato romano, concluse con Ariulfo la pace.

L'Esarca fu di ciò irritatissimo, accusando il Papa d'avere compiuto un atto d'indebita sovranità, quasi fosse indipendente dall'Imperatore. Ormai, egli diceva, Ariulfo, sicuro alle spalle, poteva da un momento all'altro, unendosi con Agilulfo, procedere contro Ravenna. E nell'autunno del 592 s'avanzò verso l'Italia centrale, trovando a un tratto quelle forze che fino allora aveva sempre detto di non avere. S'impadronì di Perugia, di Todi, di Orte, di Sutri, che erano occupate dai Longobardi. Ed il Papa, di buona o di mala voglia, non ostante la pace fatta, dovette secondar questa guerra. Così il suo accordo coi Longobardi fu rotto; ed Agilulfo, nel maggio del 593, si mosse in persona contro Roma. Passato il Po, fece prigionieri alcuni Italiani, che mandò nella Gallia per venderli schiavi; altri arrivarono in Roma mutilati. Il Papa dovette allora solennemente annunziare al popolo, che interrompeva le sue predicazioni sopra Ezechielle, per occuparsi della guerra. «Nessuno ci potrà rimproverare, egli diceva, se cessiamo dal predicare in mezzo a tante tribolazioni, circondati come siamo dalle spade nemiche. Alcuni Italiani già tornarono fra noi colle mani mutilate; altri vennero fatti prigionieri, legati e venduti schiavi; altri uccisi!» Agilulfo intanto aveva già preso Perugia, ed ucciso il duca Maurizio che, dopo aver tenuto quella città pei Longobardi, la teneva ora pei Bizantini, ai quali l'aveva a tradimento ceduta. Pose poi l'assedio a Roma, e sebbene le notizie che abbiamo di questo fatto siano incertissime, sembra tuttavia che in parte la resistenza dei cittadini animati dal Papa; in parte la malaria che, a cagione della state, infieriva nella Campagna; in parte la ribellione dei Duchi non [292] ancora sedata nell'alta Italia, finissero coll'indurre Agilulfo a ritornare verso il Nord, dove l'un dopo l'altro sottomise i ribelli.

In mezzo a tutti questi eventi il Papa andava sempre più divenendo il personaggio principale in Italia, i cui interessi egli ora rappresentava, la cui storia sembrava concentrarsi intorno a lui, che sorgeva gigante in mezzo al secolo, dando al Papato inaspettata grandezza, iniziando un'epoca nuova, tenendo testa a tutti con straordinaria energia. Non poteva andare d'accordo coi Longobardi, stranieri, ariani, barbari, saccheggiatori, nemici del nome romano. Non poteva neppure andare d'accordo coi Bizantini, continui essendo con Costantinopoli i dissensi religiosi, continua essendo colà la pretesa di tenere la Chiesa sottomessa all'Impero. Il patriarca Giovanni era sempre ostinato nell'assumere il titolo di ecumenico; e l'Imperatore aveva, con nuovo editto, proibito a coloro che facevano parte dell'amministrazione, d'accettare uffici ecclesiastici o entrare nei conventi. Contro di ciò il Papa energicamente protestava. Oltre di che la continua velleità d'indipendenza manifestata dal clero di Ravenna, veniva favorita adesso dall'esarca Romano, «la cui condotta, scriveva Gregorio, era peggiore di quella dei Longobardi; tanto che sembrano più benigni i nemici che ci uccidono, dei rappresentanti della Repubblica, i quali dovrebbero difenderci, ed invece colla loro malizia e le loro rapine ci consumano lentamente.» Si valeva di tutti i mezzi per agire sull'Imperatore e sull'Esarca; mediante l'arcivescovo di Milano, agiva anche su Teodolinda. Ma in sostanza neppure a lui conveniva una vittoria o prevalenza decisiva dei Bizantini o dei Longobardi. Avrebbe voluto perciò un accordo, col quale venisse stabilito un equilibrio che lasciasse la Chiesa libera dagli uni e dagli altri.

Agilulfo, che si trovava anch'egli in mezzo a mille difficoltà, [293] pareva da parte sua disposto a stringere accordo col Papa; ma questi, dopo ciò che gli era successo per la pace conclusa con Ariulfo, non poteva arrischiarsi a provocare ora un'altra crisi. Si trovava quindi sempre più angustiato, e nelle sue lettere ripeteva che le continue tribolazioni non gli lasciavano neppur tempo di leggere o di scrivere. Tantis tribulationibus premor, ut mihi neque legere neque per epistolas multa loqui liceat. Ma quello che era peggio, non gli venivano risparmiate calunnie d'ogni sorta: lo accusarono presso l'Imperatore perfino d'avere ucciso un vescovo. Al che egli perdette addirittura la pazienza, e scrisse: «Se avessi voluto macchiarmi le mani nel sangue, a quest'ora la nazione longobarda non avrebbe nè re, nè duchi, nè conti, e sarebbe in estrema confusione. Ma io temo Iddio e rifuggo dal macchiarmi le mani del sangue di chicchessia.» L'Imperatore lo aveva accusato d'incapacità e fatuità nella sua condotta verso i Longobardi. «E come! esclamava il Papa indignato, in un'altra lettera del 5 giugno 595, si è rotta la pace da me conclusa con Ariulfo, ritirando i soldati e lasciandomi solo contro Agilulfo. Ho dovuto vedere i Romani presi, legati come cani, e mandati a vendere schiavi nella Francia! L'Imperatore non avrebbe dovuto giammai prestar fede alle parole dei miei nemici, ma guardar solo ai fatti.» E se ne appellava a Gesù Cristo. Intanto i Longobardi di Spoleto e di Benevento si allargavano sempre più nell'Italia meridionale, saccheggiando, conquistando; nè quelle popolazioni potevano trovare aiuto o incoraggiamento in altri che nel Papa, il quale così acquistava sempre maggiore importanza ed autorità, diveniva di fatto il capo legittimo delle popolazioni italiane, che per tale lo riconoscevano.

Nel 595 l'aspetto generale delle cose cominciava a mutare alquanto, perchè moriva il patriarca di Costantinopoli, [294] Giovanni, che era stato causa continua di dissidi, e ne succedeva un altro, Ciriaco, che era più accetto al Papa. Moriva non molto dopo l'esarca Romano, e gli succedeva Kallinicus (per corruzione detto Gallinicus), anche questi a lui molto più favorevole. Tutto ciò avrebbe agevolato non poco le trattative d'una pace generale coi Longobardi, se non si fosse trovato un ostacolo inaspettato nei duchi di Benevento e di Spoleto, i quali, volendo agir sempre per conto proprio, pretendevano di firmarla solo con speciali condizioni da essi imposte. Quindi nel 599 più che una vera pace, si concluse una tregua di soli due mesi. E, come papa Gregorio aveva già preveduto, dicendo: — si farà pace e non sarà pace; — così, quando non era anche scaduto il termine fissato, la tregua fu rotta senza poterla rinnovare. Nel 601 primo a cominciare le ostilità fu l'Esarca, cui rispose subito Agilulfo cercando d'incendiar Padova, che poi prese e distrusse. Egli fu in questa guerra secondato dagli Avari, ai quali mandò, ad faciendas naves, artefici italiani, probabilmente delle antiche scholae o associazioni di mestieri. A sempre più aumentare il disordine s'aggiunse, che da una parte gli Avari assalirono l'Impero e devastarono l'Istria, da un'altra i Longobardi di Spoleto ebbero più d'uno scontro cogl'imperiali di Ravenna.

Il mutamento più notevole e di generale importanza avvenne però a Costantinopoli, dove l'imperatore Maurizio era divenuto assai impopolare per la severa disciplina che voleva nell'esercito. Gli Avari gli avevano nel 600 proposto che riscattasse per danaro 12,000 prigionieri, i quali erano nelle loro mani; ma avendo egli decisamente ricusato, li uccisero, il che provocò un malumore grandissimo contro di lui. Qualche anno dopo, avendo egli dato ordine all'esercito di passare il Danubio e svernare al di là del fiume, lo scontento arrivò a tale che ne scoppiò [295] una rivoluzione, e fu proclamato imperatore Foca, il quale manifestò subito il suo carattere mostruosamente crudele. Nel novembre del 602 fece uccidere il suo predecessore, dopo averne fatto trucidare i figli sotto gli occhi stessi del padre. Siccome poi si doveva subito occupare della guerra persiana, così concluse la pace cogli Avari, richiamò l'Esarca, che aveva fatto scoppiare la guerra anche in Italia, vi rimandò Smeraldo, e pubblicò un decreto con cui riconosceva la supremazia del Papa. Questi allora gli scrisse una lettera nella quale, augurandogli ogni prosperità, diceva, «che gli angeli stessi del cielo avrebbero cantato un inno di lode al Signore,» per la nuova elezione. Un tale linguaggio restò sempre come una macchia indelebile nella vita del gran Papa. Ed in vero, per quanto Foca aiutasse il trionfo della Chiesa, che era lo scopo costante, unico, supremo, a cui Gregorio Magno tutto sacrificava, pure il congratularsi della elezione d'un tal mostro non era scusabile in nessun modo. Bisogna tuttavia osservare, che il linguaggio ufficiale di quei tempi, massime coll'Oriente, era assai ampolloso, e tutto si diceva con frasi altosonanti. Nè si può con certezza affermare, che quando il Papa scrisse quella lettera, avesse già avuto sicura e precisa notizia del sangue innocente con tanta crudeltà versato.

Agilulfo, come abbiamo notato, subiva l'azione che la ferrea volontà del Papa esercitava per mezzo della regina Teodolinda, cattolica e donna d'alti sensi, la quale lasciò gran nome di sè, e grandi opere pubbliche, sopra tutto a Monza. Una nuova prova dell'azione su di lui esercitata dal Papa si ebbe nella Pasqua del 603, quando Agilulfo fece battezzare cattolico il figlio Adaloaldo, nato verso la fine del 602. Alcuni sostengono che si convertisse anch'egli; ma certo è solamente che si dimostrò assai favorevole ai cattolici. Del resto siamo già al principio [296] della generale conversione dei Longobardi, la quale si dovette appunto all'opera di Gregorio, efficacemente aiutato da Teodolinda. Tutto questo non impediva però che Agilulfo continuasse le sue conquiste, e che il Papa politicamente gli si dimostrasse perciò sempre più avverso. Dopo aver preso Monselice, il re longobardo andò oltre verso Ravenna; e par certo che, in questa occasione, il Papa si occupasse d'indurre i Pisani ad aiutare l'Esarca. Abbiamo infatti una sua lettera, nella quale dice, che di questi non c'era da fidarsi punto, perchè avevano già pronti i loro dromoni (navi rapide) per metterli in mare, e servirsene solamente a proprio vantaggio. Si direbbe, che i Pisani fossero già ordinati in una qualche specie di municipale indipendenza, volendo e potendo deliberare da sè sulle guerre che loro conveniva fare o non fare. Comunque sia di ciò, Agilulfo, nuovamente favorito dagli Avari, assalì ed abbattè Cremona; prese Mantova di cui demolì le mura, e lo stesso fece di altre città, fino a che Smeraldo consentì ad una pace che doveva durare dal settembre del 603 all'aprile 605.

In questo mezzo erano per l'età cresciute di molto le malattie di Gregorio I; ma, per quanto può argomentarsi dalle sue lettere, era anche andata sino all'ultimo crescendo sempre la sua prodigiosa attività. Non cessava mai di raccomandare a tutti che si provvedesse alle sorti della misera Italia, adoperandosi costantemente per essa: e questo in mezzo a dolori, a infermità d'ogni sorta. L'anno 600 egli scriveva: «In undici mesi appena qualche volta la gotta mi ha lasciato levare di letto. La mia vita è divenuta tale che aspetto come un benefizio la morte.» Ed in un'altra: «Il dolore non è sempre uguale, ma non mi lascia mai; eppure non riesce ancora ad uccidermi!» Una delle ultime lettere fu scritta nel gennaio 604, poco prima di morire, per mandare abiti e [297] coperte ad un vescovo assai povero che pativa il freddo; e vivamente lo raccomandava alla pietà dei compagni. Poco dopo, l'undici marzo successivo, Gregorio moriva, ed era sepolto in S. Pietro.

In quello stesso anno Agilulfo, ad evitare le dispute che potevano nascere per la sua successione, fece a Milano proclamare erede il figlio Adaloaldo, che non aveva allora più di due anni. E ciò in presenza dei grandi e dell'ambasciatore di Teudiberto re dei Franchi, la cui figlia, in segno d'amicizia e di perpetua pace, veniva promessa sposa al giovanetto erede del trono longobardo. Nel 605 fu fatta pace coll'Esarca, rinnovata poi fino al 612. All'imperatore Foca era successo intanto Eraclio (610-41), che fu subito occupato nella guerra persiana. Anche all'esarca Smeraldo, che per la seconda volta teneva quell'ufficio, era successo, verso il 611, un altro esarca di nome Giovanni.

Pareva che dovesse esservi pace in Italia; ma appunto allora gli Avari, che erano stati in passato amici dei Longobardi, mossero una guerra violenta contro Gisulfo duca del Friuli; il quale, dopo viva resistenza, morì in battaglia con la più parte de' suoi, lasciando la vedova Romilda con otto figli. E questa, con essi, e cogli altri superstiti, la più parte dei quali eran donne, vecchi o fanciulli, si chiuse nella città di Foro Giulio (Cividale del Friuli). Quattro dei figli eran femmine, e quattro maschi, due soli dei quali, Tasone e Cacco adulti; gli altri due, fanciulli. Gli Avari assediarono la città sotto il comando del loro Cacàno. Narra la leggenda, che questi era così giovane e bello, che Romilda, appena l'ebbe visto, se ne invaghì per modo, che offerse di aprirgli le porte della città, se prometteva di sposarla. E così il Cacàno entrò, devastò, bruciò ogni cosa, e fece prigionieri gli abitanti, che divise fra i suoi seguaci. Quanto a Romilda, dopo che [298] l'ebbe sottomessa alle sue voglie, l'abbandonò agli ufficiali, per farla poi impalare, dicendo che questo era il solo matrimonio degno di una traditrice come lei. I primi tre figli maschi di Gisulfo montarono intanto a cavallo per salvarsi colla fuga. E perchè l'ultimo di essi, Grimoaldo, giovanetto, non cadesse in mano del nemico, volevano ucciderlo. Ma egli disse al fratello che già aveva sguainato la spada: — Non mi uccidere, chè io saprò ben reggermi in sella. — E salito a cavallo lo seguì. Se non che nella fuga, il giovanetto restò indietro e venne raggiunto da un Avaro, che lo prese. Questi però vedendolo così bello, giovane e biondo (i suoi capelli eran quasi bianchi), non osò ucciderlo, e lo menava seco tenendo le redini del cavallo. A un tratto il fanciullo inaspettatamente, cavò dal fodero la sua piccola spada, e con un vigoroso colpo sulla testa, distese a terra l'Avaro, raggiungendo al galoppo i fratelli. Le sorelle restarono prigioniere, e per salvare il loro onore, si posero in seno della carne cruda e corrotta, la quale mandava un tal fetore che gli Avari se ne allontanavano stomacati. La verità storica di un sì fantastico racconto può ridursi a questo, che gli Avari entrarono nell'Istria, devastarono il Friuli, uccisero il duca Gisulfo e presero Cividale; poi si ritirarono, assai probabilmente perchè Agilulfo si avanzava. Dei quattro figli maschi di Gisulfo, i due adulti, Tasone e Cacco, poterono assumere il governo, ma furono poi trucidati a tradimento; gli altri, che erano troppo giovani ancora, se ne andarono a Benevento, presso Arichi, che era del Friuli anch'egli, e loro parente. Arichi che li aveva già prima educati nel loro paese, li accolse adesso come figli a casa sua.

Ed ora Agilulfo, dopo venticinque anni di regno, moriva a Milano tra il 615 e 16, lasciando già, come vedemmo, proclamato erede il proprio figlio Adaloaldo, che [299] allora aveva dodici anni. Cominciò quindi di fatto a governare la madre Teodolinda, continuando a favorire con ardore il cattolicismo, e promovendo anche la cultura, in ispecie l'architettura dei Longobardi. S'apriva così la strada alla loro totale fusione coi Romani. Ricchi donativi essa fece alle chiese, e molte ne costruì, fra le quali viene ricordata la basilica di S. Giovanni a Monza, annessa al palazzo che Teodorico aveva costruito, e che ella ora restaurò ed ampliò. Fu in questo palazzo appunto che Teodolinda fece dipingere quelle pitture da cui Paolo Diacono potè darci la descrizione del vestire dei Longobardi. Nella basilica s'andò poi raccogliendo un vero tesoro, nel quale erano sopra tutto notevoli tre corone. Una di esse, tempestata di pietre preziose, con Cristo e gli apostoli scolpiti, aveva un'iscrizione, che la diceva offerta da Agilulfo Rex totius Italiae; il che fa credere che fosse di tempi posteriori, non sapendosi che egli abbia mai avuto un tal titolo. Questa corona venne da Napoleone I portata a Parigi, dove fu rubata e sparì. Un'altra, anch'essa di tempo posteriore, ha poca importanza. Celebre sopra tutte è invece quella che fu chiamata la corona di ferro, perchè dentro al cerchio d'oro, scolpito a frutta e fiori, con smalti e ventidue gioielli, specialmente perle e smeraldi, v'è un sottile cerchio di ferro, che dicesi formato da uno dei chiodi coi quali Gesù Cristo fu confitto sulla croce. Con essa vuolsi che fosse coronato Agilulfo; e certo furono più tardi, per molto tempo, coronati i re d'Italia.

Un fatto notevole, avvenuto in questo tempo, fu anche la protezione da Agilulfo e da Teodolinda accordata a S. Colombano, celebre nella storia della Chiesa e della cultura. Egli nacque verso il 543 nell'Irlanda, dove il Cristianesimo aveva suscitato un ardore, un entusiasmo indicibile, e la cultura cristiana era in quei conventi progredita [300] in modo veramente maraviglioso, diffondendosi di là nel resto d'Europa. Animato dall'ardente spirito di propaganda, S. Colombano andò in Francia, donde fu poco dopo cacciato, per avere aspramente biasimata la condotta di quei sovrani che, sebbene cattolici, erano crudelissimi. Lo lasciarono tuttavia tranquillo a Bregenz, sul lago di Costanza. Poco dopo egli andò più oltre verso il mezzogiorno, restando nella Svizzera qual suo rappresentante il discepolo S. Gallo, irlandese anch'egli, che dette il suo nome alla celebre abbazia ed al Cantone in cui si fermò. Venuto in Italia, verso il 613, fu cordialmente accolto da Agilulfo e da Teodolinda, sebbene continuasse a scrivere contro gli Ariani. Fondò il convento di Bobbio, famoso per molti codici ivi raccolti, che sono oggi sparsi nella Vaticana, nell'Ambrosiana, nella biblioteca di Torino, e rendono testimonianza del grande amore di lui e de' suoi seguaci per gli studi classici. La protezione da Agilulfo concessa a questo santo; l'aver lasciato convertire al cattolicismo i suoi due figli; l'aver concesso larghi donativi alle chiese, continui favori ai vescovi per lo innanzi perseguitati dai Longobardi, sembrerebbero avvalorare la opinione di Paolo Diacono, che anch'egli fosse divenuto cattolico. Pure è negli storici generalmente prevalso l'avviso contrario, che cioè questa sua condotta fosse dovuta piuttosto al poco ardore, quasi alla indifferenza religiosa dei Longobardi, all'azione efficacissima esercitata da Teodolinda sul marito, ed a quella che Gregorio I esercitò sempre su tutti.

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