INTRODUZIONE

I.

IL RINASCIMENTO

È difficile trovare nella storia dell'Europa moderna un periodo che abbia l'importanza di quello cui suol darsi, nella storia italiana, il nome di Rinascimento. Posto fra il cadere del Medio Evo ed il costituirsi delle società moderne, può dirsi che già cominci con Dante Alighieri, il quale nelle sue opere immortali ci lasciò la sintesi d'una età che muore, e ci annunziò il sorgere d'un'èra novella. Questa, che è appunto il Rinascimento, s'iniziò davvero con Francesco Petrarca e con gli eruditi, finì con Martino Lutero e la Riforma, la quale alterò profondamente la storia anche dei popoli che restarono cattolici, e portò di là dalle Alpi il centro di gravità della cultura europea. Durante il periodo di cui ragioniamo, vedesi in Italia una rapida trasformazione sociale, una grandissima operosità intellettuale. Da per tutto tradizioni, forme, istituzioni antiche, che crollano dinanzi alle nuove che sorgono. La scolastica cede il luogo alla filosofia, il principio d'autorità cade innanzi alla libera ragione ed al libero esame, che s'avanzano. Comincia lo studio delle scienze naturali: con Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci si danno i primi passi alla ricerca del metodo sperimentale; progrediscono il commercio e l'industria; si moltiplicano i viaggi, e Cristoforo Colombo scopre l'America. La stampa, trovata in Germania, diviene subito un'industria italiana. L'erudizione classica si diffonde per tutto, e l'uso della lingua latina, che sembra, per qualche tempo, tornata la lingua universale dei popoli civili, pone l'Italia in stretta relazione con l'Europa, che l'accetta a guida e maestra del sapere. Si creano la scienza politica e l'arte della guerra; la cronaca cede il luogo alla storia civile del Guicciardini e del Machiavelli; la cultura antica rinasce, ed il poema cavalleresco sorge in mezzo ad altre ed altre nuove forme di componimenti letterarî. Il Brunelleschi crea un'architettura nuova, Donatello fa risorgere la scultura, Masaccio ed una miriade di pittori toscani ed umbri apparecchiano, collo studio della natura, la via a Raffaello ed a Michelangelo. Il mondo sembra rinnovarsi e ringiovanirsi, illuminato dal sole della cultura italiana.

Ma in mezzo a così grande splendore si osservano strane ed inesplicabili contradizioni. Questo popolo tanto ricco, industrioso, intelligente, innanzi a cui l'Europa resta come estatica d'ammirazione, va corrompendosi rapidamente. La libertà scomparisce e sorgono tiranni per tutto; i vincoli della famiglia sembrano indebolirsi, e il focolare domestico profanarsi: nessuno si fida più della fede italiana. La nazione diviene politicamente e moralmente così debole, che non può resistere ad alcun urto di potenza straniera; il primo esercito che passa le Alpi, percorre la Penisola senza quasi colpo ferire, e seguono altri, che vengono con uguale facilità a lacerarla e calpestarla. Usi a sentire ogni giorno ripetere, che l'istruzione e la cultura costituiscono la grandezza e misurano la forza dei popoli, siamo naturalmente indotti a domandarci: come dunque l'Italia, in mezzo a tanto splendore di lettere e di arti, s'indebolisce, si corrompe e decade? È facile il dire: colpa degl'italiani, che, invece d'unirsi a difesa comune, si lacerano fra loro. Ma perchè sono essi a un tratto divenuti così colpevoli? L'Italia del Medio Evo non era stata più divisa e più forte ad un tempo, le vendette e le guerre civili non erano state più cieche e più sanguinose? Nè vale il dire che essa s'era esaurita nelle lotte e nella grandezza raggiunta nel Medio Evo. Può dirsi veramente esaurita una nazione nel momento in cui, con la sua intelligenza ed operosità, trasforma la faccia del mondo? Invece d'affaticarsi a formulare giudizî e sentenze generali, val meglio fermarsi ad osservare e descrivere i fatti. Ed il fatto principale nel secolo XV è questo: che le istituzioni medievali avevano in Italia prodotto una società nuova ed un progresso civile tale, che esse si trovarono a un tratto divenute insufficienti o anche dannose. Una radicale trasformazione e rivoluzione era quindi inevitabile. Or fu nel momento appunto, in cui questo generale sconvolgimento sociale seguiva nella Penisola, che gli stranieri le piombarono addosso, e le resero impossibile l'andare innanzi.

Il Medio Evo non conosceva quell'organismo politico che noi chiamiamo Stato, che riunisce e coordina con norme precise le forze sociali. La società era invece divisa in feudi e sotto-feudi, in Comuni grossi e piccoli, ed il Comune non era altro che un fascio di associazioni minori, malamente legate insieme. Al di sopra di sì vasta ed incomposta mole stavano il Papato e l'Impero, che sebbene, essendo spesso in guerra fra loro, crescessero il generale scompiglio, pur costituivano allora la informe unità del mondo civile. Tutto ciò era mutato affatto nel secolo XV. Da un lato le grandi nazioni cominciavano a formarsi, da un altro l'autorità dell'Impero, circoscritta in Germania, era in Italia poco più che una memoria del passato; ed i papi, occupati a costituire un vero e proprio principato temporale, restando pur capi della Chiesa universale, non potevano più pretendere al dominio politico del mondo, e cercavano perciò divenire sovrani come gli altri. In questo stato di cose il Comune, che aveva costituito la passata grandezza d'Italia, si trovò in una condizione sostanzialmente nuova, che fu troppo poco esaminata dagli storici.

Esso aveva ora ottenuto la tanto sospirata indipendenza, e non doveva contare che sulle proprie forze; nelle sue guerre coi vicini non v'era più da sperare o temere che s'interponesse un'autorità superiore. Era quindi necessario estendere il proprio territorio, e rendersi più forte, specialmente se, volgendo intorno lo sguardo, si osservava che in tutta Europa s'andavano formando i grandi Stati e le monarchie militari. Ma la costituzione politica del Comune era tale, che ogni estensione del suo territorio faceva sorgere pericoli nuovi e così gravi che ne mettevano a repentaglio l'esistenza. Poteva dirsi giunta per esso un'ora funesta, nella quale ciò che più gli era necessario, più lo minacciava. Il Comune medievale non conosceva il governo rappresentativo, ma solo il governo diretto de' suoi liberi cittadini, i quali era perciò necessario ridurre ad un numero assai ristretto, se non si voleva cadere nell'anarchia. Il diritto di cittadinanza era quindi un privilegio concesso solo ad alcuni di coloro che abitavano dentro la cerchia delle mura. Firenze, che era la repubblica più democratica dell'Italia, e che nel 1494 ebbe la sua più libera costituzione, contava allora circa 90,000 abitanti, di cui solo 3200 erano veri e proprî cittadini. Neppure i Ciompi, nel loro incomposto tumulto, avevano preteso di dare la cittadinanza a tutti. E quanto al contado, pareva già molto l'avere abolito la servitù; a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiamarlo a parte del governo.

Questo stato di cose trovava la sua sanzione non solo negli statuti, nelle leggi e nelle consuetudini esistenti, ma nelle convinzioni radicate e profonde degli uomini più illustri. Dante Alighieri, che aveva preso non piccola parte alla legge tanto democratica degli Ordinamenti di Giustizia, al tempo di Giano della Bella, rimpiange nel suo poema i tempi nei quali il territorio del Comune si stendeva solo fino a pochi passi oltre le mura, e gli abitanti delle vicine terre di Campi, Figline e Signa non s'erano venuti a mescolare con quelli di Firenze; perchè

Sempre la confusion delle persone

Principio fu del mal della Cittade.

Ed il Petrarca, che sognava anch'egli l'antico Impero, ed era tanto entusiasta di Cola di Rienzo, raccomandava che, nel riordinare la repubblica romana, se ne affidasse il governo ai soli cittadini, escludendone come stranieri gli abitanti del Lazio, ed anche gli Orsini ed i Colonna, perchè, sebbene romani, discendevano, secondo lui, da stranieri.

Quando adunque il Comune ingrandiva il suo territorio, sottomettendo un altro Comune, questo, anche se governato con mitezza, si trovava d'un tratto escluso da ogni vita politica, ed i suoi principali cittadini se ne andavano esuli e raminghi per il mondo. Vedere un Pisano, un Pistoiese nei Consigli della repubblica fiorentina, sarebbe stato allora come il vedere oggi un cittadino di Parigi o Berlino sedere fra i deputati del Parlamento italiano. Si preferiva quindi cadere sotto una monarchia, perchè in essa almeno tutti i sudditi erano nelle medesime condizioni, ed agli ufficî pubblici poteva ogni abitante, di qualunque provincia, partecipare. Il Guicciardini infatti osservava al Machiavelli, quando questi immaginava una grande repubblica italiana, che ciò sarebbe stato tutto a vantaggio d'una sola città, ed a rovina delle altre; perchè la repubblica non concede il benefizio della sua libertà «a altri che a' suoi cittadini proprî;» la monarchia invece «è più comune a tutti.» E non v'era spavento che potesse uguagliare quello provato dalle repubbliche italiane, quando Venezia, che pur governava i sudditi suoi con maggiore libertà, volgendosi alla terraferma, sembrò aspirare al dominio della Penisola. Avrebbero preferito non solo la monarchia, ma ancora lo straniero, che poteva lasciar qualche locale indipendenza, cosa allora non sperabile in Italia da una repubblica. Cosimo dei Medici, quando aiutò Francesco Sforza a divenir signore di Milano, salvò, secondo il Guicciardini, la libertà di tutta Italia, che sarebbe altrimenti caduta sotto Venezia. E Niccolò Machiavelli, che pur sospirava così spesso la repubblica, in tutte le sue lettere d'ufficio, in tutte le sue legazioni, parla sempre di Venezia come del maggior nemico che avesse la libertà d'Italia.

Fra queste condizioni e queste convinzioni, era impossibile sperare che il Comune potesse, formando una forte repubblica, riunire l'Italia. Si poteva sperare in una confederazione o in una monarchia; ma la prima supponeva già un governo centrale diverso da quello dei Comuni, nel quale la città non fosse più lo Stato, e aveva contro di sè i papi ed i re di Napoli. La monarchia, invece, trovava contro di sè, da un lato l'antico amore di libertà, che aveva reso gloriosa l'Italia, e da un altro i papi, che, messi nel centro della Penisola, troppo deboli per poterla riunire, abbastanza forti per impedire che altri la riunisse, di tanto in tanto chiamavano gli stranieri, i quali venivano a sovvertire ogni cosa. Per tutte queste ragioni il Comune, che aveva formato l'antica forza e grandezza d'Italia, sopravvisse come a sè stesso, in presenza dei nuovi problemi sociali, che sorgevano ad ogni piè sospinto; fra i mille pericoli, che scaturivano come dal suo proprio seno.

Esso aveva proclamato la libertà e l'uguaglianza; era quindi naturale che il basso popolo, il quale trovavasi escluso dal governo, dopo avere coi ricchi mercanti combattuto e vinto il feudalismo, non potesse rimanere contento. Nè gli abitanti del contado, che pure erano colle armi chiamati a difendere la patria, tolleravano più di buon animo d'essere esclusi da ogni ufficio pubblico, da ogni diritto di cittadinanza. E quando il territorio si estendeva, e nuove città venivano conquistate, la moltitudine degli oppressi cresceva, e le passioni s'infiammavano, perchè la sproporzione fra il piccolo numero dei governanti e quello sempre maggiore dei governati aumentava, ed ogni equilibrio riusciva affatto impossibile. Un abile tiranno, che fosse sorto allora, avrebbe trovato in suo appoggio la moltitudine infinita degli scontenti, ai quali sarebbe apparso come un liberatore o almeno come un vendicatore.

Se poi dalle condizioni politiche volgiamo lo sguardo alle sociali, osserveremo una trasformazione non meno grave, nè meno pericolosa. I Comuni del Medio Evo, chi li guarda da lontano, appariscono già come un piccolo Stato, nel senso moderno della parola; ma erano invece un agglomerato di mille associazioni diverse: Arti maggiori ed Arti minori, Società delle torri, Consorterie, Leghe, ordinate tutte come altrettante repubbliche, con le loro assemblee, statuti, tribunali, ambasciatori. Esse erano qualche volta più forti dello stesso governo centrale, di cui facevano le veci, quando, fra le continue rivoluzioni, questo si trovava come momentaneamente soppresso, il che di tanto in tanto avveniva. Si direbbe quasi che la forza del Comune fosse tutta nelle associazioni, che lo dividevano e lo governavano. I cittadini erano ad esse così tenacemente legati, che spesso sembravano combattere a difesa della repubblica, solo perchè tutelava l'esistenza dell'associazione cui essi appartenevano, ed impediva che venisse oppressa dalle altre.

Il Medio Evo è stato perciò a giusta ragione chiamato un'età di consorterie e di caste. Il numero e la varietà grande di esse produssero una varietà infinita di caratteri e di passioni, ignota al mondo antico; ma l'indipendenza dell'uomo moderno non era anche nata, perchè l'individuo restava come assorbito nella casta, in cui e per cui viveva. Infatti, per lunghissimo tempo la storia italiana ci tace quasi del tutto i nomi dei politici, dei soldati, degli artisti e dei poeti, che fondarono e difesero i Comuni; crearono le istituzioni, le lettere, le arti. Sono Guelfi e Ghibellini, Arti maggiori e minori, poeti vaganti, maestri comacini, sempre associazioni o partiti, non mai individui. Le stesse grandi figure dei papi e degl'imperatori ricevono la loro importanza, meno dal proprio carattere personale, che dal sistema e dalla istituzione cui appartengono e che rappresentano.

Tutto ciò scomparisce rapidamente nel secolo XIV. La figura colossale di Dante si stacca dal fondo medievale, in mezzo a cui vive ancora, ed egli si vanta orgogliosamente d'essersi fatta parte per sè stesso. I nomi dei poeti, dei pittori, dei capi di parte si moltiplicano d'ora in ora, e i caratteri individuali si determinano, si disegnano nettamente, e si separano dalla folla. Noi assistiamo ad una generale trasformazione di tutta la società italiana, la quale, dopo avere distrutto il feudalismo e proclamata l'uguaglianza, si trova obbligata a decomporre le associazioni che l'avevano costituita. E ciò si vede assai più chiaro che altrove in Firenze, dove gli Ordinamenti di Giustizia (1293) abbattono i nobili e li cacciano dal governo; sopprimono alcune delle associazioni e rendono impossibili le consorterie; pongono per la prima volta alla testa del Comune un gonfaloniere. La necessità di cominciare a costituire l'unità dello Stato moderno scaturiva naturalmente dalla forma sempre più democratica che aveva preso il Comune; questo era anzi il grande problema che doveva risolvere l'Italia del secolo XV. Ma il periodo di passaggio e di trasformazione era pieno di mille pericoli, perchè le antiche istituzioni si decomponevano prima che le nuove sorgessero; l'individuo, abbandonato a sè stesso, si trovava dominato solo dall'interesse personale e dall'egoismo: la corruzione dei costumi diveniva inevitabile.

La moralità del Medio Evo era fondata principalmente sugli stretti vincoli della famiglia e della casta cui si apparteneva. Di questi vincoli le leggi e le consuetudini erano state in mille modi gelose custodi: mantenevano la eredità nelle famiglie; impedivano che i matrimonî la portassero fuori del Comune; rendevano difficilissimi quelli fra persone non solo di diverso Comune, ma di diverso partito o consorteria. Di qui una grande comunanza d'interessi, le affezioni tenaci e i forti sacrifizî nel seno della casta, le gelosie e spesso gli odî, le vendette contro i vicini. A poco a poco tutto questo scomparve per le riforme politiche, che spezzarono i vecchi legami, per la cresciuta uguaglianza, pel continuo prevalere del diritto romano imperiale, che rendeva la donna meno sottoposta alla tutela de' suoi. E nel medesimo modo in cui il Comune s'era a un tratto trovato abbandonato a sè stesso, per la cessata supremazia dell'Imperatore e del Papa, il cittadino, sciolto da ogni vincolo, si trovò isolato e costretto a fare assegnamento sulle sole sue forze. Esso quindi non poteva più sentire l'antico interesse nel destino de' suoi vicini, che non s'occupavano più di lui; il suo avvenire, il suo stato nel mondo dipendeva unicamente dalle sue qualità individuali. Così si vide, in un medesimo tempo, l'egoismo impadronirsi rapidamente degli animi, e la personalità umana svolgersi sotto forme sempre più varie e nuove. Non solo si moltiplicano ora i nomi degl'individui, e ambiziosi capi di parte sorgono per tutto; ma le guerre intestine dei Comuni sembrano mutarsi in guerre personali; le città si dividono secondo i nomi dei più potenti e turbolenti; le famiglie stesse si scindono e si lacerano, perchè gli uomini non sanno sottostare più a nessun vincolo. I pregiudizi, le tradizioni, le virtù e i vizî del Medio Evo scompariscono affatto, per dar luogo ad un'altra società, ad altri uomini.

Chi osserva ora la doppia mutazione che han subita le nostre repubbliche, s'accorge come da un lato, secondo che esse ingrandivano il proprio territorio, divenivano internamente più deboli, e sentivano sempre maggiore bisogno d'un governo centrale più forte e più uguale verso tutti; e come da un altro lato, secondo che le consorterie si scioglievano, aumentava il numero degli ambiziosi e degli audaci, i quali non avevano altro scopo, che d'essere primi e soli a comandare. Queste ambizioni, manifestandosi nel tempo appunto in cui il Comune era portato naturalmente verso la forma monarchica, costituivano un pericolo gravissimo; e così, come v'era stato un giorno nel quale si videro in Italia sorgere per tutto i Comuni, era adesso giunta l'ora in cui si vedevano per tutto sorgere i tiranni.

Il tiranno italiano però, con molti vizi, aveva una propria originalità di carattere, una vera importanza storica. A lui non era necessario discendere di nobile o potente famiglia, e neppure essere primogenito della sua casa. Un mercante, un bastardo, un venturiero qualunque potevano comandare un esercito, fare una rivoluzione, divenire tiranni, se avevano l'audacia e l'arte necessarie a riuscire. Le storie ci raccontano, a questo proposito, strane avventure, ed i novellieri italiani, che sì fedelmente descrivono i costumi del tempo, ridono spesso d'uomini da nulla, i quali si ponevano in mente di farsi tiranni, come quel calzolaio che, invece di fare scarpe, voleva, secondo narra il Sacchetti, «tor la terra a messer Ridolfo da Camerino.»

Il secolo XV fu giustamente chiamato il secolo degli avventurieri e dei bastardi: Borso d'Este a Ferrara, Sigismondo Malatesta a Rimini, Francesco Sforza a Milano, Ferdinando d'Aragona a Napoli, molti e molti altri signori o principi erano bastardi. Nessuno di essi si sentiva più legato da alcuna convenzione o tradizione; tutto dipendeva dalle qualità personali di coloro che osavano tentare la fortuna, dagli amici e aderenti che sapevano guadagnarsi. Costretti ad impadronirsi del potere in mezzo a mille pericoli, contro mille emuli, si trovavano come in uno stato di guerra continua, nel quale tutto era permesso: nessuno scrupolo vietava la violenza, il tradimento ed il sangue. Il male, per questi tiranni, non aveva altri limiti se non quelli imposti dalla opportunità e dalla utilità personale; doveva essere un mezzo adatto a conseguire il fine desiderato. Di là da questi confini era non una colpa, ma una follìa indegna d'un uomo politico, perchè non portava alcun vantaggio. La loro coscienza non conosceva rimorsi, la loro ragione calcolava e misurava tutto. Ma una volta superate le difficoltà, e riusciti nell'intento, i pericoli non cessavano per questo. Bisognava lottare contro lo scontento fierissimo di coloro che, per lunga consuetudine, s'erano usati a non saper vivere senza partecipare al governo; contro le ire feroci di coloro che avevano anch'essi aspirato alla tirannide, ed erano stati prevenuti o vinti. Se colla forza si vinceva un tumulto popolare, i pugnali s'appuntavano nelle tenebre da ogni lato. E le congiure erano allora più crudeli, perchè assumevano il carattere di vendette personali; s'ordivano fra gli amici, nella famiglia stessa: si vedevano i più stretti parenti, anche i fratelli, contendersi il trono col ferro o col veleno. Così il tiranno italiano poteva dirsi condannato a riconquistare ogni giorno il suo regno; e pur di ottenere questo fine, esso credeva giustificato ogni mezzo.

In sì misero stato di cose, non bastavano il coraggio personale, il valor militare e una coscienza senza rimorsi; bisognava avere anche una grande accortezza, una fine astuzia, una profonda conoscenza degli uomini e delle cose, sopra tutto un perfetto dominio delle proprie passioni. Bisognava studiare i fenomeni sociali come si studiano i fenomeni della natura, non avere alcuna illusione, fondarsi solo sulla realtà delle cose. Bisognava conoscere a fondo il proprio Stato e gli uomini in mezzo ai quali si viveva, per poterli dominare; trovare la nuova forma di governo; riordinare, in mezzo alle rovine del passato, l'amministrazione, la giustizia, la polizia, le opere pubbliche, ogni cosa. Il potere, in sostanza, si concentrò allora tutto nel tiranno, e l'unità del nuovo Stato nacque come una creazione personale di lui. E con lui nascevano la scienza e l'arte di governo; ma si cominciava ancora a diffondere quella opinione, che divenne poi un errore assai generale e funesto, che cioè le leggi e le istituzioni siano un trovato dell'uomo politico, non già un resultato naturale della storia, dello svolgimento sociale e civile dei popoli. Pel Medio Evo lo Stato e la storia erano un'opera della Provvidenza, in cui nulla potevano la ragione e la volontà dell'uomo; pel Rinascimento, invece, tutto era opera dell'uomo, che se non riusciva, doveva dolersi prima di se stesso, e poi della fortuna, a cui si dava allora grandissima parte nel destino delle cose umane.

In un paese diviso e suddiviso come l'Italia, queste vicende si moltiplicavano e ripetevano per tutto; ed è facile immaginarsi quanto dovessero contribuire alla corruzione del paese, e in quanti modi diversi. Sorgevano i tiranni in mezzo alle repubbliche, ai papi, ai re di Napoli; e gelosi tutti gli uni degli altri, ricorrevano all'amicizia dei vicini o degli stranieri, cercando indebolire o dividere i nemici. Così le trame e gl'intrighi crescevano all'infinito; e nello stesso tempo si formava un intreccio singolare d'interessi politici, che moltiplicava le relazioni fra i diversi Stati; faceva sorgere in Italia la prima idea d'un equilibrio politico; dava alla nostra diplomazia un'attività, una intelligenza, un'accortezza meravigliose. Fu allora un tempo in cui ogni Italiano sembrava un diplomatico nato: il mercante, il letterato, il capitano di ventura sapevano presentarsi e discorrere ai re ed agl'imperatori con tutta la conoscenza delle forme convenzionali, con un acume ed una penetrazione che facevano restare ammirati. I dispacci dei nostri ambasciatori furono uno dei più grandi monumenti della storia e letteratura di quel tempo. Primeggiavano i Veneziani pel senno pratico e l'osservazione dei fatti, i Fiorentini per la eleganza del dire e l'acume con cui esaminavano, intendevano i caratteri; ma tutti gli altri erano emuli non indegni di quelli. L'arte del dire e dello scrivere divenne così una potenza formidabile, acquistò una importanza nuova fra gl'italiani.

Si videro allora dei soldati di ventura, che non si movevano per minacce, per preghiere o pietà, cedere ai versi di un erudito. Lorenzo dei Medici, andando a Napoli, persuadeva coi suoi ragionamenti Ferrante d'Aragona a smettere la guerra e fare alleanza con lui. Alfonso il Magnanimo, prigioniero di Filippo Maria Visconti, quando tutti lo credevano morto, fu invece liberato con onore, perchè, secondo il Machiavelli, aveva saputo persuadere a quel tiranno cupo e crudele, che gli tornava più conto avere gli Aragonesi che gli Angioini a Napoli, concludendo: Vuoi tu piuttosto soddisfare ad un tuo appetito che assicurarti lo Stato? Nella rivoluzione promossa a Prato da Bernardo Nardi, questi aveva, secondo lo stesso Machiavelli, già messo il capestro al Podestà fiorentino per impiccarlo, quando si lasciò dagli accorti ragionamenti di lui persuadere a desistere, e così nulla più gli potè riuscire. Simili fatti possono essere qualche volta esagerati o anche inventati; ma il vederli tante volte ripetuti e creduti, prova quali erano le idee e l'indole di quegli uomini.

Non è perciò da meravigliarsi, se anche i tiranni studiavano e proteggevano con sì grande ardore le arti, le lettere, la cultura sotto ogni sua forma. Non era solo un sottile accorgimento di governo, un mezzo per deviare dalla politica l'attenzione del popolo; era una necessità della loro condizione, un bisogno vero e reale del loro spirito. Una nota diplomatica abilmente scritta, un discorso accorto solevano risolvere le più gravi questioni politiche. A chi il tiranno italiano doveva il proprio Stato, se non al suo ingegno? E come poteva essere indifferente alle arti che lo educano e lo accrescono? Le più felici ore di riposo dagli affari di Stato, le passava tra i libri, i letterati e gli artisti. Il museo e la biblioteca tenevano per lui il posto che presso molti signori feudali del settentrione, tenevano la scuderia e la cantina; tutto ciò che poteva coltivare o ingentilire lo spirito era un elemento necessario alla sua esistenza; nel suo palazzo si formavano il perfetto cortigiano, la raffinatezza dei modi del gentiluomo moderno.

V'era però un singolare contrasto negli uomini di quel tempo, un contrasto che ci sembra spesso un enimma inesplicabile. Noi possiamo perdonare al Medio Evo, tanto diverso da noi, le sue selvagge passioni ed i suoi delitti, o almeno possiamo comprenderli; ma vedere degli uomini, che discorrono e pensano come noi; che sono rapiti con la più spontanea sincerità innanzi ad una Madonna del Beato Angelico o di Luca della Robbia, innanzi alle aeree curve dell'architettura dell'Alberti e del Brunelleschi; che si mostrano disgustati da ogni atto appena grossolano, da un gesto che non sia della più perfetta eleganza; e vederli abbandonarsi ai più atroci delitti, ai più osceni vizî; apparecchiare il veleno per cacciar dal mondo un rivale o un parente pericoloso, questo è quello che non comprendiamo. Era un periodo di transizione, in cui si direbbe che le passioni ed i caratteri di due età diverse si trovavano fra loro come innestati, per formare innanzi ai nostri sguardi una sfinge misteriosa, che ci maraviglia e quasi ci spaventa. Verso di essa noi siamo troppo severi, quando dimentichiamo che un secolo non può essere giudicato colle norme e i criterî di un altro.

Ovunque noi rivolgiamo lo sguardo, vediamo sotto forme diverse riprodursi i medesimi fatti. La milizia del secolo XV anch'essa non è più quella del Medio Evo, ma inizia la moderna, da cui pur tanto differisce. Al tempo dei Comuni, le guerre s'erano fatte con fanti leggermente armati: il mercante e l'artigiano ogni primavera indossavano la corazza, ed uscivano fuori delle mura a combattere i castelli baronali e le terre vicine, per poi tornare alle loro officine. Pochissima importanza aveva la cavalleria, formata il più dai nobili. Ma col tempo le cose mutarono affatto. Le guerre divennero assai più complicate, e la forza degli eserciti passò nella cavalleria pesante o, come dicevano allora, negli uomini d'arme. Ognuno di essi era seguito da due o tre cavalieri, che portavano la sua grave armatura, di cui egli ed il cavallo di battaglia si coprivano solo nel momento dell'azione, perchè era così pesante, che, se con essa cadevano a terra, non si rialzavano più senza aiuto. E questa specie di torre corazzata spingeva innanzi una lunghissima lancia, colla quale atterrava il fantaccino prima che esso, coll'alabarda o la spada, potesse recare alcuna offesa. Uno squadrone di tale cavalleria bastava a sbaragliare un esercito di fanti, fino a che la invenzione della polvere e il perfezionamento delle armi da fuoco non vennero più tardi a trasformar di nuovo l'arte della guerra. I Fiorentini se ne avvidero a Montaperti (1260), quando pochi cavalieri tedeschi uniti agli esuli ghibellini, posero in rotta il più forte esercito di fanti che si fosse mai visto in Toscana. Ed a Campaldino (1289) i fanti, per abbattere gli uomini d'arme, dovettero avanzarsi sotto i loro cavalli e sventrarli. Questo nuovo modo di guerreggiare riuscì funesto alle nostre repubbliche. L'uomo d'arme doveva educarsi con un lungo tirocinio, un esercizio continuo; come potevano l'artigiano ed il mercante avere il tempo da ciò? Eserciti stanziali non v'erano allora, e l'aristocrazia, che sola poteva educarsi a vivere nelle armi, era stata nei Comuni italiani distrutta. Che fare adunque? Si ricorse agli stranieri, e cominciarono i soldati mercenarî.

Fuori d'Italia l'aristocrazia era sempre potentissima, e però gli uomini che vivevano nelle armi, abbondavano: erano appunto nobili seguìti dai loro vassalli. Ogni volta che gli Angioini ritentavano la loro eterna impresa di Napoli, o gli Spagnuoli facevano qualche nuova scorrerìa, restavano, dopo la guerra, soldati e drappelli sbandati, che, vaghi d'avventure, cercavano e trovavano servizio presso i signori o le repubbliche. I primi arrivati furono subito di richiamo agli altri, perchè le paghe erano grosse, e lo straniero trovava più facile preda e vittoria, per la mancanza fra noi d'uomini d'arme. E cominciarono a formarsi le compagnie di ventura, che mettevano a prezzo la propria spada al maggiore offerente. Esse divennero subito minacciose, insolenti, e dettarono leggi ad amici ed a nemici. Ma gl'Italiani più tardi s'arrolarono alla spicciolata sotto queste bandiere, ed allettati da questo nuovo genere di vita, crebbero tanto di numero, e così bene riuscirono, che si provarono poi a costituire compagnie nazionali. Non mancava invero fra noi la materia per formare capitani e soldati. Che cosa dovevano fare tutti quei capi di parte, che erano stati vinti nei loro ambiziosi disegni da più ambiziosi o fortunati rivali? Essi correvano là dove trovavano rizzata una bandiera di ventura, e s'educavano alle armi, per comandare poi una squadra o una compagnia. I più piccoli tiranni, servendo sotto un capo di reputazione, o formando una compagnia, trovavano modo di difendere il proprio Stato e d'ingrandirlo. Quando una repubblica era vinta e sottomessa da un'altra, i cittadini che l'avevano governata e poi difesa invano, emigravano qualche volta in massa, per correre il mondo come soldati di ventura, e cercavano nell'armi quella libertà che avevano perduta in casa. Così fecero i Pisani, quando la loro repubblica cadde sotto i Fiorentini; così altri moltissimi. Il contado dava buon numero di soldati; ed alcune provincie, come la Romagna, le Marche e l'Umbria, dove il disordine era tale che gli uomini sembravano vivere di rapine, di vendette e di brigantaggio, furono addirittura un vivaio e mercato di capitani e soldati di ventura.

Queste compagnie non si possono dire una istituzione del Medio Evo, e neppure una istituzione moderna. Proprie d'un periodo di transizione, si compongono dei rottami di tutte le vecchie istituzioni, ora distrutte o cadenti, e sono una grande calamità; ma lo spirito del Rinascimento italiano si manifesta anche in esse, che ne ricevono e ne determinano sempre più il carattere. Le nostre, che subito cominciarono ad aver vittoria contro le straniere, specialmente quando Alberico da Barbiano creò la nuova arte della guerra, presero una forma, ebbero un carattere proprio e diverso dalle straniere. Queste, infatti, erano comandate da un Consiglio di capi, ognuno dei quali aveva molta autorità sopra i suoi uomini, che solevano essere, in parte almeno, suoi vassalli, i quali all'occorrenza lo seguivano, quand'egli voleva separarsi dagli altri. In Italia, invece, l'importanza e la forza della compagnia dipesero affatto dal valore e dal genio militare di chi la comandava e quasi la personificava; i soldati obbedivano alla volontà suprema del capo, senza però essere legati a lui da alcuna fedeltà o sottomissione personale, pronti ad abbandonarlo per un capitano più famoso o per una paga maggiore. La guerra divenne l'opera d'una mente direttrice, l'esercito fu unito dal nome e dal valore del capitano, la battaglia fu come una sua creazione militare.

Così si formò la scuola d'Alberico da Barbiano, cui tennero dietro quelle di Braccio da Montone, degli Sforza, dei Piccinini e di molti altri, gli uni formandosi sotto la guida e disciplina degli altri. Il capitano italiano creava la scienza e l'arte militare, come il principe creava la scienza e l'arte di governare. Nell'uno e nell'altro l'ingegno e la personalità si manifestavano in altissimo grado; nell'uno e nell'altro mancava quella forza morale, che sola può dare stabilità vera alle opere dell'uomo. Nella compagnia, più che altrove, il capitano era sciolto da tutti i vincoli convenzionali del Medio Evo; la sua fama e la sua potenza dipendevano unicamente dal suo valore e dal suo ingegno. Muzio Attendolo Sforza, uno dei più temuti capitani del suo tempo, divenuto anche gran contestabile del regno di Napoli, aveva in origine coltivato i campi, e cominciò la sua vita militare col custodire e condurre i cavalli. Il suo bastardo Francesco fu duca di Milano. Il Carmagnola, che comandò i più formidabili eserciti di Venezia, e fu signore di molte terre, era stato in origine guardiano di vacche. Niccolò Piccinini, prima di diventare capitano famoso, era stato ascritto all'arte dei macellai in Perugia. Nè ciò recava la più piccola maraviglia ad alcuno. La compagnia era il campo aperto all'attività individuale; in essa comandavano solo la forza, la fortuna e l'ingegno; non v'erano vincoli tradizionali nè morali di sorta. La guerra si faceva senza servire ad alcun principio, ad alcuna patria, passando, per danari o promesse, dall'amico al nemico. L'onor militare, la fede ai patti giurati, la fedeltà alla propria bandiera, tutto ciò era ignoto al capitano di ventura, che avrebbe trovato puerile e ridicolo il lasciarsi da questi ostacoli fermare nel cammino intrapreso a costituire la propria fortuna e potenza, unico scopo alla vita.

Sotto molti aspetti la sua sorte ed il suo carattere somigliavano a quelli del tiranno italiano. Alla testa di un'amministrazione complicata e difficile, doveva ogni giorno pensare a raccogliere nuovi soldati, per riempire i vuoti che facevano nelle sue file, non tanto il ferro nemico, quanto la continua diserzione, e trovare ogni giorno i danari, coi quali pagare, nella pace e nella guerra, i suoi uomini. Egli era in continua relazione cogli Stati italiani, per cercare condotte, avere danari colle minacce o colle promesse, dare ascolto a coloro che, con maggiori offerte, volevano levarlo al nemico. Pareva in sostanza quasi principe d'una città che si moveva di paese in paese, il che non la rendeva di certo più facile ad amministrare o governare; ed al pari del tiranno, viveva in continui pericoli, nella pace non meno che nella guerra. Egli era minacciato dalle gelosie degli altri capi di bande o compagnie; dalle ambizioni dei sottoposti, che spesso tramavano congiure contro di lui; dalla mancanza di condotte, che, lasciandolo senza danari, poteva sciogliere il suo esercito. La nessuna sicurezza della sua fede teneva gli Stati che serviva sempre in sospetto, e dal sospetto facilmente si passava alle vie di fatto, testimonî il Carmagnola e Paolo Vitelli, improvvisamente presi e decapitati, l'uno dai Veneziani, l'altro dai Fiorentini, alla testa dei cui eserciti combattevano. Singolare era poi vedere questi uomini, il più delle volte di bassa origine e senza cultura, circondati in campo da ambasciatori, e da poeti, da eruditi, che leggevano loro Livio e Cicerone, e nei propri versi li paragonavano sempre a Scipione, ad Annibale, a Cesare o Alessandro. Quando conquistavano per proprio conto una terra, o la ricevevano in cambio di servigi prestati, il che pur seguiva qualche volta, erano addirittura capitani e principi ad un tempo.

La guerra divenne allora per gli Stati italiani una specie di operazione diplomatica e finanziaria: vinceva chi sapeva trovare più danari, procurarsi più amici, meglio lusingare e pagare i capitani più reputati, la cui fedeltà si alimentava solo con nuovi danari o nuove speranze. Ma il vero spirito militare andò presto decadendo in questi soldati, che avevano oggi di fronte i compagni di ieri, coi quali potevano essere domani nuovamente uniti. Il loro scopo non era più la vittoria, ma la preda. Più tardi le compagnie di ventura scomparvero affatto cedendo il luogo agli eserciti stanziali, cui avevano apparecchiato la via; ma esse lasciarono dietro di loro la memoria di grandi calamità, durante le quali gl'Italiani dettero prova di molto ingegno e molto coraggio; fondarono la nuova arte della guerra; manifestarono una varietà infinita di attitudini e di qualità militari; produssero una gran moltitudine di capitani, e pure sbandarono indebolendo e corrompendo sempre di più.

Nelle lettere, meglio che altrove, si vede chiara la generale trasformazione che seguiva in quel tempo. Gli storici deplorano generalmente, e sembrano non comprendere per qual ragione gl'Italiani, dopo avere creata una così splendida letteratura nazionale con la Divina Commedia, il Decamerone ed il Canzoniere, deviassero dal cammino gloriosamente percorso, volgendosi alla imitazione degli antichi, disprezzando quasi la propria lingua, e rimettendo in onore l'uso del latino. Ma leggendo le opere di Dante, del Boccaccio, del Petrarca, si vede subito che aprirono essi la via per cui il secolo XV entrò. Nella Divina Commedia l'antichità riceve continuamente un posto d'onore, ed è quasi santificata da un'ammirazione senza limiti; nel Decamerone il periodo latino già trasforma e sconvolge il periodo italiano; il Petrarca è addirittura il primo degli eruditi. Chi poi paragona gli scrittori italiani del Trecento con quelli che compariscono sul finire del secolo XV e sul cominciare del XVI, s'accorge subito, che il tempo speso in questo mezzo sui classici, non è andato perduto. Leggendo infatti, non dirò i Fioretti di San Francesco e le Vite del Cavalca, ma il De Monarchia ed il Convivio di Dante, anche alcuni canti della Divina Commedia, noi dobbiamo come trasportarci in un altro mondo: l'autore assai di frequente ragiona ancora al modo scolastico, non osserva e non vede il mondo come lo vediamo noi. Se invece apriamo le opere del Guicciardini, del Machiavelli e dei loro contemporanei, troviamo degli uomini che, anche avendo opinioni diverse dalle nostre, pensano o ragionano come noi. La scolastica, il misticismo, l'allegoria del Medio Evo sono scomparsi per modo che sembra quasi se ne sia perduta la memoria. Siamo sulla terra, in mezzo alla realtà, con uomini che non guardano il mondo attraverso alcun velo fantastico di mistiche illusioni, ma con i propri occhi, con la propria ragione, senza essere schiavi d'alcuna autorità. E così vien fatto di chiedere: in che modo gli eruditi del secolo XV, tornando verso gli antichi, poterono scoprire un mondo nuovo, simili quasi, come fu detto, al Colombo che trovò l'America, cercando d'arrivare alle Indie per un'altra strada?

Il Medio Evo, per ridestare nell'uomo una nuova vita dello spirito, aveva disprezzato la vita terrena e la società civile; sottomesso la filosofia alla teologia, lo Stato alla Chiesa. Il reale gli sembrava utile solo come simbolo o allegorìa per esprimere l'ideale, la Città terrena solo come un apparecchio alla Città di Dio: si reagiva contro tutto ciò che era stata l'essenza del Paganesimo, l'ispirazione dell'arte antica. E così lo spirito umano restò chiuso nei sillogismi della scolastica, nelle nebbie del misticismo, nelle fantastiche e intricate creazioni della poesia cavalleresca e delle canzoni provenzali. Ma quando, come per uno slancio improvviso di nuova ispirazione, in mezzo alle libertà comunali, sorsero la poesia e la prosa italiana a descrivere gli affetti, le passioni reali e vere dell'uomo, il mondo del Medio Evo fu condannato a perire. Le vecchie forme, incerte e fantastiche, non resistettero più di fronte a quelle nuove analisi così precise, a quelle immagini così splendide e chiare, a quello stile, a quel linguaggio, in cui il pensiero trasparisce come attraverso purissimo cristallo. Ma questa letteratura, dando un nuovo indirizzo allo spirito umano, fece ben presto nascere anche bisogni nuovi, che essa non poteva tutti soddisfare. Il linguaggio poetico s'era già trovato, e s'erano avuti, in una forma ammirabile, la novella, il sonetto, la canzone ed il poema; ma il nuovo stile filosofico, epistolare, oratorio, storico mancavano affatto: il bisogno di trovarli diveniva irresistibile.

Lo scrittore del Trecento somigliava perciò assai spesso ad un uomo che, pure avendo buone gambe, si trovi in una via così piena di ostacoli e di pericoli, che non può camminar senza aiuto: di tanto in tanto egli s'appoggia novamente alle grucce della scolastica. Quando lo stesso Alighieri, nella sua Monarchia, discute se il Papa debba essere paragonato al sole, e l'Imperatore alla luna; se il fatto di Samuele che depose Saul, e l'offerta dei re Magi a Cristo bambino possano provare la dipendenza dell'Impero dalla Chiesa, chi non vede che egli ha ancora un piede nel Medio Evo? Leggendo la Cronica di Giovanni Villani, troviamo non solo uno scrittore molto chiaro, ma un osservatore acutissimo, cui nulla sfugge; un uomo pratico del mondo e degli affari. Tutto egli vede e registra: battaglie, rivoluzioni politiche e sociali, forme di governo, nuovi edifizî, quadri, opere letterarie, industria, commercio, tasse, entrate ed uscite della Repubblica, perchè egli comprende che di tutto ciò si compone la società umana, e che da ciò risulta la potenza e la prosperità degli Stati. Ma egli ci dà ancora come storie le più favolose e fantastiche leggende sull'origine di Firenze. E neppure una volta sola gli riesce di trovare la logica unità della narrazione storica, che connette i vari avvenimenti, e ne rende visibile il legame; il suo lavoro non esce perciò mai dai modesti confini della cronica. Ogni volta che lo scrittore del Trecento scrive di filosofia o di politica, ogni volta che compone una orazione o una lettera, egli è condannato a tornare fra quelle pastoie, che poco prima sembrava avere spezzate per sempre.

Bisognava dunque allargare lo stile; diffondere la lingua; renderla più universale, più duttile; trovare le nuove forme letterarie, che ancora mancavano ed erano divenute necessarie. Ma questo bisogno cominciava a sentirsi nel momento stesso in cui ogni giovanile e vigoroso incremento delle forze nazionali veniva contrastato dalle complicazioni politiche e sociali, che abbiamo più sopra accennate. Cominciava perciò a mancare quella forza creatrice che già aveva dato origine alla nostra letteratura, e sola poteva portarla al suo naturale compimento, facendole trovare le altre forme che essa cercava. Se non che, queste forme non sono mutabili a capriccio, sono determinate dalle leggi stesse del pensiero e della natura, ed erano state trovate la prima volta dai Greci e dai Romani, negli scritti dei quali serbano in eterno tutto il vigore, lo splendore e la originalità, che le opere dell'arte raggiungono solo nel momento della prima creazione. Il ritorno al passato si presentava quindi come un progresso naturale, necessario, e la grande relazione della cultura latina con la italiana lo faceva sembrare come un ritemprarsi alle prime sorgenti, un ritorno all'antica grandezza nazionale. I Greci ed i Latini presentavano inoltre agl'Italiani una letteratura ispirata alla natura ed alla realtà, guidata dalla ragione, non sottoposta ad alcuna autorità, non circondata da nessun velo allegorico, da nessun misticismo: imitarla era quindi un liberarsi affatto dal Medio Evo. E così tutto spingeva ora verso il mondo antico. La pittura e la scultura vi trovavano lo studio perfezionato delle forme umane, un disegno insuperabile; l'architettura vi trovava una costruzione più solida e meglio pieghevole ai varî bisogni della vita sociale; l'uomo di lettere, quel magistero di stile, di cui andava in cerca; il filosofo, l'indipendenza della ragione e l'osservazione della natura; il politico trovava nel concetto di Roma antica quella unità dello Stato, che non solo la scienza, ma la società stessa cercavano allora come un loro fine necessario. La imitazione dei Greci e dei Romani divenne perciò come una manìa, che s'impadronì rapidamente di tutti gli animi: i tiranni vollero imitare Cesare ed Augusto; i repubblicani, Bruto; i capitani di ventura, Scipione ed Annibale; i filosofi, Aristotele e Platone; i letterati, Virgilio e Cicerone; perfino i nomi stessi delle persone e dei paesi si mutarono in greci e romani.

Il Medio Evo conosceva certo molti degli antichi scrittori; per alcuni di essi ebbe anzi come un ossequio religioso. Ma la sua erudizione, salvo alcune eccezioni, era ben diversa da quel rinascimento che cominciava ora. Essa restringevasi ad un piccolo numero di scrittori latini, dei più recenti, i quali, meno lontani dalle idee cristiane, e vissuti sotto l'Impero, che sembrava dominare ancora la società umana, essere anzi immutabile ed immortale, erano quasi letti come scrittori contemporanei, e le loro opere venivano forzate, piegate a sostenere i concetti stessi del Cristianesimo. Virgilio profetizzava la venuta di Cristo; l'etica di Cicerone doveva essere identica a quella del Vangelo; ed Aristotele, conosciuto solo nelle traduzioni latine, alterato dai comentatori, era costretto a sostenere l'immortalità e spiritualità dell'anima, cui non aveva creduto. Ben diversi erano i desideri e i gusti del secolo XV. Esso non voleva trasformare in cristiano il mondo pagano; voleva anzi tornare a questo, che lo riconduceva dalla Città di Dio a quella degli uomini, dal cielo alla terra. Non gli bastava perciò la conoscenza di pochi scrittori più recenti; li voleva leggere tutti, ed i più lontani con più ardore, perchè obbligavano ad uno sforzo maggiore della mente, e facevano fare un più lungo viaggio intellettuale. Si cercarono, quindi, si disseppellirono ed illustrarono gli antichi codici, gli antichi monumenti con una febbrile attività, di cui non v'è altro esempio nella storia. Sembrava che gl'Italiani volessero non solo imitare il mondo antico, ma evocarlo dalla tomba, farlo rivivere, perchè in esso sentivano di ritrovare sè stessi, entrando come in una seconda vita: era un vero e proprio rinascimento. E non s'accorgevano punto che le loro imitazioni e riproduzioni venivano animate da uno spirito nuovo, che si andava svolgendo, dapprima invisibile e nascosto, per liberarsi poi a un tratto dalla sua crisalide, uscendo alla luce in una forma nazionale e moderna.

Così l'erudizione fu il mezzo con cui gl'Italiani seppero liberare sè stessi e l'Europa dalle pastoie del Medio Evo, non interrompendo, ma continuando e compiendo, sotto diversa forma, l'opera iniziata dagli scrittori del Trecento. Ma le nuove opere letterarie ed artistiche non furono il risultato d'una giovane e vigorosa ispirazione, sorta in una società come quella in cui visse Dante, piena d'ardore e di fede, tra forti caratteri e fiere passioni. Formate in un tempo, nel quale continuava una febbrile attività della mente, ma si spegnevano le più nobili aspirazioni del cuore umano, risentirono le conseguenze di un tale stato di cose. Si riescì mirabilmente in tutti quei generi nei quali la natura visibile, lo studio esteriore dell'uomo e delle sue azioni hanno parte principale. Le arti belle, plastiche sempre di loro natura, perderono l'epica grandezza di Giotto e dell'Orcagna, quella ispirazione religiosa che tanto si ammira nelle antiche cattedrali cristiane; ma, assimilando le forme classiche, che modificarono inconsapevolmente, s'ispirarono al genio greco, imitarono la natura, e la riprodussero nelle loro nuove e spontanee creazioni, circondate d'un velo etereo, con colori che hanno uno smalto, una freschezza, una fragranza inarrivabili. È un'arte che, innestando le forme cristiane e pagane, acquista una spontaneità e verginità nuova; resta una gloria immortale del secolo e dell'Italia, la manifestazione più compiuta del Rinascimento, da cui riceve ed a cui comunica il proprio carattere. La poesia fu del pari inarrivabile nelle descrizioni e riproduzioni del vero, che apparisce chiaro e preciso anche in mezzo alle più fantastiche creazioni del poema cavalleresco ed eroicomico. La scienza politica, che esamina le azioni umane nel loro valore obbiettivo ed esteriore, nelle loro pratiche conseguenze, quasi astraendo dal carattere morale che acquistano nella coscienza dell'uomo, e dalle intenzioni con cui vengono compiute, non solo fiorì del pari, ma fu la creazione più originale nella letteratura dei secoli XV e XVI.

Si lavorò con energia irrefrenabile; si cercarono e si trovarono tutte le forme letterarie; si ottenne una grande verità e facilità nella prosa e nella poesia; si crearono il linguaggio e lo stile oratorio, diplomatico, storico, filosofico; ma svaniva il sentimento religioso; s'infiacchiva il senso morale, ed il culto della forma cresceva spesso a scapito della sostanza, difetto che rimase per molti secoli nella letteratura italiana. Nel vedere questa prodigiosa attività intellettuale, che sotto mille forme diverse si riproduce sempre più ricca e più splendida, eppur sempre accompagnata da una sociale e morale decadenza, lo storico che studia quei tempi, resta sgomento, sentendosi come in presenza di una misteriosa contradizione, che fa presagire futuri guai. Quando il male che travaglia internamente questo popolo, verrà alla superficie, una catastrofe sarà inevitabile. Il lento e continuo avanzarsi di essa, in mezzo a tanto progresso intellettuale, è appunto la storia del Rinascimento. Per meglio comprenderla bisogna esaminare le cose anche più da vicino.

II.

I PRINCIPALI STATI ITALIANI

1. - MILANO.

La prima trasformazione del Comune italiano che, per mezzo della tirannide, aprì la via alla costituzione dello Stato moderno, noi la troviamo a Milano. Divenuta centro d'una vasta agglomerazione di repubbliche e signorie, che interessi e gelosie diverse ora riunivano ed ora separavano, vide sorgere nel suo seno il dominio della famiglia Visconti, lacerata anch'essa da interni e sanguinosi dissidî. Nel 1378 si trovano di fronte Bernabò ed il nipote Giovan Galeazzo, più noto col nome di conte di Virtù. Ambedue ambiziosi e malvagi del pari, il primo era ciecamente dominato dalle sue passioni, e fu quindi preda del nipote, che sapeva dirigerle ad un fine premeditato. Questi riuscì nel 1385 a farlo con i figli mettere in prigione, donde non uscirono più vivi; e restato così solo, si pose con ardore all'opera di riordinare lo Stato, per liberarlo dall'anarchia.

In mezzo a mille nemici, egli non aveva un esercito, ed era anche privo di valor militare; ma accoppiava ad una grandissima astuzia una profonda conoscenza degli uomini ed un vero ingegno politico. Chiuso nel suo castello di Pavia, prese a stipendio i primi capitani d'Italia, ed i più accorti diplomatici, distendendo con questi le fila della sua tenebrosa politica in tutta la Penisola, che subito riempì d'intrighi e di guerre, dirigendo le operazioni militari dal suo gabinetto. Con un occhio sicuro ed una volontà pronta, egli riuscì a fare una vera ecatombe di piccoli tiranni nella Lombardia, unendosi con gli uni ad abbattere gli altri, per poi rivolgersi contro quelli che lo avevano aiutato, e impadronirsi dei loro Stati. Così formò il Ducato di Milano, di cui ebbe l'investitura dall'Imperatore. Estese poi il suo dominio sino a Genova, a Bologna, alla Toscana, e vagheggiava mettersi sul capo la corona d'Italia, dopo aver vinto Firenze, che già aveva esaurita con le continue guerre. Ma il 3 dicembre 1402 la morte venne a troncare tutti gli ambiziosi disegni.

Mirabile fu vederlo chiuso nelle mura del suo castello, gettarsi in tante guerre, che di là seppe dirigere e vincere fortunatamente. Nello stesso tempo egli creò ed ordinò un nuovo Stato. Occupazione principale del suo governo fu veramente imporre tasse, per alimentare le guerre incessanti; ma la giustizia veniva nei casi ordinarî bene amministrata, le finanze procedevano con ordine, e la prosperità cresceva. Le libere assemblee furono mutate in Consigli amministrativi e di polizia; ogni città ebbe un Podestà, eletto dal Duca, non più dal popolo; il Comune non fu più uno Stato, ma un organo amministrativo, come nelle società moderne; ed un collegio d'uomini autorevoli nella capitale rendeva già immagine dei nostri ministeri. Circondato da letterati ed artisti, iniziatore di molte opere pubbliche, fra cui i due più grandi monumenti della Lombardia, il duomo di Milano e la certosa di Pavia, ove dètte anche nuova vita e splendore alla università, egli fu uno dei primi principi moderni. Con lui le istituzioni del Medio Evo scompariscono affatto, e sorge l'unità del nuovo Stato. Questo fu però una creazione tutta personale del principe, che ebbe di mira solamente il suo interesse personale; e quindi con la sua morte la società ricadde ben presto nell'anarchia, lacerata dalle ambizioni dei capitani di ventura.

Più tardi Filippo Maria, figlio di Giovan Galeazzo, ripigliò in mano le redini del governo, per camminare sulle orme del padre. Egli aveva dovuto dividere il Ducato col fratello Giovanni Maria, uomo feroce, che faceva sbranare le sue vittime dai cani, di cui teneva perciò gran moltitudine; ma il pugnale dei congiurati venne a far vendetta, ed il 12 maggio 1412 Giovanni fu pugnalato in chiesa. Filippo era una copia peggiorata del padre, di cui non aveva l'ingegno politico; astuto, falso, traditore e crudele univa ad una grande conoscenza degli uomini un perfetto dominio delle sue passioni. Timido fino alla viltà, aveva la strana passione di gettarsi in guerre continue e pericolose, le quali conduceva scegliendo, con mirabile accortezza, i primi capitani d'Italia, che poneva gli uni in sospetto degli altri, per essere sicuro dalle loro ambizioni. Circondato di spie, chiuso nel suo castello di Milano, da cui non usciva mai, ingannò sempre e trovò sempre da ingannare; visse in continua guerra con tutti, e si salvò sempre dalle disfatte con l'astuzia. I Fiorentini furono da lui rotti a Zagonara nel 1424; dai Veneziani, che sempre combattè, fu più e più volte vinto; ma dopo paci non sempre accorte ed onorevoli, raccoglieva danari e ripigliava la guerra. Si gettò perfino nella contesa napoletana fra gli Angioini e gli Aragonesi, e riuscì a prendere prigioniero Alfonso d'Aragona, che poi liberò per non lasciar piena vittoria agli Angioini. In mezzo a questo grande turbinìo d'eventi e di nemici da lui provocati, riconquistò e riordinò lo Stato paterno, che tenne sicuro fino alla morte (1447), unicamente per mezzo della sua infernale astuzia.

Egli non aveva eredi legittimi, ma solo una figlia naturale, Bianca, il che aveva reso assai più pericolosa la sua condizione, essendo molti coloro che aspiravano a succedergli. Fra di essi v'era Francesco Sforza, tenuto in Italia il primo capitano del secolo, al cui aiuto il Visconti dovette di continuo ricorrere, trovandosi perciò inevitabilmente in balìa di lui. Questi era un leone che sapeva far la volpe, e Filippo Maria era una volpe che amava mettersi la pelle del leone. Così vissero ambedue lunghi anni, tendendosi a vicenda agguati, e conoscendo ognuno assai bene le intenzioni segrete dell'altro. Lo Sforza fu più e più volte sull'orlo d'una totale rovina, circondato dalle trame del Visconti, che poi invece lo aiutava. Nel 1441 davagli in isposa la propria figlia, e ne alimentava così le ambiziose speranze, per meglio valersene nelle guerre, salvo poi a ordir nuove trame contro di lui, che pur sapeva scamparne senza mai lasciarsi vincere dal desiderio della vendetta. Ed in questo modo, quando, dopo quasi mezzo secolo di regno, il Visconti moriva di morte naturale, lo Sforza si trovò abbastanza potente per riuscire nel disegno lungamente meditato d'impadronirsi del Ducato.

A una dinastia ne succede ora un'altra, ed il principato italiano si presenta a noi sotto un aspetto totalmente diverso. I Visconti erano stati una grande famiglia, e coll'astuzia, l'ardire e l'ingegno politico s'erano impadroniti del Ducato che avevano costituito; gli Sforza, invece, uomini nuovi, usciti di assai basso stato, s'aprirono la via colla spada. Muzio Attendolo, il padre di Francesco Sforza, era nato d'una famiglia romagnola, che viveva in Cotignola una vita di semi-brigantaggio e d'ereditarie vendette. Dicesi che la cucina della loro casa pareva un arsenale di guerra: tra i piatti e le padelle affumicate pendevano le corazze, i pugnali e le spade, che uomini, donne e bambini maneggiavano con uguale ardire. Ancora giovanetto, Muzio fu menato via da una banda di ventura, ed in breve tempo, raggiunto dai suoi, si pose alla testa d'una propria compagnia, e fu noto col nome di Sforza, datogli in campo. D'un coraggio, d'una forza e d'una volontà indomabili, più che un generale fu un soldato che si gettava nella mischia, e scannava i nemici colle proprie mani. D'indole assai impetuosa, commise spesso azioni da brigante, come quando trapassò con la spada Ottobuono III di Parma, mentre questi parlamentava col marchese d'Este. Eppure, sebbene andasse sempre da uno ad un altro padrone, portando scompiglio e desolazione per tutto, riuscì ad esser signore di molte terre, le quali tenne per sè e per coloro che lo avevano seguìto. Nel regno di Napoli, ai servigi della capricciosa regina Giovanna II, ebbe le sue maggiori e più strane vicende: prima generale, poi prigioniero, poi gran contestabile del regno, poi di nuovo in carcere, era per finire i suoi giorni miseramente, quando a Tricarico la sorella Margherita, con la spada in pugno e l'elmo in testa, spaventò per modo i messi reali, che ne ottenne la salvezza del fratello. Fu di nuovo comandante delle forze reali, e poi morì presso Aquila, affogando nel fiume Pescara, quando lo passava a nuoto, per incoraggiare i suoi a seguirlo nella vittoria, che pareva assicurata. E così compiè la vita, non meno agitata del mare, in cui il suo corpo andò finalmente a trovar sepoltura (1424).

Francesco suo figlio naturale, che aveva 23 anni, prese subito il comando delle schiere paterne, e le condusse di vittoria in vittoria, dimostrando un vero genio militare, una grandissima accortezza politica. Sempre padrone di sè, scatenava l'impeto indomito delle sue passioni solamente quando voleva. Servì il Visconti contro i Veneziani, i Veneziani contro il Visconti; attaccò il Papa, togliendogli la Romagna, ed emanando colà i suoi ordini: invitis Petro et Paulo; poi lo difese. Pel suo valor militare divenne l'uomo che tutti volevano a loro servigio, perchè pareva che senza di lui nessuno in Italia potesse vincere, sebbene vi fossero allora capitani come i Piccinini ed il Carmagnola. Ma in mezzo a tutte queste vicende, egli seppe tener sempre fermo l'occhio alla sua mira costante; e quando Filippo Maria morì, si vide subito in che modo il capitano di ventura sapeva mutarsi in uomo di Stato.

Milano aveva proclamato la repubblica; le città sottoposte s'eran ribellate; Venezia minacciava; i partiti interni si scatenavano. Egli offrì la sua spada in servigio della pericolante città, che credette d'aver trovato un'àncora di salvezza, ed invece fu poco di poi assediata dal suo stesso capitano, che il 25 marzo 1450 vi faceva l'ingresso trionfale, avendo già ordinata la propria corte. Il suo primo atto fu d'interrogare il popolo se, a difesa contro i Veneziani, volevano ricostruire la fortezza di porta Giovia, o mantenere piuttosto un esercito permanente in città. Votarono per la fortezza, che fu invece valido baluardo della tirannide contro il popolo. Amici e nemici, se temibili, furono subito imprigionati, spogliati di tutto, ed anche spenti senza esitare. Il territorio dello Stato fu riconquistato; i ribelli furono sottomessi; l'ordine, l'amministrazione, la giustizia dei tribunali ordinarî ristabiliti con maravigliosa rapidità. E in tutto ciò lo Sforza procedeva con la calma dell'uomo che si sente forte, e che vuole aver nome d'imparziale e giusto. Pure quando gli pareva opportuno, nessuno più di lui sapeva, per disfarsi d'amici o nemici, essere perfido e crudele.

La rivolta di Piacenza fu soffocata nel sangue dal suo fido capitano Brandolini. Arrivate le stragi al colmo, e pacificata ogni cosa, si vide con generale maraviglia il Brandolini messo in carcere come sospetto; poi fu trovato con la gola tagliata, e una spada spuntata e sanguinosa accanto. Si disse dal volgo, che il Duca aveva voluto disapprovare e punire le crudeltà eccessive del suo capitano; si disse invece dai più accorti che, dopo essersene servito, gettava via l'inutile strumento, perchè su di esso solamente cadesse l'odio del sangue versato. Nato e vissuto nella guerra, egli voleva ora essere un uomo di pace, e mirava unicamente a consolidare il proprio Ducato ne' suoi naturali confini, abbandonando del tutto gli ambiziosi e pericolosi disegni dei Visconti. E quando, dopo una guerra quasi generale, ma di nessuna importanza, i potentati italiani vennero l'anno 1454 ad una pace comune, egli seppe fare in modo da essere implicitamente riconosciuto da tutti, restando a lui anche il Bergamasco, la Ghiara d'Adda ed il Bresciano. Noto fra i più audaci e tumultuosi capitani di ventura, conosceva meglio d'ogni altro di che grande calamità essi erano agli Stati ordinati e pacifici; quindi fu tra coloro che più contribuirono, se non a farli scomparire del tutto, a far loro perdere assai della passata importanza, come già per forza naturale delle cose cominciava a seguire. Uno solo della vecchia scuola sopravviveva allora, Iacopo Piccinini, ed era veramente di quelli che, rizzando una bandiera, potevano mettere insieme un esercito pericoloso. Costui se ne viveva tranquillo a Milano, quando gli venne voglia d'andare a vedere le sue terre nel reame di Napoli, e fu dal Duca assai incoraggiato, sebbene ognuno sapesse quanto era inviso a Ferrante d'Aragona. Arrivato colà, venne accolto a braccia aperte dal Re, che lo condusse a vedere la reggia e poi lo mise in prigione, dove presto morì. Lo Sforza protestò, strepitò contro la violata fede; ma tutti credettero che, d'accordo con Ferrante, egli si fosse voluto liberare d'un incomodo vicino.

Francesco Sforza, dice felicemente uno storico moderno, era proprio l'uomo secondo il cuore del secolo XV.

Grande capitano ed accorto politico, egli sapeva fare a tempo la volpe ed il leone; sapeva, occorrendo, metter le mani nel sangue: ma quando ciò non era necessario, voleva invece giustizia imparziale, e si dimostrava anche generoso e pietoso. Fondò una dinastia; conquistò uno Stato, che lasciò sicuro e bene amministrato; costruì grandi opere pubbliche, come il canale della Martesana e l'ospedale maggiore di Milano. Si circondò d'esuli greci e d'eruditi italiani, e così la corte del già capitano di ventura divenne subito una delle più splendide d'Italia. Sua figlia Ippolita fu celebre pei discorsi latini, che tutti lodavano, esaltavano. Il famoso Cicco (Francesco) Simonetta, calabrese, uomo dottissimo e d'una fedeltà a tutta prova, fu il segretario del Duca; il fratello Giovanni ne fu lo storiografo; Francesco Filelfo, il poeta cortigiano, ne cantò le lodi nellaSforziade. Celebrato così in verso ed in prosa, col nome di giusto, di grande, di magnanimo, moriva il giorno 8 marzo 1466. Tutto aveva tentato ed in tutto era riuscito; i contemporanei lo credettero perciò il più grande uomo del secolo. Ma che cosa era lo Stato da lui definitivamente costituito? Una società in cui tutte le forze s'andavano rapidamente esaurendo; un popolo di cui il sovrano credeva poter fare tutto quello che voleva, materia plastica nelle mani d'un nuovo artista, il cui valore stava solo nel conseguire il fine propostosi, qualunque esso fosse. Nè i Visconti nè lo Sforza ebbero mai alcuna idea politica veramente grande e feconda, perchè essi non s'immedesimarono mai col popolo, ma lo fecero solo servire ai loro propri interessi. Furono maestri nel trovar l'arte di governo; ma non riuscirono a fondare un vero governo, perchè ne avevano colla tirannide disfatti gli elementi essenziali. Le funeste conseguenze di questa politica, che fu pur troppo la politica italiana del secolo XV, si dovevano ben presto vedere in tutta la Penisola, come si cominciarono a vedere in Milano dopo la morte del Duca.

Il figlio Galeazzo Maria, dissoluto e crudele, era di un'indole così triste, che fu perfino accusato d'avere avvelenato la propria madre. Credendo che al principe tutto fosse lecito e possibile, egli, in un secolo che omai si poteva dir civile, fece seppellir vivi alcuni de' suoi sudditi; altri condannò a morir fra torture crudeli, per frivoli pretesti, perdonando solo a coloro che si riscattavano con danaro. Dissipava tesori nelle feste in Milano e nelle cavalcate che faceva per tutta Italia, portando corruzione dovunque andava. Nè gli bastava corrompere le donne delle più nobili famiglie milanesi, che le esponeva egli stesso anche al pubblico disprezzo. Le istituzioni o la volontà popolare non potevano allora metter freno a questo cieco furore, perchè un popolo più non esisteva, e le istituzioni eran tutte divenute congegni atti solo a servir la tirannide. Ben vi pose fine una congiura delle più singolari e notevoli, in quello che può veramente dirsi il secolo delle congiure.

Girolamo Olgiati e Giannandrea Lampugnani, discepoli di Niccola Montano, che li aveva coi classici educati all'amore della libertà e all'odio della tirannide, ingiuriati dal Duca, deliberarono di vendicarsi, e trovarono in Carlo Visconti, per le stesse ragioni, un terzo compagno. S'infiammarono all'impresa colla lettura di Sallustio e di Tacito, si esercitarono tra loro a ferire colle guaine dei pugnali; e quando ebbero fissato ogni cosa pel 26 dicembre 1476, l'Olgiati, entrato nella chiesa di Sant'Ambrogio, si gettò ai piedi della immagine del Santo, pregandolo che non facesse fallire il colpo. Il mattino del giorno stabilito assistevano alle funzioni religiose nella chiesa di Santo Stefano, recitando una preghiera latina, espressamente composta dal Visconti: - Se tu ami la giustizia e odii l'iniquità, - dicevano al Santo, - sii favorevole alla magnanima impresa, e non ti adirare quando fra poco dovremo insanguinare i tuoi altari, per liberare il mondo da un mostro. - Il Duca fu ucciso, ma il Visconti ed il Lampugnani restarono vittime del furore del popolo, che volle vendicare il proprio oppressore. L'Olgiati fuggì e si nascose, ma fu di poi anch'egli preso e condannato all'estremo supplizio. Lacerato dalla tortura, evocava in suo aiuto le ombre dei Romani, e si raccomandava alla Vergine Maria; incitato a pentirsi, dichiarava che, se avesse dieci volte dovuto spirare fra quei tormenti, avrebbe dieci volte consacrato il sangue all'eroica impresa. Vicino a morire, componeva ancora epigrammi latini, rallegrandosi che riuscissero bene; e quando il carnefice gli era già accanto, le sue ultime parole furono: Collige te, Hieronyme, stabit vetus memoria facti. Mors acerba, fama perpetua. Qui si vede che, se era spenta nel popolo ogni vera passione politica, in alcuni individui si mescolavano, nel modo più strano, sentimenti pagani e cristiani; l'amore della libertà con un odio personale, irrefrenabile e feroce; un'eroica rassegnazione alla morte con una sete inestinguibile di sangue, di vendetta e di gloria. I rottami di vecchi sistemi, gli avanzi di civiltà diverse si trovano mescolati insieme nello spirito italiano, e con essi s'apparecchia e si feconda il germe d'una nuova forma individuale e sociale, che ancora non è visibile ai nostri occhi. Poco di poi Lodovico il Moro, fratello del morto Duca, ambizioso, timido, irrequieto, usurpò il dominio al nipote Galeazzo, e per mantenere la male acquistata signoria, mise a soqquadro l'Italia intera, come avremo occasione di vedere, quando, dopo esaminate le condizioni dei varî Stati italiani, daremo uno sguardo generale a tutta la Penisola.

2. - FIRENZE.

La storia di Firenze ci conduce in mezzo a condizioni sostanzialmente diverse da quelle di Milano. A prima vista sembra che noi siamo in un gran caos di avvenimenti disordinati, dei quali non si possa comprendere nè la ragione nè il fine. Ma, esaminando poi le cose più da vicino, si ritrova un filo conduttore, e si vede come quella repubblica, attraverso una serie infinita di rivoluzioni, percorrendo tutte le forme politiche che il Medio Evo poteva conoscere, mirò costantemente al trionfo della democrazia, alla distruzione totale del feudalismo, scopo che conseguì cogli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, l'anno 1293. Da quell'anno Firenze, divenuta una città di soli mercanti, non è più divisa in Grandi e popolani; ma in popolo grasso e popolo minuto, in Arti maggiori ed Arti minori. Le prime s'occupano della grande industria e del grande commercio d'importazione e di esportazione; le seconde s'occupano della piccola industria e del commercio interno della Città. Nasce da ciò una divisione, e spesso ancora una collisione d'interessi, da cui scaturisce la nuova formazione dei partiti politici. Quando si tratta d'ingrandire il territorio della repubblica; di combattere Pisa per tenersi aperta la via del mare, o Siena per assicurarsi il commercio con Roma; di respingere gli assalti continui e minacciosi dei Visconti di Milano, il governo cade inevitabilmente in mano delle Arti maggiori, più ricche, più intraprendenti, più audaci e capaci d'intendere e tutelare i grandi interessi dello Stato fuori de' suoi confini. Ma quando posano le armi e comincia la pace, allora subito le Arti minori, sospinte anche dall'infima plebe, insorgono contro la nuova aristocrazia del danaro, che, con le guerre e le tasse continue, le opprime, e chiedono maggiori libertà, più generale uguaglianza. Questo continuo avvicendarsi dura per più di un secolo, fino al tempo, cioè, in cui il territorio della repubblica si è costituito, e le interminabili guerre con Milano hanno termine. Allora diviene inevitabile il trionfo definitivo delle Arti minori, ed esse con la loro inesperienza, colle loro intemperanze, spianano la via alla tirannide dei Medici.

Ben s'illuderebbe, però, chi s'aspettasse di vederli salire al potere con le arti ed i mezzi adoperati dai Visconti e dagli Sforza. Colui che avesse in Firenze cominciato a torturare arbitrariamente i cittadini, a seppellirne vivo qualcuno, a farne sbranare qualche altro dai cani, come fecero i signori di Milano, sarebbe stato subito cacciato a furore di popolo dalle Arti maggiori e dalle minori unite insieme. L'importanza e l'originalità politica tutta propria dei Medici sta anzi in questo, che il loro trionfo è la conseguenza d'una condotta tradizionale, seguita da quella famiglia, per più di un secolo, con una costanza ed un'accortezza impareggiabili, per arrivare ad impadronirsi del potere senza ricorrere alla violenza. E l'essere a ciò riusciti in una città così accorta, così inquieta, così gelosa delle sue antiche libertà, è prova di un vero genio politico.

Sin del 1378, in mezzo all'incomposto tumulto dei Ciompi, noi troviamo la mano di Salvestro dei Medici, che, quantunque delle Arti maggiori, aiuta, eccita le minori a rovesciarne il potere, e acquista così una grande popolarità. Fallito quel tumulto, ricominciata la guerra, e quindi tornate le Arti maggiori e gli Albizzi al potere, noi vediamo Vieri de' Medici rimanersene tranquillo, pensando solo a far danari. Non cessò tuttavia di mostrarsi favorevole sempre al partito popolare, nel quale seppe acquistarsi tanta autorità da far dire al Machiavelli, «che se fosse stato più ambizioso che buono, poteva, senza alcuno impedimento, farsi principe della città.» Vieri però conosceva meglio il suo tempo, e si contentò d'aspettare, agevolando la via a Giovanni di Bicci, che fu il vero fondatore politico della casa. Questi vide chiaramente, che trasformare colla violenza il governo non era possibile in Firenze, e che non avrebbe giovato gran fatto il salire, anche più volte, al potere, in una repubblica che mutava ogni due mesi i suoi principali magistrati. Non v'era che un mezzo solo per ottenere un predominio reale e sicuro: costituire e guidare un partito che avesse la prudenza e la forza di far continuamente entrare nei più importanti uffici della Repubblica i propri aderenti. E gli Albizzi s'avvidero subito che questo disegno cominciava a riuscire, perchè i loro avversari, nonostante il continuo ammonirli ed esiliarli, risultavano eletti in numero sempre maggiore. Invano cercarono di controminare l'opera di Giovanni de' Medici, col proporre inopportunamente leggi intese ad indebolire le Arti minori, perchè essi non potevano farle approvare nei Consigli senza l'aiuto del loro avversario, che invece le combatteva apertamente, e ne diveniva così sempre più potente appresso il popolo (1426). Egli, come afferma il Machiavelli, sostenne la legge del Catasto, con la quale si ordinava che fosse riconosciuta e scritta la fortuna di ciascun cittadino, il che impediva che i potenti, tassando ad arbitrio, gravassero senza misura i più deboli. La legge fu vinta, l'autorità dei Medici ne crebbe sempre di più, e mentre essi salivano volando al principato, pareva invece che dessero solo una forma più popolare alla Repubblica. Questa fu allora e sempre la loro arte.

Quando nel 1429 Cosimo dei Medici, in età di quarant'anni, succedeva al padre, egli, che era per sè stesso uomo di grande autorità e fortuna, trovava la via già spianata dinanzi a sè. Aveva col commercio aumentato assai il ricco patrimonio avìto, e ne usava così largamente, imprestando o donando, che non v'era quasi uomo autorevole in Firenze, che, nei suoi bisogni, non ricorresse a lui e non lo trovasse pronto. Onde è che, senza mai uscire, in apparenza almeno, dalla modestia di privato cittadino, vedeva ogni giorno aumentare la sua potenza, e se ne valeva a demolire gli ultimi avanzi del potere degli Albizzi e de' loro amici. Il che li fece montare in tanto furore, che, levatisi a tumulto, lo cacciarono in esilio, non osando fare di peggio (1433). Ma Cosimo neppure allora perdette la sua calma prudente. Se ne andò a Venezia come un benefattore ripagato d'ingratitudine, e fu da per tutto accolto come un principe. L'anno seguente un tumulto popolare, favorito dal numero infinito di coloro che aveva beneficati o che speravano benefizi, cacciati gli Albizzi, lo richiamò a Firenze, dove essendo partito potente, tornò potentissimo, coll'animo irritato dal desiderio della vendetta. Abbandonò allora l'antica riserva, per mettere a profitto il momento opportuno. Senza spargere molto sangue, colle persecuzioni e gli esilî disfece addirittura il partito avverso, abbassando i potenti, tirando su uomini «bassi e di vile condizione.» Ed a chi lo accusava di trascendere, rovinando troppi cittadini, soleva rispondere: coi paternostri non si governano gli Stati, e con poche canne di panno rosato si fanno nuovi cittadini e uomini da bene.

Cosimo de' Medici era adesso di fatto il padrone della Città; ma legalmente restava sempre un privato, il cui potere, fondato tutto e solo sulla propria autorità personale, poteva da un momento all'altro svanire. Si pose quindi a consolidarlo, dando un passo nuovo e assai accorto. Fece creare una Balìa con facoltà d'eleggere per cinque anni i principali magistrati. Composta di cittadini a lui devoti, essa lo rendeva sicuro per lungo tempo; e facendola ogni quinquennio rinnovare nel medesimo modo, Cosimo potè risolvere questo singolare problema: essere, per tutto il resto della sua vita, principe e padrone assoluto in una repubblica, senza mai entrare negli ufficî, conservando anzi le apparenze di privato cittadino. Ciò per altro non gl'impedì, a suo tempo, di ricorrere anche al sangue. Quando vide sorgere ogni giorno più potente nella Città Neri di Gino Capponi, che, politico accorto e valoroso soldato, aveva anche l'aiuto di Baldaccio d'Anghiari capitano delle fanterie, non potendo assalirlo di fronte, pensò disfarlo, abbattendone gli amici. Infatti, appena che fu eletto gonfaloniere un nemico personale di Baldaccio, questi venne in un improvviso tumulto gettato dalle finestre di Palazzo Vecchio; e molti sospettarono, sebbene nessuno potesse provarlo, che Cosimo fosse stato il principale istigatore del delitto. Ma dopo uno di tali fatti, egli tornava subito a governare con quelli che chiamavano allora i modi civili, e che costituirono sempre l'arte dei Medici. Questo accorto e poco dotto mercante, che non lasciò mai il banco; questo politico senza scrupoli, si circondò di letterati ed artisti: parchissimo nello spendere per sè, profuse tesori nel proteggere le arti belle, costruire chiese, biblioteche ed altri pubblici edificii; passò le ore più felici della sua vita facendosi leggere e comentare i Dialoghi di Platone; fondò l'Accademia Platonica. Così in parte non piccola si deve a lui, se Firenze divenne allora il centro principale della cultura in Europa. Egli aveva capito che le arti, le lettere e le scienze divenivano nella nuova società una potenza, su cui ogni governo doveva fare assegnamento.

Nè fu meno accorto nella politica estera. Avendo protetto e soccorso di danari Niccolò V, quando era cardinale, lo ebbe amicissimo quando fu papa; e così gli affari della Curia vennero affidati al banco de' Medici in Roma, con loro grande guadagno. Aveva anche prima di tutti presentito il futuro destino di Francesco Sforza, e gli s'era perciò fatto amicissimo; onde questi, divenuto signore di Milano, gli fu alleato potente e fido. Cessarono allora le guerre continue fra Milano e Firenze, che si tenne debitrice a Cosimo della lunga pace. Non è quindi da maravigliare se, dopo la morte, continuando sempre a governare i Medici, lo chiamarono Padre della patria. Il Machiavelli dice, che egli fu il più riputato cittadino «d'uomo disarmato,» che avesse mai non solo Firenze, ma qualunque altra città. Secondo lui, nessuno lo raggiunse nella intelligenza delle cose politiche, perchè vedeva i mali discosto, e vi provvedeva in tempo; e solo così potè tenere lo Stato trentun anno, «in tanta varietà di fortuna, in sì varia città e volubile cittadinanza.» Nè diversa è in ciò l'opinione, del pari autorevole, del Guicciardini. Pure, con questa politica, tutte le antiche istituzioni della Città furono ridotte ad un nome vano, senza che si riuscisse a crearne delle nuove; ed una continua accortezza, una serie inesauribile di sempre nuovi ripieghi fu necessaria a reggere il timone dello Stato.

Gli ultimi anni della vita di Cosimo furono assai tristi per Firenze, perchè i partigiani dei Medici, non moderati più dalla prudenza del loro capo, divenuto per l'età impotente, si diedero a parteggiare, e così crebbero a dismisura le persecuzioni e gli esilî. Nè mutarono le cose quando, per breve tempo, gli successe il figlio Piero. Alla costui morte però (1469) compaiono sulla scena Lorenzo e Giuliano, il primo dei quali, sebbene avesse solo ventun anno, era già assai autorevole. Educato dai principali letterati del secolo, s'era dimostrato uguale a molti di essi per ingegno e dottrina; viaggiando l'Italia, per conoscere le Corti ed acquistare esperienza degli uomini, aveva dovunque lasciato grande opinione di sè. Egli afferrò subito con animo deliberato le redini del governo, ed avvistosi che la elezione della nuova Balìa non era d'esito sicuro nel Consiglio dei Cento, fece, con l'aiuto dei più fidi, e come per sorpresa, votare che i Signori in ufficio, insieme con la vecchia Balìa, eleggessero la nuova. Assicuratosi così il potere per cinque anni, si mise all'opera assai più tranquillo.

Lorenzo, simile all'avo per accortezza politica, lo superava di gran lunga per ingegno e cultura letteraria. In molte cose era però assai diverso da lui. Cosimo non lasciò mai il suo banco; Lorenzo lo trascurava, ed era così poco adatto al commercio, che dovette ritirarsi dagli affari, per non mandare a rovina il ricco patrimonio avìto. Cosimo era parco nello spendere per sè, ed imprestava largamente agli altri; Lorenzo amava il vivere splendido, e fu perciò chiamato il Magnifico; spendeva fuor di misura nel proteggere i letterati; si perdeva negli amori più che la sua debole salute non comportasse, tanto che abbreviò i suoi giorni. Questo suo vivere lo ridusse a tali strettezze, che dovette vendere alcuni de' suoi possessi, e ricorrere agli amici per danari. Nè ciò bastando, s'indusse anche a mettere la mani nel pubblico danaro, cosa che non era seguìta mai a Cosimo. Più volte, per avidità d'illeciti guadagni, fece pagare gli eserciti fiorentini dal suo proprio banco; profittò ancora delle somme raccolte nel Monte Comune o cassa del debito pubblico, e di quelle raccolte nel Monte delle Fanciulle, dove erano le doti accumulate dai privati risparmî, danari fino allora rispettati da tutti come sacri. Fu opinione assai generale de' suoi contemporanei, che egli, mosso sempre dalla stessa avidità di guadagno, entrasse l'anno 1471 a parte dei guadagni delle ricche miniere d'allume in Volterra, nel momento in cui quel Comune voleva sciogliersi da un contratto tenuto eccessivamente oneroso. Ed avrebbe allora, colla sua autorità, spinto le cose a tale, che ne seguì nel 1472 prima la guerra, e poi il sacco crudelissimo dell'infelice città, cosa affatto insolita in Toscana. Di tutto ciò fu sempre universalmente biasimato in Firenze. Ma egli era oltre misura superbo, e non si curava d'alcuno; non tollerava uguali; voleva essere il primo sempre ed in tutto, anche nei giuochi. Nell'abbattere i potenti e nel sollevare gli uomini di bassa condizione, non usava nessuno di quei riguardi, di quelle cautele tanto osservate da Cosimo.

Non è quindi da far maraviglia, se i nemici crebbero a segno tale che ne scoppiò la terribile Congiura dei Pazzi, il 26 aprile del 1478. Tramata nel Vaticano stesso, dove Sisto IV era nemico di Lorenzo, vi presero parte molti delle più potenti famiglie fiorentine. In duomo, nel momento in cui s'elevava l'ostia consacrata, si sguainarono i pugnali, e Giuliano de' Medici venne ucciso; ma Lorenzo si difese colla spada, e potè salvarsi. Fu un tumulto tale che pareva ne crollasse il tempio. La plebe si sollevò al grido di palle, palle; i nemici de' Medici furono scannati per le vie, o impiccati alle finestre di Palazzo Vecchio. Ivi si videro fra gli altri sospesi i cadaveri dell'arcivescovo Salviati e di Francesco de' Pazzi, che nella convulsione della morte, s'erano addentati fra loro, e così restarono un pezzo. Da settanta persone perirono in quel giorno, e Lorenzo, profittando del momento, spinse le cose agli estremi con le confische, gli esilî, le condanne. La sua potenza ne sarebbe stata infinitamente accresciuta, se papa Sisto IV, accecato dall'ira, non si fosse indotto a scomunicare la Città, ed a muoverle guerra insieme con Ferdinando d'Aragona. Ma Lorenzo allora, senza esitare, andò a Napoli, e fece capire al Re, come a lui convenisse molto meglio avere in Firenze il governo d'un solo, piuttosto che una repubblica, mutabile sempre, e che certo non gli sarebbe stata mai amica. Così tornò con la pace conclusa, e con un'autorità e popolarità senza limiti. Ora egli poteva dirsi davvero signore della Città, e facile doveva sembrargli distruggere affatto il governo repubblicano. Ambizioso e superbo come era, il desiderio di rendersi uguale agli altri principi e tiranni italiani fu certo in lui vivissimo, tanto più che il riuscirvi pareva allora dipendere solo da lui. Ma Lorenzo mostrò invece che la sua accortezza politica non si lasciava accecare dai prosperi successi, e conoscendo bene la sua Città, non deviò dalla politica tradizionale dei Medici: dominare la Repubblica di fatto, rispettandola in apparenza. Pensò bene a rendere saldo e duraturo il suo potere; ma per ciò fare ricorse ad una riforma accortissima, con cui, senza abbandonare la vecchia strada, ottenne mirabilmente lo scopo.

Invece della solita Balìa quinquennale, istituì nel 1480 il Consiglio dei Settanta, che si rinnovava da sè, e fu come una Balìa permanente con poteri ancora più larghi. Composto d'uomini tutti a lui devoti, gli assicurò per sempre il governo. Con esso, dicono i cronisti del tempo, la libertà fu in tutto sotterrata e perduta; ma con esso ancora gli affari più importanti dello Stato furono condotti da uomini intelligenti e colti, che ne promossero grandemente la prosperità materiale. Firenze si chiamava ancora una repubblica, i nomi delle antiche istituzioni duravano ancora; ma tutto ciò sembrava ed era solo un'ironia. Lorenzo, padrone assoluto di tutto, si poteva veramente dire un tiranno: circondato da staffieri e da cortigiani, che spesso ricompensava coll'affidar loro l'amministrazione delle opere pie; scandaloso pe' suoi amori, teneva uno spionaggio generale e continuo, ingerendosi anche negli affari privati; non permetteva i matrimonî di qualche importanza, se non gli piacevano; e gli uomini più vili, saliti ai maggiori uffici, erano, come dice il Guicciardini, divenuti i «signori del giuoco.» Pure abbagliava tutti col suo ingegno, collo splendore del suo governo; onde lo stesso scrittore osserva, che era un tiranno, ma sarebbe stato impossibile immaginare «un tiranno migliore e più piacevole.»

L'industria, il commercio, le opere pubbliche erano fiorenti. L'uguaglianza civile, propria degli Stati moderni, non aveva allora in alcuna città del mondo raggiunto il grado, a cui era pervenuta non solo in Firenze, ma nel suo contado ed in quasi tutta la Toscana. L'amministrazione, la giustizia civile procedevano nei casi ordinarî assai regolarmente; i delitti comuni scemavano. Soprattutto poi la cultura letteraria era divenuta un elemento sostanziale del nuovo Stato; gli uomini dotti entravano facilmente nei pubblici ufficî, e da Firenze irradiava una luce che illuminava il mondo. Lorenzo, che aveva un intelletto vario ed universale, con una grande penetrazione, un giusto criterio in tutte le parti dello scibile, era un Mecenate che proteggeva, ed era anche egli stesso fra i primi letterati del secolo; partecipava attivamente al lavoro che promoveva non solo per arte di governo, ma anche per un bisogno sincero e reale del proprio spirito. Tuttavia, per far servire le lettere a scopo politico, cercò co' suoi Canti carnascialeschi e colle feste d'infiacchire, corrompere il popolo, e pur troppo vi riuscì. Così senza un esercito, senza un ufficio con cui potesse legalmente comandare, era di fatto non solo il padrone di Firenze e di gran parte della Toscana, ma esercitava un predominio immenso su tutti i potentati italiani. Morto il suo nemico Sisto IV, papa Innocenzo VIII che successe, non solo gli fu amico ma s'imparentò con lui, ne nominò cardinale il figlio Giovanni ancora fanciullo, e si volgeva sempre a lui per consiglio. L'antagonismo che era nato tra Lodovico il Moro e Ferdinando d'Aragona, e minacciava di porre a soqquadro tutta Italia, fu raffrenato da Lorenzo, il quale venne perciò giustamente chiamato l'ago della bilancia d'Italia, e solo dopo la morte di lui si videro le funeste conseguenze di quell'odio. Le sue lettere politiche, che sono spesso monumenti di politica sapienza e d'eleganza, vennero dallo storico Guicciardini dichiarate fra le più eloquenti del secolo.

Ma neppure questa politica poteva riuscire a fondar nulla di stabile. Modello impareggiabile d'accortezza e prudenza, essa promosse e svolse in Firenze tutti quanti i nuovi elementi, di cui la società moderna doveva comporsi, senza riuscir mai a costituirla definitivamente, perchè era una politica di equivoco e d'inganno, diretta da un uomo di molto ingegno, che in sostanza aveva di mira il suo interesse personale e quello della propria famiglia, ai quali era sempre disposto a sacrificare i veri interessi del popolo e dello Stato.

3. - VENEZIA.

La storia di Venezia sembra essere in diretta contradizione con quella di Firenze. Questa, infatti, ci presenta una serie di rivoluzioni che, partendo da un governo aristocratico, arrivano alla più grande uguaglianza democratica, per cadere poi nel dispotismo d'un solo; Venezia, invece, procede con ordine e fermezza alla costituzione di un'aristocrazia sempre più forte. Firenze cerca invano salvare la libertà, mutando sempre più spesso i suoi magistrati; Venezia crea il Doge a vita, rende ereditario il Maggior Consiglio, consolida la repubblica, diviene potentissima e riman libera per molti secoli. Una così grande divergenza però, non solamente si spiega, ma apparisce ai nostri occhi assai minore, se esaminiamo le speciali condizioni, tra cui s'andò formando la repubblica veneta.

Fondata dai rifugiati italiani che popolarono la laguna, sulla quale non arrivarono le invasioni barbariche, non ebbe, o assai poco, il feudalismo nè le altre istituzioni e leggi germaniche, che penetrarono largamente nel resto d'Italia. Così a Venezia, fin dal principio si trovarono di fronte il popolo dato all'industria ed al commercio, e le antiche famiglie italiane, che, non avendo l'aiuto dell'Impero, nè la forza dell'ordinamento feudale, vennero facilmente domate e vinte. E si formò subito l'aristocrazia del danaro o del popolo grasso, cui fu molto facile impadronirsi del governo e tenerlo per secoli. Questo trionfo, che a Firenze fu lento, che seguì dopo molte lotte, dopo lunghe interruzioni, e condusse poi alla signoria de' Medici, fu invece a Venezia rapidissimo e permanente. Sin dal principio la prosperità della laguna venne dalle lontane imprese, dai lontani commerci, che, più o meno dappertutto in Italia, costituirono la forza del popolo grasso. A ciò si aggiungeva da un lato, che il popolo minuto era occupato molti mesi dell'anno in lunghe navigazioni, e dall'altro, che il governo delle colonie dava modo ai più ambiziosi cittadini di comandare senza mettere a repentaglio la Repubblica.

Così la costituzione veneta, cominciata con forme non molto dissimili da quelle degli altri Comuni italiani, s'andò alterando per le condizioni affatto diverse, in mezzo a cui si trovava. Sin dal principio s'ebbe il Doge a vita, perchè la città, divisa in isole che tendevano a rendersi indipendenti l'una dall'altra, sentì assai presto il bisogno d'un accentramento maggiore che altrove. Il Doge era circondato da nove cittadini, coi quali formava la Signoria, e v'erano, come negli altri Comuni, due Consigli, i Pregati o Senato, ed il Maggior Consiglio. Nei casi più solenni si faceva appello al popolo radunato in pubblica assemblea, che chiamavasi Arrengo, come a Firenze era detta Parlamento. Se le cose fossero restate in questi termini, la costituzione di Venezia, salvo il Doge a vita, non sarebbe stata gran fatto diversa da quella di Firenze. Ma la forza assai maggiore che, per le condizioni da noi accennate, prese subito l'aristocrazia del denaro, a poco a poco concentrò quasi tutti i poteri dello Stato nel Maggior Consiglio, che, abolito l'Arrengo e limitata l'autorità del Doge, fu il vero sovrano, e divenne ereditario, mercè una serie di lente riforme (1297-1319), che portarono a quella che si chiamò la Serrata del Maggior Consiglio. Il cerchio fu così chiuso, e si ebbe il governo d'una potente aristocrazia, che più tardi volle il suo Libro d'oro. Sebbene però non s'avesse a lottare contro il feudalismo, tutte queste riforme non seguirono senza forte resistenza delle antiche famiglie, che, vedendosi escluse dal governo, cercarono e trovarono seguito nel popolo minuto. La congiura di Baiamonte Tiepolo (1310) fu tale che, per alcuni giorni, mise a grave repentaglio l'esistenza stessa della Repubblica. Ma, dopo un ostinato combattimento nelle vie della città e fuori, venne anch'essa soffocata nel sangue; e fu creato il terribile Consiglio dei Dieci, tribunale, che con processi sommarî, ma sempre assai bene determinati dalle leggi, puniva di morte qualunque tentativo di rivolta. Allora finalmente non vi furono più pericoli pel governo aristocratico, che acquistò una forza ogni giorno maggiore. La fermezza delle istituzioni aiutò la prosperità del commercio, e le cresciute ricchezze dettero animo a sempre nuove imprese in Oriente, che era il campo dei guadagni e delle glorie veneziane.

Colà aveva la Repubblica incontrato due potenti rivali, Pisa e Genova; ma la potenza marittima dei Pisani venne disfatta alla Meloria (1284) dai Genovesi, che alla loro volta, dopo lunga e sanguinosa lotta, furono irreparabilmente sconfitti dai Veneziani a Chioggia (1380). E così, alla fine del secolo XIV, Venezia si trovò senza rivali, signora dei mari, sicura nell'interno, prosperissima nel commercio. Rivolse allora le sue mire anche alle conquiste di terraferma, ed entrò in un nuovo periodo della sua storia, durante il quale si trovò trascinata fra tutti gl'intrighi della politica italiana; perdette il suo primo carattere di potenza esclusivamente marittima, e cominciò a corrompersi. Di ciò le venne mossa grave accusa dai contemporanei e dai posteri; ma Venezia era spinta nella nuova via da cause irresistibili. Infatti, quando si andavano formando intorno ad essa Stati più grossi assai dei piccoli Municipî d'una volta, il dominio delle lagune non era più sicuro, e non le bastava a tutelare il proprio commercio sulla terraferma. Gli Scaligeri, i Visconti, i Carrara, gli Este odiavano la fiorente repubblica, la minacciavano e cercavano d'isolarla, nel momento appunto in cui essa aveva un bisogno sempre maggiore di trovare nuovi sbocchi alle sue progredite industrie, al suo commercio d'Oriente, che s'alimentava con quello d'Occidente. E quando i Turchi s'avanzarono e cominciarono a fermarla nelle sue conquiste orientali, a minacciare le sue colonie, quella necessità divenne per un altro verso anche più stringente. Certo Venezia, spingendosi nella terraferma, si trovò d'ambo i lati circondata da mille pericoli; ma erano inevitabili, ed essa li affrontò, combattendo per mare e per terra, con un ardimento eroico, e sulle prime con non sperata fortuna.

A promuovere questi suoi nuovi interessi non ebbe di certo molti scrupoli: costretta più volte a combattere in Italia nemici sleali, usò anch'essa la violenza e l'inganno. Pure non era mai il capriccio personale d'un solo, che sottoponeva tutto al proprio volere; ma un'aristocrazia, che aveva il sentimento della patria, e la difendeva colle armi. Primi nel secolo XV a sentire in Italia le unghie del Leone di San Marco furono i Carrara, signori di Padova, che finirono strangolati (1406). Dopo di ciò fu mandato a Padova un rettore pel civile, un capitano pel militare, lasciando intatte le antiche leggi ed istituzioni locali. Lo stesso seguì o era già seguìto altrove, nel Friuli, nell'Istria, a Vicenza, Verona, Treviso. Questa era una politica assai intelligente e liberale per quel tempo; ma i nuovi sudditi perdevano pur sempre, colla indipendenza, ogni speranza di libertà. I paesi conquistati traevano certo grande vantaggio dall'essere sotto un governo forte e giusto, e dal partecipare all'immenso commercio di Venezia; ma se il benessere materiale faceva nelle moltitudini dimenticare l'amore della libertà e della indipendenza, nelle famiglie potenti che avevano governato o sperato di poter governare, restava invece un odio inestinguibile contro la nuova dominatrice, che, invidiata per l'ordine e la forza del suo governo, era giudicata il nemico più temibile di tutti gli altri Stati italiani.

Essa procedeva tuttavia sicura nelle sue conquiste, ed il secolo XV, in cui l'Italia cominciava rapidamente a decadere, sembrava invece aprire a Venezia un'êra di crescente prosperità. La sua aristocrazia, coi grandi sacrifizî fatti per la patria, col coraggio dimostrato nelle battaglie navali che essa comandava, aveva fatto dimenticare la violenza della propria origine. Occupata nella politica, lasciava liberamente partecipare il popolo al commercio ed all'industria, che, tutelati dalla fermezza delle istituzioni e dalle armi, prosperavano maravigliosamente. Lo stesso avanzarsi dei Turchi, che pur doveva recare tanti danni alla Repubblica, sembrava tornarle ora quasi di vantaggio. Infatti molte isole dell'Arcipelago, molte terre, trovandosi in gran pericolo per l'impotenza dell'Impero greco a difenderle dal terribile uragano che s'avanzava, invocarono la protezione di Venezia, e si abbandonarono ad essa, che così cresceva il proprio dominio, ed acquistava nuovi sudditi, pronti a versare il sangue combattendo il comune nemico, che nei primi scontri subì gravissime perdite. Tutto ciò rialzava moltissimo l'animo della Repubblica, che in quel momento si sentiva come destinata ad essere la difesa dei Cristiani e la dominatrice d'Italia. Nella sua condotta politica, nelle relazioni de' suoi ambasciatori, nelle guerre continue per terra e per mare, il sentimento della patria dominava su tutto, ed ispirava una balda fierezza al linguaggio di quei cittadini, che erano sempre pronti a sacrificarsi per essa. L'onore, la gloria di Venezia erano in cima dei loro pensieri, e nella lotta col Turco che s'avanzava, dettero prove di vero eroismo. Quando nel maggio 1416 l'armata veneta s'affrontò col formidabile nemico presso Gallipoli, Pietro Loredano, che l'aveva comandata, scriveva al suo governo: «Virilmente io capitano investii nella prima galera nemica, piena di Turchi che combattevano come draghi. Circondato da ogni lato, ferito da una freccia che mi passò la mascella sotto l'occhio, da una che mi passò la mano, e da altre molte, non mi restai punto, nè mi sarei restato fino alla morte: presi la prima galera e misi la mia bandiera su quella. I Turchi che vi erano sopra furono tagliati a pezzi, il resto della flotta sconfitto.» Di queste ardite imprese, di questo franco linguaggio, solo Venezia era capace in Italia nel secolo XV. La piccola repubblica delle lagune era divenuta uno dei grandi potentati d'Europa, e pareva sorgere a nuova altezza, quando tutti gli altri Comuni decadevano. Ma i pericoli che s'accumulavano intorno ad essa erano immensi e crescevano da ogni lato.

Il doge Tommaso Mocenigo li prevedeva, e dal suo letto di morte, nell'aprile del 1423, pregava, scongiurava i suoi amici, perchè non si lasciassero spingere più oltre alle guerre ed alle conquiste; sopra tutto non eleggessero a suo successore Francesco Foscari, la cui smodata ambizione li avrebbe trascinati in mezzo alle più audaci e pericolose imprese. Ma questi consigli di prudenza erano vani adesso. Filippo Maria Visconti minacciava tutta l'Italia superiore e la centrale; il Turco s'avanzava; Francesco Foscari venne eletto, ed egli non era certamente uomo da voler ricondurre in porto la nave già lanciata in alto mare. E quando i Fiorentini chiesero a Venezia aiuto contro il Visconti, egli esclamò in Senato: Se mi trovassi in capo al mondo, e vedessi un popolo in pericolo di perdere la sua libertà, io lo aiuterei. «Nu patiremo che Filippo tuoga la libertà ai Fiorentini? Sto furibondo tiran scorrerà per tutta Italia, la struggerà e conquasserà senza gastigo?» Così nel 1426 incominciò quella formidabile lotta che, interrotta e ripresa più volte, finì solo colla morte del Visconti l'anno 1447. In questi ventun anno il Foscari dimostrò un patriottismo ed un'energia veramente romani, combattendo contro pericoli esterni ed interni d'ogni sorta. Coi suoi tesori il Visconti metteva ogni anno in campo nuovi eserciti, e la Repubblica era sempre pronta ad affrontarli. Il Carmagnola, che lo aveva disertato per servire Venezia, parve, subito dopo le prime vittorie, divenire a questa infido, e fu perciò, senza esitazione, con regolare processo condannato a morte. Il 5 maggio 1432, cum una sprangha in bucha, et cum manibus ligatis de retro, iuxta solitum, venne condotto fra le colonne della Piazzetta, e decapitato. Nel 1430 vi fu un attentato contro la vita stessa del Doge, e nel 1433 una congiura contro il suo governo; ma i Dieci fecero di tutto pronta ed esemplare giustizia. Più tardi, istigato dal Visconti, l'ultimo dei Carrara tentò di ripigliare i suoi dominî, e fece anche ribellare Ostasio da Polenta, signore di Ravenna, che era sotto la protezione di Venezia. E allora al Carrara fu tagliata la testa fra le colonne della Piazzetta (1435); il Polentano finì esule in Creta, e Ravenna fece parte del dominio veneto. Morto il Visconti, e posata da poco la guerra di Venezia con Milano, seguì la caduta di Costantinopoli (1453), nella quale tanti Italiani, massime Veneti, perderono la vita. Questo fatto, che incominciò un'epoca nuova nella storia dell'Europa, fu un colpo mortale a Venezia. Pure essa riuscì nel 1454 a fare un trattato, che assicurò libero commercio ai proprî sudditi, e le dètte il tempo d'apparecchiarsi a nuove battaglie.

Ma il pericolo maggiore alla Repubblica venne dai nuovi germi di corruzione interna, che cominciarono a minacciare di dividerla. I nemici del Foscari, dopo avere invano cospirato contro la sua vita ed il suo governo, si volsero ora a tormentarlo col perseguitare il figlio Iacopo, unico superstite dei maschi, di carattere leggerissimo, ma pur ciecamente amato dal padre. Esiliato nel 1445, per avere accettato donativi, il che le leggi vietavano severamente al figlio del Doge, fu, dopo ottenuta la grazia, esiliato di nuovo nel 1451 alla Canea, perchè accusato di connivenza nell'uccisione d'uno di coloro che erano stati suoi giudici. Richiamato di là nel 1456, venne sottoposto a nuovo processo, per aver tenuto segreta corrispondenza col duca di Milano, e fu condannato a più lungo esilio. Entrato nella prigione, il vecchio Doge disse, impassibile, al figlio che cercava grazia ai suoi piedi: «Va, obbedisci a quel che vuol la terra, e non cercar più altro.» Ma uscito dal carcere, appoggiato al suo bastone, Francesco Foscari tramortì. Poco dopo Iacopo morì nell'esilio (12 gennaio 1457), ed il cuore paterno di colui che aveva sostenuto con una volontà di ferro una lotta titanica in difesa della repubblica, si spezzò per le persecuzioni patite dal figlio. Invecchiato, abbattuto, prostrato, non aveva più la forza necessaria a condurre gli affari e a difendersi dai nemici. Allora, invitato a dimettersi e non volendo, fu deposto. Spezzatogli l'anello e toltogli il berretto ducale, egli discese, franco e sereno, per la scala medesima per cui era salito all'alto ufficio, discorrendo tranquillo con chi gli era accanto, senza volersi appoggiare ad alcuno. Il suo successore fu eletto il 30 ottobre, ed egli morì di crepacuore il dì 1° novembre, dopo trentaquattro anni di dogato. Francesco Foscari è certo uno dei più grandi caratteri politici del suo tempo. Con lui Venezia giunse al colmo della sua potenza; dopo di lui cominciò subito a decadere, ma fu una decadenza eroica.

Abbandonata da tutti gl'Italiani, si trovò sola di fronte al Turco, che s'avanzava con forze formidabili. Il sopracomito Girolamo Longo scriveva nel 1468, che la flotta turca con cui doveva affrontarsi, era di 400 vele, le quali occupavano sei miglia di lunghezza. «Il mare pareva un bosco: questa a sentirla dire pare cosa incredibile, ma a vederla è cosa stupenda...; or vedete se sia possibile con astuzia aver vantaggio. Ci vogliono forze e non parole.» Sembrano quasi un linguaggio di paura accanto a quello da noi riportato più sopra del Loredano. Infatti i tempi erano mutati: la Repubblica armava sempre altre navi, che combattevano con eroismo; organizzava la resistenza di tutte le popolazioni cristiane, che versavano generosamente il proprio sangue; mandava armi e danari ai Persiani, perchè anch'essi attaccassero Maometto II, che s'avanzava minaccioso; ma tutto ciò era inutile. Negroponte, Caffa, Scutari, altre città e terre cadevano l'una dopo l'altra, sebbene si difendessero con gran valore. E finalmente Venezia, stanca di trovarsi sempre sola a combattere il nemico della Cristianità, venne nel gennaio 1479 ad una pace che le assicurava il proprio commercio, e che nelle tristi condizioni a cui era ridotta, poteva dirsi onorevole. Allora tutti gl'Italiani, che nulla avevano fatto per aiutarla, furono pronti a gridare unanimi contro di essa, specialmente nel 1480, quando il loro spavento giunse al colmo, per avere i Turchi preso la città di Otranto. Ma questi poco dopo si ritirarono per la morte di Maometto II, e per le discordie seguite nel suo impero: allora gl'Italiani non pensaroro più ad altro.

Da questo momento l'orizzonte della Repubblica si va restringendo sempre di più. Occupata solo de' suoi interessi materiali, avviluppata negl'intrighi della politica italiana, essa non pretese più d'essere la guardiana della Penisola e della Cristianità contro gl'infedeli. Tutto allora sembrava seguire a suo danno nella storia del mondo. La scoperta d'America e quella del Capo di Buona Speranza la posero fuori delle principali vie del commercio. Ristretta da ogni lato, perdette a poco a poco con i grandi guadagni la sua storica importanza, che le veniva dall'essere stata l'anello di congiunzione fra l'Oriente e l'Occidente. Ora tutto si ridusse a strappar qualche terra ai vicini; imporre ad essi il proprio commercio, sempre grande e potente. Avanzatasi fino all'Adda da un lato, occupava dall'altro Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza, Cesena ed Imola nelle Romagne; nel Trentino teneva Roveredo e le sue dipendenze; aveva anche portate le sue armi sulla costa adriatica del Napoletano, dove si era impadronita di alcune terre. Ma l'aver tolto a tutti qualche cosa, faceva sì che tutti la temessero e l'odiassero.

Da un altro lato questo Stato così vasto era dominato tutto da una sola città, nella quale comandava per diritto ereditario una piccola parte dei cittadini. Neppure in Venezia era quindi possibile aspettarsi il grande ed organico svolgimento dello Stato moderno; essa anzi rimase esempio vivente dell'antica forma repubblicana, sopravvissuta quasi a sè stessa, destinata ad esaurirsi come per mancanza d'alimento. Ma intanto essa era sempre il governo più forte, più morale che vi fosse in Italia. A misura però che si restringeva la cerchia della sua attività, cessavano le magnanime virtù e gli eroici caratteri, sorti fra i grandi pericoli, contro cui avevano dovuto combattere, e i continui sacrifizî che erano stati chiamati a fare. Crebbero invece l'egoismo, l'amore del lusso e del danaro negli ordini dominanti dei cittadini. Le mogli dei patrizî veneti, coperte di gioie, vestite di stoffe preziose, abitavano nel secolo XV quartieri di tanta ricchezza, che non si trovavano neppure nei palazzi dei principi italiani. Gli uomini però, dice il milanese Pietro da Casola, erano sempre assai più modesti e severi che altrove; «parevano a vederli tanti dottori di legge, e chi trattava con essi doveva tener bene aperti gli occhi e le orecchie.» Tuttavia la loro politica, se non era quella dell'egoismo personale, che dominava nel resto d'Italia; se ebbe ancora giorni di grandi sacrifizî e d'eroismo, era anch'essa guidata da un ristretto patriottismo locale e quasi di casta. Guardavano con piacere alla rovina d'Italia, perchè speravano così di riuscire più facilmente a dominarla. E quando gli stranieri s'avvicinarono alle Alpi, li lasciarono passare, credendo di poterli poi cacciare per succedere ad essi. Invece, questo egoismo che non giovava a nessuno e minacciava tutti, portò alla Lega di Cambray, in cui l'Europa s'alleò ai danni della piccola Repubblica, la quale potè qualche tempo ancora resistere con valore, ma non già salvarsi, come aveva presunto, in mezzo alla rovina generale della patria comune.

4. - ROMA.

Fra l'infinita varietà di caratteri e d'istituzioni che ci presenta l'Italia nel secolo XV, la storia di Roma forma quasi un mondo a parte. Centro principale degli interessi di tutti i paesi cristiani, la Città Eterna risentiva, più d'ogni altra, le grandi trasformazioni che seguivano in Europa. La costituzione di Stati grandi e indipendenti aveva spezzata e resa impossibile per sempre quella universale unità, che il Medio Evo in parte aveva conseguita, in parte sognata. L'Impero s'andava sempre più restringendo nei confini della Germania, e l'Imperatore cercava rendersi forte con un dominio più sicuro e diretto ne' suoi Stati proprî e personali. Così i Papi, dovendo omai rinunziare ad ogni pretensione di universale dominio civile nel mondo, sentivano più urgente la necessità di costituire davvero un loro regno temporale. Se non che il trasferimento della sede in Avignone, ed il lungo scisma avevano gettato nel disordine e fatto cadere nell'anarchia lo Stato della Chiesa. Roma era dicerto un Comune libero, con una costituzione simile a quella delle altre città italiane; ma, trovandosi in mezzo ad una campagna deserta, il commercio e l'industria non vi erano mai progrediti, ed il suo organismo politico non s'era mai potuto svolgere con vigore, a cagione anche della eccezionale supremazia esercitata dal Papa, dall'Imperatore, e dalla strapotenza dei nobili, che, favoriti dai Papi, mettevano tutto a soqquadro. Gli Orsini, i Colonna, i Prefetti di Vico erano veri e propri principi nei loro immensi dominî, nei quali tenevano armi ed armati, nominavano giudici e notai, qualche volta coniavano anche moneta. Il territorio di Roma era abbastanza vasto, perchè andava dal Garigliano ai confini della Toscana; ma molte delle città che ne facevano parte erano o cercavano continuamente di rendersi indipendenti.

A che cosa fosse poi ridotto allora il dominio dei Papi in città come Bologna, Urbino, Faenza, Ancona, le quali facevano parte dello Stato della Chiesa, ma erano costituite in repubbliche o signorie affatto indipendenti, può immaginarselo ognuno. Per fondare il dominio temporale, bisognava quindi fare una vera e propria conquista. Innocenzo VI (1352-62) aveva iniziato l'opera, mandando in Italia il cardinale d'Albornoz, che col ferro e col fuoco sottomise una gran parte dello Stato della Chiesa. Ma questa vantata sottomissione si ridusse, in fondo, a costruire nelle principali città, fortezze tenute in nome del Papa; a trasformare i tiranni in vicarî del Papa, e far prestare dalle repubbliche atto d'obbedienza, riconoscendo però i loro Statuti. Così gli Este, i Montefeltro, i Malatesta, gli Alidosi, i Manfredi, gli Ordelaffi furono legittimi signori di Ferrara, Urbino, Imola, Rimini, Faenza, Forlì. Invece Bologna, Fermo, Ascoli ed altre città restarono repubbliche, sebbene riconoscessero anch'esse la supremazia del Papa. La costituzione politica del Comune di Roma cominciò allora ad essere trasformata. I Papi da lungo tempo cercavano mutare in amministrative le sue magistrature politiche, e per questa medesima via continuarono sempre fino a che non riuscirono a distruggere del tutto le libertà comunali della Città Eterna. Un tale lavoro, già molto avanzato, fu alla fine del secolo XIV interrotto dallo scisma che lacerò lungamente la Chiesa, gettò di nuovo ogni cosa nell'anarchia, e impedì la formazione d'ogni forte governo, d'ogni ferma autorità.

L'anno 1417 finalmente il Concilio di Costanza fece cessare lo scisma, deponendo tre Papi, ed eleggendo Ottone Colonna, che prese il nome di Martino V. Così incominciò nella storia del Papato un nuovo periodo, che durò sino al principio del secolo seguente, ed in esso i successori di San Pietro sembrarono deporre ogni pensiero della religione, per occuparsi solo di costituire il loro regno temporale. Divenuti simili affatto agli altri tiranni italiani, adoperarono le stesse arti di governo. Se non che la grande diversità della loro condizione nel mondo, e l'indole propria dello Stato che dovevano governare, dava alle loro azioni un carattere affatto speciale. Eletti generalmente in età avanzata, i Papi si trovavano ad un tratto, in mezzo ad una nobiltà riottosa e potente, alla testa d'uno Stato disordinato, scomposto, in una città tumultuosa, nella quale erano spesso senza parenti o amici, qualche volta stranieri affatto. Quindi, per cercar forza, chiamavano e si davano a proteggere i fratelli, i nipoti che spesso invece erano figli; e così ebbe origine quello scandalo nella Chiesa, che fu noto col nome di nepotismo, e che è proprio più specialmente di questo secolo. Entrati una volta nel turbinoso vortice della politica italiana, i Papi si trovarono costretti a promuovere nel medesimo tempo due interessi, che non di rado erano in collisione fra loro, il politico cioè ed il religioso. Assai spesso la religione divenne il mezzo di cui si valsero per conseguire i loro fini politici, e quindi, sebbene sovrani di uno Stato piccolo e disordinato, poterono, con l'autorità della Chiesa, mettere l'intera Italia a soqquadro; e quantunque non riuscissero mai a dominarla tutta, la tennero divisa, debole e sempre più facile preda degli stranieri, che essi continuamente chiamarono. Da un altro lato cercavano valersi della loro autorità politica, per tener viva quella forza religiosa che s'andava spegnendo negli animi. Uno stato di cose tanto anormale sembrò turbare stranamente la coscienza stessa di coloro che avrebbero dovuti essere i rappresentanti di Dio sulla terra, e che, a poco a poco, perduto ogni pudore, caddero in tali oscenità e delitti, che il Vaticano parve qualche volta essere divenuto un'orgia di avvelenamenti, di congiure e di stupri. Si correva così il rischio di estirpare ogni sentimento religioso dal cuore dell'uomo, di scalzare per sempre le basi stesse della morale.

I primi germi di questa funesta corruzione pur troppo nascevano fatalmente dalle condizioni in cui si trovava allora il Papato, e quindi cominciarono a portare i loro frutti anche sotto Martino V, che fu forse il migliore dei Papi in quel secolo. Egli s'avanzò da Costanza, secondo l'espressione d'un moderno, come un signore senza terra, sì che a Firenze i fanciulli gli cantavano dietro canzoni di scherno. Quando entrò in Roma il 28 settembre 1420, cogli aiuti della regina Giovanna di Napoli, il popolo romano, perdute ormai le libere istituzioni, si presentava a lui come una folla di poveri. La peste, la fame, la guerra avevano per molti anni desolata la Città Eterna; i monumenti, le chiese e le case erano in rovina; le strade piene di macerie e di pantani; i ladri assalivano di giorno e di notte. Nella Campagna era scomparsa l'agricoltura, e immense estensioni di terre erano divenute deserti; le città del territorio combattevano fra loro, e i nobili, chiusi nei loro castelli, che parevano nidi di ladri, sprezzanti d'ogni autorità, intolleranti d'ogni freno e d'ogni legge, facevano una vita da briganti. Martino V si pose all'opera con fermezza, e prima di tutto compiè la distruzione del libero reggimento di Roma, mutandolo addirittura in un municipio amministrativo. Molte terre ribelli furono poi sottomesse, molti capi di bande armate furono presi ed impiccati: cominciò così a ristabilirsi l'ordine, e ad aversi finalmente una forma di regolare governo. Questo fu però ottenuto coi mezzi che abbiamo qui sopra accennati. Il Papa, per trovare fautori ed amici, si gettò addirittura in braccio ai Colonna, suoi parenti, e fece loro concludere ricchi matrimonî, concesse loro nello Stato della Chiesa o fece concedere nel regno di Napoli vasti feudi. Così di potenti li rese strapotenti, ed iniziò il nepotismo. Per mantenere la supremazia pretesa sempre dai Papi nel reame, e per cavarne in ogni modo vantaggio ai suoi, sostenne prima Giovanna II, che lo aveva aiutato ad entrare in Roma; poi Luigi d'Angiò, che la combatteva; poi Alfonso d'Aragona, che trionfò di tutti. E questa funesta politica, continuata anche da' suoi successori, fu precipua cagione della totale rovina del Napoletano, ed in parte anche della rimanente Italia. Pure in Roma si vedeva finalmente un'apparenza almeno di ordine e di regolare governo. Le vie, le case, i monumenti si cominciavano a restaurare; per la città e per molte miglia nella campagna si poteva, dopo tanti anni, camminare senza tema d'esser rubati o assassinati. E però, dopo la morte di Martino V (20 febbraio 1431), fu scritto sulla sua tomba: Temporum suorum felicitas. Nè la iscrizione può dirsi del tutto immeritata, tanto più che le sue colpe vennero ben presto fatte dimenticare da quelle assai maggiori de' successori, ai quali mancarono le sue virtù.

Eugenio IV che s'appoggiò agli Orsini, ed ebbe quindi fieramente avversi i Colonna, venne subito cacciato da una rivoluzione, ed inseguíto a colpi di pietre, quando se ne fuggiva pel Tevere, a mala pena riuscendo a ripararsi in una barca (giugno 1434). Giunto a Firenze, egli dovette rifarsi da capo, e mandò a Roma il patriarca Vitelleschi, più tardi cardinale, che alla testa di bande armate, cominciò col ferro e col fuoco un vero sterminio. La famiglia dei Prefetti di Vico s'estinse in Giovanni, cui fu mozzato il capo; quella dei Colonna fu in parte distrutta dal fiero prelato; la medesima sorte subirono i Savelli. Molti castelli vennero spianati, molte città distrutte, e gli abitanti correvano la Campagna affamati, cercando qualche volta di vendersi come schiavi. Quando finalmente il Vitelleschi, alla testa d'un piccolo esercito, entrava come un trionfatore nella Città Eterna, che tremava ai suoi piedi, il Papa insospettito gli mandò per successore lo Scarampo, altro prelato della stessa tempra; ed il Vitelleschi, che voleva allora resistere, fu subito circondato, ferito, preso e messo in Castel Sant'Angelo, dove morì. Eugenio IV potè finalmente tornare tranquillo e sicuro in Roma; e dopo tre anni anch'egli morì (1447).

Il destino di questo Papa, che sottomise definitivamente la Città Eterna, fu singolare. Quando il Vitelleschi e lo Scarampo facevano correre il sangue a fiumi, egli se ne stava a Firenze tra le feste e gli eruditi. Senza aver grande cultura, nè sentir molto amore per le lettere, trovandosi al Concilio fiorentino, ed avendo bisogno d'interpetri per discutere e trattare coi rappresentanti della Chiesa greca, si vide costretto ad ammettere gli eruditi nella Curia, la quale ben presto ne fu inondata, il che portò poi un notevole mutamento nella storia del Papato. Accanto al suo feretro venne recitato un solenne elogio funebre, in latino classico, dal celebre umanista Tommaso Parentucelli, il quale fu eletto a succedergli unicamente per la gran fama della sua erudizione. Prese il nome di Niccolò V, e si disse allora da tutti, che con lui era salita sulla cattedra di San Pietro l'erudizione stessa. Trovando lo Stato abbastanza sicuro e tranquillo, egli che non aveva un ingegno originale, nè conosceva il greco (gravissima mancanza per un dotto del secolo XV), ma che era il più grande raccoglitore ed ordinatore di antichi codici, portò questa passione sulla sedia apostolica, facendone quasi unico scopo del suo Papato. Il sogno principale della sua vita fu di trasformare Roma in un gran centro di letterati, in una grande città monumentale, con la prima biblioteca del mondo. Potendo, egli avrebbe trasportato tutta Firenze sulle rive del Tevere. Mandò suoi messi in giro per l'Europa, a raccogliere o copiare codici antichi; eccitò molti eruditi a tradurre, con lauti stipendî, classici greci, senza occuparsi delle loro opinioni religiose o politiche. Il Valla, che aveva con gran clamore scritto contro la donazione di Costantino ed il potere temporale dei Papi, fu dei primi ad essere chiamato da lui. Stefano Porcari, che con la lettura dei classici s'era, come Cola di Rienzo, infatuato della repubblica, fu pure colmato di onori. Costui però, avendo addirittura cospirato per sovvertire il Governo e restaurare gli ordini repubblicani, fece finalmente perdere la pazienza al Papa, e venne condannato a morte. Ma nulla poteva intiepidire la passione erudita di Niccolò V: a tutto egli rimediava con qualche discorso latino, come fece per la caduta di Costantinopoli; e continuava sempre a comprare codici, a chiamare eruditi. La Curia divenne un'officina di truduttori e di copiatori; la biblioteca Vaticana s'andò accrescendo con rapidità, e fu arricchita di molti volumi splendidamente legati. Nello stesso tempo s'aprivano strade, si costruivano fortezze, sorgevano chiese e monumenti d'ogni sorta. Era una febbrile attività, perchè il Papa, coll'aiuto dei primi architetti del mondo, fra cui Leon Battista Alberti, ideava un disegno, secondo cui Roma avrebbe vinto lo splendore di Firenze. La città leonina doveva essere trasformata in una grande fortezza papale, in cui San Pietro e il Vaticano dovevano essere ricostruiti dalle fondamenta. Sebbene Niccolò V non riuscisse a compiere questa impresa veramente grandiosa, alla quale sarebbero bastate appena molte generazioni; pure la iniziò con tanto ardore, che sotto di lui Roma mutò totalmente aspetto, ed i lavori immortali, eseguiti al tempo di Giulio II e di Leone X, continuarono l'attuazione del suo medesimo disegno.

Il 24 marzo 1455 Niccolò V moriva da vero erudito, dopo aver fatto cioè un discorso latino ai cardinali ed agli amici. Successe a lui, col nome di Calisto III, uno Spagnuolo, abile giurista, venuto in Italia come avventuriero politico, accompagnando Alfonso d'Aragona. Costui aveva settantasette anni; apparteneva al clero allora corrottissimo della Spagna, non ancora disciplinato e domato dalla politica di Ferdinando e d'Isabella; portava il nome, divenuto poi assai infausto, dei Borgia: il suo breve papato fu come una meteora annunziatrice di futuri guai. Di codici e di eruditi non s'occupò punto nè poco. Con una cieca avidità, senza riguardi e senza pudore, colmò di onori, di possessi e di danari i suoi nipoti, uno dei quali doveva poi prender la tiara col nome ben noto d'Alessandro VI. Riempì la città d'avventurieri spagnuoli, affidando loro l'amministrazione e la polizia, il che fece crescere a dismisura i delitti. Il sangue scorreva, l'anarchia minacciava di tornare in Roma, quando il vecchio Calisto morì (6 agosto 1458), ed allora uno scoppio improvviso di furor popolare mise in fuga gli Spagnuoli, e gli stessi nipoti del Papa a fatica scamparono la vita.

Successe un altro Papa erudito, Enea Silvio Piccolomini senese, uomo vario, versatile d'ingegno e di carattere. Dopo una vita passata prima nei piaceri, poi nelle discussioni di Basilea, dove sostenne l'autorità di quel Concilio contro il Papa; più tardi tra gli affari della cancelleria imperiale in Germania, dove fu primo a propagare la erudizione italiana, egli rinnegò finalmente le sue ardite dottrine, condannò i trascorsi giovanili, e così potè salire di grado in grado negli ordini ecclesiastici fino al Papato (19 agosto 1458), pigliando il nome di Pio II. Continuò sempre a studiare ed a scrivere pregevoli opere; ma non protesse i dotti, come tutti avevano sperato, occupandosi invece di dare ufficî e protezione a' suoi parenti ed a' suoi Senesi. Roma era caduta nuovamente in preda all'anarchia, in conseguenza della pazza politica di Calisto III, il quale, sebbene creatura degli Aragonesi, aveva favorito gli Angioini; ma Pio II, più accorto, favorì gli Aragonesi, e potè col loro aiuto sottomettere i ribelli. Il pensiero dominante di questo Papa, fu la Crociata contro il Turco; ma, uomo del suo secolo, ed umanista, egli era mosso più da entusiasmo retorico che da zelo religioso. In Mantova, dove invitò a solenne congresso i principi cristiani (1459), s'udirono molti discorsi latini; ma fu più che altro un'accademia letteraria, con grandi promesse, che restarono senza effetto. Perseverando nella stessa idea, il Papa erudito scrisse una lettera latina al sultano Maometto II, con la strana pretensione di convertirlo. Invece arrivavano sempre nuovi esuli greci, fuggendo dinanzi ai Turchi, che avevano invaso la Morea; e Tommaso Paleologo, che ne era stato il despota, portava ora in Roma la testa dell'apostolo Andrea. Tutta la città parve allora trasformata in una chiesa in festa, per ricevere la sacra reliquia, che venne accompagnata da 30,000 fiaccole; e Pio II ne pigliò occasione a fare un altro solenne discorso latino in favore della Crociata, ad un popolo scettico, nel quale molti ammiravano la nuova reliquia cristiana solo perchè era portata da gente che parlava la lingua d'Omero.

Nel 1462 il Papa aveva raccolto buona somma di danaro, per l'improvvisa scoperta di ricche miniere d'allume a Tolfa, e tornò da capo all'idea della Crociata, invitando i principi a partire subito per l'Oriente. Vecchio e malato com'era, si fece portare in lettiga ad Ancona, dove s'aspettava di trovar navi ed eserciti, che voleva accompagnare per benedire egli stesso la battaglia, come fece Mosè quando Israele combatteva contro Amalech. Invece il porto era vuoto, e quando arrivarono finalmente poche galee veneziane, Pio II spirò guardando l'Oriente, e raccomandando la Crociata (15 agosto 1464). Questa vita, che a primo aspetto può sembrare soggetto degno di romanzo o anche d'epico racconto, fu in sostanza priva d'ogni vera gloria o santità religiosa. Pio II fu un erudito di molto ingegno, che voleva compiere qualche cosa d'eroico, senza avere in sè stesso nessuna eccezionale grandezza morale. Sebbene fosse, tra i Papi di quel secolo, il più notevole certo per ingegno, non ebbe profonde convinzioni; rifletteva le opinioni e le velleità degli uomini fra cui viveva, mutando sempre, secondo i tempi e secondo le condizioni, in cui si trovava. Il suo regno sembrò avere un certo splendore, e dar molte speranze; ma in fatto poi non lasciò nulla di durabile dietro di sè. Dopo che v'erano stati Papi che avevano colla forza fondato il temporale dominio, e Papi che avevano fatto fiorire a Roma le lettere e le arti; dopo che egli, mantenendo l'ordine, aveva col predicare la Crociata, dato anche l'apparenza d'un risveglio religioso in Italia, poteva aspettarsi un'èra migliore di pace sicura. Invece ora appunto si scatenano le passioni, e sono vicine le più grandi oscenità, i più terribili delitti nella Corte di Roma.

Paolo II, consacrato il 16 settembre 1464, s'avvicinò a questo nuovo e più funesto periodo, senza averlo però ancora cominciato davvero; può anzi dirsi migliore della sua fama. Tuttavia, non curante delle lettere, egli era invece dato ai piaceri della vita, e sebbene non privo di qualità politiche, reputò arte di governo corrompere il popolo colle feste, che promosse profondendo tesori. Il suo nome passò odiato appresso i posteri, perchè, senza riguardi, cacciò gli eruditi dalla segreteria apostolica, per mettervi invece i suoi fidi. E quando gli scacciati levarono i più alti clamori, e nell'Accademia Romana di Pomponio Leto cominciarono a tenere discorsi che ricordavano Cola di Rienzo e Stefano Porcari, sciolse l'Accademia e ne imprigionò i membri. Il Platina allora, chiuso e torturato in Castel Sant'Angelo, giurò vendetta, e la fece nelle sue ben note Vite dei Papi, le quali ebbero una grande diffusione. In esse egli descrisse il suo persecutore come un mostro di crudeltà. Il vero è però che Paolo II, senza punto essere un buon Papa, non fu privo di meriti. Riordinò la giustizia, punendo severamente molti di quei manigoldi, che, a servizio dei magnati, empivano Roma di delitti; fece fare una nuova compilazione degli Statuti romani; combattè con energia i Malatesta di Rimini, e distrusse l'oltracotanza degli Anguillara, che possedevano gran parte della Campagna e del territorio di San Pietro. Nè si può troppo fermarsi a biasimare le sue colpe, quando si pensa ai tempi ed a coloro che gli successero.

I tre Papi che seguono adesso, Sisto IV, Innocenzo VIII ed Alessandro VI, sono quelli che riempiono il più triste periodo nella storia del Papato, e ci mostrano davvero a quali condizioni fosse ridotta allora l'Italia. Il primo di essi era un frate genovese, che, appena eletto (9 agosto 1471), si mostrò subito un tiranno violento, senza scrupoli di sorta. Aveva bisogno di danari, e mise in vendita ufficî, benefizî, indulgenze. Proteggeva con indomabile ardore i nipoti, alcuni dei quali si credeva, invece, che fossero suoi figli. Uno di essi, Pietro Riario, fatto cardinale, ebbe 60,000 scudi di rendita, e s'abbandonò al lusso, alle feste, alle dissolutezze, così perdutamente che ne morì subito, esausto di forze e carico di debiti. Il fratello Girolamo, ugualmente favorito, faceva la medesima vita. Tutta la politica del Papa era diretta dall'avidità d'acquistare o conquistare pei nipoti e pei figli. L'avere Lorenzo dei Medici attraversato questi disegni, fu cagione che la congiura dei Pazzi venisse tramata nel Vaticano stesso; e non essendo riuscita, il Papa mosse guerra a Firenze, e la scomunicò. Più tardi s'unì coi Veneti contro Ferrara, sempre col medesimo intento di strappare qualche provincia pe' suoi, e ne seguì una guerra generale, pigliandovi parte ancora i Napoletani, che assalirono Roma, dove subito si scatenarono le fazioni dei nobili. Roberto Malatesta da Rimini fu chiamato a difendere la Città Eterna, ed essendo morto di febbre malarica, presa nella guerra, il Papa voleva profittarne, spogliando dello Stato l'erede di lui, disegno però che i Fiorentini mandarono a vuoto.

Vedendosi in pericolo, mutò bandiera, e s'unì coi Napoletani contro Ferrara e contro i Veneti, i quali ultimi sembrava a lui che volessero condurre la guerra solo a proprio vantaggio. Si volse inoltre a far vendette contro i nobili, a lui avversi, specialmente i Colonna. Girolamo Riario, avido di sangue, comandava le artiglierie che furono benedette dal Papa stesso, e prese a tradimento il castello di Marino, con la promessa di salvare la vita al protonotario Lorenzo Colonna, che fu invece decapitato. Al funerale in SS. Apostoli, la madre, accecata dal dolore, prese pei capelli la testa del figlio, e mostrandola al popolo esclamò: Ecco la fede del Papa! Tutte queste scene di sangue non turbarono punto nè poco l'animo di Sisto IV. Quando però gli giunse improvvisa la notizia che i Veneti, da lui abbandonati, avevano, senza consultarlo e senza tener conto di lui nè de' suoi, fatto la pace di Bagnolo (7 agosto 1484); allora, assalito da febbre violenta, morì (12 agosto), come si disse da tutti, pel dolore della pace.

Nulla vis saevum potuit extinguere Sixtum;

Audito tantum nomine pacis, obit.

Le case del Riario andavano a sacco, gli Orsini e i Colonna erano in armi, quando i cardinali, accorsi in fretta al Conclave, riuscirono a stabilire una tregua. Ed allora cominciò il più scandaloso mercato di voti per la elezione alla sede apostolica, che si vendeva al maggiore offerente. Il fortunato compratore fu allora il cardinale Cibo, che venne proclamato il 29 agosto 1484 col nome d'Innocenzo VIII. Nemico degli Aragonesi, entrò subito nella congiura dei baroni napoletani, promettendo loro uomini, armi, danari, e la chiamata d'un nuovo pretendente angioino. La città d'Aquila cominciò la ribellione, sollevando la bandiera della Chiesa (ottobre 1485); Firenze e Milano si dichiararono per gli Aragonesi; Venezia e Genova furono, invece, col Papa e coi baroni, i quali erano aiutati dai Colonna: gli Orsini, armati nella Campagna, vennero fin sotto le mura stesse di Roma. La confusione giunse al colmo; il Papa, disperato d'aiuto, armò anche i condannati per delitti comuni; i cardinali erano divisi, il popolo impaurito, e solo il cardinale Giuliano della Rovere passeggiava sulle mura, pronto alla difesa. Da un momento all'altro s'aspettava l'assalto del Duca di Calabria. Se non che, l'invito fatto dal Papa a Renato II di Lorena fece concludere la pace, obbligandosi Ferrante ad un annuo tributo, ed a dare amnistia ai baroni, che invece poi furono uccisi.

L'anarchia s'era, fra tanta confusione, di nuovo scatenata in Roma, nè si vedeva modo di contenerla: ogni mattina si trovavano cadaveri per le vie. Chi pagava, otteneva un salvocondotto; chi non pagava, era impiccato a Tor di Nona. Ogni delitto aveva la sua tariffa, e le somme maggiori di 150 ducati andavano a Franceschetto Cibo figlio del Papa, le minori alla Camera. Il parricidio, lo stupro, tutto poteva essere assoluto per danaro. Il Vice-Camerlengo diceva ridendo: Il Signore non vuole la morte del peccatore, ma che viva e paghi. Le case dei cardinali erano piene di armi, di bravi e di malfattori, cui davano asilo. Nè era molto diverso lo stato delle cose in provincia. A Forlì fu assassinato Girolamo Riario (1488), dicevasi, perchè il Papa voleva dare quello Stato a Franceschetto Cibo; a Faenza Galeotto Manfredi fu ucciso dalla moglie. Il pugnale ed il veleno lavoravano per tutto; le più diaboliche passioni s'erano scatenate in Italia, e Roma era la fucina principale dei delitti.

Intanto Innocenzo VIII si divertiva colle feste. Egli fu il primo dei Papi che riconoscesse apertamente i proprî figli, e ne celebrasse le nozze. Franceschetto sposò Maddalena di Lorenzo de' Medici (1487), ed il fratello di lei, Giovanni, fu in compenso fatto cardinale all'età di 14 anni. In mezzo a queste ed altre splendide feste di famiglia, arrivava un singolare personaggio, il quale veniva a compiere lo strano spettacolo che offeriva Roma in quel tempo. Djem o, come lo chiamavano gl'Italiani, Gemme, era stato vinto e messo in fuga quando contrastava al fratello Bajazet la successione al trono di Maometto II. Capitato a Rodi, i cavalieri di quell'Ordine lo avevano fatto prigioniero, ricevendo da Bajazet 35,000 ducati l'anno, a condizione che non lo lasciassero fuggire. Più tardi Innocenzo riuscì ad avere per sè la ricca preda, ottenendo 40,000 ducati annui da Bajazet, il quale prometteva una somma assai maggiore, quando gli fosse stato mandato il cadavere del fratello, cosa che però al Papa non metteva conto. E così il 13 marzo 1489 Gemme, vestito del suo abito nazionale, immobile sul suo cavallo, impassibile nella sua severa malinconia orientale, entrava solennemente in Roma, ed alloggiava nel Vaticano, dove s'occupava di musica e di poesia. La presa di Granata, ultimo asilo dei Mori nella Spagna, l'arrivo di sacre reliquie dall'Oriente, tutto dava luogo a feste, a processioni, a baccanali romani. Memorabile fu anche l'arrivo del giovane cardinale Giovanni dei Medici, che aveva allora soli diciassette anni. A lui il padre Lorenzo, fra molti savî consigli, scriveva: si ricordasse che entrava nella sentina di ogni male. E così era veramente. I figli ed i nipoti del Papa facevano tutti parlare della loro vita scandalosa. Franceschetto Cibo in una sola notte perdeva 14,000 fiorini, giocando col cardinal Riario, che accusò al Papa come giocatore falso; ma i danari erano già pagati. La Città Eterna era divenuta un gran mercato d'ufficî, che spesso venivano creati a bella posta per essere venduti; nè solo ufficî, ma si vendevano ancora bolle false, indulgenze ai peccatori, impunità agli assassini. L'Infessura afferma che un padre fu con 800 ducati assoluto dell'uccisione di due figlie. Ogni sera si gettavano nel Tevere i cadaveri trovati nelle vie.

In mezzo a queste orgie infernali, il Papa di tanto in tanto cadeva in un sopore che lo faceva creder morto; ed allora i cardinali, i parenti correvano ad assicurarsi di Gemme, dei tesori, e la città era in tumulto. Il Papa si risvegliava, e di nuovo cominciavano le feste, continuavano gli assassinî. Finalmente un altro accesso del male non dava più nessuna speranza. I parenti circondavano ansiosi il letto del moribondo, che pigliava solo latte di donna: si disse ancora che fu tentata la trasfusione del sangue, nel quale esperimento sarebbero morti tre bambini. Ma tutto fu vano, chè il 25 luglio 1492, l'anno stesso in cui chiudeva gli occhi Lorenzo de' Medici, Innocenzo VIII cessava di vivere in età di sessanta anni. Quando era morto Sisto IV, l'Infessura benediceva il giorno in cui Iddio aveva liberato il mondo da un tal mostro; e fu eletto invece un Papa peggiore. Nessuno supponeva ora che fosse possibile peggiorare ancora; eppure venne eletto Alessandro VI, che seppe, colle sue scelleratezze, far dimenticare tutte quelle dei suoi predecessori. Noi ne parleremo quando dovremo narrare la catastrofe che, sotto il suo pontificato e in parte per opera sua, colpì tutta l'Italia.

5. - NAPOLI.

Il regno di Napoli somiglia ad un mare sempre in burrasca, che però, nella immutabile uniformità de' suoi movimenti, ci presenta una continua monotonia. Glorioso senza dubbio era stato il periodo degli Hohenstaufen; ma esso si chiuse colla nobile morte di Manfredi, e colla tragica fine di Corradino (29 ottobre 1268), dramma il cui lugubre eco riempie tutto il Medio Evo. Il trionfo degli Angioini, chiamati dai Papi, stati sempre acerrimi nemici del grande Federigo II e de' suoi successori, fu il principio d'infinite calamità. La mala signoria di Carlo I d'Angiò fece ben presto ribellare i popoli; onde per domarli fu giuocoforza appoggiarsi ai baroni, che divennero potentissimi, si divisero in fazioni, lacerarono quel misero paese, e divennero spesso un'arme potentissima in mano dei Papi, i quali vi chiamarono sempre nuovi pretendenti, ogni volta che videro un principe farsi colà troppo potente. Con questi mezzi cercarono acquistar terre ai loro nipoti, e mantenere la loro supremazia nel Reame, che di continuo desolarono, gettandolo nell'anarchia con danno infinito di tutta Italia. Pagarono nondimeno il fio di questa iniqua politica, perchè i nobili romani, avendo esteso i loro dominî anche colà, divennero sudditi dei due sovrani, e furono così una leva adoperata vicendevolmente dall'uno a danno dell'altro, con inevitabile rovina d'ambedue. Intanto il Napoletano fu sottoposto ad un vero e lungo processo di dissoluzione. Ogni giorno sorgevano nuovi pretendenti, il popolo era sempre oppresso, i baroni sempre in rivolta, nessuna istituzione poteva acquistare stabilità e fermezza, nessun carattere riesciva lungamente a dominare e guidare gli altri. Sotto Giovanna I, che ebbe quattro mariti e morì soffocata con un piumaccio, il Reame era già caduto nell'anarchia, e la corte era un ridotto di avventurieri dissoluti. Più tardi re Ladislao pareva che dovesse iniziare un'èra novella: domati i baroni, vinti i nemici interni, poneva guarnigione in Roma stessa, e s'avanzava alla testa di un forte esercito, facendo credere di volere ed anche di sapere divenire re d'Italia, quando improvvisamente morì a Perugia di veleno, secondo che generalmente fu detto e creduto (1414). Con Giovanna II, sorella di Ladislao, si fu di nuovo tra le oscenità e l'anarchia. Vedova, vecchia, dissoluta, innamorata del suo scalco, fece cadere lo Stato in preda dei nobili, dei capitani di ventura e dei più bassi cortigiani. Martino V, che l'aveva fatta incoronare nel 1419, chiamò l'anno seguente Luigi III di Angiò a combatterla qual nuovo pretendente; ed essa invitò di Spagna Alfonso d'Aragona, che proclamò suo successore, per poi nominare invece Renato di Lorena, il quale ebbe l'aiuto di Eugenio IV e del duca di Milano. Ne seguì una guerra lunga e rovinosa, che finì solo quando Alfonso d'Aragona, vittorioso in molte battaglie, entrò nella capitale pei condotti d'acqua di Porta Capuana, il 2 giugno 1442, e fu finalmente signore del Reame con grandi fatiche e guerre conquistato. Così venne fondata la dinastia aragonese.

In che misere condizioni si trovasse quello Stato, e quanto universalmente fosse allora desiderata la pace, non occorre dirlo. Il trionfo d'Alfonso fu salutato come il principio d'un'èra novella. Egli aveva lasciato la Spagna per venire a fare tra noi una guerra avventurosa, con la quale, sostenendo fatiche e pericoli d'ogni sorta, aveva conquistato un vasto regno combattendo e vincendo i primi capitani del secolo, un numero assai grande di nemici. Straniero all'Italia, comandava ora provincie da lungo tempo lacerate e dominate da stranieri; mutò assai rapidamente il suo carattere nazionale, per divenire in tutto simile ai nostri principi, con uno spirito militare e cavalleresco, però, che essi avevano di rado. Passeggiava disarmato e senza guardie in mezzo al suo popolo, dicendo che un padre non deve temere de' suoi figli. La sua corte era piena di eruditi, e mille aneddoti si raccontavano a provare la sua straordinaria ammirazione per gli antichi.

Passando coll'esercito accanto alle città, in cui qualche scrittore latino era nato, si fermava come dinanzi ad un santuario; viaggiava sempre con un esemplare di Livio o di Cesare. Il suo panegirista Panormita pretendeva di averlo guarito da una malattia, leggendogli alcune pagine di Quinto Curzio; e si diceva che Cosimo de' Medici aveva concluso con lui la pace, inviandogli un codice di Livio. Uomo di guerra e d'animo spregiudicato, spesso in lotta coi Papi, accoglieva tutti quei dotti che altrove erano perseguitati. Così fu del Valla, quando dovè fuggire da Roma per l'opuscolo contro la donazione di Costantino ed il potere temporale dei Papi; così del Panormita, quando il suo Ermafrodito, tanto lodato per la facile eleganza del verseggiare, scandalizzò per la oscenità che allora non erano anche divenute familiari tra gli eruditi, e fu anatemizzato dai pergami. Questi ed altri molti letterati venivano amichevolmente accolti, e splendidamente remunerati con stipendî, anche con case e con ville. Portato a cielo dai dotti, Alfonso ebbe il nome di Magnanimo per la sua generosità e pel suo spirito cavalleresco. Ma come uomo politico, come fondatore d'una dinastia e riordinatore d'un regno, non gli si può dare gran merito. Dopo avere desolate colla guerra le infelici provincie del Mezzogiorno, le dissanguò colle imposte, per pagare i soldati e premiare i nobili suoi fautori, sui quali accumulò immensi favori, rendendoli sempre più prepotenti. Dato ai piaceri della vita, non seppe, in sedici anni di un regno non contrastato, fondare nulla di stabile; nulla che sollevasse il popolo dalla estrema miseria in cui l'aveva colla guerra trascinato; nulla che, consolidando lo Stato, assicurasse la dinastia. Morto in età di 63 anni compiuti (1458), lasciò i suoi dominii ereditarî nella Spagna, con la Sicilia e la Sardegna, al fratello; il regno di Napoli, frutto della conquista, al figlio naturale Ferdinando, la cui origine materna era avvolta nel mistero.

Erede d'un vasto regno conquistato e pacificato dal padre, poteva Ferdinando o Ferrante, come lo chiamavano, sperare di possederlo tranquillamente; ma dovè invece riconquistarlo colle armi, perchè il disordine latente portò subito i suoi frutti. La prima scintilla fu accesa da papa Calisto, il quale doveva tutto ad Alfonso, ed aveva legittimato Ferrante. Invece ora dichiarava estinta la discendenza aragonese, ed il Reame devoluto alla Chiesa come feudo. I baroni angioini furono in armi; Renato di Lorena sbarcò tra le foci del Volturno e del Garigliano; la rivoluzione scoppiò in Calabria ed altrove. Pure, combattendo continuamente, Ferrante riuscì nel 1464 a sottomettere di nuovo tutto il Regno; ed allora non pensò a riordinarlo, ma solo a fare le sue vendette. Egli preferiva spegnere i proprî nemici a tradimento. Con una crudeltà ributtante davvero li abbracciava, li carezzava e li cibava lautamente prima di mandarli a morte. Uomo di singolare ingegno, di grande penetrazione politica e di coraggio, ma pieno di vizî e di contradizioni, mantenne nel Regno un'amministrazione rovinosa, facendo anche commercio per proprio conto. Raccoglieva derrate, ed obbligava i sudditi a non vender le loro, se prima egli non aveva venduto le sue al prezzo che voleva. Tutto era fondato sopra un sistema artificioso, falso, che finiva col distruggere le forze dello Stato, sebbene il re avesse scelto a ministri uomini abilissimi. Fra questi sono noti il segretario Antonello Petrucci ed il Pontano, che era non solamente uno dei più grandi eruditi del secolo, ma anche un accortissimo diplomatico. Egli fu il principale ministro di Ferrante, conduceva le relazioni cogli Stati italiani, scriveva i dispacci diplomatici, concludeva i trattati. Francesco Coppola conte di Sarno, ricchissimo e potente, dirigeva l'amministrazione e le operazioni commerciali per trovare danari, senza alcun rispetto umano o divino. Ma questi abili ministri non erano che strumenti della falsa politica d'un tiranno accorto e d'ingegno, il quale trattava il popolo e lo Stato come una tenuta, da cui voleva, durante la sua vita, cavare più danaro che poteva, lasciando ai posteri la cura del poi. A ciò s'aggiungeva che il Duca di Calabria, Alfonso, più crudele, superbo e tiranno del padre, senza averne l'ingegno nè il coraggio, disgustava chiunque lo avvicinava. Quando i Turchi, che avevano occupato Otranto, si ritirarono per la morte di Maometto II, parve al volgo che fuggissero dinanzi alle armi d'Alfonso, e ciò lo rese più superbo ed insopportabile che mai, in modo che lo stesso Antonello Petrucci ed il conte di Sarno, disgustatissimi del presente, e temendo più ancora dell'avvenire, pel carattere di colui che sarebbe successo al trono, si gettarono a capo degli scontenti, decisi a tentare la rivolta. Papa Innocenzo soffiò nel fuoco, e ne venne la congiura dei baroni, la quale mise in fiamme il Reame, e minacciò di portare una guerra generale in Italia (1485). Ma Ferrante seppe, colla sua astuzia e col suo coraggio, sedare anche questa tempesta; concluse la pace e fece poi le sue vendette.

Questa politica era tale da poter riuscire solamente finchè si trattava di domare un regno esausto e disordinato, esaurendolo ancora di più. Quando invece fosse sorto un pericolo esterno, essa non poteva più trovarsi in grado di riparare. Ed un tale pericolo allora appunto era vicino, perchè Carlo VIII di Francia s'apparecchiava a quella funesta impresa, che doveva ricominciare le invasioni straniere nella Penisola. Ferrante, già vecchio, se ne avvide subito, ed annunziò le vicine calamità a tutti i principi d'Italia, pregandoli d'unirsi a difesa comune. Le lettere che scrisse allora hanno un accento di dolore, un'eloquenza passionata che sembra sollevare e nobilitare il suo animo, e dimostrano un acume politico, che par quasi profetico. Egli ora prevedeva e descriveva mirabilmente tutte le sventure che s'apparecchiavano alla patria ed a quei principi che, come lui accecati dalla propria furberia, avevano reso inevitabile la comune sciagura. Ma era troppo tardi. L'Italia non poteva più salvarsi dall'abisso in cui cominciava a rovinare; Ferrante doveva morire colla coscienza torturata dinanzi alla caduta del suo regno e della sua dinastia, già visibile quando egli chiudeva gli occhi (25 gennaio 1494).

Tutto il lungo dramma che abbiamo esaminato, è un apparecchio alla generale catastrofe che s'avvicina. E se dai più grossi Stati, in cui è divisa la Penisola, ci volgessimo ai minori, troveremmo a Ferrara, Faenza, Rimini, Urbino, dappertutto la stessa serie di delitti, la stessa corruzione. I piccoli principi, anzi, essendo più deboli e fra maggiori pericoli, commettevano spesso più numerose e crudeli violenze, per salvare il minacciato potere. Non tralasciavano però neppur essi di promuovere la cultura delle lettere, delle arti, d'ogni più squisita gentilezza del vivere civile, rendendo sempre più evidente quel singolare contrasto, che è uno dei caratteri propri del Rinascimento italiano, e forma per noi una delle difficoltà principali a ben comprenderlo.

Non pochi scrittori italiani, animati da un patriottismo che non è sempre guida sicura nel giudicare i fatti della storia, vollero dimostrare che la condizione politica e sociale dell'Italia nel secolo XV era simile a quella di tutta l'Europa, e non ha perciò nulla che possa maravigliarci. Luigi XI, si disse, fu un mostro crudele, autore dei più fraudolenti intrighi; i veneficî di Riccardo III non sono ignoti; Ferdinando il Cattolico si vantava di avere più di dieci volte ingannato Luigi XII; il gran capitano Consalvo era un famoso spergiuro, ecc. Pur troppo i grandi Stati s'andavano formando in Europa, distruggendo coll'inganno e con la violenza i governi e le istituzioni locali. In tali condizioni di guerra i più neri delitti, le più atroci vendette avevano luogo dappertutto; e se nella barbarie del Medio Evo ci sembrano fatti quasi naturali, in mezzo alla cultura rinascente per ogni dove, ci appaiono enormi ed inescusabili. Ma più inescusabili assai appaiono in Italia, dove tanto maggiore era la cultura, e quindi più visibile la contradizione che ci presenta questa mescolanza di civiltà e di barbarie, riunite in un medesimo secolo. Nè si deve dimenticare che i principi come Luigi XI e Ferdinando il Cattolico compierono pure, nonostante i loro delitti, un'opera nazionale, facendo della Francia e della Spagna due grandi e potenti Stati, quando i nostri mille tiranni mantennero sempre divisa la patria coll'unico scopo personale di restare sui loro deboli troni. E se la iniqua politica del secolo XV riuscì triste da per tutto, essa venne pure iniziata in Italia, che ne fu maestra alle altre nazioni; e fra di noi il numero di coloro che vi presero parte fu anche infinitamente maggiore che altrove. Ad ogni piè sospinto s'incontravano tiranni, capi di parte, cospiratori, politici, diplomatici; ogni Italiano pareva anzi un politico ed un diplomatico nato. Così la corruzione ebbe modo di diffondersi assai più che altrove, penetrando largamente dal governo nella società. E questa politica italiana, che mise in moto tante e così prodigiose forze intellettuali, e produsse una sì grande varietà di caratteri, finì poi col fabbricar solamente sull'arena.

Certo, discendendo assai basso negli ordini sociali, si trovano sempre saldi i vincoli della famiglia, ancora intatti i costumi antichi, un'assai migliore atmosfera morale. E quando usciamo da quelle regioni in cui, come a Napoli, a Roma, nelle Romagne, una serie continua di rivoluzioni aveva disordinato e sovvertito ogni cosa, noi troviamo in Toscana, nel Veneto, altrove, un popolo più civile, più mite, più culto assai che nel resto d'Europa, ed un assai minor numero di delitti comuni. Di questo gli storici, specialmente gli stranieri, non tennero conto; e giudicando tutta la nazione dagli ordini superiori della società, che erano i più corrotti, furono indotti in errore nel giudicare le condizioni morali dell'Italia, la quale sarebbe caduta assai più basso e non avrebbe potuto sopravvivere a sè stessa, se fosse stata veramente quale essi la descrissero. Ma non si può negare che nella Francia, nella Spagna, nella Germania, appunto perchè la vita politica era serbata a pochi, la corruzione che ne seguiva era assai meno diffusa; e vi erano pur sempre istituzioni e tradizioni ancora salde, opinioni non soggette a discussione, autorità rispettate. Questo creava naturalmente una forza ed una moralità pubblica, che mancava fra noi, dove tutto era sottomesso alla più minuta analisi dall'irrequieto spirito italiano, che cercava gli elementi d'un mondo nuovo, distruggendo quello in cui si trovava. Gli ambasciatori veneti e fiorentini, quando vanno alla corte di Carlo VIII o di Luigi XII, sembrano ridere di tutto. Trovano il principe senza ingegno, i diplomatici rozzi, l'amministrazione confusa, le faccende abbandonate al caso; ma sono maravigliati ancora nel vedere l'autorità immensa che gode il re: quando egli si muove, essi dicono, tutti lo seguono e l'obbediscono. E questo formava la grande forza del paese. Il Guicciardini, nei suoi dispacci dalla Spagna, dimostrava chiaro di odiare e disprezzare quella nazione; pure non si poteva astenere dal notare che gl'interessi personali di Ferdinando il Cattolico, trovandosi d'accordo con l'interesse generale del paese, la politica di quel re traeva da ciò una forza ed un valore grandissimi. I costumi della Germania e della Svizzera sembravano al Machiavelli simili a quelli degli antichi Romani, ch'egli tanto ammirava. Se il disordine e la corruzione morale delle altre nazioni fossero stati in tutto identici a quelli in cui si trovava l'Italia, come si spiegherebbero questi giudizî d'uomini pure assai competenti? Come si spiegherebbe che l'Italia decadeva già prima d'essere invasa dagli stranieri, quando le altre nazioni sorgevano a nuova vita? Ma bisogna, come abbiamo già detto, guardarsi dall'esagerare, perchè altrimenti resterebbe inesplicabile ancora la grande vitalità che pur ebbe la nazione italiana, e più di tutto il suo meraviglioso progresso nelle arti e nelle lettere. Di questo passiamo ora a dare un cenno.

III.

LETTERATURA

1. - IL PETRARCA E L'ERUDIZIONE.

Fra Dante Alighieri (1265-1321) e Francesco Petrarca (1304-74) non passa una gran distanza di tempo; ma chi studia la vita e gli scritti loro crederebbe quasi che essi appartengano a due secoli diversi. Dante apre colle sue opere immortali un'èra novella; resta però sempre con un piede nel Medio Evo. Egli si è fatta «parte per sè stesso,» ed ha un supremo disdegno per la compagnia «malvagia e scempia» che lo circonda; ma è anche un partigiano fierissimo, che lotta tra le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini; impugna la spada a Campaldino. L'Impero che vagheggia ed invoca è sempre l'Impero medievale, che egli difende con ragioni prese parte dalla scolastica, che penetra anche nel suo divino poema, in parte però ispirate ad un senso quasi profetico dell'avvenire. La sua anima è piena di fede religiosa e d'energia morale; la sua immagine ci apparisce come scolpita dalla mano di Michelangelo, in mezzo al tumulto delle passioni del secolo contro cui combatte, ma dal quale non è ancora uscito del tutto.

Il Petrarca invece fa parte d'un altro mondo, e quando si pensa che con lui s'inizia un periodo affatto nuovo dello spirito e della cultura nazionale, riesce assai difficile comprendere, come mai in sì breve periodo di tempo, l'Italia abbia potuto tanto e così rapidamente mutare. D'un carattere più debole, d'un genio poetico meno originale, e, sebbene vesta l'abito ecclesiastico e goda parecchi benefizî, d'una fede religiosa assai più fiacca, egli non è nè guelfo, nè ghibellino; disprezza la scolastica; sente che la letteratura diviene una nuova potenza nel mondo, che egli deve tutta la sua forza al proprio ingegno e valore letterario; ha quasi dimenticato il Medio Evo, e si presenta a noi come il primo uomo moderno. Singolare è però il vedere come tutto questo s'unisca in lui ad un amore, quasi ad un fanatismo per gli scrittori latini, che studiò ed imitò in tutta la sua vita, non sapendo immaginare nè desiderare nulla di meglio, che far rinascere la loro cultura, le loro idee. Spiegare come in questo sforzo costante e continuo per tornare all'antico, si scoprisse invece un mondo nuovo, è, noi lo abbiamo già notato, il problema che deve risolvere lo storico della erudizione del secolo XV. Questo singolare fenomeno assai più chiaramente che in altri si può osservare nel Petrarca, perchè in lui trovasi come in germe tutto il secolo che segue, e i molti eruditi che gli succedono sembrano non fare altro che prendere, ciascuno per sè, una parte sola del molteplice lavoro che egli abbracciò nel suo insieme, se facciamo eccezione dello studio del greco, che egli potè solo promuovere co' suoi consigli.

Fin dai primi anni il Petrarca abbandonò la legge e la scolastica per Cicerone e Virgilio; percorse il mondo; scrisse agli amici per avere antichi codici, di cui formò una preziosa raccolta. Ne copiò di sua mano; cercò autori sconosciuti o dimenticati, sopra tutto opere di Cicerone, che era il suo idolo, e di lui scoprì due orazioni a Liegi, le lettere familiari a Verona. Questo fu un vero avvenimento letterario, perchè la facile ed alquanto pomposa eloquenza di Cicerone divenne il modello costante del Petrarca e degli eruditi, come le sue epistole furono il componimento letterario più diffuso, più ammirato, imitato tra loro, che ne scrissero un gran numero. Quelle del Petrarca incominciano la lunga serie, formano la sua migliore biografia, sono un monumento di grandissima importanza storica e letteraria. Ne scrisse agli amici, ai principi, ai posteri, ai grandi scrittori dell'antichità. In esse v'è luogo per ogni affetto, per ogni pensiero, e l'autore si esercita, sotto la fida scorta di Cicerone, in ogni stile letterario. Da un lato v'entrano la storia, l'archeologia, la filosofia, e formano così come un manuale enciclopedico, adattatissimo a raccogliere e diffondere una cultura nuova, che, incominciata appena, non è capace ancora d'una più scientifica trattazione. Da un altro lato l'autore può manifestare in esse tutto il proprio spirito, dare libero corso ai suoi affetti, descrivere popoli e principi, caratteri e paesi diversi. L'erudito e l'osservatore del mondo reale si trovano in esse uniti; anzi noi vediamo come il secondo nasca del primo, e come l'antichità, conducendo per mano l'uomo del Medio Evo, lo guidi dal misticismo alla realtà, dalla Città di Dio a quella degli uomini, e gli faccia acquistare la indipendenza del proprio spirito.

Se guardiamo alla forma di queste epistole del Petrarca, troviamo che il suo latino non manca d'ineleganze, nè di errori; nessuno oserebbe metterlo accanto a quello dei classici; è inferiore anche a quello che usarono più tardi il Poliziano, il Fracastoro, il Sannazzaro. Bisogna paragonarlo con quello del Medio Evo, per vedere l'immenso cammino che ha fatto, e come esso superi di gran lunga anche il latino di Dante. Ma il merito principale del Petrarca non sta tanto in questa nuova eleganza classica, quanto nell'essere egli il primo che scriva di tutto liberamente, come un uomo che parli una lingua vivente. Egli ha gettato dietro di sè le grucce della scolastica, e dimostra come si possa camminare speditamente, senza appoggiarsi. Inorgoglito di ciò, fa qualche volta abuso della sua facilità, e cade in artifizî nei quali sembra voler dar prova di agilità e di forza, o s'abbandona, osserva giustamente il Voigt, al bisogno di chiacchierare, come un fanciullo, il quale, avendo scoperto che può colla voce esprimere i suoi pensieri, parla anche quando non ha nulla da dire. Qualche volta si vede in lui apparire anche un primo germe di ciò che fu chiamato il Secentismo del Quattrocento. Il Petrarca, in sostanza, ha spezzato la rete medievale, in cui trovavasi allora incatenata l'intelligenza, ed ha col suo nuovo stile trovato il modo di parlar d'ogni cosa, manifestando chiaramente, spontaneamente tutto sè stesso.

Nel leggere le sue epistole, assai spesso ci reca maraviglia il vedere quanto era ardente in lui un amore quasi pagano della gloria. Pare qualche volta che esso sia il movente principale delle sue azioni, lo scopo della vita, e che si sostituisca al vero ideale cristiano. Dante s'era già fatto insegnare da Brunetto Latini come l'uom s'eterni; ma se nell'Inferno del suo poema i dannati si curano molto della loro fama nel mondo, ciò segue assai meno nel Purgatorio, dove Oderisi da Gubbio è condannato «per lo gran desio dell'eccellenza,» e scomparisce affatto nel Paradiso, in cui la terra è quasi dimenticata. Il Medio Evo cercava l'eternità in un altro mondo, il Rinascimento la cercava in questo, ed il Petrarca era già entrato nel nuovo ordine d'idee. La gloria, secondo lui, ispira l'eloquenza, le imprese magnanime, la virtù; ed egli non si stanca mai di cercarla, non ne è mai sazio, sebbene nessun uomo ne ottenesse in vita quanta ne ebbe lui. I Signori della repubblica fiorentina gli scrivevano «ossequenti e riverenti,» come ad un uomo, di cui «nè i passati videro, nè i posteri vedranno mai l'uguale.» Papi, cardinali, principi e re si tenevano onorati d'accoglierlo in casa. Un vecchio cieco, cadente, viaggiò tutta l'Italia, appoggiato a suo figlio e ad un suo discepolo, per abbracciare le ginocchia dell'uomo immortale, baciare la fronte che aveva pensato cose tanto sublimi; ed il Petrarca ci racconta tutto ciò con soddisfazione. Il giorno che ricevette la corona poetica in Campidoglio (8 aprile 1341) fu il più solenne, il più felice della sua vita: non per me, egli dice, ma per eccitare altri alla virtù. Questo sentimento diviene qualche volta come il demone del Rinascimento. Cola di Rienzo, Stefano Porcari, Girolamo Olgiati e tanti altri furono mossi, meno da un vero amore della libertà, che dal desiderio d'emulare Bruto. Vicini al patibolo, non era più la fede in un altro mondo, ma solo la speranza della gloria in questo, ciò che dava loro animo ad affrontare la morte. Ed il Machiavelli esprime il pensiero del suo secolo, quando dice che gli uomini se non possono aver la gloria con opere lodevoli, la cercano con opere vituperevoli, pur che sopravviva la propria fama. Quanto è diverso questo stato d'animo da quello del Medio Evo, e con quale straordinaria rapidità questo mutamento è avvenuto!

Tutto spinge il Petrarca, che trascina con sè i contemporanei ed i posteri, verso il mondo reale; egli ha un grandissimo bisogno di viaggiare, per vedere e descrivere: multa videndi amor ac studium. Corre a Parigi, per riscontrare se son vere le maraviglie che si raccontano di quella città; a Napoli si pone a visitare minutamente gl'incantevoli dintorni della città con l'Eneide in mano, per guida; cerca i laghi d'Averno, d'Acheronte, di Lucrino, la grotta della Sibilla, Baia, Pozzuoli, e descrive tutto minutamente, rapito ad un tempo dalla bellezza della natura e dalle classiche memorie. Virgilio era stato la guida di Dante nei tre regni dell'altro mondo, Virgilio è in questo la guida del Petrarca allo studio della natura. Una spaventosa tempesta scoppia di notte nel golfo di Napoli, ed egli salta dal letto; percorre la città; va alla marina; guarda i naufraghi; osserva il mare, il cielo, tutti i fenomeni: entra nelle chiese dove si prega, e scrive poi una lettera divenuta celebre. Tutto ciò non ha più alcuna novità per noi, che siamo nati nel realismo moderno; ma bisogna ricordarsi che il Petrarca era primo ad abbandonare il misticismo del Medio Evo. Il singolare è che, per uscirne, si avvolgeva nella toga romana. Dante, è ben vero, ha qualche volta con tocchi maravigliosi descritto la natura; ma sono paragoni o sono accessorî che servono a mettere in rilievo le sue idee, i suoi personaggi; nel Petrarca, per la prima volta, la natura acquista un proprio valore, come nei quadri dei Quattrocentisti. Nelle sue descrizioni di caratteri v'è un realismo che ricorda i ritratti che fecero più tardi Masaccio, il Lippi e Mino da Fiesole; anch'egli disegna e colorisce il vero qual'è, solo perchè vero, senza altro scopo. Sente d'una certa Maria di Pozzuoli, donna di straordinaria forza, che vive sempre nelle armi, combattendo una guerra ereditaria, e fa una gita per vederla, parlarle e descriverla. Vivissima è la descrizione dell'osceno disordine in cui era caduta la corte di Giovanna I, e del dominio che vi esercitava il francescano Roberto d'Ungheria. «Piccolo, calvo, rubicondo, colle gambe gonfie, marcio pei vizî, curvo sul suo bastone per ipocrisia e non per vecchiezza, avvolto in un lurido saio, che lascia scoperta metà della persona, per far pompa d'una mentita povertà, percorre silenzioso la reggia in aria di comando, sprezzando tutti, calpestando la giustizia, contaminando ogni cosa. Quasi nuovo Tifi o Palinuro, egli regge in mezzo alla tempesta il timone di questa nave che dovrà presto affondare.» Altrove ci viene dinanzi, con una singolare evidenza, il fiero aspetto di Stefano Colonna, dicendo che, «sebbene la vecchiezza abbia raffreddato l'animo nel suo feroce petto, pure, cercando la pace, egli trova sempre la guerra, perchè deciso piuttosto a scendere nella tomba combattendo, che piegare l'indomito suo capo. Questi profili evidenti e parlanti, si presentano fra continue citazioni classiche; son come esseri viventi in mezzo a rottami dell'antichità, ed acquistano pel contrasto maggiore evidenza; ci fanno vedere, toccare con mano, come un nuovo mondo vada sorgendo insieme al rinascimento dell'antichità.

Se poi nel Petrarca cerchiamo non il letterato, ma l'uomo, allora troviamo che, per quanto egli fosse buono ed ammiratore sincero della virtù, v'era già in lui quella fiacca mutabilità di carattere, quella eccitabile vanità, quel dare alle parole quasi l'importanza stessa che ai fatti ed alle azioni, che formò più tardi l'indole generale degli eruditi nel secolo XV. Egli è uno di coloro che più hanno esaltato l'amicizia, a tutti prodigando tesori d'affetto nelle sue epistole; ma non sarebbe molto facile trovare nella sua vita esempî d'un'amicizia ideale e profonda come quella, per esempio, che trasparisce dalle parole di Dante per Guido Cavalcanti. Gran parte di quelle effusioni s'esauriva nell'esercizio letterario cui davano luogo. Si potrebbe dire che a ciò contradica la passione costante che il Petrarca ebbe per madonna Laura, la quale gl'ispirò quei versi immortali che egli disprezzò troppo, ma che pur formarono la sua gloria maggiore. Certo nel Canzoniere si trova la più vera, la più fine analisi del cuore umano; una lingua in cui i pensieri traspariscono come in purissimo cristallo, libera da ogni forma antiquata, più moderna della lingua stessa di molti scrittori del Cinquecento. Certo non può dubitarsi d'una passione vera e sincera; ma questo canonico che annunzia il suo amore ai quattro venti, che per ogni sospiro pubblica un sonetto, che fa sapere a tutti come egli sia disperato se la sua Laura non lo guarda, e intanto fa all'amore con un'altra donna, per la quale non scrive sonetti, ma da cui ha figli, a chi farà credere che la sua passione sia nel fatto qual'egli la descrive, eterna, purissima e sola dominatrice del suo pensiero? Ed anche qui sorge dinanzi a noi, e risplende di nuovo la nobile immagine di Dante, che si nascondeva, per tema che altri s'accorgesse del suo amore, e scriveva solo quando la passione, divenuta più forte di lui, erompeva dal suo petto, sotto forma di poesia immortale. La Beatrice di Dante è ancora avvolta in un velo aereo di misticismo, e finisce col trasfigurarsi nella teologia, allontanandosi da noi; la Laura del Petrarca, invece, è sempre una donna vera e reale, di carne e d'ossa, che vediamo vicino a noi, che affascina col suo sguardo voluttuoso il poeta, il quale, anche nel suo maggiore esaltamento, resta sulla terra. Una terra dalla quale, il divino dovrà fra poco essere inesorabilmente escluso.

Nella condotta politica si vede assai chiara la mutabilità, per non dir peggio, del Petrarca. Amico dei Colonna, ai quali diceva di dover tutto, «la fortuna, il corpo, l'anima;» amato da essi come figlio, accolto come fratello, li colmò sempre delle lodi più esaltate, abbandonandoli poi nel momento del pericolo. Quando infatti Cola di Rienzo cominciò in Roma lo sterminio di quella famiglia, il Petrarca, che era pieno d'una sconfinata ammirazione letteraria pel classico tribuno, lo incoraggiò a continuare nella distruzione dei nobili: «Verso di essi ogni severità è pia, ogni misericordia inumana. Inseguili con le armi in mano, quando anche tu dovessi raggiungerli nell'inferno.» Ma ciò non gli impediva di scrivere, quasi nello stesso tempo, pompose lettere di condoglianza al cardinale Colonna: «Se la casa ha perduto alcune colonne, che monta? Resta sempre con te un saldo fondamento. Giulio Cesare era solo e bastò.» Più tardi i Colonna furono per lui di nuovo Massimi e Metelli; ma non cessò tuttavia di rimproverare al tribuno la sua debolezza, per non essersi disfatto dei nemici quando poteva. È ben vero che si scusava dicendo, che egli non mancava di riconoscenza; sed carior Respublica, carior Roma, carior Italia. Chi gl'impediva però di tacere? E questo repubblicano così ardente ammiratore del terzo Bruto, «che riunisce in sè, e supera la gloria dei due precedenti,» poco dopo invitava l'imperatore Carlo IV a venire in Italia, «la quale invoca il suo sposo, il suo liberatore, e non vede l'ora che l'orma de' tuoi piedi si stampi su di essa.» Non molto prima aveva esaltato anche Roberto di Napoli, dichiarando che la monarchia era l'unico mezzo per salvare l'Italia. È noto poi quanti rimproveri facesse ai Papi, perchè avevano abbandonato Roma, che senza di essi non poteva vivere. Eppure il nostro giudizio viene assai temperato, quando vediamo che egli non s'accorgeva punto di queste contradizioni, perchè in sostanza tutti questi discorsi erano più che altro un esercizio letterario, non già l'espressione d'una vera e profonda passione politica, che volesse manifestarsi in atto. Dato il soggetto, la penna correva rapidissima dietro le traccie di Cicerone, seguendo l'armoniosa cadenza del periodo. Ma, e qui ricomparisce di nuovo la grande originalità del Petrarca, che parli di repubblica, di monarchia o d'impero, non è più fiorentino, ma italiano. L'Italia che egli vagheggia, si confonde, è vero, sempre col concetto dell'antica Roma, che vorrebbe ripristinare; ma in tutto questo suo sogno erudito, egli è il primo a vedere l'unità dello Stato e della patria. L'Italia di Dante è ancora medievale; quella del Petrarca, quantunque s'avvolga maestosamente nella toga degli Scipioni e dei Gracchi, è finalmente un'Italia unita e moderna. Così qui, come da per tutto, noi vediamo che il nostro autore, anche in ciò vero rappresentante del suo tempo, volendo tornare al passato, s'apre una via nuova all'avvenire. Veste sempre all'antica, alla romana, ma è sempre moderno. Non dobbiamo però mai dimenticare che la sorgente prima della sua ispirazione è letteraria, altrimenti cadremo in continui errori ed in giudizî fallaci.

Il Petrarca assale fieramente la giurisprudenza, la medicina, la filosofia, tutte le scienze del suo tempo, perchè non dànno mai quel che promettono, e tengono invece la mente inceppata tra mille sofismi. I suoi scritti sono spesso rivolti contro la scolastica, l'alchimia, l'astrologia, ed egli è ancora il primo che osi apertamente rivolgersi contro l'illimitata autorità di Aristotele, l'idolo del Medio Evo. Tutto ciò fa un grandissimo onore al buon senso, che lo sollevò al disopra dei pregiudizî del suo secolo. Ma s'ingannerebbe a partito chi volesse per ciò trovare in lui un ardito novatore scientifico. Il Petrarca non combatte in nome d'un principio o d'un metodo nuovo, ma in nome della bella forma e della vera eloquenza, che non ritrova nei cultori di quelle discipline, come non la ritrova nell'Aristotele mal tradotto e raffazzonato del suo tempo. La scolastica ed il suo barbaro linguaggio s'erano immedesimati con tutto lo scibile del Medio Evo, ed era questo barbaro linguaggio che il Petrarca combatteva in tutto lo scibile. Il Rinascimento italiano è una rivoluzione prodotta nello spirito umano e nella cultura dallo studio della bella forma, ispirata dai classici antichi. Questa rivoluzione, con tutti quanti i pericoli che doveva recare il cominciar dalla forma per arrivar poi alla sostanza, si manifesta la prima volta chiara e ben definita nel Petrarca erudito, che perciò fu a ragione chiamato da alcuni, non solo il precursore, ma il profeta del secolo seguente.

2. - GLI ERUDITI IN FIRENZE.

L'opera iniziata dal Petrarca trovò subito in Firenze un grandissimo numero di seguaci, e di qui si diffuse rapidamente in tutta Italia. A Firenze, però, essa era il portato naturale delle condizioni politiche e sociali di quel popolo, in mezzo a cui anche i dotti d'altre provincie venivano ad istruirsi, a perfezionarsi, e v'acquistavano come una seconda cittadinanza. Nelle nostre antiche storie letterarie, che spesso si occupano troppo di aneddoti biografici e di fatti esteriori, si presentano alla rinfusa i nomi di questi eruditi, che sembrano essere tutti uomini sommi, avere la stessa fisonomia ed il medesimo merito, mirare a un identico scopo. Ma a noi importa conoscere solo quelli, cui si può attribuire una vera originalità in mezzo al lavoro febbrile che migliaia di altri, i quali già sono caduti o meritano di cadere in oblio, ripetevano meccanicamente. Il nostro scopo non è di dare un catalogo esatto dei dotti e dei loro scritti, ma di studiare la trasformazione letteraria ed intellettuale, che per opera loro si compiè in Italia.

I primi eruditi che si presentano sono amici, discepoli o copisti del Petrarca. Il Boccaccio fu dei più operosi nel secondarlo, raccolse molti codici, ammirò i classici latini e li imitò, promosse lo studio del greco, che fu dei primi a conoscere. Con tutto ciò l'opera sua, come erudito, manca di una vera originalità. I suoi scritti latini sulla Genealogia degli Dei; sulle Donne illustri; sui Nomi dei Monti, delle Selve, dei Laghi, ecc., sono più che altro, una vasta raccolta di antichi frammenti, senza grande valore filologico o filosofico. Ma lo spirito dell'antichità è penetrato in lui per modo, che si manifesta in tutte le sue opere, anche nelle italiane. La sua prosa volgare, infatti, se ne risente per la soverchia imitazione del periodo ciceroniano, e sembra annunziare anch'essa che il trionfo del latino sarà fra poco universale.

Dopo che due uomini come il Petrarca ed il Boccaccio s'erano messi per questa via, Firenze sembrò subito divenire come una grande officina d'eruditi. Discussioni e riunioni di dotti si facevano dappertutto, nei palazzi, nei conventi, nelle ville, fra i ricchi, fra i mercanti, fra gli uomini di Stato: si scriveva; si viaggiava; si mandavano messi per cercare, comprare o copiare codici antichi. Tutto ciò non costituiva ancora un lavoro originale; ma pure si raccoglievano grandi materiali, e s'apparecchiavano i mezzi necessarî ad una vera rivoluzione nel campo delle lettere. L'importanza di questa attività non stava finora nei risultati immediati che si ottenevano; ma nell'energia e nelle forze che s'adoperavano e svolgevano per ottenerli. La città delle associazioni d'arti e mestieri era divenuta la città delle associazioni di letterati.

La prima di queste riunioni si formò nel convento di Santo Spirito, intorno a Luigi Marsigli o Marsili, agostiniano e dottore in teologia, che visse nella seconda metà del secolo XIV. Stato già amico del Petrarca, egli era uomo di mediocre ingegno; ma univa ad una grande ammirazione per gli antichi, una straordinaria memoria, il che lo rendeva adattissimo al conversare erudito: per lungo tempo i dotti fiorentini ricordarono nelle loro lettere il profitto cavato da quelle discussioni. Il Comento fatto dal Marsigli sulla canzone del Petrarca all'Italia, dimostra che egli non s'era ancora separato affatto dalla letteratura del Trecento. I due più noti frequentatori della sua cella, Coluccio Salutati e Niccolo Niccoli, erano però entrati addirittura nella nuova via.

Il Salutati, nato in Val di Nievole l'anno 1331, fu anch'egli amico ed ammiratore del Petrarca; grande promotore dell'erudizione e grande raccoglitore di codici; autore di orazioni, dissertazioni, trattati latini in gran numero, pei quali venne a titolo d'onore, chiamato da Filippo Villani vera «scimmia di Cicerone.» Ma il suo stile poco semplice e non sempre corretto, la confusa erudizione non lo avrebbero fatto passare alla posterità, se le qualità morali non avessero dato anche alla sua opera letteraria una impronta originale. Di un carattere esemplare, amante della libertà, fu nel 1375 eletto segretario della Repubblica, che servì con fede ed ardore grandissimi sino alla morte. Animato dall'amore della patria e delle lettere, liberò lo stile della cancelleria fiorentina da tutte le forme scolastiche, sforzandosi di renderlo classico, ciceroniano, e fu così il primo che si provasse a scrivere le lettere diplomatiche e di affari come opere d'arte, ottenendo a' suoi tempi un successo grandissimo. Si narra che Galeazzo Maria Visconti dicesse di temere più una lettera del Salutati, che mille cavalieri fiorentini; certo è in ogni modo, che quando la Repubblica fu in guerra col Papa, le lettere scritte dal Salutati, il quale col suo stile magniloquente evocava le antiche memorie di Roma, contribuirono assai a far sollevare in nome della libertà molte terre della Chiesa. L'entusiasmo che destavano allora nell'animo degl'Italiani i nomi, le reminiscenze, le forme classiche era davvero singolare.

Ma l'opera del Salutati ebbe anche per l'avvenire conseguenze notevoli. L'aver messo la letteratura a servigio della politica contribuì molto a dare alla prima una importanza sempre maggiore, e ad affrettare quella radicale trasformazione della seconda, che ben presto doveva manifestarsi in Firenze. Alle convenzioni e formole antiche s'andò sostituendo una forma sempre più vera e precisa, la quale, come aveva forzato i letterati a passare dal misticismo alla realtà, così esercitò la sua azione anche sulla condotta degli uomini di Stato, e li indusse a trattar gli affari pigliando norma dalla natura delle cose, a dominare principi e popoli studiandone le passioni, senza lasciarsi vincolare da pregiudizi o tradizioni. In questo modo s'arrivò finalmente alla scienza politica del Machiavelli e del Guicciardini, che dovette alla erudizione più d'uno de' suoi maggiori pregi e difetti. L'uso ed abuso della eloquenza, della logica e della sottigliezza, per ottenere i proprî fini politici, condotto sino alla furberìa ed all'inganno, incominciò ben presto a divenire generale. Il Salutati restò però sempre d'animo sincero ed aperto.

Sino all'ultimo giorno della sua vita egli continuò a studiare, ed a promuovere nella gioventù l'amore dei classici. Aveva 65 anni, quando la voce corsa che Emanuele Crisolora di Costantinopoli sarebbe venuto in Firenze ad insegnare il greco, lo mise fuori di sè per la gioia, e parve ringiovanirlo. Nel 1406 morì in età di 76 anni, e fu sepolto in Duomo con solenni esequie, dopo che la sua vita venne celebrata in un discorso latino, alla fine del quale sul suo cadavere fu messa la corona poetica. D'allora in poi la Repubblica elesse a suoi segretarî quasi sempre uomini celebrati nelle lettere. La lunga serie, incominciata col Salutati, continuò fino a Marcello Virgilio, al Machiavelli, al Giannotti, e l'esempio venne imitato anche nelle altre città italiane.

Niccolò Niccoli ebbe al suo tempo una gran fama, sebbene non fosse punto uno scrittore, ma un semplice raccoglitore intelligente di codici, i quali spesso copiava e correggeva di sua mano. Le cure che spese e i sacrifizî che fece per gli studî classici furono infiniti. Le sue ricerche di codici s'estesero in Oriente ed in Occidente, per mezzo di lettere e commissioni date a chiunque partiva da Firenze, o risiedeva per affari lungi dalla patria. Parco nel vivere, spese tutta la sua fortuna, caricandosi poi anche di debiti, per acquistar codici. La sua attività, la sua perizia eran tali, che da ogni parte si ricorreva a lui per aver notizia di antichi manoscritti; ed a lui devesi, in gran parte, se Firenze divenne allora il gran centro librario del mondo; se potè avere librai intelligenti come Vespasiano da Bisticci, che fu pure il biografo di tutti gli eruditi del suo tempo. Infaticabile si dimostrò il Niccoli anche nel chiamare a Firenze i dotti più reputati d'Italia, perchè venissero adoperati nello Studio o altrove. Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, il Traversari, il Crisolora, il Guarino, il Filelfo, l'Aurispa furono per opera sua invitati. Essendo però molto irritabile, la sua amicizia si mutava facilmente in avversione, ed allora egli perseguitava coloro che aveva protetti, e le sue persecuzioni, pel favore che godeva appo i Medici, erano molto pericolose. A lui ed a Palla Strozzi devesi la riforma dello Studio fiorentino, in cui promossero l'insegnamento del greco. Era così invasato dall'amore degli studî, che, quasi fosse un missionario religioso, fermava per via i ricchi giovani di Firenze, esortandoli a darsi alla virtù, cioè alle lettere latine e greche. Piero de' Pazzi che viveva solamente, come egli diceva, per «darsi bel tempo,» fu uno appunto dei convertiti alla nuova vita dell'erudito.

La casa del Niccoli era un museo ed una biblioteca classica; egli stesso pareva una enciclopedia bibliografica vivente. Aveva raccolto 800 codici, valutati 6000 fiorini. Nè deve oggi esser molto difficile immaginarsi la straordinaria importanza che aveva per gli studî una buona biblioteca, in un tempo nel quale la stampa non era trovata, ed il prezzo d'un codice superava assai spesso le forze degli studiosi, oltre di che non sempre si sapeva dove cercarlo. In tali condizioni, essendo la biblioteca del Niccoli liberamente aperta ad ognuno, tutti accorrevano da lui a studiare, a riscontrare, a copiare, a chiedere aiuti e consigli non mai negati. Circondato d'oggetti greci o romani anche nella sua parca mensa, «a vederlo così antico,» dice Vespasiano, «era una gentilezza.» Le puerilità del suo carattere, e gli scandali alquanto ridicoli della sua vita privata, a causa d'una serva che lo dominava, furono dimenticati per l'ammirazione che destava in tutti il suo zelo sincero, costante e disinteressato per le lettere. Morendo nel 1437, in età di 73 anni, l'unico pensiero che ebbe fu quello d'assicurare al pubblico l'uso de' suoi libri, che infatti formarono la prima pubblica biblioteca in Europa, mercè le cure de' suoi esecutori testamentarî, e la munificenza di Cosimo de' Medici, che rinunziò al credito che aveva di 500 fiorini, pagò altri debiti del Niccoli, e, ritenendo per sè una parte dei codici, ne pose in San Marco, ad uso del pubblico, quattrocento i quali aumentò poi a sue spese.

Una terza riunione di dotti tenevasi nel convento degli Angioli, dove era Ambrogio Traversari, nato in Portico di Romagna l'anno 1386, e nominato generale dei Camaldolesi nel 1431. Uomo accorto ed ambizioso, amicissimo dei Medici, che insieme col Niccoli, col Marsuppini, col Bruni ed altri non pochi frequentavano la sua cella, aveva un gran tatto per conservare le amicizie anche dei più permalosi, e per tener viva la discussione, ma ben poca originalità letteraria. Fece traduzioni dal greco; scrisse un'opera intitolata Hodaeporicon, in cui si trovano varie notizie letterarie e le descrizioni de' suoi viaggi; ma le Epistolae sono l'opera sua principale, perchè le molte relazioni che ebbe con i dotti del suo tempo, ne fanno un monumento importante per la storia di quel secolo. Tutto questo però non basta a giustificare la gran fama che ebbe allora, la quale si mantenne viva anche più tardi, perchè il Mehus, pubblicandone le Epistolae, cercò, nella prefazione e nella biografia che le precede, di raccogliere intorno a lui la storia letteraria di quel secolo.

Infinito sarebbe il numero delle riunioni di dotti, se volessimo ricordarle tutte; in ogni modo però non è possibile dimenticare la casa dei Medici, ove ognuno di essi trovava accoglienza, protezione, ufficî. Colà si riunivano anche gli artisti e gli stranieri di qualche fama. Quasi tutti i più ricchi Fiorentini erano allora cultori o protettori delle lettere. Roberto dei Rossi, conoscitore del greco, passò la vita celibe nel suo studio, ed insegnò a Cosimo de' Medici, Luca degli Albizzi, Alessandro degli Alessandri, Domenico Buoninsegni. Il Nestore poi di questi aristocratici eruditi era Palla Strozzi, colui che col Niccoli riformò lo Studio fiorentino; che pagò di suo buona parte della somma necessaria per farvi venire ad insegnar greco il Crisolora, e spese moltissimo per avere codici antichi da Costantinopoli. Esiliato, senza giuste ragioni, si può dire anche iniquamente, da Cosimo dei Medici, all'età di 62 anni, si fece animo a sopportare questa sventura, e la perdita che ebbe poi della moglie e di tutti i figli, studiando a Padova sugli antichi autori fino all'età di 92 anni, quando scese nella tomba.

E finalmente bisogna ricordar lo Studio fiorentino. In generale le Università italiane erano state sedi della cultura medievale e scolastica; l'erudizione era cominciata fuori di esse, spesso anche contro di esse. Ma a Firenze può dirsi invece che lo Studio fiorì e decadde con la erudizione. Fondato nel dicembre del 1321, languì, ora chiuso ed ora riaperto, fino al 1397, quando il Crisolora, coll'insegnamento del greco, iniziò da Firenze l'ellenismo in Italia. Più tardi decadde di nuovo, ma fu poi nel 1414 riformato per opera del Niccoli e dello Strozzi, i quali, valendosi d'un'antica legge, secondo cui gl'insegnanti non dovevano essere Fiorentini, vi chiamarono i più celebri uomini d'Italia e di Grecia, il che valse sempre più ad unire la cultura latina con la greca, e l'erudizione fiorentina con l'italiana. Nel 1473 lo Studio venne da Lorenzo de' Medici trasferito a Pisa, dove fu riaperta la celebre Università; ma a Firenze restarono alcune cattedre di lettere e di filosofia, occupate sempre da uomini celebri.

Questo gran moto di studî, che abbiamo finora esaminato, non aveva prodotto, dopo del Petrarca e del Boccaccio, nessun uomo di grande ingegno. Tutto era stato un raccogliere, copiare, correggere codici; si erano apparecchiati i materiali per un nuovo progresso letterario, che però non era cominciato. Lo scrivere italiano era decaduto, ed il latino non aveva acquistato ancora qualità originali: abbiamo visto grammatici, bibliofili e bibliografi, non veri scrittori. Ma a poco a poco cominciò una nuova generazione d'eruditi, che manifestavano un vero e fino allora insolito valore. Questo era il resultato d'un processo naturale. Gli scrittori, sentendosi finalmente padroni della lingua latina, si cominciavano ad esprimere con una libertà e spontaneità, che dètte origine a nuove qualità letterarie ed anche filosofiche, ad una nuova letteratura. Le questioni grammaticali, esaminate e discusse da uomini di così acuto ingegno e di gusto così fine, com'erano allora gl'italiani, si trasformavano inevitabilmente in questioni filosofiche, il che fu principio di un nuovo progresso scientifico.

Ma vi furono ancora cause estrinseche, le quali affrettarono e provocarono una così notevole trasformazione, e prima fra queste fu lo studio del greco. Con esso vennero a contatto non solo due lingue, ma due letterature, due filosofie, due civiltà diverse. S'allargò ad un tratto l'orizzonte intellettuale, giovando a ciò non solo la maggiore originalità del pensiero e della lingua greca, ma ancora l'essere l'uno e l'altra molto diversi dalla lingua e dal pensiero latino. La mente italiana era così costretta ad uno sforzo maggiore, quasi ad un più lungo e difficile viaggio ideale, che richiedeva e svolgeva una maggiore energia intellettuale. Nel Medio Evo la lingua greca era stata assai poco nota in Italia; e molto fu esagerata la cognizione che n'ebbero in Calabria i monaci di San Basilio. I due Calabresi, Barlaam e Leonzio Pilato, l'avevano empiricamente appresa a Costantinopoli, ed il primo di essi ne insegnò i rudimenti al Petrarca, che, nonostante il grande ardore d'apprenderla, restò sempre col suo Omero dinanzi, senza capirlo. Il secondo fu tre anni professore a Firenze, per opera del Boccaccio, che fece così istituire la prima cattedra di greco in Italia. Ma dal 1363 al 1396 questo insegnamento, che era stato abbastanza povero, tacque di nuovo. Gl'Italiani che volevano averlo, si trovarono, come il Guarino ed il Filelfo, costretti ad andare fino a Costantinopoli. E i primi profughi greci venuti fra noi giovarono meno assai che non si crede, perchè essi, ignorando l'italiano, conoscendo poco il latino, e molto spesso non essendo neppure uomini di lettere, non erano punto in istato di soddisfare una passione che pure stimolavano vivamente colla loro presenza. L'elezione di Emanuele Crisolora a professore dello Studio nel 1396 incominciò veramente un'èra nuova per l'ellenismo in Italia. Già professore a Costantinopoli, e vero uomo di lettere, egli potè dare un efficace insegnamento, ed ebbe per alunni i primi letterati di Firenze. Roberto de' Rossi, Palla Strozzi, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Carlo Marsuppini andarono subito a seguire le sue lezioni. Leonardo Bruni, che allora studiava legge, nel sentire che si poteva finalmente apprendere la lingua d'Omero, e bere alla prima sorgente del sapere, lasciò tutto per poter divenire, come divenne, uno dei più celebri ellenisti del suo tempo. Da quel momento chi non sapeva il greco, fu in Firenze un dotto a metà. E lo studio di questa lingua fece subito rapidi progressi, per l'arrivo di nuovi profughi, i quali erano in generale più colti dei primi, e trovavano il terreno meglio apparecchiato. A tutto ciò s'aggiunse nel 1439 il Concilio fiorentino, che doveva riunire la Chiesa greca e la latina, ma valse invece ad unire lo spirito letterario di Roma e di Grecia. Il Papa ebbe bisogno d'interpetri italiani per capire i rappresentanti della Grecia, e così gli uni come gli altri, indifferenti del pari alle questioni religiose, quando s'avvicinarono, passarono subito dalla teologia alla filosofia, che in generale soleva essere anche più delle lettere coltivata dai Greci. Giorgio Gemisto Pletone il più dotto fra quelli che allora vennero in Italia, ammiratore entusiasta di Platone, seppe infondere la sua ammirazione in Cosimo de' Medici, e così ebbe origine l'istituzione dell'Accademia Platonica. Un grande ardore, una singolare operosità intellettuale cominciarono allora in Firenze, e noi vediamo finalmente da un lato apparire la nuova originalità letteraria, da un altro il principio d'un risorgimento filosofico.

L'erudito che prima di tutti si dimostra adesso scrittore originale, è Poggio Bracciolini, nato a Terranuova presso Arezzo, l'anno 1380. Studiato il greco col Crisolora, andò con Giovanni XXIII al Concilio di Costanza, facendo parte della Curia, e vestendo l'abito ecclesiastico, senza aver preso gli ordini sacri, il che era assai comune fra gli eruditi, i quali, purchè non avessero moglie, si assicuravano così molti dei vantaggi serbati ai preti, di cui solevano dir pure un grandissimo male. Annoiato ben presto delle dispute e contese religiose, il Bracciolini si pose a viaggiare, ed in una sua lettera descrisse mirabilmente la cascata del Reno e i bagni di Baden, facendo di tutto ciò una pittura così viva da potersene anche oggi riconoscere la fedeltà. Il suo latino, quantunque assai più corretto di quello dei predecessori, non manca di molti italianismi e neologismi; ma ha una spontaneità e vivacità tale che sembra una lingua viva: non è una semplice riproduzione, ma un vero e proprio rinascimento. E di certo il fiore dell'umanesimo dobbiamo cercarlo nel Poggio ed in altri suoi contemporanei, non già in coloro che, come il Bembo ed il Casa, ci dettero una imitazione più fedele, ma anche più meccanica e materiale. Dimenticando dizionarî e grammatiche, egli sente il bisogno di scrivere come parla; s'esalta in presenza della natura; cerca il vero e ride dell'autorità; ma resta pur sempre un erudito, il che non bisogna mai dimenticare. L'anno 1416 assisteva al processo ed al supplizio di Girolamo da Praga, descrivendo poi tutto in una sua lettera notissima al Bruni. È singolare l'indipendenza di spirito, con cui questo erudito della Curia papale ammirava l'eroismo del precursore di Lutero, proclamandolo degno della immortalità. Ma che cosa ammirava in lui? Non il martire, non il riformatore; dichiarava anzi che, se Girolamo aveva detto qualche cosa contro la fede cattolica, meritava il supplizio che ebbe. Ammirava in lui il coraggio d'un Catone e d'un Muzio Scevola; ammirava «la voce chiara, dolce, sonora; il gesto dignitoso e bene adatto ad esprimere lo sdegno o a muovere la compassione; l'eloquenza e la dottrina, con cui vicino al rogo citava Socrate, Anassagora, Platone, i Santi Padri.»

Ben presto noi lo vediamo allontanarsi da Costanza per fare lunghi viaggi. Percorse la Svizzera e la Germania, cercando nei conventi antichi manoscritti, dei quali fu il più fortunato scopritore in quel secolo. A lui si debbono opere di Quintiliano, Valerio Flacco, Cicerone, Silio Italico, Ammiano Marcellino, Lucrezio, Tertulliano, Plauto, Petronio, ecc. Quando la notizia di queste scoperte arrivava a Firenze, la Città tutta era in gioia. Il Bruni gli scriveva, a proposito specialmente della scoperta di Quintiliano: «Tu sei ora divenuto il secondo padre dell'eloquenza romana. Tutti i popoli d'Italia dovrebbero muoversi per venire incontro al grande scrittore, che hai liberato dalle mani dei barbari.» Molti altri lo imitavano allora in queste ricerche di codici. Dell'Aurispa s'affermava che ne aveva portati da Costantinopoli 238; del Guarino si ripeteva la favola che lo diceva incanutito ad un tratto, per avere in un naufragio perduti i molti codici che portava d'Oriente. Ma nessuno fu mai operoso e fortunato quanto il Bracciolini.

In Inghilterra, presso il cardinale di Beaufort, egli trovossi come isolato, in una società di ricchi aristocratici senza cultura, che passavano gran parte della vita mangiando e bevendo. In quei desinari, che lo tenevano a tavola perfino quattro ore di seguito, egli era costretto ad alzarsi e lavarsi gli occhi con acqua fresca, per non addormentarsi. Pure il paese offeriva, per la sua novità, vasto campo alle osservazioni del Bracciolini, il quale fin d'allora assai acutamente, fra le altre cose, scorgeva il carattere proprio dell'aristocrazia inglese. Infatti, sebbene venisse da Firenze, già tutta democratica, egli notava con sua grande maraviglia, che colà i mercanti arricchiti, i quali si ritiravano in campagna, a vivere delle loro rendite nelle proprie ville, erano dai nobili accolti e trattati alla pari. E così all'accorto viaggiatore del secolo XV non sfuggiva sin d'allora ciò che solamente parecchi secoli dopo notarono gli storici, che cioè l'aristocrazia inglese assai più facilmente delle altre si mescola con la borghesia e col popolo, di cui sostiene gl'interessi, a differenza di quanto avvenne nei paesi latini, dove essa rimase sempre separata ed ostile al popolo, che perciò ne volle la rovina. Ma la novità del paese, la varietà dei costumi e dei caratteri, le quali a Poggio Bracciolini mai non sfuggivano, che occupavano anzi di continuo la sua attenzione, non bastavano a compensarlo del poco conto in cui erano colà tenuti i dotti, e quindi sospirava l'Italia.

Ben presto, infatti, lo troviamo a Roma segretario della Curia romana, al tempo di Martino V. Ivi egli era di nuovo nel suo elemento. Passava le lunghe serate d'inverno coi suoi colleghi in una stanza della Cancelleria, che chiamavano il Bugiale, sive mendaciorum officina, perchè in essa raccontavano aneddoti veri o falsi, più o meno osceni, coi quali ridevano del Papa, dei cardinali, dei dommi stessi della religione, in difesa della quale scrivevano i Brevi. La mattina attendeva al suo ufficio che gli dava poco da fare, e poi componeva opere letterarie, fra cui furono allora i dialoghi sull'Avarizia e sull'Ipocrisia, vizî che egli diceva proprî del clero, che perciò flagellava a morte. Ma in questa specie di satire non si trova mai una seria intenzione; è invece lo stesso spirito mordace e scettico dei nostri comici e novellieri, che come lui ridevano della religione che professavano. Questi cercavano dipingere i costumi del tempo; gli eruditi volevano principalmente far prova di possedere il latino in modo da saper trattare argomenti sacri e profani, serî, comici ed osceni. Ecco tutto. Non c'era mai da sperare nessun alto scopo morale.

Il Bracciolini, infatti, che flagellava i corrotti costumi del clero, menava poi una vita tutt'altro che morigerata. E quando il cardinale di Sant'Angelo, scrivendo, gli faceva il rimprovero d'aver figli, il che non conveniva ad un ecclesiastico, e di averli poi da una concubina, il che non conveniva ad un laico, egli, senza punto sgomentarsi, rispondeva: «Ho figli, il che conviene ad un laico; li ho da una concubina, il che è antico costume del clero.» E, continuando la lettera, raccontava d'un abate il quale presentò a Martino V un suo figlio, ed essendone da lui biasimato, gli diceva, fra le risa della Curia, che ne aveva ben altri quattro, prontissimi sempre a prendere le armi per sua Santità.

Venuto a Firenze con papa Eugenio IV, si trovò in mezzo ai dotti qui radunati, e fu subito in dispute assai violenti coll'irrequieto Filelfo, che insegnava allora nello Studio. Questi, essendo stato a Costantinopoli dove aveva preso una moglie greca, era quasi il solo in Italia che allora parlasse e scrivesse la lingua di Platone e d'Aristotele. Colla sua sconfinata vanità, col suo carattere irrequieto non dava pace a nessuno: attaccò i Medici e finì col doversi allontanare da Firenze. Allora cominciò a scrivere satire contro i dotti già stati suoi amici e colleghi, ed il Bracciolini gli rispose colle sue Invettive. Fu una guerra d'accuse indecenti, nella quale i due eruditi, ingiuriandosi crudelmente, facevano gara di abilità retorica e di maestria nella conoscenza del latino. Il Filelfo aveva il vantaggio di scrivere in versi, e quindi le sue ingiurie si ritenevano più facilmente a memoria; ma il Bracciolini, avendo maggiore ingegno e brio, scrivendo in prosa, poteva più facilmente dire tutto quello che voleva. Egli respingeva le ingiurie che «il Filelfo aveva vomitate dalla fetida cloaca della sua bocca,» ed attribuiva l'indecenza del linguaggio di lui alla educazione che aveva ricevuto dalla madre, «il cui mestiere era stato, diceva, di vuotar budella d'animali: così il fetore di lei emanava ora dal figlio.» Lo accusava d'aver sedotto la figlia del proprio maestro, per sposarla e poi venderne l'onore, e finiva offrendogli una corona degna di tanta laidezza. Nè ciò bastava, chè essi s'accusavano anco di vizî che il pudore impedisce oggi di nominare, e di cui i dotti parlavano allora senza ritegno, quasi ridendo, istigati dall'esempio degli scrittori greci e romani.

L'animo rifugge dal pensare che grande rovina morale tutto ciò dovesse portare nello spirito italiano. Ma Poggio scriveva le sue lodate Invettive in una deliziosa villa, dove aveva raccolto statue, busti, monete antiche, di cui si valeva a meglio comprendere l'antichità, ed iniziava così l'archeologia, come aveva già fatto a Roma descrivendone i monumenti. A lui pareva che questo fosse il paradiso dovuto ad uno spirito eletto, ad un letterato enciclopedico, destinato all'immortalità. Aveva allora 55 anni, e per sposare una giovanetta di cospicua famiglia, abbandonò la donna con cui aveva sino allora vissuto, da cui gli erano venuti quattordici figli, quattro dei quali, vivi e legittimati, restarono poi senza averi. Ma rimediò scrivendo un dialogo: An seni sit uxor ducenda, in cui difese la propria causa. Bastava uno scritto in latino elegante a risolvere i più difficili problemi della vita, ed a mettere in pace la coscienza. Per l'erudito del secolo XV, già lo dicemmo, le parole valevano quanto e più dei fatti: lodare con eloquenza la virtù era lo stesso che essere virtuoso. I più grandi uomini della Grecia e di Roma non dovevano forse la immortalità alla eloquenza con cui la loro vita era stata narrata da sommi scrittori? Che sarebbe della fama di Annibale, di Scipione, d'Alessandro, d'Alcibiade senza Livio, senza Plutarco? Chi sapeva scrivere con eloquenza il latino, non solo era sicuro della propria immortalità, ma poteva a suo arbitrio concederla anche agli altri.

Dalla Toscana Poggio tornò a Roma, e sotto il pontificato di Niccolò V, valendosi della grande libertà concessa agli eruditi, pubblicò scritti contro i preti, contro i frati, ed il Liber Facetiarum, in cui raccolse tutte le satire e le oscenità altra volta raccontate nel Bugiale, dicendo chiaro nella prefazione, che il suo scopo era di mostrare come il latino potesse e dovesse essere adoperato a dir tutto. Invano i rigoristi biasimarono questo vecchio che aveva ora settanta anni, e contaminava così la sua canizie: dopo che il Panormita aveva pubblicato l'Hermaphroditus, l'orecchio italiano s'era usato a tutto, e Poggio passava tranquillo il suo tempo nello scrivere oscenità, e nelle dispute letterarie. Una disputa l'ebbe allora col Trapezunzio, e finì a pugni; l'altra l'ebbe col Valla, e questa dètte origine da una parte all'Antidoto contro il Poggio, dall'altra a nuove Invettive. La questione versava sulle proprietà del latino e sui precetti grammaticali sostenuti nelle Elegantiae del Valla, il quale, essendo di un acume critico superiore, ebbe il vantaggio nella controversia. Ma anche qui la gara di oscenità fu scandalosa. Accusato d'ogni più disonesto vizio, il Valla rese pan per focaccia, senza gran fatto occuparsi di difendere sè stesso, anzi spesso dando prova d'un singolare cinismo. Così a Poggio che lo accusava d'aver sedotto la fantesca della propria sorella, rispondeva ridendo d'aver voluto provar falsa l'accusa fattagli dal cognato, che la sua morigeratezza, cioè, non derivasse da virtù dell'animo. S'ingannerebbe però assai chi volesse dalla violenza delle ingiurie misurare la forza delle passioni. Le Invettive erano quasi sempre semplici esercizî retorici; i due contendenti scendevano nell'arena come istrioni venuti a dare spettacolo della loro destrezza e della loro nudità. Se però le passioni non erano reali, reale era pur troppo il danno morale che risultava da sì misero spettacolo.

Abbandoniamo dunque questo terreno fangoso e passiamo ad altro, giacche siamo ancora lontani dall'avere descritta tutta la prodigiosa attività del nostro autore. Le orazioni erano, dopo le epistole, il genere più popolare fra gli eruditi. In esse raccoglievano tutte quante le reminiscenze dell'antichità, e tutte quante le figure retoriche. La memoria era spesso la sola facoltà veramente necessaria al buon successo: - aveva una memoria eterna, citava tutti quanti gli autori antichi, - era l'elogio che Vespasiano soleva fare ai più celebri di questi oratori, i quali sembravano aver dei florilegi, cui ricorrere per ispirare la propria eloquenza. Si trattava d'un generale, e ricordavano tutte le grandi battaglie; si trattava d'un poeta, e si sciorinavano precetti di Orazio o di Quintiliano. Il soggetto principale svaniva dinanzi al bisogno di far servire tutto come un'occasione a render sempre più familiare l'antichità: lo stile era falso, l'artifizio continuo, le esagerazioni innumerevoli, e le orazioni funebri riuscivan sempre apoteosi. Un giorno che il Filelfo voleva accusare un suo persecutore, salì la cattedra, e cominciò in italiano: «Chi è cagione di tanti suspecti? Chi è principio di tante ingiurie? Chi è autore di tanti oltraggi? Chi è costui, chi è? Nominerò io tal mostro? Manifesterò io tal Cerbero? Dirollo io? Io certo il debbo dire, io il dico, io il dirò, se la vita n'andasse. Egli è il maledico ed il prodigioso, il detestabile ed abominevole.... Ahi! Filelfo, taci, non dire per Dio! Abbi pazienza. Chi sè medesimo contenere non può, male potrà alcun altro d'intolleranza e d'incostanza ammaestrare.» Ecco ciò che allora sembrava modello d'eloquenza; e però non aveva torto Pio II, quando diceva che un'orazione fatta con arte poteva commovere solo gente di volgare intelligenza. Il cardinale di Estouteville, francese di buon gusto, ascoltando l'elogio di S. Tommaso d'Aquino fatto dal Valla, ebbe ad esclamare: ma quest'uomo è impazzato! Eppure quelle orazioni erano allora talmente in voga, che nelle paci, nelle ambascerie, in tutte le solennità pubbliche o private, non poteva farsene a meno. Ogni corte, ogni governo, qualche volta anche le ricche famiglie, avevano il loro oratore ufficiale. E come oggi di rado v'è festa senza musica, così allora un discorso latino in versi o in prosa era il migliore trattenimento d'una società culta. Molti ne furono dati alle stampe, ma sono la parte minore; le biblioteche italiane ne contengono centinaia ancora inediti. Eppure in tutta questa abbondanza non si trovano mai esempi di vera eloquenza, se facciamo eccezione d'alcune fra le orazioni di Pio II, il quale non parlava sempre per mero esercizio letterario, ma spesso anche per giungere ad un fine determinato, ed allora non affogava nella retorica. Poggio Bracciolini era tenuto uno dei gran maestri del genere, e non mancò anch'egli di fare molte orazioni, specialmente in lode dei letterati amici che morivano. La facilità dello stile che pur cadeva spesso in verbose lungaggini, il brio, la disinvoltura ed il buon senso lo rendono più leggibile degli altri, ma non eloquente.

Gli ultimi anni della sua vita li passò a Firenze, dove, per la morte di Carlo Marsuppini (24 aprile 1453), fu nominato segretario della Repubblica, e scrisse il suo ultimo lavoro, che fu la Storia di Firenze dal 1350 al 1455. In quest'opera egli, come aveva già fatto Leonardo Bruni, abbandonò la via tenuta dai cronisti fiorentini, e non ebbe la vivacità ed evidenza di cui essi avevano dato così splendide prove. Non vi si trova mai un aneddoto, non un racconto ritratto dal vero; non si scopre mai una conoscenza personale degli avvenimenti, in mezzo ai quali l'autore era pure vissuto, partecipandovi. Egli sembra narrare fatti greci e romani; non parla mai delle interne vicende della Repubblica, e noi assistiamo solo a grandi battaglie, a lunghi e solenni discorsi latini di Fiorentini vestiti sempre alla romana. Poggio in sostanza mira principalmente ad imitare l'epica narrazione di Livio, e se questo gli fa perdere le spontanee qualità dei cronisti, l'obbliga pure a cercare un legame, se non scientifico e logico, almeno letterario tra i fatti, e la cronaca così comincia a trasformarsi nella storia. Il Bruni è assai superiore per critica storica, il Bracciolini per facilità di stile, spesso però diviene verboso. Questi fu dal Sannazzaro accusato di soverchia parzialità per la sua patria; ma ciò dipende in gran parte dall'attitudine che assume, parlando sempre di Firenze come se fosse la repubblica romana.

Se Poggio Bracciolini fu il principale rappresentante di questo secondo periodo della erudizione italiana, non fu il solo; si trovò anzi in mezzo ad una schiera numerosa d'altri dotti, e fra questi il più celebre era Leonardo Bruni, nato nel 1369 in Arezzo, e chiamato perciò l'Aretino. Noi lo abbiam visto già all'arrivo del Crisolora in Firenze, abbandonare lo studio del diritto, per darsi tutto al greco; ed il profitto che fece fu tale da poter ben presto tradurre non solo i principali storici ed oratori, ma anche i filosofi greci. Con ciò egli rese un immenso servigio alle lettere, perchè le sue versioni furono le prime in cui i classici greci vennero fedelmente tradotti dall'originale, nè solo in un latino elegante, ma senza essere alterati dalle idee del traduttore; e perchè comparivano nel momento appunto in cui il bisogno di averle era universale. Le versioni dell'Apologia di Socrate, del Fedone, del Critone, del Gorgia, del Fedro di Platone, e quelle dell'Etica, dell'Economica, della Politica d'Aristotele, furono un vero e proprio avvenimento letterario. Da un lato veniva rivelata la filosofia platonica, fino allora quasi sconosciuta in Italia; da un altro compariva finalmente quello che fa chiamato il vero Aristotele, ignoto al Medio Evo. Gli eruditi potevano adesso ammirare quella eloquenza, che il Petrarca aveva cercata invano nell'Aristotele travestito e quasi barbaro de' suoi tempi; non erano più costretti a studiare uno scolastico invece del filosofo greco. Così il Bruni dètte un impulso grandissimo alla filosofia ed alla critica. Il suo era infatti un ingegno critico, come apparisce anche dalle Epistole, nelle quali troviamo per la prima volta sostenuta l'opinione che l'italiano sia derivato dal latino parlato, diverso dallo scritto, e ciò con argomenti tali, che l'umanista del secolo XV sembra qualche volta un vero precursore della filologia moderna.

Queste qualità si vedono anche meglio ne' suoi lavori storici, primo dei quali è la Storia di Firenze dalle origini sino al 1401. Di essa noi dobbiamo dare giudizio diverso di quello già espresso sulla Storia del Bracciolini, che ne è la continuazione. Questi, come dicemmo è superiore per la grande facilità dello stile, ma è vinto di gran lunga per lo spirito critico, e per l'esame delle fonti. Il Bruni ricorre anche, il che è notevolissimo, ai documenti d'Archivio, e si occupa assai più dei fatti interni della Repubblica. Più di una volta, come avremo occasione di vedere, egli ci apparisce come un precursore delle Storie del Machiavelli. Tuttavia anche in lui troviamo la stessa tendenza a vestire i Fiorentini alla romana, la stessa mancanza di colorito locale, gli stessi lunghi discorsi retorici, messi in bocca dei personaggi storici per la irresistibile passione d'imitare gli antichi.

Leonardo Aretino era uomo di grandissima autorità personale in Firenze, dove ebbe molti ed importantissimi uffici, fra i quali tenne lungamente quello di segretario della Repubblica. Morto nel 1444, gli successe Carlo Marsuppini d'Arezzo, chiamato perciò Carlo Aretino. Costui scrisse assai poco, e nulla d'importante; pure fu un insegnante di grido, emulo fortunato del Filelfo nello Studio fiorentino, ed ebbe una gran fama, dovuta principalmente alla sua memoria, che gli faceva fare gran figura nei pubblici discorsi. La sua prima Prolusione fu applauditissima, perchè, secondo dice Vespasiano, «non ebbono i Greci nè i Latini scrittore ignuno, che messer Carlo non allegasse quella mattina.» Egli ostentava un gran disprezzo pel Cristianesimo, ed una grande ammirazione per la religione pagana. A lui come al Bruni furono dalla Repubblica decretati solenni onori funebri. Ambedue ebbero sulla bara la corona poetica; ambedue riposano, l'uno di fronte all'altro, in Santa Croce, sotto due monumenti del pari eleganti, con due iscrizioni del pari pompose, quasi seicentistiche, sebbene grande fosse la distanza che passava dall'ingegno dell'uno a quello dell'altro. L'elogio funebre del Marsuppini venne letto dal suo scolare Matteo Palmieri, quello del Bruni, invece, da un altro letterato di sommo grido, e riuscì un avvenimento solenne. In mezzo alla pubblica piazza, accanto alla bara, su cui era il cadavere del Bruni col volume della sua Storia Fiorentina sul petto, in presenza dei magistrati della Repubblica, incominciò a leggere Giannozzo Manetti, che da molti era tenuto, massime per le orazioni, il primo letterato allora vivente. Eppure chi legge adesso questa Orazione, resta maravigliato, e non sa comprendere come in un secolo tanto culto e tanto ammiratore dei classici, si potesse, con un gusto così barocco, riscuotere così universali applausi. Egli incomincia col dire che, se le Muse immortali (immortales Musae divinaeque Camoenae) avessero potuto fare un discorso latino o greco, e piangere in pubblico, non avrebbero lasciato fare a lui quella solenne orazione. Viene poi a parlar della vita del Bruni, ed, arrivato al tempo in cui fu segretario della Repubblica, percorre la storia di Firenze. Tocca delle opere di lui, e poi si distende a ragionare degli scrittori greci e latini, specialmente di Cicerone e di Livio, al di sopra dei quali pone il Bruni, per la gran ragione, che questi non solo traduceva dal greco come il primo, ma scriveva anche storie come il secondo, così riunendo in sè i pregi dell'uno e dell'altro. Avvicinatosi il momento, in cui doveva mettere la corona sulla testa del morto amico, parlò dell'antichità di questo uso e delle varie corone: civica, muralis, obsidionalis, castrensis, navalis, continuando la descrizione per cinque grosse pagine di fittissimo carattere. Affermò che il Bruni meritava la corona come vero poeta, e subito s'abbandonò ad una serie di vuote frasi, per spiegare che significhi la parola poeta, che sia la poesia, e finalmente conchiudeva con una pomposa apostrofe, coronando «il felice ed immortale sonno della maravigliosa stella dei Latini.» Strana è veramente questa gonfiezza di stile in coloro che passavano la vita studiando, imitando i classici!

Il Manetti era nato a Firenze nel 1396, ed in età di 25 anni, morto il padre, lasciò il banco per darsi allo studio con tanto ardore, che dormiva solo cinque ore. Dalla sua casa aprì un uscio che dava nel giardino del convento di Santo Spirito, ove andava a studiare, e per nove anni non passò l'Arno. Imparò il latino, il greco, l'ebraico; aveva una grande facilità di scrivere, una memoria «eterna, immortale,» secondo la solita espressione di Vespasiano. Ma il pregio di quest'uomo era più che altro nel suo carattere morale. Pratico degli affari, religioso, fermo, onestissimo, gli studi lo condussero a formarsi un alto ideale della vita, al quale si mantenne sempre fedele nei molti uffici che gli furono affidati. Vicario o Capitano della Repubblica in più città lacerate dalle fazioni, riuscì a dare sentenze severissime, a porre gravi tasse, senza mai essere accusato di parzialità. Ricusava anche i donativi d'uso, dando invece del suo a chi ne abbisognava, portando la concordia e la pace per tutto. Le ore d'ozio passava scrivendo la vita di Socrate e di Seneca, De dignitate et excellentia hominis, la storia delle città in cui si trovava. Ma il suo caval di battaglia, come erudito, furono le orazioni, che fece nelle molte ambascerìe, cui venne inviato appunto per la grandissima fama d'oratore che s'era guadagnata. A Roma, a Napoli, a Genova, a Venezia venne accolto come un principe; e la sua reputazione era tale, che solo a lui riescì, con una lettera latina, di farsi rendere dal capitano Piccinini otto cavalli che i soldati di lui gli avevano rubati. Essendo andato a rallegrarsi in nome della repubblica fiorentina per la elezione di Niccolò V, la gente accorse dalle città vicine, ed il Papa lo ascoltò con tale attenzione, che un prelato accanto gli toccò più volte il gomito, credendolo addormentato. «Finita l'orazione, a tutti i Fiorentini fu tocca la mano, come se avessino acquistato Pisa e il suo dominio;» e i cardinali veneziani scrissero subito al loro governo, che bisognava mandare a Roma un oratore simile al Manetti, altrimenti ne andava il decoro della Serenissima. A Napoli il re Alfonso sembrava «una statua sul trono,» quando parlò il Manetti. Eppure questi era un oratore senza originalità: i suoi discorsi, d'uno stile gonfio e falso, sono centoni di notizie diverse, florilegi di frasi latine. Ma ciò appunto era quello che piaceva allora, perchè dimostrava la sua vasta lettura, la sua grande memoria, la sua prodigiosa facilità di cucire insieme periodi sonori. Scrisse molte storie e biografie che, senza la vivacità dei cronisti antichi, non hanno neppure i pregi dell'Aretino e del Bracciolini. I suoi trattati filosofici sono vuote dissertazioni; le sue molte traduzioni dal latino e dal greco non hanno la importanza di quelle dell'Aretino, che lo aveva preceduto; le sue versioni del Salterio dall'ebraico e del Nuovo Testamento dal greco mostrano che era poco contento della Volgata; ma s'ingannarono coloro che vollero in ciò vedere un ardimento religioso, di cui egli era incapace. Gli ultimi anni della sua vita furono amareggiati dall'invidia che l'obbligò a lasciare Firenze; ma trovò protezione a Roma ed a Napoli, dove morì, stipendiato da Alfonso d'Aragona, il 26 ottobre 1459.

Sebbene la grande reputazione del Manetti sia oggi assai decaduta, pure egli merita un posto d'onore nella storia del secolo XV, perchè la sua vita dimostra chiaramente come non vi sia professione nè secolo corrotto in modo da impedire ad un uomo di serbare una vera nobiltà di animo. Quella stessa erudizione pagana, che lasciava dietro di sè tante rovine morali in Italia, a lui valse invece per levare in alto il proprio spirito. Ed invero è un grande errore, quantunque assai comune, il condannare con una sentenza generale il carattere di tutti gli eruditi. Noi abbiamo già dovuto ammirare Coluccio Salutati e Palla Strozzi; molti altri potremmo citare anche fra i meno noti. Basta leggere il biografo Vespasiano, di cui si può biasimare la troppa ingenuità, ma non si può mettere in dubbio l'ammirazione sincera per la virtù. Egli ci parla di messer Zembrino da Pistoia, che insegnava «non solo lettere, ma costumi,» e, lasciato ogni altro ufficio, «per vivere alla filosofia,» parco e morigerato, dava tutto il suo ai poveri, cibandosi come un eremita; ed era «di un animo interissimo, libero, senza dolo e fraude ignuna, come vogliono esser fatti gli uomini.» Parlando di maestro Paolo fiorentino, dotto in greco, in latino e nelle sette arti liberali, dato anche all'astrologia, aggiunge, che non conobbe mai donna; dormiva vestito sopra un'asse, accanto allo scrittoio; nutrivasi di erbe e di frutta; «solo era volto alla virtù, e quivi aveva posto ogni sua speranza.... Quando non istudiava, andava alla cura di qualche suo amico.» Tutto ciò per altro non può far dimenticare, che la maggior parte di essi erano bensì uomini dati con ardore allo studio, ma pur troppo senza carattere. Il perenne esercizio della mente in questioni assai spesso di pura forma; la vita vagabonda di cortigiani costretti a guadagnarsi il pane con elogi venduti; le continue gare; la mancanza d'ogni sentimento di fratellanza o di casta nel lavoro e nell'ufficio comune che adempivano, e la demolizione che cinicamente facevano di ogni cosa più sacra, non potevano certo contribuire a nobilitare il loro carattere. Se si aggiunge poi, che tutto ciò seguiva in un momento nel quale la libertà era già spenta, la società decadeva, la religione veniva scandalosamente profanata dai Papi stessi, allora solamente si capirà che profonda corruzione morale dovesse ritrovarsi in Italia, quando questi eruditi erano i predicatori della virtù, i distributori della gloria, i rappresentanti della pubblica opinione. Ma ciò non deve impedirci di riconoscere gli onesti, che si salvarono dal generale naufragio. Se non si tien conto di tutti gli elementi di cultura e della diversa indole degli uomini che vissero in quel secolo, si corre pericolo di non poter mai più intendere come lo spirito italiano sapesse allora, fra tanti pericoli, trovare in sè stesso la forza necessaria a promuovere uno straordinario progresso intellettuale, evitando una totale rovina morale, a cui forse ogni altro popolo in simili condizioni sarebbe andato soggetto.

3. - GLI ERUDITI IN ROMA.

Dopo Firenze, la città di maggiore importanza per le lettere è di certo Roma. I Papi sin dai tempi del Petrarca cominciarono a sentire il bisogno di far scrivere i loro Brevi da qualche dotto in latino. E sotto Martino V gli eruditi della Curia già pretendevano nelle pubbliche funzioni d'aver la precedenza sugli avvocati concistoriali, di cui parlavano con disprezzo. Fra di essi, come già vedemmo, Poggio Bracciolini primeggiava, e con lui si trovavano altri di minor fama, come Antonio Lusco, scrittore di epistole in versi e di epigrammi, che aveva cavato dalle Orazioni di Cicerone le regole della retorica, e composto così un formulario da servirsene per trattare in linguaggio classico gli affari della Curia. Gli eruditi però, che a Firenze avevano una vera importanza sociale, ed una grande indipendenza, a Roma invece erano in ufficî subordinati, nei quali spesso guadagnavano bene, ma in sostanza potevano solo aspirare alla condizione di cortigiani favoriti. Tuttavia ogni giorno crescevano di numero, entrando nell'Abbreviatura, dove si trovarono sino a cento scrittori di Brevi, o nella privata segreteria del Papa, dove si portava l'abito ecclesiastico senza obbligo di prendere gli ordini sacri. L'ufficio di abbreviatore era stabile, quello di segretario durava generalmente quanto la vita del Papa; dava però molti incerti guadagni, e la speranza di farsi strada coi possibili favori: ambedue si comperavano a caro prezzo (chè a Roma tutto allora si vendeva), ma il primo era preferito e si pagava di più.

L'età dell'oro per gli eruditi in Roma fu quella di Niccolò V, il quale, potendo, avrebbe portato nella Città Eterna tutti i codici del mondo, tutti i dotti e tutti i monumenti di Firenze. Le economie che fece, e i danari del giubileo nel 1450 gli dettero modo di mettersi all'opera. La Curia e la Segreteria furono subito piene di eruditi che il Papa, il quale conosceva poco o punto il greco, occupava a far traduzioni, pagandole lautamente. Al Valla fu affidata la traduzione di Tucidide, finita la quale ebbe 500 scudi e l'incarico di tradurre Erodoto; al Bracciolini quella di Diodoro Siculo; a Guarino Veronese, che era in Ferrara, quella di Strabone con la promessa di 500 scudi per ogni parte dell'opera; altri ebbero altre commissioni. Solo per una traduzione in versi latini d'Omero, Niccolò V non potè trovare l'uomo adatto, quantunque avesse cercato per tutto, e fatte al Filelfo le più larghe offerte. Anche gli esuli greci Teodoro Gaza, Giorgio Trapezunzio, il Bessarione e molti altri accorsero a Roma, e parecchi di essi ricevettero gli stessi ufficî e le medesime commissioni. La più parte di questi erano però specie d'avventurieri irrequieti, che avevano mutato religione per la speranza di guadagni. Il Bessarione, convertito anch'egli, era invece uomo assai autorevole e sincero, dotto e conoscitore del latino più de' suoi connazionali, cardinale, ricco, gran raccoglitore di codici, e la pretendeva inoltre a Mecenate. Niccolò V lo mandò coll'ufficio di Legato a Bologna, probabilmente, così almeno si disse, per non vederlo quasi suo emulo in Roma.

Tutta questa grande società di traduttori ed emigrati, riuniti dai danari del Papa, si poteva dire un'accozzaglia d'elementi eterogenei. Essa di certo valse assai a diffondere i risultati del lavoro iniziato in Firenze, ma era incapace di opere veramente originali; fece molte utili traduzioni, ma si può anche osservare, che se quelle del Bruni a Firenze avevano aperto una via nuova agli studî, ed erano fatte da un uomo che le aveva intraprese di sua iniziativa, quelle pagate da Niccolò V erano invece lavori di commissione, eseguiti assai spesso da dotti, il cui merito principale non era la cognizione del greco, o da emigrati greci che conoscevano poco il latino. Ciò che di più notevole ed originale produsse questa società romana di dotti, furono opere come le Facezie del Bracciolini, le Invettive dello stesso o l'Antidoto del Valla, con le quali opere abbiam visto che basse ingiurie quegli eruditi si scagliassero fra di loro. Il Papa avrebbe potuto facilmente mettere un freno al poco edificante spettacolo, ma sembrava invece compiacersene. Sotto il suo pontificato però, è necessario notarlo, vennero da coloro che egli proteggeva pubblicate anche opere di argomento grave, e di grandissima importanza; ma queste appunto o non furono scritte in Roma, o non furono incoraggiate da lui.

Era assai naturale che chi aveva formato una così grande officina di traduttori, fondasse ancora una grande biblioteca. Ed infatti, se prima di lui Martino V aveva già cominciato a raccogliere codici; se dopo di lui Sisto IV aprì al pubblico la famosa biblioteca Vaticana, il vero fondatore di essa, come abbiamo altrove accennato, fu Niccolò V. Enoch di Ascoli corse il mondo cercando codici nei conventi, con Brevi che lo raccomandavano, perchè potesse copiare o comprare; Giovanni Tortello, autore d'un Manuale d'ortografia pei copisti, fu il bibliotecario di questo Papa che, secondo Vespasiano, raccolse 5000 volumi, li legò con grandissimo lusso, e spese per essi 40,000 scudi. Oltre di che egli incominciò un grande restauro delle strade, dei ponti, delle mura aureliane; pose le fondamenta d'un nuovo Vaticano; fortificò il Campidoglio e Sant'Angelo; restaurò o costruì di pianta un gran numero di chiese in Roma, Viterbo, Assisi, altrove, e nuove fortezze in molte città dello Stato. Insomma coi consigli dell'Alberti, coll'opera di Bernardo e Antonio Rosselli, Niccolò V seppe trasformare Roma in una grande città monumentale, emulando non solo i Medici, ma i più grandi imperatori antichi.

Da tutto ciò si può facilmente comprendere come senza avere un grande ingegno, egli riuscisse a far passare il suo nome ai posteri. S'aggiunge ancora che il suo pontificato fu illustrato dalla presenza di tre uomini d'ingegno assai singolare, due dei quali adoperati da lui. E sebbene le loro opere più originali o non fossero, come dicemmo, scritte in Roma, o appunto di esse il Papa non sembrasse curarsi affatto, pure gliene venne indirettamente un onore che non meritava.

Il primo di essi fu Lorenzo Valla, che abbiamo veduto tra i segretarî e traduttori, e che aveva per lo innanzi avuto una vita assai avventurosa. Di famiglia piacentina, nato a Roma (1407), si vantava romano. Fino a 24 anni restò in patria dove fu discepolo dell'Aurispa e del Rinucci, ed ebbe anche soccorso di buoni consigli da Leonardo Bruni. Andò poi professore a Pavia, dove subito manifestò il suo carattere irrequieto ed il suo ingegno originale. In quel gran centro di studî legali attaccò fieramente la dottrina del celebre Bartolo, a cagione dello stile barbaro e scolastico di lui. Ignorando, egli diceva, il classico linguaggio dell'antichità, col quale la giurisprudenza romana era e doveva essere scritta, ignorando anche la storia, non poteva Bartolo intendere il vero significato delle leggi di Roma, nè commentarle a dovere. Questa audacia parve un'eresia, e destò tale rumore fra gli studenti di legge, che il povero Valla dovè fuggire da Pavia, ed andare insegnando in altre città.

Pure in mezzo a queste inquietudini, egli dètte alla luce la sua prima opera, De voluptate et vero bono, nella quale troviamo subito un vero pensatore, e vediamo come dall'erudizione nascesse allora lo spirito nuovo del Rinascimento. Ponendo a confronto le dottrine degli stoici e degli epicurei, esaltava il trionfo dei sensi, ribellandosi contro ogni mortificazione della carne. - Scopo della vita, egli dice francamente, sono la felicità, il piacere, e noi dobbiamo cercarli, perchè la natura ce lo impone. La virtù stessa, che deriva dalla volontà e non dall'intelletto, è un mezzo per giungere alla beatitudine, che è la felicità vera, sempre incompiuta su questa terra. Noi non possiamo colla ragione spiegar tutto: i dommi della religione restano spesso un mistero, e la filosofia cerca solo, se può, di esporli razionalmente; non è possibile neppure conciliare il libero arbitrio colla preveggenza divina. La scienza si fonda sulla ragione, che è in armonia colla realtà delle cose; sulla natura, che è Dio stesso. La verità si manifesta in una forma semplice, precisa, vera; la logica e la retorica son quasi una sola e medesima cosa; uno stile confuso e scorretto accusa verità mal comprese, una scienza falsa o incompiuta. - E quindi egli attaccava fieramente la scolastica, Aristotele, Boezio, facendo continuo appello dall'autorità al sano uso della ragione, alla realtà, alla natura, che veniva da lui esaltata in mille modi. Questo bisogno del reale, questa redenzione dei sensi e della natura, formano il concetto dominante e l'anima di tutto il libro; costituiscono l'indole propria degli scritti del Valla: è in sostanza lo spirito stesso del Rinascimento, che viene con lui alla luce. Non si tratta qui di un nuovo sistema filosofico; ma si vede che la natura ed il buon senso trionfano; e l'indipendenza della ragione si presenta a noi come una conseguenza logica dell'antichità risorta, come una conquista ormai compiuta.

Quest'opera avrebbe ottenuto assai migliore successo, se il Valla, spirito irrequieto e battagliero, che amava qualche volta il paradosso, non si fosse lasciato trascinar troppo dalla sua penna. Pigliando la difesa dei sensi, egli dichiara che la verginità è contro natura, e fa dire al Panormita, che se le leggi di questa debbono essere rispettate, le cortigiane sono più utili al genere umano che le monache. Esponendo e difendendo la dottrina di Epicuro contro gli stoici, condannando tutto ciò che significa disprezzo del mondo, si lascia andare a molte espressioni contrarie allo spirito ed alla lettera delle dottrine cattoliche, anzi cristiane. E quantunque dichiarasse di voler rispettare l'autorità della Chiesa, i suoi attacchi contro il clero erano fierissimi, e più pericolosi assai di quelli di Poggio e degli altri eruditi, perchè questi si valevano del frizzo, il Valla, invece, della critica. Per tutte queste ragioni si levò un gran rumore contro di lui, e fu subito accusato d'eretico, d'epicureo e profanatore d'ogni cosa sacra. Nè gli valse difendersi col dire che il vero piacere, la vera felicità eran per lui la beatitudine divina; perchè gli venivan gettate in viso le frasi più aggressive e audaci della sua opera, ricordati i fatti più immorali della sua vita, che prestava il fianco a molti attacchi.

Dopo aver insegnato in varie città, il Valla si trova dal 1435 al '42 presso Alfonso d'Aragona, ne è fatto segretario nel '37, e lo accompagnò nelle imprese militari, che poi portarono quel principe al trono di Napoli. Nel '44 egli era a Roma, ma dovette fuggirne, ricoverandosi di nuovo a Napoli, per le persecuzioni minacciategli a causa d'uno scritto da lui composto nel 1440: De falso credita et ementita Constantini donatione. Il Valla sosteneva in esso che la donazione di Costantino non era stata mai fatta, non poteva farsi, e che l'originale del preteso documento non fu mai visto. Esaminando poi con la critica il linguaggio del documento, ne provava la falsità, dimostrando che non aveva il carattere del latino del tempo. Dopo di che attaccava fieramente la simonia del clero, osando dichiarare che il Papa non aveva il diritto di governare nè il mondo, nè Roma; che il dominio temporale aveva rovinato la Chiesa e privato della libertà i Romani; minacciava poi d'incitarli anche a sollevarsi contro la tirannìa d'Eugenio IV e contro i Papi in genere, che di pastori s'eran fatti ladri e lupi. Quando pure, egli concludeva, la donazione fosse vera, sarebbe nulla, perchè Costantino non poteva farla: in ogni caso i delitti dei Papi l'avrebbero già annullata. E sperava, egli concludeva, di vivere abbastanza per vederli costretti a tornare pastori col solo potere spirituale. - Veramente, già durante il Concilio di Basilea, il Cusano ed il Piccolomini avevano sostenuta la falsità della donazione, con argomenti che si trovano anche nel Valla. Ma a lui più che ad altri si deve la demolizione del falso documento, il che potè fare con la sua critica mordace, e con l'impeto della sua eloquenza ciceroniana. Inoltre, come abbiam detto, egli non si fermava ad un esame letterario e teoretico del documento, ma voleva addirittura abbattere il potere temporale, minacciando di invitare le popolazioni ad insorgere. Non si trattava più d'una semplice disputa teologica o storica; ma era la prima volta che un erudito già celebre, dopo avere ampiamente esposta la questione critica, la rendeva popolare e le dava una pratica applicazione. Allora Alfonso d'Aragona trovavasi in guerra con Eugenio IV, ed il Valla, pigliando le parti del suo protettore, poteva dare libero corso alla sua eloquenza. Attaccato da preti e da frati, egli che combatteva come sotto una fortezza, raddoppiò i colpi con altri scritti. In questi sostenne non esser vera la lettera di Abgaro a Gesù Cristo, pubblicata da Eusebio; che il Simbolo non era stato composto dagli Apostoli, ma dal Concilio di Nicea. E prima aveva già notati molti errori della Volgata, raccogliendoli in un libro d'annotazioni, che Erasmo di Rotterdam ripubblicò più tardi con una lettera di elogio e difesa. Questi scritti e queste dispute lo fecero chiamare dinanzi all'Inquisizione in Napoli; ma egli, sicuro dell'appoggio del Re, si difese in parte col sarcasmo, in parte dichiarando che rispettava i domini della Chiesa, i quali non avevano da far nulla colla storia, colla filosofia e la filologia. Quanto alla donazione di Costantino, non ne fu parlato, per non risollevare una questione troppo spinosa.

Liberato da tale pericolo, continuò le sue lezioni all'Università, e attaccò dispute letterarie con Bartolommeo Fazio e Antonio Panormita, contro i quali scrisse quattro libri d'invettive. Ma insieme con questi lavori pubblicò altre opere storiche, filosofiche e filologiche, dettate sempre col medesimo spirito critico ed indipendente, e fra di esse vanno principalmente notate le Elegantiae e la Dialectica. Le prime ebbero subito una grande popolarità, perchè il Valla in esse fece prova di tutta la sua maestria nel latino classico, che scriveva con eleganza e vigore. Dimostrò anche una conoscenza assai profonda, per quel tempo, delle teorie grammaticali; ma, quel che è più, passava insensibilmente dalle questioni filologiche alle filosofiche. Il linguaggio, egli diceva, è formato secondo le leggi del pensiero, per il che la grammatica e la retorica si basano sulla dialettica, di cui sono il complemento e l'applicazione. Anche di quest'opera si occupò Erasmo di Rotterdam, facendone un sunto che pubblicò. In essa ed in quella De Voluptate et vero bono, si vede tutta quanta l'originalità dell'autore, ed il passaggio dalla erudizione alla critica ed alla filosofia. La Dialectica, lavoro esclusivamente filosofico, ha un merito assai inferiore alle Elegantiae, ma sostiene anch'essa il medesimo concetto, che il vero studio del pensiero si debba, cioè, fare collo studio del linguaggio.

In mezzo a queste battaglie ed a questa attività letteraria, protetto da un re splendido come Alfonso, in una città che per gli studî filosofici ebbe sempre singolare attitudine, il Valla poteva esser contento. Pure egli mirava a Roma, perchè colà era il gran centro dei letterati, e perchè il suo stato presente non era punto sicuro. Il Re poteva conciliarsi col Papa, poteva succedergli il figlio, e le cose sarebbero subito mutate. Infatti, non andò guari che gli Aragonesi tornarono d'accordo coi Papi, ed il Valla dovè pensare ai casi suoi. Colla disinvoltura propria degli eruditi, si decise allora a mutare strada. Cominciò collo scrivere lettere ad alcuni cardinali, dicendo che non era stato mosso da odio ai Papi; ma da amore alla verità, alla religione, alla gloria. Se la sua opera veniva dagli uomini, sarebbe caduta da sè stessa; se veniva da Dio, nessuno avrebbe potuto abbatterla. Del resto, e qui era per lui il punto importante, se con qualche opuscolo aveva potuto far molto male alla Chiesa, dovevano riconoscere che egli era in grado di fare ad essa altrettanto bene. Ma tutto ciò non bastava ancora a calmare Eugenio IV, ed il Valla scrisse addirittura la sua Apologia, indirizzandola al Papa, cui prometteva di ritrattarsi. In essa respingeva le accuse d'eresia, che «l'invidia dei nemici gli aveva scagliate contro,» e conchiudeva: «Se non peccai, restituisci la mia fama nel pristino suo stato; se peccai, perdonami.»

Ma neppure con ciò ottenne il resultato voluto. Solamente dopo la elezione di Niccolò V, egli venne chiamato a Borna (1448), dove fu adoperato a far traduzioni dal greco. Più tardi insegnò nella Università romana, e così fra le lezioni, le traduzioni e le dispute letterarie col Trapezunzio e con Poggio, passò la sua vita, senza occuparsi punto di questioni religiose. Sotto Calisto III arrivò ad essere segretario nella Curia ed anche canonico di San Giovanni Laterano, dove venne finalmente sepolto quest'uomo, che era stato di poco carattere e di costumi corrotti, ma di grandissimo ingegno letterario, critico e filosofico, il novatore e pensatore più originale fra tutti gli eruditi. Cessò di vivere il dì 1° agosto 1457.

Trovavasi allora in Roma un altro erudito di molto ingegno, e questi era Flavio Biondo o Biondo Flavio, secondo altri. Nato a Forlì nel 1388, segretario di Eugenio IV, di Niccolò V, di Calisto III e di Pio II, fu da tutti adoperato e da tutti trascurato, a segno tale che qualche volta indagò se poteva altrove provveder meglio alla sua miseria. Eppure aveva servito Eugenio IV, nella prospera e nell'avversa fortuna, con una fedeltà a tutta prova, e gli dedicò qualcuno de' suoi importanti lavori. Lo stesso fece con Niccolò V, che era il Mecenate di tutti gli eruditi; con Pio II, che si valse delle opere di lui, anzi ne compendiò una, per aggiungervi il bello stile che vi mancava. Questa era la gran colpa del Biondo, e questa lo fece restar quasi oscuro in mezzo agli umanisti, molti dei quali non erano degni neppure di stargli accanto. Egli non conosceva il greco, non era elegante latinista, non era adulatore, non scriveva invettive: una sola disputa ebbe col Bruni, che fu tutta letteraria e scientifica, sull'origine della lingua italiana, senza alcuna personalità. Le sue Epistole non contengono motti nè frasi eleganti, non furono quindi mai raccolte, e nessuno scrisse la biografia di lui. Pure fu uno dei più intemerati caratteri, dei più nobili ingegni in quel secolo, e le sue opere hanno un acume di critica storica, che non si trova in alcuno de' contemporanei, eccettuato forse Leonardo Aretino. Il primo lavoro del Biondo, dedicato ad Eugenio IV, ed intitolato Roma instaurata, è una descrizione di Roma pagana e cristiana, e de' suoi monumenti. In essa abbiamo il primo tentativo serio d'una topografia compiuta della Città Eterna: l'autore apre la via ad una scientifica restaurazione dei monumenti, valendosi degli scrittori con critica singolarissima. Ma, quel che è anche più notevole in un umanista, l'antichità classica non gli fa punto dimenticare i tempi cristiani: io non sono, egli dice, di coloro che, per la Roma dei Consoli, dimenticano la Roma di S. Pietro. E così la sua erudizione fu più universale e profonda, s'estese al Medio Evo ed al suo tempo. La seconda sua opera fu l'Italia illustrata, scritta ad istanza d'Alfonso d'Aragona, e dedicata a Niccolò V. In essa egli descrive l'Italia antica, determinandone le varie regioni, dando una enumerazione delle principali città, con ricerche sui loro monumenti, sulla loro storia antica e moderna, sugli uomini più famosi. La terza opera, dedicata a Pio II, fu la Roma triumphans, in cui propose di esporre la costituzione, i costumi, la religione dei Romani antichi, e fece così il primo Manuale di antichità. Finalmente, oltre ad un libro De Origine et gestis Venetorum, egli scrisse una storia della decadenza dell'Impero romano, Historiarum ab inclinatione Romanorum, etc., lavoro di vasta mole, del quale però abbiamo solamente le tre prime Decadi, ed il principio della quarta. Essa doveva arrivare fino ai tempi dell'autore; ma nello stato in cui si trova, è pure la prima storia universale del Medio Evo, che sia degna d'un tal nome. Ed è singolare il vedere come il Biondo ricorra alle sorgenti, e distingua i narratori contemporanei dai posteriori, paragonandoli fra di loro. Con quest'opera la storia comincia a divenire una scienza, e la critica storica è già nata. Noi avremo occasione di riparlarne, quando dovremo osservare che il Machiavelli se ne valse molto nel primo libro delle sue Istorie, qualche volta traducendo addirittura. Ed anche Pio II ne riconobbe tutta l'importanza, facendo di essa un compendio, per cercare di darle la forma classica. E si valse molto anche d'altre opere del Biondo, che pur lasciò morire povero e quasi oscuro (1463).

Il terzo erudito di cui dobbiamo parlare, è appunto Enea Silvio de' Piccolomini, che successe a Niccolò V col nome di Pio II (1458-64). Noi lo vedemmo già al Concilio di Basilea, dove sostenne l'elezione dell'antipapa Felice V, di cui fu segretario; più tardi lo vedemmo nella cancelleria imperiale, dove restò lunghi anni, e mutò le sue opinioni, divenendo sostenitore dell'autorità papale contro le idee del Concilio, già prima difese da lui. Nella giovinezza s'era abbandonato al suo carattere leggiero, al suo ingegno vario, e aveva scritto poesie, commedie, novelle oscene, lettere in cui parlava con cinico sarcasmo della vita dissoluta che faceva. Come erudito, anche a lui mancava la conoscenza del greco e degli autori greci, dei quali aveva letto solo qualcuno nelle traduzioni fatte in Italia; dei latini però, massime di Cicerone, fece assai lungo studio: mirava alla facilità e semplicità, seguiva l'esempio di Poggio Bracciolini, che era in ciò quasi il suo ideale. Gli scritti del Piccolomini avevano una spontanea disinvoltura che risultava principalmente dalle qualità pratiche del suo ingegno, dalla conoscenza degli uomini e del mondo. Diverso in ciò da tutti gli eruditi, scrivendo, cercava sempre di andare al pratico ed al reale, senza farsi dominare troppo dalle classiche reminiscenze dell'antichità. Perfino nelle sue opere oscene, invece di fermarsi a far prova di stile, ed a citare esempî cavati dagli antichi, raccontava fatti veri seguiti nella sua vita ed in quella degli amici. Le sue Orazioni al Concilio non erano certo saggi di grande eloquenza, ma avevano uno scopo chiaro, volevano ottenere un fine determinato. Nelle Epistole, o si occupava d'affari o descriveva i paesi in cui era; e così vediamo spesso il segretario della cancelleria imperiale, disperato di trovarsi in mezzo a Tedeschi che bevevano birra da mattina a sera. Gli studenti, egli dice, ne tracannano quantità enorme; un padre svegliava i suoi bimbi la notte, per far loro a forza bere del vino. Intanto egli diffondeva l'umanesimo italiano in Germania, e le sue lettere formarono per molti anni l'anello di congiunzione fra i due paesi, ricevendo da ciò la loro principale importanza storica.

Al Piccolomini mancavano il valore d'un pensatore indipendente, l'erudizione del vero umanista e la pazienza del raccoglitore; ma la vivacità, prontezza e spontaneità dell'uomo di lettere e di mondo arrivavano in lui ad un tal grado da fargli giustamente, per questo lato, attribuire una propria originalità. Egli non era un filosofo che avesse un proprio sistema, era anzi talmente pieno dell'antichità, che voleva confondere la filosofia greca e romana con la cristiana. In ciò per altro non sta la vera indole del suo ingegno, la quale si manifesta invece quando egli parla di materie affini alla filosofia, ma più pratiche, come, per esempio, di educazione. Allora cita assai poco Aristotele e Platone; nota invece osservazioni suggerite dalla propria esperienza. Non riuscì mai a scrivere veri trattati scientifici, ma ciò che in tutte le sue opere più ferma la nostra attenzione, è sempre la descrizione dei paesi e dei costumi. Così, se scrive De curialium miseriis, la parte più notevole del libro è quella che narra la vita infelice che faceva egli stesso, insieme coi minori curiali della cancelleria imperiale, i loro viaggi, i loro alloggi in comune, i cattivi alberghi, il pessimo desinare, la nessuna quiete. In altre delle sue opere troviamo descritti i paesi nei quali aveva viaggiato, scene della natura, costumi, istituzioni. Questo è ciò che si presenta a lui con maggiore evidenza, e che con maggiore evidenza egli presenta a noi. Non è un viaggiatore che cerca regioni ignote; ma la natura è sempre nuova per lui, sempre ammirabile, sempre gli parla. Anche quando fu Papa, vecchio e malato, si faceva trasportare per monti e per valli, a Tivoli, ad Albano, a Tuscolo, per contemplare la bellezza di quella campagna, che tanto ammirava, e così bene descriveva. La forma e la varietà della vegetazione, il sistema dei monti e dei fiumi, l'origine filologica dei nomi, la diversità dei costumi, nulla gli sfugge, tutto vede coordinato in unità. Genova, Basilea, Londra, la Scozia sono da lui descritte, notando la estensione del paese, il clima, i costumi, i cibi, il vivere, la costruzione delle case, le opinioni politiche degli abitanti. La descrizione di Vienna è tanto vera, che qualche volta se ne trovano anche oggi dei brani ristampati nelle Guide più recenti di quella città. La sua grandezza, il numero degli abitanti, la vita dei professori e degli studenti, la costituzione politica e amministrativa, il modo di vivere, gli scandali nelle vie, la condizione dei nobili e dei borghesi, la giustizia, la polizia, tutto sembra che avesse quello stesso carattere generale che Vienna serba ancora oggi. Qui non è un dotto che scrive, è un semplice viaggiatore costretto dalla propria curiosità ad osservare e fare osservar tutto. Il Piccolomini è l'uomo del suo tempo; le sue qualità sono nell'atmosfera stessa che egli respira, e le manifesta tanto più facilmente, quanto minore è la sua individuale originalità. Egli visse, è ben vero, nel secolo degli eruditi; ma questo fu anche il secolo in cui nascevano Leonardo da Vinci, Paolo Toscanelli, Cristoforo Colombo, e si educava, si formava il loro genio collo spirito d'osservazione, col metodo sperimentale.

È facile comprendere che le opere storiche e geografiche del Piccolomini sono le più importanti; che in esse il merito principale si trova là dove descrive cose ed uomini da lui veduti, e quando storia, geografia, etnografia si presentano come una sola scienza. La storia greca e romana egli conosceva solamente a brani; quella del Medio Evo trattava leggermente, cavando molto dal Biondo e da altri, esaminando però con acume gli scrittori di cui si serviva, il tempo, il valore, la credibilità delle opere loro, perchè la critica era penetrata nel sangue stesso degli uomini di quel tempo. Tuttavia non giunse mai ad una forma, ad un rigore veramente scientifico; raccoglieva alla rinfusa dalla memoria e da appunti in cui registrava ciò che vedeva, leggeva o sentiva. Questo modo di comporre, unito alla sua mobilità e mutabilità di carattere, gli fece in tempi diversi esprimere giudizî diversissimi sopra lo stesso soggetto, perchè scriveva sempre sotto l'impressione del momento. Ma ciò appunto cresce la spontaneità de' suoi scritti, e ci permette di leggere nella mutabilità delle opinioni, la storia del suo spirito.

Meditò lungamente una specie di Cosmos, in cui voleva scrivere la geografia delle varie regioni allora conosciute, e la loro storia dal principio del secolo fino ai suoi giorni. La sua Europa è un frammento di quest'opera colossale, non mai compiuta, ed in essa la geografia è come il sostrato della storia. Egli ragionò con disordine e senza proporzione dei popoli diversi, scrivendo assai spesso di memoria, come era suo costume. Più tardi scrisse la geografia dell'Asia, valendosi delle tradizioni dei geografi greci, e dei viaggi del veneziano Conti, stato 25 anni in Persia, dei quali Poggio aveva lasciata un'assai minuta narrazione nelle sue opere, raccolta dalla bocca dello stesso viaggiatore. L'ultima e più importante opera del Piccolomini è la sua autobiografia, che egli scrisse quando era già Papa, chiamandola Commentarii, ad imitazione di Giulio Cesare. Usava dettarli quando gli affari lasciavano a lui tempo: sono è ben vero dei brani mal cuciti fra loro; ma forse appunto perciò dànno una più giusta idea delle qualità intellettuali dell'autore, e manifestano, insieme riuniti, i varî e diversi pregi, che si trovano sparsi nelle altre sue opere. Qui infatti egli si mostra qual era veramente come erudito, poeta, descrittore di paesi, ammiratore della natura, pittore di genere, con uno spirito tutto pieno del realismo moderno. Qui sono quelle descrizioni, cui accennammo più sopra, della Campagna romana, di Tivoli, della Valle dell'Anio, di Ostia, di Monte Amiata, dei Monti Albano, che possono anche oggi servire di guida al forestiero, e fanno sentir quasi il soffio della fresca aura dei monti; e qui ancora l'immagine di tutto un secolo si specchia, senza ordine prestabilito, ma fedelmente, nell'animo dello scrittore, il quale appunto perchè non ha un carattere ed una personalità propria, non impone mai un colore subiettivo alle cose ed agli uomini di cui parla. Questi Commentarii vanno dall'anno 1405 fino al luglio del 1464.

Ciò che abbiam detto del Valla, del Biondo e del Piccolomini dimostra chiaro che, sebbene gli eruditi di Roma non avessero l'importanza ed il carattere proprio di quelli di Firenze, pure la Città Eterna fu sempre un gran centro, a cui i dotti accorrevano da ogni parte d'Italia, e fra poco potrà dirsi anche d'Europa. Quando i tre dotti di cui abbiamo parlato, non vivevano più, noi troviamo che vi fiorivano Pomponio Leto, il Platina e l'Accademia Romana. Il primo di essi era noto assai meno pel suo ingegno che per la singolarità del suo carattere, ed era generalmente tenuto figlio naturale dei principi Sanseverino di Salerno. Discepolo del Valla, cui successe nell'insegnamento, era venuto a Roma, lasciando i suoi, ai quali dicesi che rispondesse, quando lo chiamarono, con questa laconica lettera: Pomponius Laetus cognatis et propinquis suis salutem. Quod petitis fieri non potest. Valete. Preso d'un amore entusiasta per l'antichità romana, menava una vita da eremita, coltivando una sua vigna secondo i precetti di Varrone e Columella; andava innanzi giorno alla Università, dove l'aspettava un uditorio immenso; leggendo i classici, e abbandonandosi intere ore a contemplare i monumenti romani, era qualche volta in presenza di essi così esaltato che piangeva. Faceva rappresentare le Commedie di Plauto e di Terenzio, e divenne il capo di molti eruditi che raccolse nell'Accademia Romana da lui fondata. In essa ognuno dei membri si ribattezzava pigliando un nome pagano; e nelle ricorrenze dei fasti di Roma, specialmente l'anniversario dei natali di essa, si radunavano ad un desinare, nel quale venivano letti componimenti in verso ed in prosa. Qui si parlava di repubblica e di paganesimo; qui vennero il Platina e molti altri degli eruditi che Paolo II aveva cacciati dalla Segreteria, e davano nei loro discorsi sfogo all'ira contro il Papa. Questi, che era un uomo energico ed impaziente, sciolse l'Accademia: molti degli accademici furono imprigionati, alcuni anche torturati, altri fuggirono (1468). Pomponio Leto era a Venezia, e fu rimandato a Roma, dove si salvò, sottomettendosi e chiedendo perdono, cosa sempre facile agli eruditi, nei quali tutto ciò che pensavano e sentivano prendeva forma e carattere semplicemente letterario. E così potè sotto Sisto IV, in forma alquanto diversa, riaprire l'Accademia, che durò fino al sacco di Roma nel 1527. Morì nel 1498, in età di 70 anni, e i suoi funerali furono solenni. Pubblicò varie edizioni dei classici, qualche lavoro sulle antichità di Roma; ma la sua vera importanza veniva dal suo insegnamento, dall'entusiasmo pagano che seppe infondere negli altri, dalla vita semplice e tutta data allo studio.

Un altro membro dell'Accademia, e di maggiore ingegno, era Bartolommeo Sacchi di Piadena nel Cremonese, soprannominato il Platina. Imprigionato la prima volta, quando protestava contro la perdita del suo ufficio, fu di nuovo chiuso in Castel Sant'Angelo, quando l'Accademia venne sciolta. Posto alla tortura, egli non solo piegò, ma si sottomise al Papa con parole basse, promettendo di obbedirgli, di celebrarlo con altissime lodi, di denunziargli chiunque sparlasse di lui, e tutto ciò avendo l'animo sempre pieno d'un gran desiderio di vendetta. Uscito di carcere, e nominato bibliotecario della Vaticana da Sisto IV, con l'incarico di raccogliere documenti sulla storia del potere temporale, egli si vendicò nelle sue Vite dei Papi, descrivendo Paolo II, come il più crudele dei tiranni, che si dilettava a torturare e straziare gli eruditi in Castel Sant'Angelo, divenuto perciò un vero «toro di Falaride». Avendo le biografie del Platina avuto una grande popolarità, Paolo II passò ai posteri come un mostro, e l'erudito ottenne per qualche tempo il suo scopo. Ma il merito principale del libro e la ragione della sua fortuna stavano sopra tutto nello stile: la critica storica dell'autore era assai debole. Bisogna però convenire che egli tentò un'impresa difficilissima, alla quale neppure oggi basterebbero le forze d'un uomo solo, per quanto dotto e d'ingegno, e riuscì la prima volta a cavare dalle favolose cronache del Medio Evo un compendio storico assai chiaro, nel quale sono molti modelli della biografia erudita del secolo XV, che si leggono volentieri, perchè l'autore cercava sinceramente la verità storica, quantunque non sempre la ritrovasse. Avvicinandosi ai suoi tempi, l'importanza ed il valore delle biografie crescono, quando però non lo acceca la passione. Gli altri suoi lavori storici hanno minor pregio. Egli morì nel 1481, in età di 61 anno.

A Roma, accorrevano anche allora, come già notammo, non solo Italiani, ma stranieri, specialmente Tedeschi, e fra questi meritano una particolar menzione tre giovani, Conrad Schweinheim, Arnold Pannartz, Ulrich Hahn, i quali avevano nel loro paese lasciato le officine di Faust e Schöffer, e verso il 1464 portarono l'arte della stampa in mezzo a noi. Essi dovettero combattere con la fame, e vincere immense difficoltà, perchè in Italia la passione degli antichi codici era tale, che molti, fra cui, come vedemmo, lo stesso duca d'Urbino, preferivano i volumi manoscritti agli stampati. Pure la nuova industria si diffuse rapidamente, e prima del 1490 si stampava già in più di trenta delle nostre città.

Nel 1469 moriva ed era poi sepolto in San Piero in Vincoli il celebre cardinale Niccola di Cusa, chiamato il Cusano, che, nato da un pescatore della Mosella, aveva studiato a Padova, ed era divenuto uno dei pensatori più illustri del secolo. Egli precedette il Piccolomini ed il Valla nel porre in dubbio l'autenticità della donazione di Costantino, ma non combattè il potere temporale dei Papi. Più tardi mutò alquanto le sue opinioni, e venne poi fatto cardinale; ma il suo carattere si mantenne sempre integro. Avverso all'autorità d'Aristotele, ingegno filosofico di grandissima originalità, panteista, ed in ciò vero precursore di Giordano Bruno, più che erudito fu un vero pensatore. Nel 1461 venne la prima volta a Roma un altro straniero, Giovanni Müller o sia il celebre Regiomontanus, dotto nel greco, sommo per quei tempi nelle matematiche e nell'astronomia; egli fu da Sisto IV incaricato della riforma del Calendario, e morì a Roma nel 1475. Nell'82 venne Giovanni Reuchlin, il quale fece più tardi esclamare all'Argiropulo, professore nell'Università di Roma, che le Muse della Grecia passavano le Alpi per emigrare in Germania. Colà infatti l'erudizione s'era allora propagata, e portava già i suoi frutti. Il sole della nuova cultura italiana, levatosi in alto, illuminava tutta l'Europa; ma sorgeva sempre dall'Italia, che era più che mai l'antica madre del sapere.

Dalla morte di Paolo II a quella d'Alessandro VI, le cose in Roma peggiorarono assai, e i Papi pensarono a ben'altro che agli eruditi, all'erudizione o alle arti belle. Pure Sisto IV aprì la Vaticana al pubblico, e compiè molte costruzioni importanti nella Città. Nè, per lungo tempo ancora, l'ammirazione a tutto ciò che era antico, si spense nel popolo, come prova un fatto seguìto appunto in quegli anni. Nell'aprile del 1485 si sparse la voce che alcuni muratori, scavando nella via Appia, presso il sepolcro di Cecilia Metella, avevano in un sarcofago romano trovato il cadavere d'una «formosa e pulita giovane,» Julia filia Claudi, secondo l'iscrizione, che alcuni pretendevano avervi letta: «era adornata sua trezza bionda da molte e ricchissime pietre preziose.... e erano suoi chiome d'oro ligate cum una bendella di seta verde.» Altri scrivevano invece che i capelli erano neri, che iscrizione nel sarcofago non v'era; ma che Pomponio Leto credeva fosse il cadavere d'una figlia di Cicerone. Certo lettere e cronache del tempo sono piene del fatto, e vanno d'accordo nel ripetere, che il cadavere era maravigliosamente conservato; che gli occhi, la bocca si potevano aprire e chiudere, le membra muovere; la bellezza del volto superava ogni immaginazione. Tutto ciò provava «quanto li antiqui nostri studiavano li animi gentili farli inmortali, ma ancora li corpi, neli quali la natura per farli belli havea posto ogni suo inzegno.» Si disse che i muratori erano fuggiti con le gioie ritrovate; certo è che, quando il cadavere venne portato in Campidoglio, una moltitudine, che qualcuno fece ascendere fino a ventimila persone, andò in pellegrinaggio a vederlo. Vi fu chi suppose ai nostri giorni, che il cadavere avesse una maschera in cera, come se ne trovarono a Cuma ed altrove. Ma dagli scrittori contemporanei apparisce invece, che esso era stato artificialmente conservato, con qualche processo simile a quelli adoperati dagli Egizi. In ogni modo, ciò che destava così grande entusiasmo era la convinzione allora universale, che una bellezza antica dovesse essere immortale e superiore ad ogni bellezza vivente. Tale sembrava davvero il pensiero o meglio l'illusione del secolo. Ma tutto questo mondo erudito era adesso assai vicino a crollare, e ben presto doveva sembrare come l'eco d'una società che s'andava allontanando. Una dura realtà apparecchiava nuove e ben più tristi esperienze: sotto Innocenzo VIII ed Alessandro VI ogni cosa doveva andare a rovina in Italia.

4. - MILANO E FRANCESCO FILELFO.

Dopo di Firenze e Roma, le altre città italiane hanno assai minore importanza per la storia delle lettere. Anche nelle repubbliche come Genova e Venezia, esse fiorirono più tardi assai che in Toscana. Napoli era stata troppo lungamente in una quasi anarchia, ed a Milano poco si poteva sperare sotto un mostro come Filippo Maria Visconti, un capitano di ventura come Francesco Sforza, o un giovane dissoluto e crudele come il figlio di lui, Galeazzo Maria. Eppure tali erano allora le condizioni dello spirito italiano, che nessuno poteva o sapeva allontanarsi affatto dagli studi, e dal proteggere gli studiosi. Lo stesso Visconti sentiva il bisogno di leggere Dante ed il Petrarca, e cercava d'avere intorno a sè alcuni dotti. Era però difficile trovare chi a lungo volesse rimanere presso di lui. Il Panormita, uomo assai poco scrupoloso, non fu trattenuto neppure da un soldo di 800 zecchini, ed andò via a cercare fortuna altrove. L'uomo fatto proprio per quella Corte era solo Francesco Filelfo da Tolentino, che vi trovò un sicuro asilo donde insultare da lontano i suoi nemici, e vivere adulando o vendendo la propria penna. Costui si credeva ed era generalmente creduto uno dei più grandi ingegni del secolo; ma, privo invece d'ogni vera originalità, aveva una dottrina assai confusa ed incerta. Mandato dalla repubblica veneziana ambasciatore a Costantinopoli, dove sposò la figlia del suo maestro di greco, Emanuele Crisolora, tornò in Italia nel 1427, in età di 29 anni. Portò molti manoscritti, parlava e scriveva greco, aveva una grande facilità nel compor versi latini, e ciò bastava allora a farlo subito giudicare uomo straordinario. La sua immensa vanità, il suo carattere irrequieto fecero il resto. Chiamato ad insegnare nello Studio fiorentino, scrisse subito a tutti che aveva avuto felicissimo successo: «perfino le nobili matrone, egli diceva, mi cedono il passo nella via!» Ben presto però fu in guerra con tutti; divenne aspro nemico dei Medici, e si unì a coloro che volevano uccidere Cosimo, quando era ancora prigioniero in Palazzo Vecchio; finalmente dovette fuggirsene a Siena, dove corse pericolo d'essere ammazzato da uno che egli credè sicario dei Medici. Intanto a Firenze era processato e condannato come cospiratore contro la vita di Cosimo, di Carlo Marsuppini e d'altri.

A Siena scrisse le sue Satire oscene contro Poggio; più tardi lo troviamo a Milano, dove riceve uno stipendio di 700 zecchini l'anno, e la casa; esalta la virtù e sopra tutto la liberalità del suo «divino principe,» Filippo Maria Visconti, quel tiranno cui non sarebbe facile trovar l'eguale in perfidia e crudeltà. Morto il Visconti e proclamata la Repubblica Ambrosiana a Milano, lodò i nuovi Padri Coscritti; poi fece parte della deputazione che andò a portare le chiavi di Milano a Francesco Sforza, in onore del quale scrisse il suo gran poema, La Sforziade.

Autore fecondo di biografie, satire, epistole, la sua eloquenza somigliava, come disse il Giovio, ad un fiume non contenuto da argini, che straripa ed intorbida ogni cosa. Pure egli si teneva il dispensatore della immortalità, della fama e dell'infamia. Quando dovè scrivere in italiano un comento al Petrarca, deplorava l'avvilimento cui era condotta la sua epica musa. A vendere però i suoi versi latini e le sue lodi al maggiore offerente era sempre pronto, e non si vergognava.

Le sue opere principali, oltre le Satire, furono due, e restarono inedite, senza gran danno delle lettere. La prima, intitolata De Iocis et seriis, è una raccolta d'epigrammi, divisa in dieci libri, ognuno di mille versi, secondo la retorica, artificiosa sempre, dell'autore. Piena di facezie, d'insulti osceni e poco poetici, sembra avere per unico scopo dimostrare la facilità dell'autore nello scrivere versi, e guadagnar danari con basse adulazioni o più basse ingiurie. Ora è la figlia che non ha dote, o le vesti di lei sono lacere; ora la musa del Filelfo tace per mancanza di danari, ed egli supplica, tra minaccioso ed umile, per averne. Il 18 giugno 1459, quando lavorava a quest'opera, egli scrisse al cardinal Bessarione: «Ora che sono libero dalla febbre, vengo a soddisfare il mio debito verso di voi e verso il Santo Padre Pio II, cioè a scriver dei versi ricevendo in cambio danaro.»

Nè diversamente si condusse, quando scriveva l'altra sua opera, del pari inedita, La Sforziade, in 24 canti, dei quali si trovano nelle biblioteche solo dieci. Essa pretende di essere un poema epico sulle imprese dello Sforza, a cominciare dalla morte di Filippo Maria Visconti. In versi sempre facili, che imitano Virgilio e più spesso Ovidio, l'autore esalta fino alle stelle tutte le azioni, le perfidie stesse del suo eroe. Gli Dei dell'Olimpo, qualche volta anche Sant'Ambrogio o altri santi cristiani, sono i veri attori di questo dramma; ma essi restano sempre mere astrazioni, e riescono solo a togliere ogni personalità all'eroe del poema. La vera poesia manca sempre, ed il Filelfo ha più ragione che non crede, quando dichiara che la musa davvero ispiratrice è per lui il danaro. Quando doveva chiamar sulla scena qualche nuovo personaggio allora vivente, cominciava subito a patteggiare. Guai a chi non lo pagava! E così riceveva danari, commestibili, cavalli, vesti, ogni cosa. Diceva di esser povero e di aver fame, quando viveva nel lusso con sei persone di servizio e sei cavalli. Deplorava la miseria in cui era, secondo lui, tenuta la sua musa immortale; si vergognava di stentare, ma non di pitoccare. E tutti gli davano ascolto, perchè temevano i suoi versi. Perfino Maometto II liberò dalla prigionìa la suocera e la cognata del Filelfo, quando questi gli mandò un'ode ed una lettera in greco, che diceva: «Io sono uno di coloro i quali, celebrando con la eloquenza i fatti illustri, rendono immortali coloro che di natura sono mortali, ed ho intrapreso a narrare le vostre gesta gloriose, che, per le colpe dei Latini e la volontà di Dio, vi hanno dato la vittoria.» Una eguale condotta tenne nello scrivere le Satire, che furono cento, divise in dieci decadi, e ogni satira essendo di 100 versi, era da lui chiamata Hecatostica.

Di Roma non fu molto contento il Filelfo. Ebbe da Niccolò V, è ben vero, un dono di 500 ducati d'oro, quando gli lesse le Satire; fu colmato di gentilezze; gli fu dato l'incarico di tradurre Omero con l'offerta di lauto stipendio, di donativi, casa e altro ancora, se accettava. Ma egli ricusò tutto, avendo altre mire. Dopo la morte della sua prima moglie aveva fatto capire che sarebbe andato a Roma, quando gli avessero dato prima o poi un cappello cardinalizio, e ripetette la stessa dichiarazione dopo la morte della seconda moglie. Non essendo riuscito nell'intento, prese una terza moglie, e respinse per sempre ogni invito. Morto lo Sforza, però, tutto mutò per lui; egli cadde nella miseria, e dovè raccomandarsi a Lorenzo dei Medici, che lo richiamò allo Studio in Firenze, dove, arrivato in età di 83 anni, nel 1481, esausto di danari e di forze, dopo poco morì. Il Filelfo fu un esempio di quel che potevano allora una grande memoria, una grande facilità nello scrivere o parlare varie lingue, una grandissima petulanza e superbia, senza carattere, senza moralità e senza originalità.

Egli non fu certamente il solo erudito a Milano. Al tempo di Francesco Sforza vi troviamo, come già si disse, Cicco Simonetta, segretario dottissimo; Giovanni fratello di lui e storiografo del Duca, di cui narrò le vicende dal 1423 al '66, in una storia che non è senza pregio, perchè egli descriveva ciò che aveva veduto; Guiniforte Barsizza, maestro dei due figli del Duca, Galeazzo Maria e Ippolita divenuta celebre pei suoi discorsi latini. Battista Sforza, figlia d'Alessandro, signore di Pesaro e fratello di Francesco, anch'ella celebre pei suoi discorsi latini, fu del pari educata in questa Corte. Ma tutto ciò non basta per dare a Milano un valore suo proprio nella storia dell'erudizione.

5. - GLI ERUDITI A NAPOLI.

Alfonso d'Aragona, uomo di guerra, ma anche d'ingegno non comune, seppe dare alla sua Corte una importanza maggiore. Egli abbandonò con singolare rapidità il suo carattere nazionale, per divenire affatto italiano, e gareggiare coi nostri principi nel proteggere le arti; cercare codici antichi; studiare i classici; circondarsi di letterati, pei quali, secondo Vespasiano, spendeva 20,000 ducati l'anno. Tito Livio era il suo idolo, tanto che raccontavano come Cosimo dei Medici, volendo pacificarlo, gl'inviasse un codice prezioso delle opere di quello storico. Ai Veneziani scrisse pregandoli che gli ottenessero da Padova un osso del braccio di Livio, quasi fosse sacra reliquia. Camminando col suo esercito, gli fu un giorno indicata Sulmona, patria di Ovidio, e subito si fermò abbandonandosi ad esclamazioni di gioia: il suo solenne ingresso in Napoli lo fece passando per la breccia, ed imitando in tutto un trionfo romano.

Il Trapezunzio, il Valla, il Fazio, il Beccadelli, Porcellio de' Pandoni furono lungamente alla sua Corte, e per breve tempo vi furono anche il Filelfo, il Gaza, il Manetti, il Piccolomini. Tutti erano trattati con splendore e con gentilezza. Quando il Fazio ebbe finito la sua Historia Alphonsi, il Re, che pur gli dava 500 ducati l'anno, fecegli il dono di altri 1500, dicendo: «con ciò non intendo pagare la vostra opera, che non potrebbe aver prezzo.» Quando invitò il Manetti che fuggiva da Firenze, gli disse: «dividerò con voi il mio ultimo pane.»

Uomo senza pregiudizî, in guerra continua coi Papi, egli dava asilo e protezione ai dotti, quali che si fossero le loro opinioni, e garantiva ad essi piena libertà di parola, difendendoli dall'Inquisizione e da ogni pericolo. Così il Valla, che fu l'erudito più celebre nella Corte, potè scrivere contro i preti, contro i Papi, ed esporre liberamente negli scritti, dalla cattedra, le sue opinioni religiose e filosofiche. Tutto ciò dava una fisonomia propria, una importanza speciale alla società erudita in Napoli. Lo stesso fu di Antonio Beccadelli più noto col nome di Panormita. Nato a Palermo nel 1394, egli dopo avere studiato a Padova, aveva ad un tratto acquistata una clamorosa celebrità, scrivendo un libro che fece grandissimo scandalo per le sue indecenze, allora non anche molto in uso negli scritti degli eruditi. Quest'opera che porta il titolo di Hermaphroditus, è una raccolta d'epigrammi, i quali per arguzie spudorate, per frivolità indecenti, superarono quanto s'era scritto fino allora ad imitazione dei satirici romani. Non solo il mal costume in genere, ma oscenità e vizî d'ogni sorta formavano l'argomento continuo de' suoi versi, i quali non essendo privi d'eleganza, e molte difficoltà di stile o di lingua avendo superate, ottennero grandissimo favore. Ma gli attacchi contro di lui furono pure assai vivi. Egli però, senza punto perdersi d'animo, menò vanto del suo libro, perchè aveva imitato gli antichi, e dimostrato che il latino poteva adoperarsi a dire ogni cosa. Si difese citando Tibullo, Catullo, Properzio, Giovenale, ed anche filosofi o politici greci e romani che, pure essendo virtuosi, avevano scritto simili oscenità, ed aggiungeva che se tali erano le sue poesie, la sua vita era invece senza macchia. Il rumore continuò tuttavia assai grande. Poggio, che non era certo scrupoloso, lo biasimò; i frati Minori lo fulminarono dal pergamo, e secondo il Valla lo bruciarono anche in effigie. Ma Guarino Veronese, dotto assai celebrato, vecchio allora di 63 anni, padre di molti figli, carattere intemerato, incapace egli stesso d'imitarlo, pur lo difese arditamente, deridendone i detrattori, i quali «non sanno, egli diceva, che la vita ha uno scopo, la poesia un altro.» E queste erano veramente le idee del secolo. Sigismondo re dei Romani coronò il Panormita in Siena poeta laureato, e l'Ermafrodito fece scuola, tanto che lo scrivere indecenze latine fu d'allora in poi quasi un pregio per l'erudito italiano. Alfonso, non curandosi punto delle accuse lanciate contro il poeta, fermo nel voler dare asilo a tutti coloro che gli altri perseguitavano, tenne sempre il Panormita in grande onore. E questi scrisse i suoi Dicta et facta Alphonsi, ricevendone in premio mille ducati; poi, Alphonsi regis triumphus, lettere, orazioni, poesie latine, tutte opere che lo dimostrano facile scrittore senza merito singolare. Leggeva e commentava al Re Livio, Virgilio, Seneca; venne dichiarato nobile; ebbe una villa e molti danari. Bartolommeo Fazio e gli altri erano uomini anche di minor valore. Ma l'ingegno veramente originale della Corte restò sempre il Valla, che contribuì non poco ad alimentare in Napoli lo spirito critico e filosofico, cui per natura quel popolo è inclinato. Un altro uomo eminente era colà Giovanni Gioviano Pontano; ma questi fiorì più tardi, ed appartiene ad un periodo successivo nella storia delle nostre lettere.

6. - I MINORI STATI ITALIANI.

Se noi ci volgiamo alle piccole città ed ai minori Stati

d'Italia, vi troviamo la società sottoposta ad un numero così grande di scosse continue e violenti, lacerata da tanti e così sanguinosi delitti, che riesce impossibile immaginare come le arti e le lettere vi potessero mai fiorire. I piccoli tiranni erano di continuo esposti agli assalti dei vicini, o alle congiure che scoppiavano ogni giorno nei loro Stati. Quando si trattava di città come Ferrara o Bologna, la posizione strategica della prima, l'importanza del territorio che aveva la seconda, davano certo occasione a sempre nuove e mutabili vicende. Quando si trattava di principi come Alessandro Sforza di Pesaro, che aveva il sostegno del fratello a Milano, o di Federico d'Urbino, che era valoroso capitano di ventura, e poteva difendersi col suo proprio esercito, allora, se non s'evitavano sempre i pericoli, si riusciva almeno più facilmente a salvare lo Stato. Ma là dove simili aiuti mancavano, noi abbiamo una serie non interrotta di fatti sanguinosi, simili a quelli dei Baglioni in Perugia. Questi non arrivarono mai nella città ad una signoria sicura: era il predominio d'una famiglia, con un capo non sempre riconosciuto in essa, e un forte partito avverso, alla testa del quale si trovavano gli Oddi. Tutto era pieno d'armi e di bravi, e da un momento all'altro scoppiavano tumulti violenti. Verso la fine del secolo XV gli scontri dentro e fuori della città furono tanti e tali, che le case del contado ne cadevano in rovina, i campi erano devastati, i contadini facevano gli assassini, i cittadini si davano alle bande di ventura, e i lupi mangiavano «carne di cristiani.» Eppure era questo il tempo, in cui fioriva a Perugia la più nobile, ideale e delicata pittura della scuola umbra: era sempre il contrasto medesimo che allora s'osservava per tutto in Italia.

Sigismondo Pandolfo Malatesta di Rimini fu un altro dei piccoli tiranni, e fra i più singolari. Capitano di ventura rinomato, quantunque non avesse mai comandato grossi eserciti, si dimostrò più volte un vero mostro di crudeltà. Respinse la sua prima sposa, dopo averne ricevuta la dote; la seconda e la terza ammazzò per gelosia o vendetta; amò per altro con ardore fino alla morte la sua concubina Isotta. Insanguinato in mille delitti, era irreligioso e cinico oltre misura. Sulla sua tomba volle che si ponesse questa iscrizione:

Porto le corna ch'ogn'uno le vede, E tal le porta che non se lo crede.

Negava Iddio, negava l'immortalità dell'anima, e quando arrivavano le scomuniche del Papa, domandava se gli scomunicati continuassero a gustare il buon vino ed i buoni pranzi. In occasione d'una gran festa, fece empire d'inchiostro la pila dell'acqua benedetta, per ridere dei fedeli che, senza avvedersene, si tingevano il volto. Eppure anch'egli era circondato di letterati, ad alcuni dei quali donò terre, ad altri assegnò stipendî; e nel suo castello, Arx Sismundea, essi lodavano il principe e il suo amore per la bella Isotta, a cui fu innalzato nella chiesa di San Francesco un monumento, Divae Isottae sacrum, accanto a quello del suo amante. La chiesa stessa, a cui lavorò Leon Battista Alberti dal 1445 al 50, e che riuscì uno dei più eleganti, dei più belli edifizî del Rinascimento, porta in fronte il nome di Sigismondo, e nei fregi le lettere S(igismundus) ed I(sotta). Nei due lati esteriori si trovano nicchie destinate a servir di tomba ai soldati ed agli eruditi della Corte. E tutto questo non era in lui affettazione; rispondeva invece ad un bisogno reale del suo spirito culto ed artistico. Pio II che fu in aspra guerra con lui, e lo bruciò in effigie, scrisse, che egli «conosceva le istorie, aveva una grande cognizione della filosofia, e sembrava nato a tutto ciò che intraprendeva.»

A Ferrara, a Mantova, Urbino, le cose pigliavano ben diverso aspetto. Senza essere grandi centri, come Roma e Firenze, esse riuscirono ad avere una fisonomia ed importanza propria nella storia delle lettere. Più di tutte fu celebre Ferrara. La sua posizione strategica la rese in mezzo alle sue varie vicende, indipendente, non potendo nessuno dei grandi Stati italiani permettere che altri se ne impadronisse. I Signori d'Este che la dominarono e fortificarono, furono uomini d'ingegno e spesso anche di molto valor militare. Nell'interno del palazzo ducale seguirono spesso scene di sangue. Parisina, moglie del bastardo Niccolò III, innamoratasi d'un figlio naturale del marito, ebbe con l'amante tronca la testa (1425). E il Duca dovette poi consolidare il suo regno, combattendo l'avversa nobiltà, con ogni arte di guerra, con ogni sorta di tradimento. Succedono due bastardi di questo bastardo, Lionello e Borso. Più tardi Ercole, figlio legittimo di Niccolò III, strappa colle armi il dominio di mano al figlio di Lionello, facendo sanguinosa strage dei nemici. E così si continuò anche nel secolo XVI, quando il cardinale Ippolito fece cavare gli occhi al fratello Giulio, altro bastardo, perchè lodati dalla donna che corteggiavano insieme, e che ne adduceva al Cardinale la irresistibile bellezza, come causa della sua preferenza. L'operazione fu male eseguita, e dètte occasione ad altre tragedie nella infausta Corte, perchè Giulio, che era restato con un occhio solo, cospirò insieme con don Ferrante contro il comune fratello, il duca Alfonso I, marito di Lucrezia Borgia. Il Cardinale rivelò la trama (1506), e i due fratelli furono condannati al carcere perpetuo, in cui don Ferrante morì, e donde Giulio fu liberato solo quando successe il duca Alfonso II (1559).

Pure questa appunto fu la Corte tanto celebrata per lo splendore di lettere e di arti fino ai tempi del Boiardo, dell'Ariosto e del Tasso, che la illustrarono coi loro nomi, colle loro opere immortali. Nel Medio Evo essa era stata città longobarda, feudale e cavalleresca, e non aveva nei secoli XIII e XIV partecipato al gran moto letterario che s'era visto a Firenze. Nel secolo XV fu invece una delle città d'Italia per lettere e cultura più fiorenti. I disordini della Corte, circoscritti principalmente dentro le mura del palazzo ducale, sembrava che di rado turbassero la città. Costruita secondo un disegno prestabilito, amministrata con ordine, v'accorrevano esuli da Firenze e da altre parti d'Italia; vi si fermavano, v'edificavano palazzi. Le vie, le case ora deserte, bastavano allora appena a contenere la popolazione. I suoi duchi provvedevano a tutto, e vi chiamavano dotti, fra i quali tiene il primo posto Guarino Veronese, che portando l'erudizione a Ferrara, dove così vive erano le tradizioni feudali e cavalleresche, vi promosse quel rinascimento letterario che ci dètte poi l'Orlando Innamorato, l'Orlando Furioso e tanti altri lavori, di cui la fama non perirà mai.

Nato nel 1370 imparò il greco a Costantinopoli, di dove tornò con una ricca mèsse di codici, che gli erano così cari da far generalmente prestar fede alla favola, che egli incanutisse a un tratto, per averne perduto buona parte in un naufragio. Insegnò prima a Firenze, poi a Venezia, dove ebbe a discepolo Vittorino da Feltre, nel quale infuse la sua dottrina e i suoi principî educativi. Chiamato nel 1424 da Niccolò III, per esser maestro di Lionello e professore nell'Università, dandosi con febbrile ardore al doppio ufficio, scrisse un numero assai grande di opere: traduzioni di Plutarco, Platone, Strabone e Luciano; biografie, grammatiche e più di cinquanta orazioni. Il merito principale di lui sta più che altro nel suo nobile carattere e nel suo insegnamento, nel quale ebbe grande originalità, e da cui ottenne resultati singolarissimi. Buon padre di famiglia, temperato e sobrio nel vivere, non mai maldicente, viveva fra i suoi scolari, dei quali aveva sempre piena la casa. Si diceva che erano usciti più dotti dalla sua scuola che Greci dal cavallo troiano. E veramente più di trenta de' suoi alunni furono celebrati come eruditi, sebbene Vittorino da Feltre fosse il solo che arrivasse ad una fama duratura. Ma l'opera di Guarino va misurata dall'impulso che dètte agli studî in Ferrara, la quale fu dal suo insegnamento e dal governo di Lionello e Borso d'Este, suoi alunni, trasformata in una piccola Atene italiana. Egli continuò a lavorare con lo stesso zelo fino alla sua morte, avvenuta il 4 dicembre 1460, novantesimo della sua età, quando spirò fra le braccia de' suoi, amato e venerato da tutti.

I Gonzaga di Mantova, alcuni dei quali comandarono poderosi eserciti, non commisero mai quei delitti che resero così sanguinosa la storia degli Este. La loro Corte, è vero, fu assai splendida solamente nel secolo XVI, ai tempi del Bembo, del Bandello, dell'Ariosto e del Tasso, massime quando viveva la buona marchesa Isabella. Pure nel secolo XV Mantova fu illustrata dalla dimora colà di Vittorino Rambaldoni da Feltre (n. 1378, m. 1446), il primo educatore moderno, ed il più illustre discepolo di Guarino. Chiamato (1423) da Gio. Francesco Gonzaga, che gli dètte un lauto stipendio ed un locale, fondò in esso il suo celebre convitto, che prese il nome di Casa gioiosa, o semplicemente Gioiosa. Secondo alcuni avrebbe avuto questo nome per l'allegria che vi dominava in conseguenza dei buoni principî pedagogici; ma il vero è che l'edilizio in cui fu messo il convitto aveva già prima il nome di Zoiosa. Vi s'insegnavano le lingue classiche, per le quali furono chiamati Greci assai rinomati, come il Gaza ed il Trapezunzio. A queste e ad altre discipline comuni alle scuole di quel tempo, s'aggiungevano la musica, la danza, il disegno, la ginnastica, l'equitazione. Il principio su cui si fondava la scuola di Vittorino, era: educare con la mente il corpo, per formare il carattere. E ciò potette riuscirgli principalmente perchè egli era un uomo d'animo elevato e nobilissimo, che spendeva tutto il suo stipendio per dare educazione gratuita ai poveri, i quali si trovavano nella sua scuola accanto ai figli del marchese di Mantova ed al giovane Federico da Montefeltro, che fu poi il celebre duca d'Urbino. Ed anche questa comunanza ed uguaglianza d'ogni ordine di cittadini nella scuola, era voluta dai principii pedagogici di Vittorino, che fu il primo a condurre l'istruzione e l'educazione secondo norme scientifiche. I buoni frutti della Casa gioiosa si videro non solo a Mantova, ma anche altrove, giacchè per lungo tempo si riconobbero gli alunni di Vittorino da una lealtà di carattere, che faceva singolare contrasto con la generale corruzione di quei tempi.

Ed a questa educazione si dovette in gran parte, se la Corte d'Urbino divenne un modello fra quelle d'Italia; se il duca Federico fu buono, leale e fedele, sebbene capitano di ventura. Celebrato universalmente per la sua capacità strategica, per la disciplina de' suoi soldati, e per essere allora il solo capitano, che non mancasse mai alla fede giurata o alla parola data: conosceva il latino, la filosofia, la storia; leggeva i classici e disputava assai volentieri di teologia. Queste cognizioni unite a quelle acquistate nel campo e nel governo, lo condussero a possedere, o almeno ad intendere quasi tutto lo scibile de' suoi tempi. La sua vita procedeva con ordine, come un orologio, e dei ritagli di tempo profittava sempre per disputare ed istruirsi. Accompagnando Pio II a Tivoli, sotto la sferza del sole, fra la polvere sollevata dai cavalli, al luccicare degli elmi e delle spade, discorreva col dotto Papa sulle armi degli antichi, sulla guerra troiana, e non riuscivano a mettersi d'accordo intorno ai confini dell'Asia Minore. Il danaro raccolto dalle ricche paghe avute come capitano di ventura, spendeva nella pace a rendere più splendida la città e la Corte d'Urbino. Sembrava che del suo Stato volesse fare quasi un'opera d'arte. Il palazzo da lui costruito fu dei più celebri in Italia, non per ricchezza o sfoggio d'architettura, ma per gusto squisito. Vi teneva più centinaia di persone, a ciascuna delle quali affidava un ufficio determinato, con orario preciso e istruzioni scritte. Era come una grande scuola militare, alla quale molti signori mandavano i loro figli, per educarli alla disciplina delle armi ed alla eleganza dei modi. Il suo tesoro principalissimo era la ricca biblioteca, nella quale spese 30,000 ducati, occupando per quattordici anni da trenta a quaranta copisti, in Urbino, Firenze ed altrove. Procedette nel comporla con ordine grandissimo, seguendo in parte il concetto del Parentucelli, ma cercando d'abbracciare tutto quanto lo scibile antico e moderno. Così riuscì allora una cosa unica al mondo. Circondato da artisti italiani e stranieri, da soldati, non aveva seco gran numero d'eruditi; ma molti di essi corrispondevano con lui, e gli dedicavano le loro opere. Passeggiava disarmato in mezzo al popolo; desinava frugalmente all'aperto, ascoltando la lettura di Livio o d'altri antichi. Verso sera assisteva agli esercizî militari e ginnastici, che facevano i giovani sul prato di San Francesco. Il popolo amava il suo Duca, e i successori di lui ne seguirono le tradizioni. Non si può dire che Urbino dèsse uno straordinario impulso alla cultura letteraria in Italia; ma si può ben dire che fu come uno splendido gioiello in mezzo agli Appennini, una città esemplare, la patria di molti uomini grandi, e di Raffaello che vale per tutti.

7. - L'ACCADEMIA PLATONICA.

Gli scrittori fino ad ora notati vissero, lo abbiamo già detto, in mezzo ad una moltitudine di altri, i cui nomi, celebri al loro tempo, andarono a poco a poco più o meno dimenticati. Non v'è stato invero un secolo che abbia dato luogo nella storia ad una così grande ecatombe di supposte celebrità, come il secolo XV. E ciò si spiega facilmente, perchè allora vi fu un doppio lavoro. Da un lato, volendo far rinascere l'antichità, sì dètte opera ad una imitazione e riproduzione assai spesso meccanica del passato, alla quale cooperarono coloro che sono stati poi dimenticati; dall'altro si ottenne un resultato nuovo ed inaspettato, che fu l'opera d'un numero assai minore di dotti, i cui nomi la storia deve più specialmente ricordare. E questo doppio ordine di fatti e di uomini si ritrova in quasi tutta la cultura del Rinascimento, nella filosofia non meno che nelle lettere. La filosofia sembra avere una grandissima e generale importanza fra gli eruditi; ma la più parte di essi avevano solo cavato dagli antichi scrittori un florilegio di frasi sulla gloria, sull'amicizia, sul disprezzo della morte, sul Sommo Bene, sulla felicità, la virtù, e le ripetevano sempre, senza che valessero mai a dirigere in qualche modo le loro azioni, nè a formare le loro convinzioni. In quelle frasi noi vediamo di continuo una strana mescolanza di Paganesimo e di Cristianesimo, che si trovano accanto ed in contradizione fra loro, senza che di ciò lo scrittore si occupi punto. Ben presto però si manifesta il bisogno di trovare alla vita umana un fondamento razionale, filosofico, il quale valga a spiegare ad un tempo la virtù pagana e la cristiana, facendo scomparire la troppo visibile contradizione. Allora incominciò il lavoro più o meno originale, iniziato dai neoplatonici e dall'Accademia che essi fondarono in Firenze.

Gli esuli greci non contribuirono tanto alla diffusione fra noi della loro lingua, che già s'era cominciata a studiare in Italia, e molto meno poi della erudizione letteraria assai fiorente prima del loro arrivo, quanto a rivolgere l'erudizione stessa verso lo studio dei filosofi antichi. La prima origine del platonismo o, per meglio dire, del neoplatonismo in Italia, si deve infatti a Giorgio Gemisto, soprannominato Pletone, per l'ammirazione che professava a Platone. Nato nel Peloponneso, secondo alcuni, secondo altri solo rifugiato colà da Costantinopoli, egli era il più dotto e autorevole di quanti Greci vennero al Concilio fiorentino. Ed era poi così convinto, anzi entusiasta del platonismo, che s'aspettava da esso anche un rinnovamento religioso. Ciò fece dire ai detrattori di lui, che voleva far rivivere il Paganesimo; ma stando ai suoi scritti, a quelli dei seguaci, ed a ciò che risultò veramente dalle sue dottrine, è più giusto il dire, essere egli convinto che il Cristianesimo avrebbe trovato nuova conferma nella filosofia di Platone, e poteva perciò, sotto altra forma e, secondo lui, più razionale, essere rinnovato. Esaminando le differenze che passano tra la filosofia platonica e l'aristotelica, in un opuscolo che divenne assai celebre, egli dava, come è facile immaginare, la preferenza alla prima, e riduceva tutta la controversia ad una sola questione. I due grandi filosofi ammettono, egli diceva, che la natura operi, non a caso, ma secondo un fine. Aristotele però sostiene che a questo fine si giunge inconsapevolmente, non consulto; Platone invece sostiene più giustamente, che la natura è razionale, è consapevole, consulto agit: la sua è un'arte divina, perchè è Dio che opera in essa. Un'ardentissima disputa sorse intorno a siffatta questione, la quale può sembrare a noi di nessuna importanza, ma ne aveva allora una grandissima. Per essa infatti s'apriva la via al panteismo, ed il concetto del Dio personale, che presso gli Ebrei era stato solo un Dio onnipotente, che nel Cristianesimo era divenuto il Dio padre dei credenti, si trasformava fra noi nel concetto dell'Assoluto filosofico. Gli eruditi greci e italiani, senza rendersi chiara ragione di ciò che facevano, presentivano pure l'importanza grandissima della questione, e però si fermavano tanto intorno ad essa.

Giorgio Scolario e Teodoro Gaza, ambedue greci ed aristotelici, attaccarono fieramente Pletone col solito linguaggio plateale degli eruditi d'allora. Il cardinale Bessarione, volendo metter pace, si lasciò sfuggire che giudicava Teodoro Gaza più dotto di Giorgio Trapezunzio, il quale con più furore che mai si scagliò contro tutti, attaccando lo stesso Platone. Il Bessarione pubblicò allora un'opera voluminosa, In Calumniatorem Platonis, nella quale, pur respingendo gli attacchi di G. Trapezunzio, cercava colla sua facile e molto diffusa eloquenza latina, priva d'ogni originalità letteraria o filosofica, di conciliare tutte le opposte sentenze. Secondo lui Aristotele e Platone dicevano, in sostanza, la medesima cosa. Questa disputa agitata fra i Greci non ebbe una vera importanza filosofica, restando là dove l'aveva lasciata G. G. Pletone; ma richiamò la mente degl'italiani ad una parte dell'erudizione che avevano fin allora troppo trascurata, essendo stato lo studio da essi fatto sui filosofi greci più che altro letterario. G. G. Pletone intanto, senza perder tempo nel rispondere alle ingiurie, prima di tornarsene in patria, seppe infondere nell'animo di Cosimo de' Medici tanta ammirazione per le dottrine platoniche, che lo lasciò deliberato a dare ogni opera per propagarle in Italia, e ripristinare in essa l'antica Accademia.

Ad ottenere questo scopo, Cosimo col suo pratico buon senso, capì che bisognava cercare prima di tutto un uomo adatto, e credè di averlo trovato in un giovinetto che, nato nel 1433 da un medico di Figline, s'era dato a seguir con ardore gli studî del padre. - Tuo figlio, disse Cosimo, è nato a curare gli animi, non i corpi; - e lo accolse, in età di 18 anni, nella propria casa, destinandolo ad essere il futuro campione del platonismo. Questo giovane era Marsilio Ficino, il quale, messosi all'opera con grandissimo zelo, dopo cinque anni di studio, presentò un lavoro sulla filosofia platonica, fatto però solo con le traduzioni. Cosimo lodò molto l'operosità del suo protetto, e gli regalò una villetta presso Careggi, ma gli consigliò di studiare il greco per lavorare sulle fonti. E da quel tempo sino alla fine di sua vita, il Ficino non fece altro che studiare Platone ed i neoplatonici, scrivendo un gran numero di traduzioni e di trattati originali aggiungendo a ciò l'insegnamento che dava ai figli ed ai nipoti di Cosimo, più tardi anche ad una numerosa scolaresca nello Studio fiorentino.

Chi espone le opere del Ficino fa la storia del platonismo in Italia; chi narra la vita di lui fa la storia dell'Accademia Platonica. I suoi seguaci si contentarono di ripeterne le idee, e l'Accademia nacque e morì con lui. Essa non era veramente altro che, una riunione di amici e discepoli, i quali, protetti dai Medici, si radunavano intorno a lui, per discutere di filosofia platonica. Somigliava alle riunioni tenute già nella cella del Marsigli o del Traversari; se non che alle adunanze dell'Accademia, i Medici, specialmente Lorenzo, assistevano più spesso, con più ardore le promovevano, e le materie filosofiche che in esse si disputavano, ebbero un'eco assai più clamorosa in tutta Italia. Alcune delle adunanze si tennero di state nella foresta di Camaldoli; altre più solenni si tenevano ogni anno in Firenze, e nella villa dei Medici a Careggi, il giorno sette di novembre, che, secondo la tradizione alessandrina, era il giorno della nascita e della morte di Platone. L'uso di celebrarlo con solennità, osservato fino ai tempi di Plotino e di Porfirio, veniva ora, dopo 1200 anni, così diceva il Ficino, ripreso. Si cominciava con un desinare, a cui seguiva una disputa filosofica, che finiva generalmente con un'apoteosi e quasi un inno religioso al sommo maestro. Riunioni e dispute meno solenni si tenevano in molte occasioni diverse, ma sempre nello stesso modo familiare e libero.

Il nome di Accademia veniva solo dalle dottrine professate ad imitazione di quelle di Platone. Non aveva, per quanto sappiamo, proprî statuti o regolamenti. S'adunava di solito nella villetta del Ficino presso Careggi; la tenevano unita la sua persona, la sua dottrina, l'ardore de' suoi amici e discepoli. Il che se da un lato la riduce a poca cosa come istituzione, da un altro ne accresce l'importanza storica, perchè la dimostra un prodotto naturale e spontaneo della società in cui nacque. Infatti, mutate appena le condizioni intellettuali e sociali che l'avevano creata, non fu più possibile mantenerla in vita. Essa procedette assai regolarmente fino al 1478; scoppiata allora la sanguinosa congiura dei Pazzi, e incominciate le persecuzioni, gli animi restarono turbati; mancò la tranquillità necessaria alle contemplazioni filosofiche, e le riunioni, già molto diradate, cessarono del tutto colla morte del Ficino. Quelle che si tennero dipoi negli Orti Oricellarî, alle quali assisteva anche il Machiavelli, avevano ben poco da fare col Platonismo, come dimostrano chiaro i suoi dialoghi Dell'Arte della Guerra, e le congiure che ivi si tramarono. Il nome di platoniche, che pure ebbero queste adunanze, si direbbe qualche volta un pretesto per nascondere il loro vero scopo. I tentativi fatti nel secolo XVII da Leopoldo de' Medici per ripristinare l'Accademia, appartengono ad un altro tempo, hanno altro significato, e ben poca importanza nella storia della scienza.

Quasi tutti coloro che scrissero dell'Accademia Platonica e del Ficino, si fermarono a raccogliere minutamente aneddoti biografici e letterarî, cose tutte che hanno un valore assai secondario. Importa invece moltissimo conoscere quale è il merito intrinseco delle dottrine, quale la ragione della grandissima popolarità che ebbero nel secolo XV, quale l'ingegno di coloro che le trovarono o propagarono. In verità, quando si guarda il numeroso elenco dei platonici che si raccolsero intorno al Ficino, reca meraviglia l'osservare che due soli meritano davvero qualche lode come scrittori di opere filosofiche. Uno di essi è Cristoforo Landino, il celebre commentatore di Dante e del Petrarca, ellenista reputato, professore nello Studio, autore delle Disputationes Camaldulenses, nelle quali si dà lungo e minuto ragguaglio delle platoniche discussioni. L'altro è Leon Battista Alberti, sommo artista, poeta, prosatore, erudito, scienziato, uomo universale, precursore di Leonardo da Vinci per la prodigiosa varietà delle sue doti intellettuali. Ad essi s'univano altri minori: Donato Acciaioli, Antonio Canigiani, Naldo Naldi, Peregrino Agli, Alamanno Rinuccini, Giovanni Cavalcanti, che era l'amico più intimo del Ficino, ed altri molti. Pure fra tutti costoro, senza eccettuare neppure il Landino e l'Alberti non se ne trova uno solo che sia vero filosofo: ripetono sempre le stesse idee, e sono le idee del Ficino. Ben si può ricordare che Angelo Poliziano e Lorenzo de' Medici, ingegni certo eminenti, furono anch'essi dell'Accademia Platonica; ma tutti i loro scritti li dimostrano letterati e non filosofi. Pico della Mirandola venne solamente più tardi, neppur lui con originalità filosofica, a farsi propagatore delle idee del Ficino. Ma, pochi o molti, di che cosa parlavano, quali erano e che valore avevano queste dottrine, che trovavano tanti e così ardenti sostenitori?

La nostra meraviglia in vero cresce quanto più noi ci avviciniamo ad essi. Nelle sue Disputationes Camaldulenses il Landino ci rappresenta gli Accademici, durante la state del 1468 nel delizioso convento di Camaldoli, adunati colà per godere il fresco, e disputare di filosofia. V'erano Lorenzo e Giuliano de' Medici, Cristoforo Landino e suo fratello, Alamanno Rinuccini, Leon Battista Alberti allora venuto di Roma e Marsilio Ficino. Dopo aver sentito la messa, andavano all'ombra, sotto gli alberi della foresta, ed ivi il primo giorno disputarono sulla vita contemplativa e sulla vita attiva, l'Alberti sostenendo con argomenti assai poco originali, doversi preferire la prima; Lorenzo de' Medici invece opponendogli che l'una e l'altra sono del pari necessarie. Nel secondo giorno si parlò del Sommo Bene, ed abbiamo una serie di vuote frasi e di citazioni classiche. Nel terzo e quarto l'Alberti dimostrò la sua platonica sapienza con un lungo comento su Virgilio, sforzandosi colle più strane allegorie di provare, che nell'Eneide si trova nascosta tutta quanta la dottrina platonica e tutta la dottrina cristiana, le quali in fondo sono per lui una sola e medesima cosa. E queste allegorie, le quali facevano dire ad Angelo Maria Bandini, nel riferirle, che i platonici gli sembravano spesso aver perduto la testa, sono ciò su cui essi più di tutto insistono, quasi fosse parte sostanziale della filosofia.

Noi ci volgiamo ora a cercare i discorsi tenuti in uno dei più solenni desinari dell'Accademia, che fu dato nella villa di Careggi, il 7 novembre 1474, per ordine di Lorenzo il Magnifico, sotto la presidenza di messer Francesco Bandini. Qui è lo stesso Ficino che ne stende la minuta narrazione. Gl'invitati al banchetto, scelti dal Bandini furono nove, perchè nove erano le Muse: Antonio degli Agli vescovo di Fiesole, Marsilio Ficino e suo padre, C. Landino, Bernardo Nuzi, Giovanni Cavalcanti, Tommaso Benci, Carlo e Cristoforo Marsuppini. Finito il desinare, cominciò la lettura del Simposio di Platone, e i discorsi tenuti in casa di Agatone furono stranamente esposti dai convitati. Fedro dice nel Simposio, che l'amore ispira l'eroismo, è nato subito dopo del Caos e prima degli altri Dei, è ammirato da chiunque ammira la bellezza. E il Cavalcanti comenta: Iddio principio e fine di tutti i mondi crea gli angeli, che a loro volta formano per mezzo dell'anima universale, creata da Dio, le terze essenze. Queste sono le anime di tutte le cose, e quindi anche dei varî mondi, ai quali dànno vita, perchè il corpo è formato dall'anima. Quando il Caos incomincia a pigliar forma, sente appetito di bellezza, cioè amore; e perciò appunto, secondo Platone, l'amore precede gli altri Dei, i quali sono una cosa stessa cogli angeli. E qui il Cavalcanti comincia a dimostrare come gli angeli sono la stessa cosa che gli Dei antichi, e come le terze essenze sono le idee di Platone e le forme di Aristotele ad un tempo. Ma non si contenta di ciò, e continua dicendo che le terze essenze, create dagli angeli, divengono a loro volta anch'esse identiche agii antichi Dei; e neppure basta, anzi segue una tal confusione da non potere più tener dietro all'autore. Giove è il cielo, Saturno e Venere sono i due pianeti di questo nome; ma essi sono anche le terze essenze o le anime del cielo e dei due pianeti; sono le tre Divinità degli antichi, ed anche tre angeli; sono finalmente l'anima del mondo in quanto essa intende, muove e genera. Ciò che risulta di più chiaro in mezzo a tanta confusione, si è che per gli accademici, Cristianesimo e Paganesimo debbono formare una sola e medesima cosa col Platonismo. L'allegoria è la chiave di vôlta di questo edifizio, o meglio artifizio, nel quale le cose non significano mai sè stesse, ma divengono geroglifici e simboli di altre; e siccome tutto ciò è arbitrario, così esse possono sempre significar tutto quel che si vuole.

Aristofane, uno degl'interlocutori, dice nel Simposio, che in origine v'erano tre sessi, uomini, donne e promiscui, cioè individui che, uomini e donne ad un tempo, avevano due teste, quattro mani, ecc. Questi esseri promiscui vollero lottare cogli Dei, e furono perciò divisi in due metà, una delle quali cerca sempre l'altra; quindi è che solo nella loro riunione possono gli amanti essere felici. Se però i mortali continuano nel proprio orgoglio, saranno puniti con una nuova divisione; e sarà curioso allora, prosegue Aristofane, vederli girare pel mondo come basso-rilievi, con mezza testa, con un occhio, una mano, un piede solamente. Il Landino, cui tocca comentare questo singolare discorso, non cerca l'origine della leggenda, nè la spiegazione mitologica di essa. L'anima, egli dice, fu creata da Dio integra, ornata di lume divino che guarda alle cose superiori, di lume naturale, ingenito che guarda alle inferiori. Ma l'uomo peccò di superbia, volle uguagliarsi a Dio, credendo che potesse bastargli il lume naturale, ingenito; il suo pensiero restò allora rivolto alle sole cose corporali, e la prima unità fu spezzata. Se continuerà nel suo orgoglio, affidandosi tutto al lume naturale, sarà punito di nuovo col perdere anche questo. Ecco la facile spiegazione di tutto.

Ultimo a parlare fu Cristoforo Marsuppini, il quale concluse comentando il bellissimo discorso di Alcibiade, e le parole che questi, in fine del Simposio, rivolge a Socrate. Il comento è fatto dall'oratore, esponendo le idee di Guido Cavalcanti sull'amore, e parlando del divino furore, pel quale l'uomo, sorgendo al disopra della propria natura, in Deum transit. Per esso Iddio trae l'anima caduta nelle cose inferiori, nuovamente alle superiori. E tutto finisce con un elogio dell'amor socratico, ed un inno al divino Amore o sia allo Spirito Santo, che ha ispirato la discussione ed illuminato gli oratori platonici.

Questi filosofi che vogliono avvicinare il Paganesimo ed il Cristianesimo, lo spirito e la materia, il divino e l'umano, Dio e il mondo, non riuscendo a trovare l'unità razionale di tutto ciò, riducono ogni cosa a simboli, a geroglifici. Eppure la grande popolarità e la immensa efficacia di questa filosofia sulla letteratura e sulla cultura del secolo, non può mettersi in dubbio da nessuno; non le si può quindi negare una grande importanza storica. E questa nasce da un nuovo modo di concepire il mondo, che apparisce chiaro abbastanza, anche in mezzo alla nebbia delle più strane allegorie. Pei platonici il mondo è divenuto il gran Cosmo fisico e morale, creato dall'amor divino, immagine del Dio che l'abita, e che essi risguardano non già come una persona vivente, ma come l'Unità suprema del tutto, lo Spirito universale, l'Assoluto. E questo concetto, per opera loro, penetra nella letteratura della seconda metà del secolo XV, la informa e ne determina il carattere. Quindi è chiaro che il Platonismo italiano, senza nessun grande valore scientifico, è pure un elemento importantissimo della nuova cultura.

Ma, per conoscerlo pienamente, è pur necessario fermarsi sulle opere di colui che seppe meglio formularlo ed insegnarlo. Marsilio Ficino ebbe una sconfinata ammirazione per tutta quanta la filosofia antica; lesse e volle assimilarsi Platone, Aristotele, i neoplatonici, ogni brano che trovava citato di Confucio, Zoroastro, ecc. Tutto ciò che essi dicono è sacro per lui, solamente perchè antico; e così i suoi scritti diventano una vasta congerie di elementi diversi, senza che egli ritrovi un vero principio dominatore ed organico, che possa valere a costituire un sistema, e dargli diritto al nome di filosofo originale. Le allegorie neoplatoniche, che G. Pletone e gli altri suoi connazionali portarono fra noi, sono il solo mezzo con cui egli sappia riunire i diversi elementi. Pure il Ficino si propose uno scopo assai notevole, che comincia a farci intravedere la sua importanza filosofica. In mezzo al trionfo dell'antichità pagana, egli vide che il Cristianesimo non poteva cadere; ma vide del pari che la sola autorità dei profeti, della Bibbia, della rivelazione non bastava più allora a sostenerlo e mantenerlo vivo negli animi. Bisognava dunque ricorrere alla ragione, a quella che era per lui la vera filosofia, cioè alla filosofia antica; ora fra i varî sistemi, quello che meglio di tutti si prestava allo scopo, era senza dubbio il Platonismo. Così nacque in lui il pensiero, e lo dichiara egli stesso, di fondare il Cristianesimo sulla dottrina platonica, di provare anzi che sono una sola e medesima cosa, e che l'uno è la conseguenza logica dell'altra. Questa dottrina parve allora una nuova rivelazione, ed è per essa che egli accendeva le candele innanzi a Platone, e lo adorava come santo. Nel suo libro Della Religione Cristiana, infatti, i più solidi argomenti che egli trovi a sostegno di essa, sono i responsi delle Sibille, i vaticinî che della venuta di Gesù Cristo fecero Virgilio, Platone, Plotino, Porfirio. La vita di Socrate è per lui un simbolo continuo della vita di Gesù, le dottrine dell'uno e dell'altro sono identiche. Così l'antichità veniva ribenedetta dal Cristianesimo, che a sua volta era dimostrato vero dall'antichità. Che cosa poteva avere maggiore importanza per gli eruditi del secolo XV? Il Ficino era così pieno, così entusiasta di queste sue idee, che qualche volta, più che l'inventore d'un nuovo sistema, sembrava credersi il fondatore d'una nuova religione.

Scrisse un gran numero di epistole, traduzioni e trattati in latino; ma il più grande e solido monumento alla sua fama fu la prima e, per molto tempo, la sola buona traduzione di tutte le opere di Platone. A questa lavorò indefessamente gran parte della vita, meditando anche un'opera che doveva raccogliere sistematicamente, in organica unità, le sue dottrine. Al quale proposito egli ci dice, che fu lungamente incerto se quest'opera dovesse essere una esposizione filosofica dell'antica religione pagana, ovvero una dimostrazione del Cristianesimo, fatta coll'aiuto dell'antica filosofia. Prevalse il secondo concetto; ma la nuova opera fu tuttavia intitolata Theologia Platonica, il che ben dimostra qual fosse l'ordine delle idee, in cui era entrato l'autore. Essa riuscì una vasta ed incomposta enciclopedia erudita, scritta con uno stile confuso e scolorito, difetto che si trova in tutte quante le sue opere, perchè, sebbene egli avesse consumata la vita intera sui classici, la incertezza delle idee gli rendeva impossibile acquistare una vera originalità e vigorìa di stile.

Nel leggere attentamente la Theologia Platonica, si direbbe più di una volta, che i materiali ivi accumulati comincino come a fermentare, e che seguano fra loro assimilazioni spontanee, di cui l'autore stesso non si rende conto. Vi è in fatti qualche cosa che può dirsi un resultato del pensiero del secolo, un progresso impersonale della scienza, di cui il Ficino sembra più lo strumento che l'autore. La quistione del consulto o non consulto agit nella natura, diviene, sin dal principio, quella intorno a cui tutte le altre s'aggruppano, ed è da lui risoluta nel modo stesso che aveva fatto Gemisto Pletone. Egli distingue nel mondo due diverse categorie di anime. Le une sono intellettuali ed universali; le altre sensibili, mortali, ma anch'esse razionali. Queste, che chiama le terze essenze delle cose, si trovano in tutta la natura, e l'animano. La terra, la luce, l'aria, i pianeti hanno, ciascuno, la loro terza essenza, e ciò spiega come la terra produca le piante, nell'acqua si generino animali, ecc. Le terze essenze inoltre sono divise in dodici ordini, secondo le dodici costellazioni del zodiaco; ma s'uniscono e confondono fra loro, formando anime o terze essenze più generali. Così nel nostro pianeta vi sono l'acqua, la terra, l'aria, che hanno, ciascuna, la loro terza essenza; ma questo pianeta ha anche la sua propria e più generale, che tutte le comprende.

L'uomo poi ha due anime, l'una razionale e sensibile, che è la terza essenza del corpo, col quale essa muore; l'altra, intellettuale, immortale, infusa direttamente da Dio. Per mezzo di questa, la creatura si trova in relazione, e può venire in contatto col Creatore: in essa si specchiano tutte le altre, che infondono vita nell'universo. Così l'uomo è un microcosmo; può discendere fino agli animali, alla natura inanimata, e salire agli angeli, a Dio che gli parla e lo guida. Gli astri, le piante, le pietre stesse hanno poi colle loro terze essenze diretta influenza sulle passioni, sul destino di lui. E con ciò si viene a dimostrare la verità delle scienze occulte, a cui il Ficino prestava una fede quasi puerile. Attribuiva a Saturno la sua continua malinconia; ogni giorno mutava con scrupolosa diligenza i suoi amuleti, dai quali mai non si separava. Su tutte queste cose egli scrisse un trattato, De vita coelitus comparanda, che bisogna leggere per vedere fino a qual punto arrivassero i pregiudizî d'un uomo così dotto, e d'un secolo tanto progredito. La fede che ebbero nelle scienze occulte gli uomini più notevoli del Rinascimento, è un'altra delle non poche contradizioni che noi osserviamo in quel tempo. Pure, chi bene la esamina, s'accorge che essa era alimentata dal bisogno di sostituir sempre alle spiegazioni soprannaturali una naturale, anche quando la scienza non era in grado di trovarla.

Se ora guardiamo questa filosofia del Ficino nella sua generale unità, apparisce assai chiara la tendenza irresistibile a cercare un'anima universale e razionale, la quale sembra infatti, ne' suoi scritti, confondersi col mondo e con Dio stesso. Le sue terze essenze, che sono una cosa sola colle idee di Platone, colle forme d'Aristotele, e s'uniscono poi fra loro in anime più generali, come potrebbero non riunirsi tutte in un'anima sola? Il mondo non è, secondo le stesse parole del Ficino, un grande animale vivente? La natura non ha essa un'anima razionale che consulto agit? Se non che, innanzi a queste che pur sono le conseguenze naturali, inevitabili delle sue premesse, il nostro autore s'arresta quasi spaventato, perchè egli deve accettare e spiegare la creazione dal nulla, e non può rinunziare al Dio personale del Cristianesimo.

Quando però viene ad esporre filosoficamente la creazione, torna sempre alle stesse idee, e s'avvicina di nuovo alle conseguenze da cui rifugge. Iddio concepisce (ed il concepire nella mente divina equivale al creare) l'anima sensibile delle cose, e l'anima immortale, angelica. Con questa Esso forma gli angeli, per mezzo dei quali crea le terze essenze, che sono a lui tanto inferiori che non può degnarsi di crearle direttamente. In noi, però, come vedemmo, oltre l'anima del corpo, ve n'è una immortale, creata, infusa da Dio, e per mezzo di essa la debole creatura umana può ascendere fino al divino ed eterno. A bene esaminarla, la creazione del Ficino è una emanazione; il suo Dio è l'anima e l'unità del mondo, anzi la sola definizione che egli sappia darne è: l'Unità assoluta di tutte le cose. Il Panteismo, conseguenza logica di questo concetto, è nell'aria stessa del secolo XV, che non trova altro modo di conciliare Dio e la natura, il divino e l'umano. Già scientificamente abbozzato dal Cusano, reso popolare dal Ficino, venne poi esplicitamente formulato e sostenuto dal Bruno. Se non che il Cusano ed il Bruno sono veri pensatori e filosofi, il Ficino è invece un erudito che filosofeggia senza vera originalità. Il concetto panteistico si manifesta nelle sue opere in un modo indistinto e confuso, quasi inconsapevole; ma ciò appunto lo dimostra un resultato dei bisogni generali del tempo, lo rende subito popolare, e lo fa penetrare largamente nella letteratura. Nelle poesie di Lorenzo il Magnifico, del Poliziano, dell'Alberti, in molti anche dei prosatori contemporanei, il Dio personale s'è mutato nell'Assoluto, il mondo è il gran Cosmo da esso abitato ed animato, la natura lungi dall'essere disprezzata, è quasi divina anch'essa. Questa trasformazione, come dicemmo, si deve appunto al Ficino ed all'Accademia Platonica, che scompariscono senza lasciare un nuovo sistema, ma lasciano invece un nuovo modo di vedere il mondo, e di concepire Iddio.

L'ardore entusiasta del Ficino, nello spiegare le nuove dottrine, trovò un'eco grandissima in Italia e fuori. Alle lezioni che dava nello Studio, accorrevano uditori d'ogni parte del mondo. Molti Inglesi tornarono in patria, portandovi l'ellenismo italiano; anche il Reuchlin, quando passò per Firenze, fu più che mai convertito alle nuove idee, le quali già trovavano grande favore in Germania, dove aiutarono la Riforma religiosa, che cominciò colla interpetrazione individuale delle Sacre Scritture, e col mettere il credente in diretta comunicazione col suo Creatore, senza bisogno di alcun intermediario: in Italia invece le conseguenze dell'erudizione restarono sempre letterarie e scientifiche.

Giovanni Pico della Mirandola, tanto celebre in tutta Europa, era chiamato fra noi la Fenice degl'ingegni, per la conoscenza che si diceva avesse di ventidue lingue, per la grande erudizione, la straordinaria memoria, al che si aggiungeva la bontà del suo carattere, l'amabile e gentile aspetto, l'avere egli, di famiglia principesca, abbandonato tutto pei suoi studî. Esaltato dalle lodi che gli facevano, e da una filosofia che colle sue allegorie pretendeva di abbracciare l'universo, propose una specie di singolare torneo scientifico, che doveva darsi in Roma. Aveva ridotto lo scibile in 900 conclusioni, su ciascuna delle quali si offeriva pronto a dare risposta a tutti i dotti, che invitava promettendo di pagare il viaggio ai più poveri. L'esperimento non si fece, per le difficoltà frapposte dal Papa, all'autorità del quale Giovanni Pico fu sempre ossequentissimo. Pure anche quest'uomo che levò allora così gran fama di sè, fu in sostanza un ingegno non molto diverso dagli altri seguaci del Ficino. Le sue cognizioni erano estese, ma superficiali; i suoi giudizî, guidati più dall'entusiasmo che dalla critica. Egli trovava le poesie di Lorenzo de' Medici superiori a quelle di Dante e del Petrarca. Della più parte delle ventidue lingue che pretendeva avere studiate, conosceva poco più che l'alfabeto e gli elementi grammaticali. Tuttavia, ellenista e latinista fra i valenti, fu ancora dei primi a promuovere gli studî orientali. Ma nè i suoi scritti italiani o latini, e molto meno la sua filosofia, hanno alcuna originalità. Voleva conciliare Averroè ed Avicenna, Scoto e San Tommaso, Platone ed Aristotele, per combattere i nemici della Chiesa. Ciò doveva portarlo di necessità ad unirsi col Ficino, che voleva appunto combattere «la religione dell'ignoranza e la filosofia della miscredenza.» Amico dei Medici, egli finì ammiratore entusiasta del Savonarola, e fu sepolto in San Marco, dopo che lo ebbero, secondo la sua ultima volontà, vestito dell'abito dei Domenicani. Cessò di vivere nel 1494, anno memorabile nella storia dell'Italia e di tutta l'Europa.

8. - RISORGIMENTO DELLA LETTERATURA ITALIANA.

I Platonici e gli eruditi scompariscono ora assai rapidamente dalla scena, e la letteratura nazionale che s'è andata per sì lungo tempo apparecchiando, comincia a manifestarsi in tutto il suo nuovo splendore.

Nel secolo XV il nostro volgare era assai decaduto, per colpa principalmente degli eruditi, che o scrivevano latino, o forzavano l'italiano ad una artificiosa imitazione del latino. L'anno 1441 fu fatto nel Duomo, in occasione della dimora in Firenze d'Eugenio IV, un solenne esperimento letterario, chiamato Accademia Coronaria, perchè si prometteva una corona d'argento a chi leggesse i migliori versi italiani sull'amicizia. Ed il premio non fu potuto concedere, tanto riuscirono miserabili quelle poesie, che anche oggi nessuno può leggere senza restar maravigliato del gusto corrotto e del puerile artificio. S'ingannerebbe però chi credesse che lo scrivere in volgare fosse stato allora abbandonato del tutto. Canzoni italiane, composte da scrittori poco noti, ma non poco numerosi, venivano cantate dal popolo delle città e delle campagne, e in italiano si scrivevano le lettere familiari, molti racconti, novelle, cronache. Era una letteratura in gran parte fatta pel popolo, ed a cui il popolo in più modi pigliava parte, senza che si potesse dire popolare nel vero senso della parola. Ed andò, col procedere del secolo XV, crescendo sempre d'importanza, fino a che i dotti, abbandonato il latino, tornarono anch'essi all'italiano, iniziando così un secondo grande periodo nella storia delle nostre lettere.

I Platonici vanno messi appunto fra coloro che primi tornarono alla lingua volgare. Cristoforo Landino aveva molto aiutato a ciò, promovendo coi suoi Commenti lo studio di Dante e del Petrarca. Ma a Leon Battista Alberti spetta un luogo ancora più onorevole. Nato (l'anno preciso è incerto) circa il 1404 a Venezia, dove la sua famiglia era esiliata, si dimostrò subito uomo singolarissimo. D'una gran forza e bellezza, egli riusciva mirabilmente in tutti gli esercizî del corpo, in tutte le opere d'ingegno. Era valente nella musica, nel canto, nelle arti del disegno, nelle lettere e nelle scienze, tanto le morali, quanto le matematiche o naturali, nelle quali molte scoperte sono a lui attribuite. Il Landino, il Poliziano ed altri esaltarono, non solo la universalità di questo singolare ingegno, ma, quello che ora più importa notare, anche i suoi meriti nel promuovere lo studio e l'uso dell'italiano, cosa che risulta assai chiara anche dalla lettura delle sue opere, sebbene intorno ad alcune di esse si siano fatte e si facciano molte dispute. Alcune poesie dell'Alberti hanno di certo una freschezza e spontaneità grande; ma ciò potrebbe far meraviglia se il Poliziano e Lorenzo de' Medici non ci dimostrassero che la Musa italiana già si ridestava allora animata da uno spirito nuovo, quasi rinascendo per seconda giovinezza. La sua prosa è veramente molto artificiosa per la continua imitazione del latino; pure merita una particolar menzione l'opera intitolata: La cura della famiglia, e specialmente il terzo libro di essa, L'Economico o Il Padre di famiglia, in cui si descrive appunto il buon padre, ed il miglior modo di governare la casa. Questo è quasi un lavoro a parte, e nella prefazione che lo precede, l'Alberti piglia le difese della lingua italiana, che dichiara non punto inferiore alla latina, ed aggiunge di voler fare uso d'uno stile «nudo e semplice.» Infatti la sua prosa qui è assai più spontanea del solito, tanto che egli sembra voler fare uno sforzo per tornare all'aurea semplicità del Trecento.

L'Economico è generalmente noto nella forma assai più disinvolta e popolare che ricevette da Agnolo Pandolfini, col titolo: Del governo della famiglia; ed è in questa forma uno dei più bei monumenti della nostra letteratura. Si è da alcuni sostenuto che il Pandolfini avesse copiato e migliorato l'Alberti, da altri invece il contrario. Certo è però che il primo scrive in una lingua parlata, molto ricca ed evidente, sebbene non sempre irreprensibile affatto nella grammatica, mentre l'Alberti è più corretto grammaticalmente, ma è più pesante, non ba di certo la semplicità del Pandolfini. Nel suo linguaggio si vede l'innesto della forma popolare con la erudita, le quali non sono ancora ben fuse insieme, rimanendone offuscato il nativo splendore della prima. Non è ancora accertato pienamente quale dei due libri sia l'originale, quale il rifacimento; ma il trovarlo diffuso sotto due forme diverse, prova certo che esso esprime i sentimenti e le opinioni del tempo, il che lo rende importante non solo nella storia della lingua e della letteratura, ma ancora in quella della società italiana.

Quest'opera, massime nella forma che gli ha dato il Pandolfini, sembra scritta da un uomo vissuto tra la fine del secolo XIV e il principio del XV, il quale, dopo aver preso parte al governo della città, si ritira disgustato in villa, per darsi al comporre. Così abbiamo in essa una fedele descrizione dello stato sociale, morale e intellettuale degl'Italiani nel secolo XV, quale vanamente cercheremmo negli storici. Qui v'è sopratutto un profondo disgusto della vita politica, «vita d'ingiurie, d'invidia, di sdegni e di sospetti.» Lo spirito italiano già si sente condannato a rinchiudersi in sè stesso, senza trovare nella sua coscienza il conforto della vita religiosa. La virtù gli sembra risultare unicamente dal bisogno d'un benessere quasi artistico, «è tutta lieta e graziosa.» Ciò che si vuole è solo: non aver l'animo alterato da alcuna cupidigia, pentimento o dolore; mantenere non mai disturbata l'armonia interiore. L'onestà è il più bello ornamento della donna, che il vizio rende volgare e brutta. Trasparisce anche assai chiara la nuova tendenza infusa nello spirito italiano dal Platonismo. In questo libro infatti la virtù risulta da una legge necessaria della nostra natura, non da alcun comando di autorità superiore. Quando il capo della famiglia prende moglie, la conduce innanzi al domestico tabernacolo della Madonna, e là pregano inginocchiati, non la Vergine o i Santi, ma il Sommo Iddio. Nè si raccomandano per avere la felicità di un'altra vita, ma solo perchè sia loro dato di godere i beni di questo mondo. La moglie deve saper governare la casa con l'accortezza e la gentilezza, per mantenere sempre l'armonia generale, e perchè tutti siano felici. Noi siamo come dinanzi a un quadro di Masaccio o del Lippi. Non v'è nessuno slancio, nessuna aspirazione verso l'infinito, v'è un'armonia che si contenta di sè, che è come il principio universale della vita, quale l'intendevano allora gl'italiani. Ogni piccolo accessorio di questo quadro ci pone dinanzi agli occhi la democrazia fiorentina, con la sua raffinatezza e la sua civile uguaglianza. In quasi tutta Europa il contadino era ancora attaccato alla gleba, in una condizione servile; egli qui è già divenuto il tormento del suo padrone. Vuole che gli sia comperato il bue, la giumenta, le pecore; vuole che gli sian pagati i debiti, gli sia data la dote per la figliuola, fatta la casa e fornite le masserizie: nè mai si contenta.

Ma fra le sorgenti della nuova letteratura, specialmente della prosa, che sono pur molte, dobbiamo qui menzionare le corrispondenze politiche e diplomatiche, che in questo secolo divengono davvero uno dei più notevoli monumenti letterarî, che abbia non solo l'Italia, ma l'Europa. Esse non erano scritte per esercizi di retorica erudita, ma per condurre gli affari ad un fine determinato, e giunsero perciò subito ad una semplicità, spontaneità e lucidezza veramente singolari.

Nelle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, recentemente pubblicate, si vede ancora lo sforzo con cui lo scrittore cercava innestare l'incolto, ma ingenuo linguaggio popolare col periodo latino degli eruditi; si vede il processo di formazione della nuova prosa. Questo sforzo è cessato, e la prosa politica italiana ha superato ogni incertezza, senza però ancora nascondere del tutto i due elementi da cui risulta, nelle lettere di Lorenzo dei Medici, delle quali il Guicciardini stesso fece i più alti elogi. In esse si scorge da un lato la popolare disinvoltura con cui scriveva questo discepolo del Ficino e amico del Poliziano, e da un altro quella mirabile prudenza con cui egli cercava mantenere l'equilibrio fra gli Stati italiani, la grande autorità che esercitava su di essi, in tutta la Penisola. Quando Ferdinando di Napoli vuol fare una lega particolare col Papa, Lorenzo subito s'adopera, perchè si levi «questa scintilla d'alterazione in Italia,» e si faccia invece una pace generale. Quando sua figlia Maddalena sposa Franceschetto Cibo, figlio naturale del Papa, egli subito avverte, che non intende stringere legami a danno della pace generale d'Italia, nè fare lontani disegni per l'avvenire, a cui bisogna, invece, «pensare dì per dì, e secondo che si troverà il suono ballare.» Quando il Papa vuol chiamare in Italia il duca di Lorena, egli s'adopera a tutt'uomo per impedirlo, ponendo innanzi i molti pericoli, cui essi sarebbero andati incontro, e ricordando «che non è in mano degli uomini tenere la briglia alla fortuna.» Il duca di Milano, Lodovico il Moro, sempre vario e mutabile ed ambizioso, che ogni ora fa nascere nuove complicazioni, va trattato, egli dice, come porta la sua natura, secondandolo, cioè, fino a che è possibile senza pericolo; ma in modo da «restare a cavallo,» quando egli volesse mutare. È quindi tanto più necessario tenersi amici i Veneziani, «per aver sempre qualche àncora in «mare.» E quando suo figlio Giovanni, a 17 anni già da un pezzo cardinale, parte per Roma, Lorenzo lo avverte dei pericoli, cui va incontro in una città così corrotta, e gli ricorda che a Firenze giova l'unione colla Chiesa, e che «l'interesse della casa nostra ne va con «quello della Città; sicchè voi dovete essere in ciò buona catena, e non vi debbono, in ogni caso, mancare modi di salvare, come si dice, la capra e i cavoli.» - Questa prosa disinvolta, popolare, efficace, divenne subito generalissima in Toscana, e Lorenzo de' Medici fu dei primi ad usarla, come fu dei primi ancora a scrivere poesie volgari.

Nel Trecento era seguìto fra noi un innesto di due poesie, che facilmente si possono distinguere anche oggi nei sonetti, nelle canzoni, nella stessa Divina Commedia. Una era semplice, chiara, spontanea; ispirazione, se non del tutto, certo assai più popolare dell'altra, che era artificiosa, allegorica, scolastica, cortigiana, imitazione francese o provenzale. Da questa unione d'elementi diversi, il genio nazionale aveva, aiutandosi sin d'allora collo studio dei classici, cavata una letteratura nuova. Ed essa discese assai facilmente nel popolo, che, rapìto, dominato da un'arte a lui superiore, e pur da lui intesa e gustata, sembrava non aver quasi più bisogno d'altre canzoni o d'altri racconti suoi proprî. Ma in sul finire del secolo XIV i letterati scrivevano latino, ed il popolo, che in mezzo alle lotte della libertà, aveva assai progredito anche nella cultura, dovette altrimenti provvedere ai bisogni del suo spirito. Per tutta la campagna toscana s'udirono allora nuove canzoni, rispetti, strambotti; e nelle città si moltiplicarono prodigiosamente le novelle, i racconti d'avventure cavalleresche, che dalla Francia s'erano diffusi tra noi, e le sacre rappresentazioni. Tutto ciò naturalmente in lingua volgare.

Alcuni rispetti, alcuni strambotti e qualche canzone sgorgarono veramente dal cuore del popolo. Essi risuonano ancora oggi fra le valli toscane, dove, osserva il D'Ancona, sono come l'eco dell'ultima creazione d'un popolo che perdeva allora la sua libertà. Ma altri non pochi, e i racconti cavallereschi, e le sacre o profane rappresentazioni non si possono dire creazione impersonale del popolo, perchè erano invece composti da una specie di cantastorie, che, sorti dal popolo per il quale scrivevano, non mancavano d'una qualche cultura, sebbene assai imperfetta. Noi vi troviamo spesso reminiscenze classiche ed artificî retorici, ben di rado vera spontaneità popolare. V'è però una certa semplicità ed anche una certa ingenua delicatezza di sentire, che attestano l'origine di questi lavori, e ricordano come il popolo fosse allora assai meno corrotto degli uomini culti e di tutti gli ordini superiori della società. Gli eruditi scrivevano l'Ermafrodito, le Invettive, oscenità d'ogni sorta: i cantastorie narravano le fantastiche prodezze dei cavalieri erranti; gli amori infelici d'Ippolito e Dianora, e la loro eroica abnegazione; le sventure di Ginevra degli Almieri, che, uscita dalla tomba in cui fu sepolta viva, non è riconosciuta nè dal marito nè dalla madre che la fuggono, ma solo dal primo amante, da cui era stata per forza separata, e che ora la salva,

Mischiando la letizia col dolore.

La poesia italiana del secolo XV fu dai letterati fondata in gran parte su questa poesia che spesso è chiamata popolare, quantunque tale propriamente non sia. Ed in verità i canti dei letterati e quelli del popolo s'intrecciano fra noi per modo, e tanta azione e reazione esercitano gli uni sugli altri, che il distinguerli è spesso impresa molto malagevole anche alla critica dei più acuti ed intelligenti. Comunque sia di ciò, uno dei primi, non solo a proteggere, ma a promuovere e coltivare la nuova poesia, fu Lorenzo de' Medici. A lui che fondava la tirannide, appoggiandosi sul popolo contro i Grandi, conveniva molto farsi conoscere anche come poeta del popolo, massime in una città come Firenze, dove il dominio intellettuale era la base più solida al dominio politico. Le stampe del tempo ce lo rappresentano, di fatti, in mezzo alla moltitudine, occupato a cantar poesie.

Per render giustizia al valore letterario di Lorenzo, non è necessario in modo alcuno seguire i ditirambi del Roscoe e del Ruth, che vorrebbero farne addirittura un genio. Egli fu in poesia ciò che era stato in tutto il resto, conoscitore degli uomini, osservatore accorto, di gusto finissimo, senza però un animo abbastanza elevato per giungere alle somme altezze dell'arte. Ne è una prova la storia che ci fa egli stesso delle sue prime ispirazioni. Quando morì la bella Simonetta, amata da Giuliano dei Medici, molti poeti, fra cui il Poliziano, ne scrissero le lodi. Lorenzo, per fare anch'egli qualcosa di simile, s'immaginò d'aver perduto la sua amata; ma poi ne cercò una addirittura, la trovò in Lucrezia Donati, giovane bella e d'ingegno, e si diè subito a scrivere versi d'amore. Tutto ciò non gl'impediva di far trattare pel suo matrimonio con Clarice Orsini a Roma. E la madre Lucrezia Tornabuoni scriveva allora al marito Piero dei Medici, così ragionando della fidanzata: «È di recipiente grandezza, e bianca, et ha sì dolce maniera, non però sì gentile come le nostre; ma è di gran modestia, e da ridulla presto a nostri costumi. Il capo non ha biondo, perchè non se n'ha di qua; pendono i suoi capegli in rosso, e n'ha assai. La faccia del viso pende un poco tondetta, ma non mi dispiace. La gola è isvelta confacientemente, ma mi pare un po' sotiletta. Il petto non potemo vedere, perchè usano ire tutte turate; ma mostra di buona qualità.... La mano ha lunga e isvelta. E tutto raccolto, giudichiamo la fanciulla assai più che comunale.» E dopo una così minuta descrizione del corpo, non una parola sola dell'animo, dell'ingegno e del carattere. Lorenzo poi che il 4 giugno 1469, in età di ventun'anno, si fidanzava con questa fanciulla, scriveva nei suoi Ricordi: «Tolsi donna,... ovvero mi fu data.»

E le sue poesie, che pure han molto valore, lo dimostrano degno figlio di questa madre. A diciassette anni descriveva le labbra, gli occhi, i capelli dell'amata; lodava i monti, il praticello fiorito, il fiume, la solitudine campestre, in cui poteva contemplare l'immagine di lei, lungi dal rumore della città. Fin d'allora troviamo in esse gusto finissimo, disinvoltura, forma spontanea e qualche volta anche troppo popolare: egli descriveva la natura ed il mondo reale con una evidenza propria d'osservatore acutissimo. Queste qualità vanno più tardi risplendendo sempre di più nei varî componimenti di Lorenzo, giacchè egli sinceramente ammirava il bello, amava la vita campestre, ed era un vero artista, un pittore del mondo esteriore. Alla potenza descrittiva s'aggiunge nei Beoni uno spirito mordace e satirico; ma l'indole propria della sua poesia apparisce principalmente nelle Canzoni a ballo, che egli prese dal popolo, dando ad esse la loro vera forma, e nei Canti Carnascialeschi, che esistevano appena in germe, e che egli sollevò a dignità letteraria, divenendo così il creatore del genere.

Il pensiero dominante in queste poesie è: godete oggi della vita, abbandonatevi ai piaceri, e non pensate al domani. Non esitate, o giovanetti, colle donne, e voi

Arrendetevi, belle,

A' vostri innamorati,

Rendete e' cuor furati,

Non fate guerra al maggio.

L'accorto politico, che voleva addormentare il popolo nei sensi, ai quali egli medesimo s'abbandonava, qui manifesta tutto sè stesso, ritrovando la sua massima spontaneità di stile e freschezza di forma. Ma qui ancora si vede, che la sua è un'arte corruttrice, la quale in ciò appunto trova la propria condanna. Se nelle Canzoni a ballo è contento del dolce far niente e d'una vita sensuale, nei Canti Carnascialeschi va ancora più oltre. Alcuni di essi ci pongono innanzi, con molto brio, figure mitologiche, piene di vita; altri invece descrivono oscenità tali, che oggi non si potrebbero neppure accennare, e che allora venivano senza ritegno cantate nelle pubbliche vie, ed erano opera d'un principe ammirato in tutto il mondo civile. Egli dirigeva le feste e le mascherate carnevalesche, chiamando in suo aiuto scultori e pittori, per renderle più allegre, e per fare colla eleganza del gusto penetrare più addentro la corruzione dei costumi; faceva comporre la musica che doveva accompagnare le sue oscene canzoni, e mescolandosi coi letterati, cogli artisti e col popolo, era l'anima e la guida di tutti questi baccanali. Non si può tuttavia negare che Lorenzo, trattando varî generi di poesia, che trovò diffusi nel popolo, e sollevandoli a vera dignità di arte, fu promotore d'una rivoluzione letteraria, nella quale, se alcuni dei contemporanei lo superarono, egli ebbe pure una parte che gli torna a sommo onore.

Il vero rinnovatore della poesia italiana nel secolo XV fu però Angelo Ambrogini da Monte Pulciano, chiamato il Poliziano. Nato il 14 luglio 1454, fu sino al 1474 discepolo nello Studio Fiorentino, dove ascoltò il Ficino, l'Andronico, l'Argiropulo, il Landino. A sedici anni aveva cominciato una traduzione d'Omero, che lo fece chiamare dal Ficino l'omerico fanciullo, e gli assicurò per sempre la protezione di Lorenzo, il quale l'accolse nella propria casa, e lo volle maestro di suo figlio Piero. A 29 anni era professore d'eloquenza greca e latina nello Studio, ed alle sue lezioni accorrevano non solo Italiani, come Pico della Mirandola e i Medici stessi, ma stranieri d'ogni nazione. Poco di poi, nel 1486, fu nominato canonico della Cattedrale. In breve tempo la sua fama aveva riempito tutta Italia e passato anche le Alpi. Dimostrò un grande acume critico, specialmente paragonando i testi antichi, nelle sue Miscellanee; collazionando poi l'edizione delle Pandette, pubblicata a Venezia nel 1485, sul codice Laurenziano, conosciuto col nome di Pandette d'Amalfi, fece osservazioni che forse furono troppo lodate, ma che pur dimostravano di che grande aiuto la filologia poteva essere alla giurisprudenza.

Il merito principale del Poliziano sta però nelle poesie, e spesso anche le più belle prolusioni che leggeva dalla cattedra non erano che versi latini, nei quali restò senza rivali fin dalla prima giovinezza. A diciotto anni i suoi versi greci erano stati molto lodati; ma egli aveva addirittura fatto maravigliare il mondo colla sua elegia latina in morte di Albiera degli Albizzi. In essa pare che il sentimento pagano per la bella forma, e l'eterea gentilezza dei pittori del Quattrocento si siano riuniti; che la lingua italiana si sia fusa con la latina, la quale, pur essendo morta, pareva ritornata ad essere lingua parlata e viva, tante erano la sua vivacità, la sua freschezza. Si direbbe che il soffio della poesia popolare italiana rianimi adesso di nuova vita l'erudito, e lo renda capace di ricondurre il suo latino alla primitiva spontaneità greca. In questa elegia troviamo la medesima inarrivabile eleganza, lo stesso lusso di descrizioni, ed anche la stessa composizione, qualche volta alquanto artificiosa, delle immortali Stanze italiane. Bellissime sono le ultime parole della moribonda al marito, che osserva, atterrito, il pallore crescere di momento in momento sul volto dell'amata, la quale

Illius aspectu morientia lumina pascit,

e già si sente come rapire nell'altra vita:

....Heu! nostro torpet in ore sonus;

Heu rapior! Tu vive mihi, tibi mortua vivam.

Caligant oculi iam mihi morte graves.

Questi pregi che il Poliziano ebbe sin dal principio, aumentarono sempre, come può vedersi, fra le molte altre, nella poesia in morte della bella Simonetta, e in quella stupenda sulle viole. Leggendo questi versi, che sono più classici di quanti se ne scrissero prima dagli eruditi, il lettore qualche volta, quasi obliando sè stesso, crede di vedere il latino trasformarsi nel nuovo e più bel fiore della poesia italiana, la quale rinasce davvero sotto i suoi occhi. È ora infatti che la crisalide italiana rompe l'involucro latino, dentro cui s'era lungo tempo nascosta, e comparisce finalmente alla luce del sole.

Il Poliziano resta immortale nella storia della letteratura italiana, come autore delle Stanze per la Giostra di Giuliano de' Medici, perchè esse incominciano addirittura il secondo e non meno splendido periodo della nostra poesia. Formano il principio d'un poema che non va oltre la quarantesimasesta ottava del secondo libro, restando interrotto, assai probabilmente, per la morte di Giuliano nella congiura dei Pazzi. Esse sono però un lavoro di tal natura, che soffre assai poco da questa interruzione, mancandovi ogni unità, ogni materia epica, a segno tale che riesce in vero assai difficile argomentare come il poeta avrebbe potuto continuarlo e come finirlo. Il suo gran pregio sta tutto in una forma limpida, elegante, cristallina, d'una freschezza impareggiabile. L'ottava, osserva giustamente il Carducci, che era stata diffusa nel Boccaccio, stemperata nel Pulci, aspra ed ineguale in Lorenzo, acquista nel Poliziano unità, armonia, colore, varietà, quel carattere che poi ha sempre serbato. Posto fra la letteratura originale, primitiva del Trecento, e quella più varia, raffinata, e pur sempre d'imitazione, che fiorisce nel Cinquecento, egli riunisce le grazie dell'una col vigore dell'altra, somigliando in ciò ai pittori del Quattrocento, che resero assai più gentile la pittura di Giotto, più perfetta la tecnica dell'arte, senza ancora cadere nel convenzionale, che comincia ben presto nel Cinquecento. Tutto questo però, non bisogna dimenticarlo, è vero solo per la forma; giacchè quanto alla sostanza il Poliziano non ha certo nè l'altezza o il vigore di Dante, nè la fantasia dell'Ariosto. Ma è una forma che può dirsi poesia essa stessa, e riproduce la natura con una eleganza inarrivabile. Le donne del Poliziano non sono così mistiche ed aeree come quelle di Dante, non così sensuali come quelle dell'Ariosto; hanno una delicatezza e dolcezza che innamora; ricordano il Lippi ed il Ghirlandaio. La bella Simonetta è nelle Stanze sensibile e visibile, ma non manca di bellezza ideale:

Ridegli attorno tutta la foresta,

. . . . . . . . . . . . . . . . .

L'aer d'intorno si fa tutto ameno,

Ovunque gira le luci amorose.

Il poeta non cerca che il vero, ma è un vero elegante, gentile sempre. Le immagini, liberate dal misticismo medievale, sembrano giovarsi della veste mitologica, in cui spesso le vediamo avvolte, per meglio fare indovinare le forme del corpo, dal quale non vogliono mai separarsi. La loro nudità apparisce di tratto in tratto splendida, quasi luminosa, per un classico smalto, ed una pagana freschezza tutta propria del Rinascimento. Ed invero, per citare anche un esempio d'altro autore, chi, dopo aver letto, nella Vita Nuova o nella Divina Commedia, la descrizione della Beatrice, sempre vicina a trasformarsi nella teologia, legge la ben nota ballata d'Olimpo da Sassoferrato:

La brunettina mia

Con l'acqua della fonte

Si lava il dì la fronte

E il seren petto, ecc.,

s'accorge subito della distanza, e capisce il mutamento che è seguito nello spirito italiano.

Il Poliziano sollevò i Rispetti o gli Strambotti del popolo a dignità nuova, con tal gusto e tale eleganza, «che primo forse in poesia,» dice il Carducci, «dette l'impronta dell'atticità ai fiorentinismi, e la finitezza dell'arte all'espressione famigliare.» La ballata poi, che già nel Trecento aveva ricevuto una forma letteraria, e, così ingentilita, era rimasta nel popolo; che servì di modello alle molte laudi spirituali composte in tutto il secolo XV, ed anche a Lorenzo de' Medici, che seppe darle nuova forma letteraria, venne dal Poliziano sollevata fin quasi all'altezza dell'ode, senza che con ciò perdesse la sua primitiva semplicità. Non mancano in queste liriche, allusioni sensuali, le quali ricordano che egli era compagno di Lorenzo: il Poliziano però non perdè mai il pudore, come spesso seguì al suo Mecenate. Coll'Orfeo il Poliziano si provò anche nel dramma; ma è un dialogo che riesce qualche volta lirico, senza arrivar mai ad un vero conflitto di passioni. La poesia drammatica nasce tardi assai nella vita d'un popolo, quando cioè il suo spirito e la sua lingua sono arrivati ad una sana e vigorosa maturità. L'Italia v'era appena giunta, quando divenne preda degli stranieri, che distrussero le sue istituzioni e la sua indipendenza, la oppressero e travagliarono per modo, che le impedirono di trovar la via d'uscire, in questo genere essenzialmente nazionale, da quella imitazione latina, da cui s'era altre volte liberata.

Il Poliziano, poi che aveva un gusto assai fine e quasi greco, non poteva in nessun caso essere l'uomo capace di elevarsi alla vera altezza drammatica, creando il teatro che a noi mancava. Si capirà facilmente perchè il suo genio non potesse volare troppo alto, quando si pensi alla vita di cortigiano e d'adulatore che menava. Fa qualche volta sdegno il vedere come l'autore di versi tanto gentili, ne scrivesse altri pieni delle più basse adulazioni. Ciò non può scusarsi neppur col ricordare che pel suo Mecenate egli aveva un affetto veramente sincero e profondo. Era accanto a Lorenzo il giorno che scoppiò la celebre congiura dei Pazzi, e fu primo a chiudere la porta della sagrestia appena lo vide là dentro ricoverato. Quando Lorenzo tornò dal suo pericoloso viaggio di Napoli, egli lo salutò con bellissimi versi latini, che paiono d'un amante all'amata; e quando morì, lo pianse con parole di grandissimo dolore, seguendolo poco dopo nella tomba. Ma ciò non toglie che quando il poeta s'umilia dinanzi al suo protettore, chiedendo perfino abiti vecchi, si senta una profonda compassione, e si capisca che così non si sale mai alle maggiori altezze dell'arte.

La letteratura del Trecento era stata, può dirsi, esclusivamente toscana; quella del Rinascimento fu invece nazionale. Gli eruditi infatti si trovano, come vedemmo, in ogni parte della Penisola, ed ora anche gli scrittori in lingua volgare cominciano a sorgere contemporaneamente e coi medesimi caratteri in diverse provincie. Così se dal Poliziano e da Firenze andiamo verso il Mezzogiorno, incontriamo Giovanni Gioviano Pontano. Nato a Cerreto (1426) nell'Umbria, si recò ben presto a Napoli, dove fu ministro ed ambasciatore di Ferdinando d'Aragona; lo accompagnò per tutto; lo consigliò negli affari più gravi di Stato, nei quali ebbe sempre parte principalissima; fu maestro di Alfonso II. A poco a poco divenne napoletano affatto, e può dirsi che meglio d'ogni altro rappresenti lo stato della cultura in quella Corte ed in quel tempo. Uomo d'affari, diplomatico accorto, ed uno dei più celebri eruditi, istituì l'Accademia Pontaniana, trasformando quella già fondata da Antonio Panormita col titolo di Porticus Antoniana. Scrisse un numero infinito di opere filosofiche, fisiche, astrologiche, politiche, storiche, sempre in latino. Ma in tutte queste opere si vede chiaro che l'erudizione era già vicina a subire una trasformazione. I trattati della Fortezza, della Liberalità, della Beneficenza, ecc., come pure quello del Principe, non sono altro che dissertazioni senza alcuna originalità, raccolte diffuse di sentenze morali. Le sue varie opere astrologiche riuniscono tutti quanti i pregiudizî del tempo, senza neppur tentare di fondarli su qualche pretesa teoria filosofica, come presumeva di fare il Ficino. - Il sole, cuore del cielo e dell'universo, è principio generatore delle cose. La costellazione del Cancro, che influisce sui corpi freddi, si dice casa della luna, perchè quando questo pianeta, di sua natura umido e freddo, si trova in quella costellazione, acquista maggiore efficacia. - Anche la sua storia della Guerra Napoletana tra Giovanni d'Angiò e Ferdinando d'Aragona, sebbene abbia una certa importanza, per essere scritta da un contemporaneo, è piena di digressioni inutili, si perde in considerazioni astrologiche, e manca di critica. Ma chi vuol conoscere davvero il Pontano, e scoprire dove è il valore de' suoi scritti, un valore tutto letterario, deve leggere i Dialoghi e le poesie latine, specialmente le liriche.

Qui si osserva subito lo stesso fenomeno che nel Poliziano: un gusto classico finissimo; uno stile lucido, evidente, spontaneo come di chi usa una lingua viva, perchè anche qui la nuova vita del latino nasce dall'innesto di esso col linguaggio parlato dall'autore, che però non è il fiorentino, ma un italiano napoletanizzato. Dal che deriva, per quanto sia grandissimo l'ingegno poetico del Pontano, una innegabile inferiorità di forma ne' suoi scritti, di fronte a quelli del Poliziano; l'atticismo toscano dà al latino di questo una greca eleganza che non si può del pari ritrovare nell'altro. Tuttavia è certo che anch'egli riesce mirabilmente nell'adoperare il latino ad esprimere il pensiero moderno, e dove non gli basta, latinizza parole italiane o napoletane, e va innanzi spedito come uno che parli la lingua imparata sin dalla cuna. Nei dialoghi, il Caronte, l'Antonio, l'Asino, che sono tutti lavori d'immaginazione, in elegante prosa latina, spesso interrotta da poesie bellissime, v'è una dipintura dei costumi napoletani, di feste popolari, di scene campestri e d'amore; una serie d'aneddoti pieni di brio tale, che par di leggere le pagine più belle del Boccaccio. La festa del porcello a Napoli, l'indole delle città italiane, la corruzione dei preti a Roma, le dispute ridicole dei pedanti, e l'accanimento con cui perseguitano la gente, per una particella o un ablativo non adoperati secondo le loro regole, spesso fallaci, hanno una potenza descrittiva, una freschezza, una vis comica tali da far mettere il Pontano fra gli uomini di vero genio letterario. Egli scrive in latino, ma il suo spirito, il suo ingegno sono moderni, e le sue opere sono perciò un vero gioiello della letteratura italiana. Nel suo Antonius vediamo i Napoletani seduti all'ombra, motteggiare chi passa; il Pontano vivo parlante; un figlio che racconta le querele di casa; un poeta che, preceduto da un trombetto, sale, secondo l'uso napoletano del tempo, sopra un poggio a recitare la descrizione d'una battaglia, di tanto in tanto abboccando il fiasco di vino. Poi leggiamo l'ode di Galatea inseguìta da Polifemo, una delle sue più belle:

Dulce dum ludit Galatea in unda,

Et movet nudos agilis lacertos,

Dum latus versat, fluitantque nudae

Aequore mammae, etc.;

ed in mezzo a tutto ciò sempre un gusto squisito, uno spirito che s'inebbria, anche nella vecchiezza, in una voluttà sensuale ed artistica, uno scetticismo profondo che ride d'ogni cosa.

Nelle liriche si manifesta veramente tutto quanto il genio letterario dell'autore, e si vede più chiaro ancora che in quelle del Poliziano, l'immagine del Rinascimento. Le sue donne, dice il Carducci, denudano ridenti ogni loro bellezza in cospetto del sole e dell'amore. «E con quel suo riposato senso di voluttà e di sincero godimento della vita, il Pontano, in latino, è il poeta più moderno e più vero del suo tempo e del suo paese.» Leggendo le odi, è davvero mirabile il vedere come in quel suo latino egli si muova agile e felice, quasi navighi a seconda d'un fiume; e come il suo italiano napoletano cerchi infondere giovane sangue nel vecchio idioma, anche quando lo altera un po' troppo:

Amabo mea chara Fanniella,

Ocellus Veneris, decusque amoris,

Iube isthaec tibi basiem labella

Succiplena, tenella, mollicella,

Amabo, mea vita, suaviumque,

Face istam mihi gratiam petenti, etc.

Egli ride e motteggia; canta la ninna nanna; s'inebria nella voluttuosa bellezza, fra le molli braccia delle Ninfe, che l'accolgono in riva al mare, in presenza della natura, in mezzo ai fiori. E questo è il suo mondo, il mondo del Rinascimento. Tutte le città, le ville, le isole dei dintorni di Napoli, le strade, le fontane, personificate in esseri fantastici, camminano, danzano intorno al poeta. Le Ninfe Posilipo, Mergellina, Afragola, Acerra, Panicocolis studiosa lupini, e Marianella che canta accompagnando Capodimonte,

et cognita bucellatis

Ulmia, et intortis tantum laudata torallis:

tutte si muovono e vivono nella sua Lepidina. Il Vesuvio, in forma di vecchio, discende dal monte sopra un asino per venire alla festa, e le donne lo circondano. A chi dà un anello da cucire, a chi un fusaiuolo, a chi dice un motto, e tutte fanno a gara intorno a lui ed all'asino, per salutarli con alte e festose grida,

Plebs plaudit, varioque asinum clamore salutant,

Brasiculisque apioque ferum nucibusque coronant.

I medesimi pregi possono notarsi nei due libri degli Amori, negli Endecasillabi, nella Buccolica, e nel poema didascalico, L'Urania, in cui sono mirabili descrizioni della natura. Vi troviamo sempre un singolare impasto di due lingue, l'una viva e l'altra morta, nel quale ambedue sembrano rinascere; e questa varia e ricca unione d'immagini classiche, di bizzarrìe fantastiche, di splendide descrizioni della natura, di sentimenti moderni, tutto mescolato e tutto in fermento nella fantasia dell'erudito, che si trasforma in poeta, ci fa capire come la nuova letteratura nasca dall'antica, e come, in mezzo al mondo classico, con tanta cura evocato, possa sorgere il poema cavalleresco, che pare e non è una contradizione nel secolo degli eruditi.

Qui dovremmo accennare alle lettere politiche di Ferrante d'Aragona, che portano la firma anche del Pontano suo primo ministro, il quale ebbe certo una parte non piccola nel compilarle. Ma, oltre che è ben difficile il determinare con precisione qual fosse veramente questa parte, ci sarà data occasione di parlarne in luogo più opportuno. Per ora ci basti ricordare che anch'esse hanno rarissimi pregi: scritte con verità ed eloquenza, potrebbero stare fra le migliori nostre prose letterarie, se la loro forma italiana non fosse troppo alterata dal dialetto napoletano, che spesso aggiunge forza e naturalezza, ma non può giovare alla unità, nè alla eleganza della lingua.

Accanto al Pontano viveva un altro scrittore, che era nato nel Napoletano, che morì nella seconda metà del secolo XV, e del quale abbiamo un volume di novelle assai notevoli, massime se ricordiamo che quel genere, dopo il Sacchetti, pareva quasi abbandonato. Uomo di mondo e non erudito, ma vissuto in mezzo alla erudizione, egli ci dice di aver voluto imitare, «il vetusto satiro Giovenale, e l'ornatissimo idioma e stile del famoso commendato poeta Boccaccio.» Spesso invoca gli Dei immortali; e Mercurio eloquentissimo Dio gli ragiona degl'inganni fatti dalle donne «al sommo nostro padre Giove, e al radiante Apollo, a noi e agli altri Dei.» Egli, come il Sacchetti, dichiara che vuol raccontare novelle «per autentiche istorie approbate, e certi moderni e altri non molto antichi travenuti fatti.» La sua lingua è molto artificiosa, per la imitazione visibile del latino e del Decamerone; vi si mescolano in buona copia il dialetto napoletano ed il salernitano, che dànno grande vivacità, ma alterano l'italiano, e rendono sconnessa la grammatica di Masuccio, che era nato a Salerno. Il suo brio spontaneo, la sua verità ed evidenza sono tali, che egli sarebbe uno dei nostri classici, se la forma fosse meno scorretta. Tuttavia il suo Novellino, così com'è, ci dà una immagine fedele dei tempi e della Corte di Napoli. Con una grande conoscenza degli uomini e delle cose, con un animo che sembra assai schietto e buono, l'autore sa infondere vita ne' suoi personaggi; sa raccontare con la disinvoltura, la naturalezza ed il sorriso d'un vero scrittore del Rinascimento. Domina in lui un odio profondo contro le immoralità dei preti, i quali egli sferza sanguinosamente, senza perciò essere punto avverso alla religione. Nell'Esordio alla terza novella, che è dedicata al Pontano, di cui esalta le virtù, le quali egli dice macchiate solo dal conversare che esso fa continuo con preti, frati e monache, «atteso che con loro non altro che usurai e fornicatori e omini di mala sorte conversare se vedono.» Tutto ciò non ci maraviglia molto in uno scrittore che viveva nella Corte degli Aragonesi, la quale fu di continuo in guerra coi Papi, ed aveva accolto e protetto Antonio Panormita e Lorenzo Valla. Il vedere però dedicato ad Ippolita, figlia di Francesco Sforza e giovane sposa d'Alfonso II d'Aragona, un libro di novelle assai spesso molto oscene, alcune delle quali sono anche dedicate in particolare a qualche nobile donna, reca certo grande maraviglia, ma è pure un altro segno dei tempi.

Dai Dialoghi del Pontano e dalle Novelle di Masuccio non occorre un gran salto per passare ai poemi cavallereschi, un altro dei generi di letteratura proprî di questo secolo. Veramente erano nati in Francia, e parrebbero in tutto contrarî al genio nazionale dell'Italia. La Cavalleria s'era infatti poco o punto diffusa tra noi; il feudalismo era stato combattuto ed in grandissima parte distrutto; alle Crociate avevamo preso una parte secondaria; Carlo Magno, eroe nazionale della Francia, era fra noi un principe straniero e conquistatore. E questi sono tutti elementi sostanziali, per la formazione del poema cavalleresco. Lo scetticismo religioso, cominciato assai presto in Italia, contrastava anch'esso coll'indole di poemi fondati principalmente sulla guerra dei Cristiani contro gl'Infedeli. Ed il maraviglioso che ne costituisce l'essenza, neppure era adatto all'indole degl'italiani, ammiratori sempre della bellezza classica. Passati da uno stato di decadenza ad una nuova forma di civiltà, essi non avevano avuto la selvaggia e vigorosa giovanezza, in mezzo alla quale era stato creato quel mondo d'eroi, le cui avventure impossibili, i cui caratteri fantastici si mutano e confondono continuamente fra loro. Tuttavia questi poemi francesi, come si diffusero rapidamente in tutta l'Europa feudale, così vennero anche fra noi, e si propagarono assai più largamente che non si crederebbe.

Prima ancora che sorgesse la nostra letteratura, quando nel Settentrione d'Italia molti scrivevano provenzale o francese, avemmo una serie di poemi cavallereschi, compilati da Italiani in un francese italianizzato o in un italiano infranciosato. Nel Mezzogiorno, invece, quei racconti furono portati dai Normanni, e nel Centro della Penisola si diffusero per mezzo di scritti italiani e di poeti vaganti. Ma quegli eroi, nati e cresciuti in una nebbia fantastica, che non era punto adatta alla nostra indole, trovarono fra noi, specialmente nell'Italia centrale, un terreno poco favorevole, e quasi si dileguarono dalla nostra letteratura, per rifugiarsi nelle capanne del contado o nei tugurî del popolo, quando sorse sull'orizzonte il sole della poesia di Dante. In molti lavori del Boccaccio, nei Trionfi del Petrarca, anche nella Divina Commedia, troviamo spesso reminiscenze, che riconfermano come quei poemi fossero sempre assai diffusi nel popolo. Paolo e Francesca ricordano nell'Inferno la lettura che, nei tempi felici, avevano fatta insieme degli amori di Lancillotto; e quando il Sacchetti racconta del fabbro che sciupava, nel recitarli, i versi di Dante, dal quale veniva perciò aspramente rimproverato, egli aggiunge: e così, se volle, dovè invece cantare di Tristano e di Lancillotto: segno evidente che questi racconti erano allora giudicati più adatti alla fantasia popolare anche in Firenze. Quando poi i dotti cominciarono a scrivere in latino, i poemi cavallereschi sembrarono risorgere fra noi da un temporaneo letargo, ed insieme coi Rispetti, gli Strambotti, le Canzoni, le Laudi e le Rappresentazioni, fecero parte di quella letteratura che, come già vedemmo, fu chiamata popolare. Così largamente e così profondamente infatti si diffusero, che ancora oggi il cantastorie napoletano racconta d'Orlando e di Rinaldo ad un popolo estatico, e nella campagna toscana i Maggi, che si rappresentano la primavera, dinanzi ai contadini, pigliano dai medesimi poemi i loro soggetti. Alcuni di questi Maggi e di questi racconti sono composizioni recenti; ma altri non pochi sono addirittura del secolo XV. Allora se ne scrisse un numero sterminato, ed erano letti con l'avidità stessa, con cui oggi si leggono i romanzi. Gl'Italiani non creavano nuovi poemi, nè ripetevano materialmente gli antichi; ma di questi facevano compilazioni in verso o in prosa, e più in prosa che in verso, spesso molti riunendone in uno, e formando così come grandi repertorî di novelle fantastiche, che i cantastorie, il più delle volte essi stessi autori, andavano leggendo al popolo delle città e delle campagne, che li ascoltava con insaziabile avidità. La così detta Cronaca di Turpino, ed in generale il ciclo di Carlo Magno forniscono la materia principale dei racconti italiani; ma il ciclo del re Arturo e della Tavola Rotonda vi ha pure una grandissima parte.

Il più grande di questi compilatori, che può bastare a darci un'idea degli altri, visse nella seconda metà del secolo XIV e nella prima del XV. Egli è Andrea dei Mangabotti da Barberino in Val d'Elsa, che chiama Firenze la mia città, perchè colà visse e fu educato. Di un'attività senza pari, scrisse non solo i famosi Reali di Francia in sei libri, ma ancora l'Aspromonte in tre libri, la Storia di Rinaldo in sette, la Spagna in uno, la Seconda Spagna in uno, le Storie Narbonesi in sette, Aiolfo in un libro lunghissimo, Ugone d'Avernia in tre, e finalmente Guerino il Meschino, che, sebbene continui i fatti narrati nell'Aspromonte, forma un lavoro a sè, la cui popolarità, di poco inferiore a quella dei Reali, dura anch'oggi. Tutti questi lavori sono scritti in prosa, salvo alcune parti dell'Ugone d'Avernia.

L'autore s'era proposto di raccogliere e coordinare la gran moltitudine dei racconti, che fanno parte del ciclo di Carlo Magno. E così nei Reali, che son sempre la sua opera principale, compilò la storia della stirpe del grande Imperatore, senza però fare nè una vera storia, nè un vero romanzo cavalleresco. Egli vuol mettere nesso e precisione là dove era confusione deplorabile, corregge la geografia, ordina le genealogie, ma perde con ciò la ingenuità popolare e l'originalità poetica. Sembra che quel realismo italiano tanto ammirato nelle novelle, che restan sempre il racconto più proprio e nazionale della nostra letteratura, predomini anche qui, ed alteri il poema, formando un lavoro che non è certo senza merito, ma di un genere ibrido. Noi qui non abbiamo veramente nè poesia popolare, nè poesia letteraria, ma piuttosto una materia epica, che si va trasformando, e cerca una forma nuova, senza ancora trovarla. Il linguaggio parlato si mescola colle reminiscenze classiche, familiari allora a tutti gl'Italiani; la narrazione ha una riposata solennità quasi liviana, e l'autore vuol riunire dentro i confini d'una macchina ideale ben disegnata e determinata, una miriade di racconti originariamente germogliati con la ricchezza esuberante e disordinata d'una foresta vergine. Queste qualità degli scritti del Mangabotti sono comuni a quelli di centinaia d'altri compilatori in verso o in prosa.

Da quanto abbiamo detto fin qui risulta chiaro, che il giorno in cui i nostri letterati ricominciarono a scrivere in italiano, e, stanchi della retorica di poemi come la Sforziade e la Borseide, s'avvicinarono al popolo, trovarono in mezzo ad esso diffusi, insieme coi Rispetti e le Ballate, racconti come i Reali di Francia, in verso o in prosa. Si diedero allora a rifare anche questi, provandosi a renderli vere opere d'arte. Lasciarono inalterata la macchina generale della narrazione; la divisione in canti; le ricapitolazioni in principio d'ognuno di essi, indirizzate agli «amici e buona gente» dal poeta del popolo, che di ogni canto era costretto a far come un lavoro indipendente. Anche questi nuovi scrittori usavano leggere a brani i loro racconti, non in piazza, ma nelle Corti, nei desinari dei signori, a gente culta, che però voleva divertirsi, ed era stanca della vuota solennità degli eruditi. Spesso i cambiamenti che portavano nel riscrivere quelli che ora chiameremo anche noi poemi popolari, si restringevano solo a ritoccarli, correggerli, ravvivarli nella forma, aggiungendovi nuovi episodî, nuove descrizioni, qualche volta interi canti. In questo ritoccarli però stava l'arte, che infondeva vita là dove mancava, ed arrivava così ad una creazione nuova ed originale.

I personaggi si staccavano dal fondo ancora fantastico e nebuloso, nel quale erano confusi, per divenire vivi e veri; le descrizioni della natura spiravano come un'aura di primavera, avevano un'insolita fragranza; e quelle parti che restavano inalterate nella loro prima e più rozza forma, facevano meglio risaltare la verità, quasi direi, la giovinezza di tutto ciò che veniva presentato sotto nuovo aspetto, animato di nuova vita. Era quasi una improvvisa ribellione contro ogni retorica convenzionale, contro ogni vincolo artificiale; lo spirito italiano si sentiva come chi ritorna a respirar l'aura fresca dei campi e dei monti, dopo essere stato lungamente rinchiuso in un'atmosfera divenuta insalubre. Cercare in questi poemi profondità di sentimenti, uno svolgimento logico di caratteri, un disegno generale e filosofico, è cercarvi quello che non può e non deve esserci. L'autore anzi disordina a bella posta la narrazione monotona de' racconti che trova già compilati, confonde e ricompone a capriccio le fila intricate della vasta tela, per meglio tener desta la curiosità del lettore. L'importante per lui è che egli sia padrone de' suoi eroi, e che essi appariscano sempre ben definiti e vivi nel momento in cui li chiama sulla scena. Egli cerca un ideale diverso dal nostro; non vuole scendere nelle profondità del cuore umano; vuole ritrarre la mutabile realtà di tutto ciò che fugge, passa e si vede. Se torna di continuo a nascondere nel fantastico fondo del quadro i suoi personaggi, ciò è solo per meglio illuderci, per farcene meglio ammirare la verità e realtà, quando di nuovo li avvicina a noi, presentandoli quasi come quei putti del Correggio, che spingono innanzi la testa di sotto a un bosco di fiori, o come quelli che sulle pareti del Vaticano sembrano muoversi fra un laberinto d'eleganti rabeschi. Così segue che, sebbene ci parli continuo di mostri, di fate, d'incantesimi, di bevande prodigiose, la sua narrazione ha pur tale verità, che crediamo leggere la storia d'avvenimenti reali. È però ben naturale, che in questo stato di cose, un perenne sorriso apparisca sulle labbra dell'autore, rallegrato egli stesso dalla illusione e dalla maraviglia che desta ne' suoi lettori, dei quali sembra pigliarsi giuoco, per poi dominarli e commuoverli ancora più profondamente. S'ingannano coloro che vogliono in tutto ciò vedere una satira o una ironia profonda. Credere sul serio a questi personaggi il poeta stesso non può; a lui basta d'esprimere nel suo racconto tutta la varia vicenda della vita, tutte le contradizioni che sono nel suo spirito, in un secolo così pieno d'elementi diversi e cozzanti fra loro; di rapire e di essere rapito dalle proprie creazioni. La sua fantasia, uscita dalle convenzioni classiche ed artificiali, ha finalmente ritrovato tutta la propria libertà nel mondo fantastico in cui sola comanda. Si richiede quindi un temperamento artistico, per gustare tutto il valore di questi poemi, che si godono anche meglio leggendoli a brani, come li avevano letti al popolo i cantastorie, e come li lessero ai loro protettori o amici il Pulci, il Boiardo e l'Ariosto.

Il primo che fra questi poemi possa veramente chiamarsi un'opera d'arte, è il Morgante Maggiore del fiorentino Luigi Pulci, nato nel 1431. Questo lavoro è un rifacimento d'altri più antichi. I primi ventitrè canti riproducono, ora più ora meno fedelmente, uno di quei poemi che i cantastorie leggevano al popolo, ed in esso si narravano le avventure d'Orlando. Gli ultimi cinque raccontano, invece, la rotta di Roncisvalle, e sono rifacimenti di altre due compilazioni popolari, intitolate La Spagna. Tra l'una e l'altra parte del Morgante passano venticinque o trenta anni; sicchè i personaggi che nella prima erano giovani, sono nella seconda divenuti vecchi, cosa della quale l'autore non si dà gran pensiero. Nè egli si perita punto, specialmente nella prima parte, di andare così fedelmente dietro al suo modello, correggendone o modificandone appena le ottave, da sembrare un vero plagiario. Tuttavia sono questi semplici e leggerissimi tocchi di mano maestra, quelli che mutano un'opera volgare in un'opera d'arte, dànno ai personaggi vita e rilievo, lasciano da parte gli artifizî retorici, per condurci in presenza della natura. Di tanto in tanto però egli abbandona affatto il suo originale, e abbiamo, per esempio, le 275 ottave che narrano l'episodio di Morgante e di Margutte, in cui risplendono tutto lo spensierato scetticismo e la ricca fantasia e la mordace ironia del Pulci. Questo poema, che ad ogni passo rompe il filo principale della narrazione, sembra ritrovare la propria unità solo nella sempre chiara, definita, evidente precisione de' suoi varî ed inesauribili episodî. È un singolare turbinìo d'eventi: scene pietose, ridicole, maravigliose, allegre. Gli elementi che formavano la cultura di quel secolo, Paganesimo e Cristianesimo, scetticismo e superstizione, ironia ed entusiasmo artistico per le bellezze della natura, coesistono tutti, e senza bisogno di sforzo per mettersi d'accordo, sembrano essere in armonia fra loro, perchè il solo scopo del poeta sta nel riprodurre la irrequieta mutabilità degli eventi nella natura e nella realtà della vita. Il Pulci è un impareggiabile novellatore; la sua ironia cade, come quella dei novellieri, sui preti e sui frati, qualche volta anche sulla religione stessa, ma sempre in modo da far poi capire che egli non vuol punto rinnegarla, intende anzi rispettarla. L'antichità non gli è ignota, e penetra nel suo lavoro, quantunque manchi nell'originale che egli imita; la sua musa è, nonostante, essenzialmente popolare:

Infino a qui l'aiuto del Parnaso

Non ho chiesto nè chieggo....

Io mi starò tra faggi e tra bifulci,

Che non dispregin le muse del Pulci.

La sua forma è difatti così popolare, che spesso manca di lima, e quando si scolorisce, non cade mai nel retorico, ma piuttosto nel volgare. La spontaneità di questa forma ha più di tutto contribuito alla fama del Morgante, scritto a richiesta di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo dei Medici, alla cui tavola veniva letto, nelle fuggevoli ore dei lieti desinari.

Il Pulci, che rideva sempre, passò pure giorni molto tristi, perchè il fallimento di suo fratello Luca involse anche lui. Nè gran fatto gli valse l'amicizia di Lorenzo, di cui era intimo ed affezionatissimo, perchè restò sempre, anche nella più grande familiarità, un cortigiano protetto. L'aiutava invece un'indole allegra che mai non si smentiva. Lontano da Firenze, per non cadere in balìa di creditori ai quali egli personalmente nulla doveva, nelle sue lettere a Lorenzo si doleva dell'infausta stella, che lo aveva destinato ad esser sempre preda degli altri. «Pure i ribelli, ladri, assassini ho visto a' miei giorni venire costì, essere uditi, avere qualche termine al morire.» Solo a me tutto è negato, nulla concesso. «Se mi sforzeranno a questo modo, senza udire la mia ragione, io verrò costì in su la fonte a sbattezzarmi, dove fui in maledetta ora e punto e fato et augurio indegnamente battezzato, che certo io ero più tosto destinato al turbante che al cappuccio.» E prometteva che quando sarebbe nella Mecca, manderebbe a Lorenzo versi in lingua moresca, e dall'inferno gliene manderebbe altri per mezzo di qualche spirito. «Non permettere,» gli diceva poi, «nel colmo della tua felicità, che i tuoi amici siano come cani ributtati e straziati. Io però ho paura che quando non mando versi, tutto quello che ti scrivo in prosa, venga da te mal volentieri letto e subito gettato via.» Lorenzo era sempre lo stesso uomo, proteggeva tutti, ma non aveva gran cuore per nessuno, neppure per quelli che come il Pulci erano stati suoi compagni d'infanzia, e lo amavano quale fratello. Più tardi però l'autore del Morgante fu da lui inviato a trattare presso le Corti d'Italia faccende di qualche gravità, ed anche allora le sue lettere non smentiscono punto l'indole propria dell'autore, paiono anzi più di una volta brani del suo poema ridotti in prosa.

Il 20 maggio 1472 scriveva da Fuligno, come era stato in Roma «a visitare la figliuola del dispoto della Maremma, volsi dire della Morea.... Descriverò adunque brevemente questa cupola di Norcia, anzi questa montagna di sugna, che noi visitammo, che non credevo ne fussi tanta nella Magna, non che in Sardigna. Noi entramo in una camera, dove era parato in sedia questo berlingaccio, et avea con che sedere! almeno ti prometto.... Due naccheroni turcheschi nel petto, un mentozzo, un visozzo compariscente, un paio di gote di scrofa, il collo tralle nacchere. Due occhi che sono per quattro, con tanta ciccia intorno e grasso e lardo e sugna, che 'l Po non ha sì grandi argini.» Questa forma tutta popolare è nelle poesie del Pulci assai più ne' suoi sonetti, che correggono la maniera troppo volgare e spesso anche plateale del povero barbiere Burchiello, nella cui bottega, secondo che egli stesso ci dice,

La poesia combatte col rasoio.

Il Pulci scriveva allora gareggiando con Matteo Franco, col quale scambiava ogni sorta di piacevolezze, di oscenità, d'insolenze, per mero passatempo, riducendo i sonetti ad una specie di dialogo in versi, cercando e trovando quella spontanea semplicità, divenuta ora il bisogno irresistibile della nuova letteratura.

A questi facili scrittori di sonetti popolari, che al loro carattere comico, buffo e satirico univano quel gergo toscano proprio del Burchiello, se ne potrebbero aggiungere altri non pochi. Ricorderemo solo il più noto fra di essi, Tommaso Cammelli, che fu chiamato il Pistoia, dalla città dove nacque (1440), in assai umile condizione. A lui disse la musa:

Di tutto quel che vedi fai sonetti.

E continuamente ne scrisse, continuamente tutti gliene chiedevano, in ogni più futile occasione,

Come s'io avessi i versi in un sacchetto.

In questi sonetti il Pistoia descrive i particolari più minuti, più insignificanti, spesso anche più indecorosi della sua vita vagabonda e misera. Noi lo vediamo percorrere le varie Corti d'Italia, andare da Ferrara a Mantova, da Mantova a Milano, altrove, facendo più o meno il poeta cortigiano e buffone, attaccando gli emuli, ridendo di tutto e di tutti, lamentando la sua miseria, questuando, lodando coloro da cui spera danaro o protezione, per schernirli poi quando la ruota della fortuna gira contro di essi. Quello che dà a lui una speciale importanza, e costituisce l'indole propria de' suoi sonetti, è che egli ci ha in essi lasciato quasi un gazzettino politico dei tempi in cui visse, ricordando, giorno per giorno, tutto ciò che avveniva in quegli anni fortunosi davvero per l'Italia. Il Papa e i Cardinali, Carlo VIII e i Francesi, Firenze, il Savonarola, i Medici, Pisa, Venezia, i re di Napoli, tutti sono ricordati, per essere lodati quando si trovano in alto, derisi, sferzati quando cadono in basso. E sebbene queste sue descrizioni o piuttosto rapidi accenni riescano qualche volta assai vivi, sì che la desolante miseria d'Italia, che egli pur freddamente deplora, apparisce evidente, tuttavia, in mezzo a tante sventure, ad una catastrofe che avvolge e trascina la intera Penisola, di rado esce dal suo petto un accento di vero, profondo dolore, una scintilla di nobile, alta poesia. Egli è stato definito quale anello di congiunzione fra il Burchiello ed il Berni. Se però il suo riso è la manifestazione d'uno spirito arguto e satirico, che vede sempre il lato comico della vita, quel ridere continuo, anche quando vi sarebbe materia di pianto, disgusta. Troppo spesso v'è nei suoi versi qualche cosa di cinico e degradante, che opprime. Il Pistoia è un poeta popolare, che frequentando le Corti, ne ha preso tutta la corruzione, senza quella raffinatezza di modi e di forme, che, esteriormente almeno, la correggeva.

Per comprendere quanto più basso da quel che era stato una volta, fosse moralmente e politicamente disceso lo spirito italiano, basterebbe paragonare i versi del Pistoia con quelli d'Antonio Pucci, il poeta popolare del secolo XIV. Animato sempre dalla speranza che 'l giglio di Fiorenza avanzi, questi cantava,

A morte e struggimento de' tiranni,

Che consumati ci hanno già è più anni.

E quando il Duca d'Atene venne a furor di popolo cacciato, egli scriveva una sua ballata, in cui, pieno di gioia, esclamava:

Viva la libertà

Ch'ha rinfrancato il Comun di Fiorenza!

Di questa libertà, che andava ad irreparabile rovina, importava assai poco al poeta cortigiano Pistoia.

Ma anche nel secolo XV assai diverso da lui fu Matteo Maria Boiardo, che nacque poco dopo di Luigi Pulci, e del quale tre città si contesero l'onore d'essere state la culla. Questa disputa sorse probabilmente perchè egli, di famiglia reggiana, nacque a Scandiano, e fu educato a Ferrara. Scrittore erudito di egloghe latine, di liriche italiane affettuose e gentili, traduttore dal greco, era un nobile signore ed un nobile carattere; viveva presso gli Este, ma non amava punto la vita di Corte, perchè, come egli stesso scriveva,

Ogni servir di cortigiano

La sera è grato e la mattina è vano.

Fu governatore di Modena e poi di Reggio-Emilia; ebbe altri ufficî importanti; ma sebbene li adempiesse tutti con onore, la sua testa, più che alla politica o all'amministrazione, era vòlta a pensare, a fantasticare di eroi e di racconti cavallereschi. Narrano che, vagando un giorno pei campi, si stillasse il cervello cercando il nome da dare ad uno de' suoi eroi, quando a un tratto gli venne in pensiero di chiamarlo Rodomonte, e la sua allegrezza allora fu tale, che tornò correndo a Scandiano, per farvi sonare a distesa tutte le campane. Credeva sinceramente nella cavalleria, e sperava vederla di nuovo fiorire in Italia. Compose la tela del suo poema, valendosi di racconti che appartenevano a cicli diversi. Grande ammiratore della Tavola Rotonda, cogli eroi di Carlo Magno mescolò quelli di Artù, che secondo il Boiardo, era più grande, perchè non aveva come Carlo il cuore chiuso alla passione d'amore, sorgente d'ogni grandezza. Il suo Orlando infatti è l'eroe d'una virtù che trova nell'amore la prima origine e l'ultimo compenso. Molti episodi sono di sana pianta creati da lui, che ingenuamente credeva e viveva nel mondo evocato dalla propria fantasia, il che forma ad un tempo il suo pregio ed il suo difetto. Egli riesce più sincero e più affettuoso; ma il raccontare seriamente e senza alcuna ironia, avventure impossibili, lo rende necessariamente meno moderno del Pulci. Questi scolpisce assai meglio la individualità de' suoi personaggi; il Boiardo invece descrive meglio il turbinìo generale dei fantastici eventi, con i quali però i suoi eroi s'immedesimano per modo da annebbiare qualche volta la precisione de' loro lineamenti. Troppo spesso bevande incantate ridestano o spengono l'amore, armi incantate dànno la vittoria o la morte. Il Pulci cerca la realtà psicologica anche in mezzo agl'incantesimi; il Boiardo anche in mezzo alla realtà invoca il fantastico ed il soprannaturale. Ma in compenso di ciò v'è sempre ne' suoi eroi e nel suo poema qualche cosa di nobile e di generoso, che manca negli altri. Egli loda ed ammira sinceramente la virtù, esalta il conforto che viene agli animi nobili dall'amicizia:

Potendo palesar l'un l'altro il core,

E ogni dubbio che accada raro o spesso,

Poterlo ad altrui dir come a sè stesso.

Non mancano certo neppur qui sensualità e scherzi osceni; son cose che si trovano nel poema, perchè sono nella vita. E il dare una importanza eccessiva all'amore, come sorgente d'ogni virtù, è prova del secolo in cui il poema fu scritto. In questo è però sempre un fondo di serietà morale, che dà una singolare elevatezza alla nobile parola del Boiardo, massime se si pone a confronto col continuo ridere e sorridere di tutto, che domina negli altri. È un mondo pieno di varietà, d'immaginazione, di affetto; ed in esso il poeta vive e s'illude. Ma pur troppo questa illusione doveva durar poco. Invano egli diceva:

E torna il mondo di virtù fiorito;

chè invece ogni cosa precipitava a rovina. Ben presto dovette avvedersene egli stesso; ed alla fine del secondo libro, la sua malinconia si tradisce:

Sentendo Italia di lamenti piena,

Non che ora canti, ma sospiro appena.

Ripigliò di nuovo il lavoro, e giunse al punto in cui per l'arrivo d'Orlando viene impedito ai Saraceni d'entrare in Parigi. Allora, poco prima della sua morte, che seguì la notte dal 20 al 21 dicembre 1491, i Francesi passarono le Alpi, e la penna gli cadde per sempre di mano, restando interrotto il filo del racconto con quella celebre ottava che comincia:

Mentre ch'io canto, oh Dio redentore!

Vedo la Italia tutta a fiamma, a foco.

Per questi Galli che con gran furore

Vengon per disertar non so che loco....

Sebbene i pregi dell'Orlando Innamorato sieno molti, tali in fatti che il Berni si pose a riscriverlo sotto altra forma, e l'Ariosto lo continuò nel suo Orlando Furioso; pure la mancanza di lima, e quindi una lingua non sempre correttissima, spesso troppo ferrarese, impedirono che divenisse popolare davvero, ed acquistasse quella fama che pur meritavano l'ingegno ed il carattere dell'autore, a cui faceva difetto l'atticismo toscano. Egli era un erudito così profondamente immerso nel suo mondo fantastico, che quando si presentavano a lui le immagini e gli eroi dell'antichità, per renderli più evidenti, li paragonava a quelli della Cavalleria, nella quale si sentiva come più a casa sua.

L'Ariosto, nato a Ferrara dove il Bojardo era stato educato, fu il primo che sapesse superare tutte quante le difficoltà del non essere toscano, e con lui la nostra lingua potò dirsi finalmente italiana. Con una lima paziente, dotato veramente del genio della forma, giunse con l'arte ad una spontaneità meravigliosa, ed aprì la via a coloro che lo seguirono. Non erudito com'era il Boiardo, ignaro del greco, aveva però molto più vivo il sentimento della bellezza classica. Al contrario di ciò che soleva fare il suo predecessore, aveva bisogno di paragonare gli eroi cavallereschi ai personaggi del mondo pagano. I suoi cavalieri erranti hanno il senno di Nestore, l'astuzia d'Ulisse, il coraggio d'Achille; le loro donne son belle come se Fidia le avesse scolpite, hanno la voluttà di Venere, il senno di Minerva. Egli torna di continuo al suo Virgilio ed al suo Ovidio; ma, come osserva il Ranke, sembra tornarvi per ricondurli, colla potenza della sua fantasia, al primitivo Omero. Simile assai più al Pulci che al Boiardo, non si occupa molto di cercare l'intreccio, l'insieme, l'unità degli avvenimenti; ma vuol ritrarre invece i fuggevoli momenti della mutabile realtà, e descrivere le passioni individuali. I fatti della sua vita e del suo tempo s'introducono nel poema sotto forme abbastanza visibili, e qualche volta si crede vederli anche là dove non sono, tale e tanta è l'evidenza che il poeta sa ritrovare. Perciò se l'Orlando Furioso continua il racconto dell'Orlando Innamorato, letterariamente si connette invece col Morgante del Pulci, che si può chiamare il creatore del genere, quantunque tanto si giovasse de' suoi precursori.

Ma l'Ariosto è già fuori del periodo di cui ci siamo finora occupati: dobbiamo dunque fermarci. Osserveremo tuttavia per concludere, che sino dai tempi della Divina Commedia e del Decamerone, la letteratura italiana aveva cominciato col liberare lo spirito umano dalle nebbie medievali, riconducendolo alla realtà. Nella poesia e nella prosa aveva sempre cercato l'uomo e la natura. Fermatasi nel suo cammino, a cagione del disordine politico e della decadenza sociale, che sovvertì ogni cosa nel secolo XIV, essa chiese aiuto all'antichità, per poter continuare nell'antica sua strada. E così, dopo la metà del secolo XV, noi vediamo ricomparire anche più chiaro lo stesso realismo, non solamente nelle lettere, ma nelle scienze, nella società, nell'uomo. Il bisogno infatti di studiare e conoscere il mondo, liberandosi dai vincoli di ogni autorità, di ogni pregiudizio, creò la nuova letteratura e la nuova scienza, iniziò il metodo sperimentale, spinse ai più arditi viaggi, rianimò quasi di una seconda vita tutto quanto lo spirito italiano. Fatto meraviglioso, perchè seguiva in mezzo al più profondo sconvolgimento della società, la quale, corrompendosi e decadendo, faceva germogliare i grandi elementi della cultura moderna.

Allora, come fu giustamente osservato, sembrava che fosse nella società italiana scomparso ogni distinzione di classe e di sesso: i Mecenati e i loro cortigiani, discorrendo di lettere o di scienze, si trattavano come uguali, e si davano del tu; la donna studiava il latino, il greco, la filosofia, e qualche volta governava gli Stati, accompagnava, armata, in campo i capitani di ventura. A noi oggi reca grande meraviglia, quasi profondo disgusto, quando sentiamo i più osceni discorsi fatti in quel secolo alla presenza, non solo di culte matrone, ma anche d'ingenue fanciulle; quando sentiamo ragionar di politica come se la coscienza non esistesse. Ma l'uomo del Rinascimento credeva che si potesse dire, esaminare e descrivere senza scrupoli, tutto quello che si osava fare. E ciò non era sempre effetto della sua corruzione, ma spesso invece conseguenza del suo realismo, bisogno di uno spirito osservatore ed indagatore. Egli sembrava vivere in una calma olimpica, sempre padrone di sè, sempre col sorriso ironico sulle labbra; ma era una calma apparente. Egli in realtà soffriva per la disarmonia interiore del suo animo, per la mancanza d'ogni equilibrio fra il vuoto del cuore e l'attività febbrile della mente, la quale pareva qualche volta che delirasse come in una ebbrezza inconsapevole. I rottami del mondo medievale che l'uomo del Rinascimento aveva distrutto, e quelli dell'antichità che aveva disseppellita, cadevano intorno a lui e su di lui prima che egli avesse trovato il principio generatore d'un mondo nuovo, e potesse convertire in propria ed organica sostanza tutti gli avanzi del passato.

Sia che gl'Italiani, dopo aver create le grandi unità dell'Impero romano e del Cattolicismo, fossero divenuti incapaci di creare una società nuova, fondata solo sul libero individualismo moderno, a cui pure avevano aperto la via, anzi lo avevano con l'opera loro formato; sia che le invasioni straniere li avessero fermati nel mezzo del cammino, certo è che paiono spesso come smarriti e incerti di loro medesimi. Abbandonano ogni fede in Dio, ma credono nel fato e nella fortuna; disprezzano la religione, e studiano con ardore le scienze occulte. Quasi ogni repubblica, ogni principe, ogni capitano di ventura aveva il suo astrologo, a cui chiedeva l'ora propizia per firmare un trattato, cominciare una battaglia. Cristoforo Landino e Battista Mantovano tiravano l'oroscopo delle religioni; il Guicciardini ed il Machiavelli credevano negli spiriti aerei; Lodovico il Moro, che aveva una fede illimitata nella propria prudenza, non osava muovere passo senza consultare l'astrologo. La ragione che voleva tutto spiegare, si trovava invece di fronte alla propria impotenza.

Il sentimento del bello si direbbe che fosse allora l'unica e più sicura guida della vita umana, la quale sembrava cercasse immedesimarsi coll'arte. Nel Cortegiano del Castiglione vediamo fino a qual punto il gentiluomo del secolo XVI poteva, per questa via, ingentilire e nobilitare sè stesso; ma vediamo ancora che debole fondamento aveva la sua morale coscienza. La virtù, quando non risulta in lui da un felice temperamento, viene cercata solo perchè gentile e graziosa ed elegante, come dice il Pandolfini. Grandi, invero, dovettero essere le qualità dell'ingegno e anche del carattere degl'Italiani, se in mezzo a così profonda incertezza, essi non solamente non rovinarono affatto, ma spinsero poderosamente innanzi la scienza, l'arte, la società umana. Del resto, fu quello un periodo di transizione, che mal si può giudicare nella sua irrequieta mutabilità, se non si esamina come conseguenza del passato, e preparazione necessaria dell'avvenire. Ad un tratto le invasioni straniere soffocarono ogni vita politica fra noi, ed il Rinascimento italiano restò come istantaneamente petrificato dinanzi ai nostri occhi, con tutte le sue incertezze, le sue contradizioni. E forse perciò appunto riesce materia di grande insegnamento per noi. In esso vediamo infatti assai chiara la notomia del passato che si trasforma, scorgiamo le origini della società moderna, impariamo a conoscere i primi germi di molti fra i nostri presenti difetti nazionali.

IV.

CONDIZIONI POLITICHE DELL'ITALIA

ALLA FINE DEL SECOLO XV

1. - ELEZIONE DI PAPA ALESSANDRO VI.

Più il secolo XV s'avvicinava alla sua fine, e più si vedeva inevitabile la catastrofe da molti anni già preveduta. Quando Galeazzo Maria Sforza fu pugnalato a Milano (1476), il figlio Giovan Galeazzo non aveva che otto anni, e però la madre Bona di Savoia assunse la reggenza. Ma i fratelli del marito defunto cospiravano contro di lei, e finalmente Lodovico il Moro, che aveva titolo di duca di Bari, ed era il più furbo ed ambizioso di essi, s'impadronì del governo. Prima separò la Duchessa dal suo fedel consigliere Cicco Simonetta, che fu messo a morte; poi separò la madre dal figlio, che aveva solo 12 anni, e che s'indusse ad eleggere per suo tutore, con pubblico strumento, il proprio usurpatore (1480). La Duchessa andò via, ed il Moro restò di fatto signore di Milano; ma sempre in mezzo a mille pericoli, perchè non riconosciuto da nessuno. Nel 1485 sfuggì a mala pena al pericolo minacciato di una congiura ordita contro di lui. Nel 1489 Giovan Galeazzo, che aveva già ventun anno, sposò Isabella d'Aragona, figlia d'Alfonso duca di Calabria; e così in parte per la cresciuta età, in parte per le impazienze della moglie, che cercava e sperava aiuti dal re di Napoli suo avo, lo stato delle cose diveniva assai pericoloso. Nel 1491 Lodovico il Moro sposava Beatrice d'Este, ed allora le gelosie donnesche inasprirono sempre più gli animi, alimentando i rancori. Tormentato dalla paura, non è dicibile quanti disegni mulinasse l'irrequieto animo di lui, pronto sempre a mettere l'Italia intera a soqquadro, pur di conservare la male usurpata signoria. Il pensiero su cui da un pezzo ritornava, era quello di chiamare i Francesi contro il re di Napoli, sperando così di sollevare una guerra generale, in mezzo alla quale, con la sua accortezza, nella quale, come dicemmo, riponeva una fede illimitata, sperava d'aggiustare le proprie cose a danno di nemici e di amici. Che tutto ciò gli riuscisse, era molto difficile; ma invece era assai facile che scoppiasse una guerra generale e venissero gli stranieri a danno comune. Infatti solamente Lorenzo dei Medici, con una grandissima accortezza e perseveranza, sapeva tenere le cose in equilibrio, ed impedire l'irrompere improvviso della catastrofe.

Per queste ragioni l'anno 1492 fu un anno infausto all'Italia. Il dì 8 aprile Lorenzo moriva, ed a lui succedeva il figlio Piero, assai presuntuoso, leggero e vano, che perdeva il tempo nel giuoco della palla e del calcio, incapacissimo a governare la Toscana, nonchè ad esercitare alcuna autorità in Italia. E come se ciò non bastasse, il 25 luglio moriva Innocenzo VIII, e gli succedeva il più tristo di quanti pontefici sedessero mai sulla cattedra di San Pietro, un uomo tale da sconvolgere co' suoi delitti qualunque umana società.

Radunato appena che fu il Conclave (6 agosto), pareva non si trattasse già dell'elezione d'un Papa; ma d'un giuoco di borsa, tale e così manifesto era il mercato che si faceva dei voti. Il danaro era accorso presso i banchieri di Roma da ogni parte d'Europa, per favorire l'uno o l'altro dei tre candidati alla tiara. La Francia favoriva Giuliano della Rovere, Lodovico il Moro favoriva suo fratello Ascanio, e questi due parevano i più vicini a toccare la mèta. Ma Roderigo Borgia, valendosi delle sue grandi ricchezze e delle sue più grandi promesse, potè, quando Ascanio parve messo fuori di combattimento, guadagnare per sè anche i voti promessi a questo, che era stato dapprima il più temibile competitore, e che ora votò anch'egli pel Borgia, il quale così riuscì finalmente eletto. La notte dal 10 all'11 agosto, egli gridava fuori di sè per la gioia: «Io son Papa, Pontefice, Vicario di Cristo!» Ed il cardinale Giovanni dei Medici, accostandosi all'orecchio del suo vicino, il Cardinal Cibo, diceva: «Siamo in bocca al lupo, che ci mangerà, se non fuggiamo in tempo.» Il giorno dopo tutta Roma ripeteva che s'erano visti quattro muli carichi d'oro portare a casa del cardinale Ascanio il prezzo del voto. Certo è che nel giorno stesso della consacrazione (26 agosto), il nuovo Papa, preso il nome di Alessandro VI, lo nominava vice-cancelliere della Chiesa, ufficio ricchissimo, e gli dava anche il proprio palazzo, ora Sforza-Cesarini, con ciò che vi si trovava. Feudi, ufficî, rendite ragguardevoli dètte agli altri cardinali; giacchè tutti i voti del Conclave, meno cinque, erano stati da lui comprati.

Alessandro VI ha una così gran parte nella storia d'Italia; il nome dei Borgia desta tanto orrore, ricorda tante tragedie, si trova così spesso mescolato col soggetto principale di questo libro, che dobbiamo qui fermarci a parlare di lui e de' suoi figli. Ora i figli dei Papi non si chiamano più nipoti. Roderigo Borgia, nato il 1° gennaio 1431 in Xativa presso Valenza, era nipote di Calisto III, che lo aveva nominato vescovo, cardinale, vice-cancelliere della Chiesa con 8000 fiorini l'anno. Egli aveva studiato legge a Bologna, era pratico degli affari, e sebbene non riuscisse sempre a dominare le sue passioni, lasciando troppo facilmente vedere quel che pensava, sapeva pure a tempo essere simulatore e dissimulatore impenetrabile. Non era uomo di molta energia, nè di propositi deliberati; tergiversava per natura e per sistema, e gli ambasciatori italiani più d'una volta lo dicono «di natura vile.» La fermezza e l'energia che mancavano al suo carattere, venivano però supplite spesso dalla costanza delle sue cattive passioni, che quasi lo accecavano. Sorridente e tranquillo sempre, con l'aria d'un uomo espansivo ed ingenuo, amava il lieto vivere, era sobrio, anzi frugale a tavola, e forse perciò coll'andare degli anni si mantenne sempre assai vegeto. Avidissimo del danaro, lo cercava con ogni mezzo e lo spendeva con ogni profusa larghezza. La passione per le donne era quella che lo dominava sopra tutto; i figli che ebbe da esse amava perdutamente, e voleva in ogni modo fare potentissimi. Di qui la sorgente prima de' suoi delitti, che commetteva con animo tranquillo, senza scrupoli, senza rimorsi, facendone quasi pompa, non perdendo un'ora sola la calma, nè cessando mai di godere la vita. Era già cardinale, sebbene assai giovane, quando Pio II dovette a Siena, con una lettera molto severa, rimproverarlo, perchè passava le notti nelle feste, ballando colle signore, come un laico o peggio. Ma non valse a nulla, chè egli non sapeva, nè voleva vivere altrimenti.

Fra i molti amori del Cardinale, durò assai costante quello che ebbe per Giovanna, chiamata Vannozza de' Cattani (de Cataneis), la quale, nata nel 1442, era fin dal 1470 in relazione con lui, e gli diè molti figli. Per nascondere lo scandalo, il Borgia più volte le trovò marito, ed ai mariti dette ufficî e danari. L'ultimo di essi fu un erudito, Carlo Canale, mantovano, cui il Poliziano dedicò il suo Orfeo. Non faceva però alcun mistero circa i figli, che anzi pubblicamente riconosceva. Erano senza dubbio figli della Vannozza e di lui Giovanni, poi duca di Gandia (n. 1474); Cesare, ben noto col nome di Duca Valentino (n. 1476); Lucrezia (n. 1480); Goffredo o Giuffrè (n. 1481 o 82). Oltre di questi aveva ancora altri tre figli di maggiore età, Girolamo, Isabella e Pier Luigi, dei quali si sa assai poco, e solo può dirsi molto probabile, che l'ultimo di essi fosse figlio della Vannozza. Comunque sia di ciò, dopo la nascita di Giuffrè, cioè poco prima della propria elezione, papa Alessandro, avendo la Vannozza già passato i quaranta anni, sentì raffreddare l'antica passione per lei, trattandola però sempre come madre de' suoi figli, sui quali accumulava danari, ufficî, benefizî quanti poteva. Così ella resta d'ora in poi nel fondo del quadro, e non piglierà parte ai tragici eventi che avverranno fra non molto. Il Papa aveva affidato la figlia prediletta, Lucrezia, alle cure di Adriana De Mila, sua parente, che era anche la più intima confidente de' suoi intrighi scandalosi. Sino dal 1489 vedova di Lodovico Orsini, ella aveva circa il medesimo tempo sposato suo figlio Orsino Orsini con la famosa Giulia Farnese, bionda come la Lucrezia, e per la grande bellezza chiamata Giulia Bella. Questa aveva appena quindici anni, ed era già ammirata dal cardinale Borgia, che ne divenne poi l'amante riconosciuto, quando s'allontanò dalla Vannozza. Ed anche in ciò egli veniva secondato dall'Adriana.

Tale era lo stato delle cose, quando egli fu eletto. Il 26 agosto venne celebrata con insolita festa la sua consacrazione, e la Città Eterna fu piena di fiori, di arazzi, archi di trionfo, statue allegoriche e mitologiche, iscrizioni, una delle quali diceva:

Caesare magna fuit, nunc Roma est maxima, Sextus

Regnat Alexander, ille vir, iste Deus.

Di questa elezione si spaventarono solamente coloro che avevano conosciuto personalmente e da vicino il Borgia, come il cardinale dei Medici e Ferrante d'Aragona, principe accortissimo, che rammentava l'ingratitudine di Calisto III verso gli Aragonesi: gli altri non temevano o anche speravano. La vita scandalosa del nuovo Papa era nota in parte; ma quali erano allora i prelati che non avessero intrighi amorosi e figli? I primi giorni non annunziavano male, giacchè le paghe cominciarono a correre regolarmente; l'amministrazione pareva avviarsi con ordine; il prezzo delle derrate scemava; anche nella giustizia si dimostrò un rigore, di cui eravi sommo bisogno, perchè nel breve tempo corso dalla malattia d'Innocenzo VIII alla incoronazione d'Alessandro VI, erano, si afferma, seguìte 220 uccisioni.

Ben presto però la fiera cominciò a metter fuori le unghie. La passione d'ingrandire i parenti, specialmente i figli, alcuni dei quali il Papa amava con delirio, divenne quasi cieco furore, e non si poteva più prevedere dove dovesse trascinarlo. Nel primo concistoro (1° settembre) il nipote Giovanni Borgia, vescovo di Monreale, fu nominato cardinale di Santa Susanna. Il figlio prediletto Cesare, di 16 anni, che studiava a Pisa ed era già corso a Roma, aveva avuto nel giorno stesso della consacrazione l'arcivescovado di Valenza. Quanto a Giovanni, duca di Gandia, ed a Giuffrè, più giovane di tutti, il Papa faceva vasti disegni nel reame di Napoli, e voleva dare al primo i feudi di Cervetri e d'Anguillara. Ma qui incominciarono subito gravissime complicazioni, le quali inasprirono fieramente l'animo d'Alessandro VI.

Non era appena morto Innocenzo VIII, che il figlio Franceschetto Cibo, conoscendo la sua mutata condizione, se n'era fuggito a Firenze, presso il cognato Piero de' Medici, ed aveva per 40,000 ducati venduto appunto i feudi di Cervetri e d'Anguillara a Gentil Virginio Orsini, capo della famiglia, potentissimo e superbo a segno che aveva minacciato una volta di gettare lo stesso Innocenzo VIII nel Tevere. Asserivasi inoltre che Ferrante d'Aragona aveva anticipato il danaro. Di qui un odio inestinguibile del Papa contro Ferrante, e più ancora contro l'Orsini. In mezzo a tutti questi pericolosi disordini, Lodovico il Moro, per conoscer meglio chi gli era amico e chi gli era nemico, propose che i suoi ambasciatori andassero a congratularsi col nuovo Papa, insieme con quelli di Napoli, Firenze e Venezia. La proposta non fu accettata, perchè Piero de' Medici, così almeno dicevasi, per la vanità di mandare un'ambasciata in suo proprio nome, indusse Ferrante a mettere innanzi dei pretesti. Al Moro parve allora d'essere isolato in Italia, e si volse disperatamente al partito di chiamare i Francesi.

Mentre così l'orizzonte già nero, diveniva ancora più tetro, il Santo Padre non pigliava alcun partito, ma tergiversava con tutti, aspettando a decidersi quando fosse possibile farlo con sicuro vantaggio per sè e per i figli. E intanto profittava del tempo per darsi tutto, vecchio com'era, ai piaceri. La Vannozza era ormai lontana dal Vaticano, ed il Papa si abbandonava sempre più all'amore, cominciato già fin dal 1491, con la Giulia Bella, che aveva allora 17 anni. La figlia Lucrezia, più giovane di quattro anni, continuava a vivere in casa dell'Adriana, ed in mezzo a questi scandali riceveva la sua prima educazione. Può ognuno immaginar facilmente, se le era possibile ricevere quella coltura, che alcuni pretesero attribuirle perchè imparò facilmente a parlar molte lingue. Ella, infatti, conosceva non solo l'italiano, il francese e lo spagnuolo, che era la lingua propria dei Borgia; ma capiva il latino, e qualche cosa pare che avesse praticamente appreso anche del greco, forse dagli emigrati di Costantinopoli che frequentavano il Vaticano. Pure le lettere che abbiamo di lei, le quali sono quasi tutte di poca importanza, non valgono a dar prova di questa vantata cultura. Quanto al suo misterioso carattere sarà meglio aspettare a giudicarlo dai fatti; per ora l'aria che ella respira è avvelenata non meno del sangue che scorre nelle sue vene.

Nel 1491, in età di soli undici anni, era stata con regolare contratto promessa sposa ad uno Spagnuolo, e poi, sciolto il contratto, promessa contemporaneamente a due altri Spagnuoli, con uno dei quali, don Gasparo conte d'Aversa, tutto fu concluso. Ma salito sulla cattedra di San Pietro Alessandro VI, la figlia del Papa non poteva più contentarsi di un tal matrimonio. Difatti venne sciolto il contratto con danaro, ed il 2 febbraio 1493 Lucrezia Borgia, virgo incorrupta, aetatis iam nubilis existens, sposò Giovanni Sforza, signore di Pesaro. Le nozze furono celebrate il 12 giugno in Vaticano, con grandi e ricchi donativi alla sposa, che portava una dote di 31,000 ducati; con splendida festa, cui intervennero da 150 signore; con una cena data agli sposi dal Papa, alla quale presero parte Ascanio Sforza, parecchi cardinali e alcune signore, fra cui primeggiavano, come racconta l'ambasciatore di Ferrara, «Madonna Iulia Farnese de qua est tantus sermo..., e Madonna Adriana Ursina, la quale è socera de la dicta madonna Iulia.» Si attese l'intera notte a danzare, a recitar commedie con canti e suoni, e furono presentati ricchi donativi. Il Papa, conchiude l'ambasciatore, assistè a tutto, e sarebbe troppo lungo descrivere ogni cosa: Totam noctem consunpsimus, indicet modo Exc. Dominatio Vestra si bene o male.

Il duca di Gandia s'apparecchiava ad andare nella Spagna, per contrarre un ricco matrimonio. L'altro figlio del Papa, Cesare, sebbene, giovane come era, avesse un vescovado col benefizio di 16,000 ducati l'anno, pure si mostrava assai insofferente della vita ecclesiastica; andavasene a caccia vestito da laico; aveva passioni violenti ed irrefrenabili; esercitava sull'animo del padre un ascendente quasi magnetico. Quanto a Giuffrè, si facevano sempre nuovi disegni di matrimonio. Roma era intanto piena di assassini e di delitti, di preti, di Spagnuoli e di donne perdute. Ogni giorno arrivavano Musulmani ed Ebrei cacciati dalla Spagna, i quali trovavano facile accoglienza, perchè il Papa, imponendo loro gravi tasse, si faceva largamente pagare la sua cristiana tolleranza. Egli stesso andava a caccia o al passeggio, circondato d'armati, in mezzo a Gemme ed al duca di Gandia, vestiti ambedue alla turca. Qualche volta fu visto ancora fra le sue donne, con abiti alla spagnuola, con stivali, pugnale ed un berretto di velluto assai elegante.

Da un pezzo i Papi del Rinascimento s'erano abbandonati alla vita mondana ed ai vizî: ma solo il Borgia, perduto ogni pudore, ne menava vanto e ne faceva pompa cinicamente. Fino allora non s'era visto, nè poi si vide mai, la religione tanto profanata dal Santo Padre, in mezzo al sorriso ironico ed ai più spudorati baccanali, tutto ciò accompagnato da un'aria d'ingenua bonarietà!

2. - VENUTA DI CARLO VIII IN ITALIA.

Carlo VIII, educato colla lettura di romanzi cavallereschi e di storie delle Crociate, senza alcuna serietà di carattere, aveva la testa piena di fantastici disegni, e si lasciava dominare da due ambiziosi che gli erano sempre dintorno. Il primo di essi, Stefano di Vesc, di cameriere fatto ciambellano e siniscalco di Beaucaire, divenuto assai ricco, era avido di sempre nuovi guadagni. L'altro, Guglielmo Briçonnet, ricco signore della Touraine, dopo aver perduto la moglie, era stato nel 1493 nominato vescovo di San Malò; aspirava al cappello cardinalizio, e conduceva intanto le faccende principali dello Stato. Su questi due uomini operava con promesse e con danari Lodovico il Moro. Egli, dopo il matrimonio di Lucrezia Borgia col signore di Pesaro, che era degli Sforza, sentiva crescere in Roma il proprio potere, sostenuto dalla presenza colà di suo fratello il cardinale Ascanio. Ora trattava contemporaneamente con tutti i potentati d'Italia, perchè il suo più segreto pensiero era di far venire i Francesi, e formare poi una lega per cacciarli, sperando così di restare solo arbitro d'ogni cosa. Intanto gli esuli italiani, e specialmente i napoletani, lo secondavano, spingendo con ogni lor possa il re Carlo a partire; ma gli uomini di Stato e i capitani più reputati in Francia disapprovavano altamente questa impresa. Il domani non era quindi più certo per nessuno, e gli animi erano pieni d'una straordinaria trepidazione.

In questo stato di cose ambasciatori italiani percorrevano la Penisola e l'Europa intera, in mille direzioni diverse. Un'operosità simile a questa non fu mai veduta al mondo: ogni altro lavoro intellettuale dell'Italia sembrava che dovesse sospendersi, per dar luogo ad un nuovo, grande lavoro diplomatico; e l'infinita moltitudine di dispacci che si scriveva adesso, divenne un monumento storico e letterario di capitale importanza, che ci rivela mirabilmente il vero stato della società e degli animi in quei giorni così infausti per noi. Gli ambasciatori veneti, ora come sempre, primeggiano per senno pratico e politica prudenza; i fiorentini invece per forza d'analisi psicologica, studio di caratteri e di passioni, evidenza nelle descrizioni, eleganza impareggiabile nella forma sempre disinvolta e spontanea. I medesimi pregi si trovano più o meno in tutti gli altri: è questo il momento in cui si forma la nuova educazione politica degl'italiani, e si crea finalmente la moderna scienza di Stato.

Sin dal 1492 l'ambasciatore veneto Zaccaria Contarini aveva mandato un ragguaglio minutissimo delle condizioni commerciali, politiche, amministrative della Francia. A lui pareva impossibile che quel paese potesse mai risolversi alla spedizione d'Italia, circondato com'era da ogni lato di pericoli e di nemici, con un Re che, secondo lui, valeva assai poco d'animo e di corpo. Se non che, nello stesso anno, il Re s'accordava con l'Inghilterra mediante danaro, con la Spagna cedendo il Rossiglione ed altre terre sulla frontiera dei Pirenei, con Massimiliano facendo un trattato che prometteva altre cessioni importanti. Lodovico il Moro s'obbligava a dare uomini e denari, lasciando libero in Lombardia il passo all'esercito francese. Continuava intanto i segreti accordi con alcuni degli Stati italiani; prometteva sua figlia Bianca con ricca dote a Massimiliano, per aver in cambio l'investitura di Milano. Tuttavia le cose erano ancora lontane da una conclusione definitiva. L'ambasciatore fiorentino scriveva da Napoli: «il duca di Bari» (così, a suo grande dispetto, soleva esser chiamato Lodovico il Moro) «ha gran piacere di tenere le cose in travaglio, e sa fare mille disegni, che riescono per ora solo in mente. Pure bisogna stare in guardia.»

Il Casa, oratore fiorentino in Francia, nel giugno del 1493 giudicava ancora impossibile l'impresa, perchè grandissima era la confusione, il Re lasciavasi tirare da ogni lato, e si dimostrava tanto incapace da vergognarsene a dirlo. Ma poi, vedendolo deciso contro l'opinione dei più autorevoli, e vedendo che gli apparecchi continuavano contro tutti i ragionamenti, disperato quasi del suo proprio giudizio, scriveva: «a capire le cose di qui bisognerebbe essere magico o indovino, che prudente non basta. Questa faccenda aiuterà secondo che la si butterà.» E Gentile Becchi, altro oratore sopraggiunto nel settembre, scriveva a Piero de' Medici, che la cosa era tanto innanzi da non «potersi sperare di svolgere capi di bronzo come i Francesi. Questa serpe ha la sua coda in Italia. Sono gl'italiani che spingono a più potere; Lodovico avrebbe voluto solamente sbattere Napoli, e restar egli padrone del gioco; ma la rabbia l'ha condotto nella trappola apparecchiata ad altri. Il meglio perciò è starsene sulle àncore fra Napoli e Milano: loro che se hanno appiccata questa rogna, lor se la grattino. Per fermare tutto occorrerebbe spendere più danari che non ne spende Lodovico; sicchè ormai l'impresa anderà, e se il Be vince, actum est de omni Italia, tutta a bordello: se perde, si vendicherà sui mercanti italiani in Francia, massime sui vostri.» Piero de' Medici sperava sempre di poter persuadere Lodovico, ma il Becchi che lo aveva conosciuto bambino, quasi lo sgridava, scrivendogli: «attendete ai casi vostri, che avete briga un mondo. Credete voi che Lodovico non sappia a che pericolo mette sè e gli altri? Coi vostri consigli lo farete solo più ostinato.» Sopravvennero nuovi ambasciatori, fra i quali Piero Capponi, che allora pareva amico de' Medici, e scrissero chiaro non esservi ormai altro da fare, che apparecchiarsi alla difesa.

A Milano invece gli ambasciatori fiorentini cavavano assai poco dal Moro. Agnolo Pandolfini, stato colà nel 1492 e 93, l'aveva trovato occupato a mulinare disegni ed a consultare gli astrologi, cui prestava fede grandissima: diceva di voler mettere una briglia in bocca a Ferrante, troppo vago di novità. Nel 1494 il dado era tratto, ma neppure allora l'ambasciatore Piero Alamanni poteva cavar nulla da lui. «Voi mi parlate pure di questa Italia,» egli diceva, «ed io non la vidi mai in viso. Nessuno s'è mai dato pensiero delle cose mie; ho dovuto quindi assicurarle in qualche modo.» E quando l'ambasciatore gli faceva notare il pericolo in cui s'era messo, rispondeva, che lo vedeva bene, ma che il peggior pericolo era d'essere «tenuto una bestia.» Poi, quasi pigliandosi gioco di lui, aggiungeva: «Parlate pure. Che cosa suggeriscono i Fiorentini? Non vi adirate, aiutatemi a pensare.» Nè altro v'era da cavarne.

Da Venezia gli ambasciatori scrivevano, che quei patrizî s'erano chiusi in un estremo riserbo, e tagliavano i discorsi quando si parlava dei Francesi. «Credono che lo stare in pace essi, e vedere li altri potentati d'Italia spendere e patire, non possa essere se non a proposito loro. Diffidano di tutti, e sono persuasi d'aver tanti danari da potere in ogni momento assoldare quanti uomini d'arme vogliono, e così essere sempre padroni di condur le cose dove parrà a loro.»

A Napoli, invece, quel Re era in preda alla più grande agitazione, e coll'aiuto del Pontano scriveva lettere, che parevano qualche volta profetizzare i vicini guai del Regno e dell'Italia. Il Papa non sapeva perdonargli l'opposizione fatta alla propria elezione, nè l'avere secondato la vendita di Cervetri e d'Anguillara all'Orsini. Sua nipote Isabella, moglie di Galeazzo Sforza, era tenuta come prigioniera dal Moro, che agitava l'Italia co' suoi tenebrosi disegni; sua figlia Eleonora, moglie d'Ercole d'Este, la sola che riuscisse a moderare l'animo del Moro, era morta nel 1493; l'altra figlia, Beatrice, era ripudiata dal re d'Ungheria, ed il Papa favoriva lo scioglimento del matrimonio. Intanto tutti parlavano della prossima venuta dei Francesi. Vi fu un momento di speranza, quando il Papa trattò di sposare uno de' suoi figli con una figlia naturale del Re; ma poi si ritirò, quasi avesse voluto canzonarlo. Ferrante scrisse allora al suo ambasciatore in Roma, amaramente dolendosi di questa condotta del Papa, nel momento in cui stavano «per mestecare insieme il loro sangue. Si ricordi,» egli concludeva, «che non siamo giovani, nè da lasciarci condur per il naso da lui.»

Di tutto ciò Alessandro VI si curava poco, e andava innanzi negli accordi coi Veneziani e con Milano; onde il Re scriveva: «Da chi si vuol difendere quando nessuno lo assale? Pare proprio destinato che i Papi non debbano lasciare in pace nessuno, per mettere a rovina l'Italia. Noi ora siamo forzati alle armi; ma il duca di Bari deve pensare a quello che può seguire dal tumulto che suscita. Chi muove questa procella non sarà in grado di fermarla a sua posta. Consideri bene il passato, e vedrà come ogni volta che per le interne dissensioni si sono chiamate e condotte in Italia potenze ultramontane, esse l'hanno oppressa e tiranneggiata, che ancora se ne vedono i vestigi.»

E poco dipoi scriveva al suo ambasciatore in Spagna addirittura come un uomo disperato: «Questo Papa vuol proprio mettere a soqquadro l'Italia. Per far danari s'accinge a nominare tredici cardinali a un tratto, dai quali caverà non meno di 300,000 ducati. Trovò tutto tranquillo, e si diè subito a far leghe e cercare tumulti.» - «Fa tale vita che da tutti è abominata, senza respecto de la sedia dove sta, nè cura de altro che, ad dericto e reverso, fare grandi li figliuoli, e questo è solo il suo desiderio; e li pareno mille anni intrare in guerra, che da principio del suo papato non ha facto altro, si non ponerse in affanno, e molestarne quando per una via e quando per un'altra.... E Roma è tutta piena de soldati più che de preiti, e quando va per Roma, va con le squatre de le gente d'arme avanti, con li armetti in testa, e lance a la cossa, per forma che tutti motivi soi sono ad la guerra, et in pernitie nostra, nè mai obmictere cosa che possa machinare contra de noi, sublevando non solamente in Francia el principe de Salerno et alcuni altri nostri rubelli, ma per Italia omne cancello rotto, lo qual senta essere adverso: et in tutte cose va con frode e simulatione, come è sua natura, e per fare danari vende omne minimo officio e beneficio.»

Pure nell'agosto Virginio Orsini s'obbligava a pagare al Papa, per aver liberi i feudi contrastati, 25,000 ducati colla garanzia di Ferrante e di Piero dei Medici; e nel medesimo giorno veniva finalmente segnato il contratto di matrimonio fra don Giuffrè Borgia, figlio del Papa, in età di dodici anni, e donna Sancia, figlia di Alfonso d'Aragona. Ella era rappresentata da don Federigo suo zio, che ricevette per lei l'anello nuziale fra le risa degli astanti, specialmente del Papa che lo abbracciò. Ferrante era fuori di sè per la gioia di questo matrimonio, che doveva restar segreto fino a Natale. Egli allora s'abbandonò tanto alla speranza, che il 5 dicembre propose al Papa una lega italiana. Ma questi, prima che s'arrivasse a Natale, aveva già mutato parere, e s'era avvicinato al Moro. «Noi e nostro padre,» scriveva allora il Re all'ambasciatore, «abbiamo sempre obbedito ai Papi; eppure non ve n'è stato uno solo che non abbia cercato farci il peggio che ha potuto. Con questo Papa poi, che pure è della nostra patria, non c'è stato possibile avere un sol giorno di riposo. Non sappiamo davvero perchè vuole stare in travaglio con noi, se non sia per influenza dei cieli, e per seguire l'esempio degli altri, che pare destino che tutti i Papi ci debbano tormentare. Esso ci vuol tenere sempre sospesi, mentre noi»....«non avimo pilo adosso, che mai abbia pensato di darline una minima causa.»

Il Re sente adesso vicina ed inevitabile la catastrofe; sente che le forze gli mancano, che la morte s'avanza, e che il suo regno anderà in frantumi. L'angoscia traspare da ogni linea delle sue lettere, nelle quali egli dice e ripete, si adira e si umilia. Il 17 gennaio 1494 scriveva quella che può dirsi la sua ultima lettera. «Il signor Lodovico consiglia al Papa di tenerci in parole, perchè se i Francesi non vengono, potrà sempre accomodarsi con noi, che, secondo egli dice, non lo vorremmo, non che per parente, neppure per cappellano. Se poi vengono, sarà liberato dalla servitù nostra, degli Orsini e degli altri baroni, i cui beni potrà dare ai suoi figli; e così i Pontefici potranno in avvenire dominare lo Stato loro con la bacchetta in mano. In questo modo va mettendo l'Italia a fuoco, di che conviene egli stesso; ma aggiunge che il Papa deve postergare i danni d'Italia, perchè a schifare la febbre continua si deve comportare la terzana. Ed il Papa, essendo pur acuto e timido, si lascia tutto dominare da Ascanio e guidare da Lodovico; onde invano cerchiamo indurlo a godersi tranquillo il papato, senza entrare in affanni e partiti da capitani di ventura, come lo ricerca il duca di Bari. Questi asserisce che noi facciamo solo mostra d'armare, e che in estremo caso ricorreremmo anche all'aiuto del Turco. Ma noi siamo parati a difenderci, e saremo pronti ad ogni partito più disperato, quando non si ha da altri rispetto nè alla fede, nè alla patria, nè alla religione. Ci ricordiamo che lo stesso papa Innocenzo scrisse:

Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo.»

Finalmente, quasi vedesse dinanzi a sè il nemico temuto, concludeva con parole che possono dirsi profetiche: «Francesi mai vennero in Italia, che non la ponessero in ruina, e questa venuta è de natura che quando sia ben considerata, che porterà ruina universale, perbenchè se minacci solo a noi.»

E con l'animo lacerato da questo tormentoso pensiero, dopo una malattia di soli tre giorni, il 25 gennaio 1494 cessava finalmente di vivere. Gli successe Alfonso che, più impetuoso, più crudele, e d'ingegno inferiore al padre, capiva pure in che pessime condizioni si trovava, e cercava aiuto al Papa, a Lodovico, al Turco; ma invano, perchè la venuta dei Francesi era inevitabile, e con essa la fine degli Aragonesi in Napoli.

Piero de' Medici non si curava di nulla a Firenze, inclinava verso gli Aragonesi, e si divertiva nella giostra, che allora s'apparecchiava; i Veneziani stavano a vedere; Ferrara si dichiarava amica di Francia; Bologna s'alleava col Moro; il Papa, sempre uguale a sè stesso, spaventato dalla minaccia di un conciliabolo, che Carlo VIII diceva di voler radunare, dichiarava che lo avrebbe ricevuto in Roma da amico, e nel medesimo tempo mandava in Napoli un suo nipote ad incoronare il re Alfonso. La confusione era al colmo, e gli esuli italiani spingevano più che mai i Francesi a partire, sperando ognuno di poter così fare le proprie vendette contro i governi esistenti.

Ai primi di marzo Carlo VIII faceva il suo solenne ingresso a Lione, per assumere il comando dell'impresa; un'avanguardia sotto lo scozzese d'Aubigny s'avanzava già verso la frontiera napoletana, e il duca d'Orléans era a Genova. I Napoletani dall'altro lato mandavano il principe d'Altamura con trenta galere verso Genova, nel tempo stesso in cui il duca di Calabria, giovinetto inesperto, sotto la guida di provetti generali, tra cui era G. G. Trivulzio, valoroso esule milanese, entrava nello Stato pontificio. Il Papa sembrava aver perduta la testa, e non sapeva più a qual partito appigliarsi. Pure, profittando del momento, chiedeva al Sultano l'anticipazione dei 40,000 ducati dovutigli ogni anno per tenere in custodia Gemme. A mettergli poi spavento, aggiungeva che i Francesi venivano a liberare il prigioniero, volendo col suo aiuto portar guerra in Oriente. E i danari sarebbero arrivati, se a Sinigaglia l'ambasciatore che li recava, non fosse stato nel settembre preso e svaligiato dal prefetto Giovanni della Rovere, fratello del cardinale di San Piero in Vincoli.

Ai primi di settembre Carlo VIII, passato il Monginevra, entrava in Asti. E presto gli arrivava la notizia, che don Federico, col naviglio napoletano, era stato respinto da Porto Venere con gravi perdite, e il duca d'Orléans, entrato cogli Svizzeri a Rapallo, aveva saccheggiato il paese, mettendo gli abitanti a fil di spada, anche i malati nell'ospedale, con universale spavento di tutti gl'Italiani, non usi allora a questo genere di guerra. Arrivato a Piacenza, il Re seppe che Gio. Galeazzo, poco prima da lui veduto a Pavia, era colà morto avvelenato, almeno così dicevasi universalmente, dal Moro, il quale, fatte celebrare le esequie in Milano, entrava subito in Sant'Ambrogio, all'ora indicatagli dall'astrologo, per consacrare l'investitura già prima concessagli da Massimiliano re dei Romani. Tutto questo metteva sospetto e quasi terrore nell'animo dei Francesi, che comprendevano ora quale era la fede del più stretto alleato del Re in Italia. Il Moro infatti da un lato raccoglieva uomini e danari per aiutarli, dall'altro lavorava a stender le fila d'una lega, per poterli a suo tempo cacciare. Perrone de' Baschi, di origine italiana, era venuto nel 1493 a visitare le Corti della Penisola, e ne aveva, come scriveva Piero de' Medici, «riportato vento;» ed ora Filippo di Commines, uomo di grande accortezza ed ingegno, ma di pessima fede, che conosceva bene l'Italia, dove già era stato altre volte, non trovava in nessuna delle Corti speranza d'amicizia sicura, e meno ancora d'aiuti efficaci, sebbene molti desiderassero l'arrivo degli stranieri, per secondare i proprî disegni. Egli che nelle sue Memorie scrisse intorno agli uomini del suo tempo: «Nous sommes affoiblis de toute foy et loyaulté, les uns envers les aultres, et ne sçauroye dire par quel lien on se pouisse asseurer les uns des aultres,» sperimentava ora in Italia la verità della sua osservazione, e s'accorgeva d'essere in mezzo a gente anche più accorta e più furba di lui.

Ma la fortuna di Francia camminava nonostante a gran passi. Il duca di Calabria, giunto in Romagna, si ritirava nel Napoletano al solo apparire del d'Aubigny, ed il grosso dell'esercito francese, col Re alla testa, s'avanzava per la Lunigiana senza incontrare ostacoli di sorta. Dopo aver preso e saccheggiato Fivizzano, ponendo a fil di spada i cento soldati che v'erano a guardia, e parte degli abitanti, i Francesi si spinsero verso Sarzana, sopra un terreno sterile, fra i monti ed il mare, dove ogni lieve resistenza avrebbe potuto riuscir loro funesta. Ma invece i piccoli castelli, che erano posti a guardia di quei luoghi, cedettero l'un dopo l'altro, senza neppur tentare la difesa, e non era appena l'assedio di Sarzana cominciato, che Piero dei Medici arrivò tutto spaventato, e si arrese a discrezione, promettendo anche di pagare 200,000 ducati.

Se non che, tornato a Firenze il dì 8 novembre, trovò che la Città s'era ribellata, e aveva mandato per suo conto ambasciatori al Re, con incarico di riceverlo onorevolmente; ma nello stesso tempo s'apparecchiava a difendersi, occorrendo. Lo sdegno era così universale, che Piero se ne fuggì a Venezia, dove il suo ambasciatore Soderini a mala pena lo guardò, essendosi già dichiarato per il governo repubblicano, in questo mezzo proclamato a Firenze, dove tutto era rapidamente mutato. Il giardino dei Medici a San Marco, e le loro case erano andati a sacco; gli esuli erano stati richiamati ed assoluti; una taglia era stata messa su Piero e sul suo fratello cardinale. Nel medesimo tempo però Pisa s'era ribellata sotto gli occhi stessi di re Carlo, gettando in Arno il Marzocco; Arezzo e Montepulciano ne avevano imitato l'esempio. L'opera dei Medici, con tante cure e in sì lungo tempo condotta a termine, andava ora quasi istantaneamente in fumo.

Il 17 novembre Carlo VIII, alla testa del suo formidabile esercito, entrava in Firenze colla lancia in resta, credendosi per questo atto padrone della Città. Ma i Fiorentini s'erano armati, avevano raccolto seimila uomini dalla campagna, e sapevano bene che dalle torri e dalle case potevano mettere a grave pericolo un esercito diviso nelle strade. Respinsero quindi le eccessive domande del Re, e quando egli minacciò di far sonare le trombe, Piero Capponi, stracciando i capitoli che venivano insolentemente proposti, rispose che i Fiorentini avrebbero sonato le loro campane. Così si venne a patti più equi. Là Repubblica pagherebbe in tre rate 120,000 fiorini; le fortezze però le sarebbero state rese in breve. Il 28 novembre i Francesi lasciavano la Città, non senza aver prima rubato quella parte ancora rimasta intatta del tesoro di antichità, raccolte nel palazzo dei Medici. Fecero a chi più poteva, dice lo stesso Commines, e gli alti uffiziali rubarono più degli altri. Pure i cittadini erano contenti d'essere finalmente liberi dagli antichi tiranni e dai nuovi stranieri.

Arrivato a Roma Carlo VIII, per farla finita col Papa, che ora si mostrava deciso a resistere, puntò i cannoni contro Castel Sant'Angelo, e così tutto fu subito aggiustato. Il 16 gennaio 1495 il Briçonnet venne nominato cardinale di San Malò, ed il Re assistette il giorno 20 ad una messa solenne, celebrata dal Santo Padre, il quale, o per distrazione o per preoccupazione, commise, nei riti e nelle forme prescritte, molti errori, che il Burcardo, maestro delle cerimonie, in parte osservò troppo tardi, in parte lasciò correre per non richiamare su di essi l'attenzione degli altri.

Secondo l'accordo firmato a Roma, Carlo VIII, s'avanzò verso Napoli, accompagnato dal cardinal di Valenza come ostaggio, insieme con Gemme. Arrivati però a Velletri, il Cardinale scomparve: le sue argenterie s'erano già fermate a mezza via; i bauli che, caricati sopra diciassette muli, contenevano gli abiti e le masserizie, furono trovati vuoti; Gemme s'era ammalato così gravemente, che giunto a Napoli morì. Tutti dissero che era stato veleno dei Borgia; ma i Veneziani, sempre benissimo informati dai loro ambasciatori, affermavano invece che era stata morte naturale. Pure il Re fu molto sdegnato della fuga, ed esclamò: «Malvas Lombard, e lo primiero lo Santo Padre.» Ogni ricerca fu però vana. Egli continuò con l'esercito il suo cammino, senza quasi incontrare ostacoli di sorta fino a Napoli. Alfonso d'Aragona rinunziò al trono, e fuggì in Sicilia; Ferdinando II o, come dicevano, Ferrandino, dopo aver cercato invano aiuto da tutti, anche dal Turco, fece una resistenza inutile a Monte San Giovanni, che fu preso e distrutto: gli abitanti andarono a fil di spada. Gian Giacomo Trivulzio disertò gli Aragonesi, e passò al nemico; Virginio Orsini s'apparecchiava a far lo stesso; Napoli tumultuò in favore dei Francesi, che vi entrarono il 22 febbraio. Il giorno seguente Ferrandino fuggì ad Ischia, poi a Messina. E subito arrivarono gli ambasciatori degli altri Stati italiani a congratularsi col vincitore.

Ma adesso finalmente i Veneziani s'erano svegliati, ed avendo mandato i loro ambasciatori a Milano, per sapere se il Moro era disposto ad armarsi per cacciare i Francesi, lo avevano trovato non solo prontissimo, ma ancora pieno di sdegno. «Il Re non ha testa,» aveva egli detto; «è in mano di gente che pensa solo a guadagnar danaro, e tutti insieme non farìano mezz'uomo savio.» Ricordava l'alterigia con cui era stato trattato da essi, e si dichiarava deciso ad entrare in ogni lega per cacciarli. Consigliava di mandar danari alla Spagna ed a Massimiliano, perchè assalissero la Francia; ma aggiungeva, che bisognava guardarsi bene dal chiamarli in Italia: «chè dove ora abbiamo una febbre, allora ne avremmo due.»

La lega fu infatti conclusa tra i Veneziani, il Moro, il Papa, la Spagna e Massimiliano. E l'ambasciatore Filippo di Commines, che ora si trovava a Venezia, dove alla notizia dell'entrata del suo Re in Napoli aveva visto i Senatori abbattuti per modo che i Romani, dopo la disfatta di Canne, non potevano essere «plus esbahis, ne plus espouvantés,» adesso li trovava invece colla testa alta e pieni di fierezza. I Napoletani già stanchi della mala signoria, s'erano sollevati, e Carlo VIII, dopo soli cinquanta giorni di dimora fra di loro, partiva più che in fretta, per non trovar tagliata ogni ritirata; lasciava nel Regno poco più di 6000 uomini, menando seco un esercito numeroso, nel quale però si trovavano solo 10,000 veri e proprî combattenti. Il 6 di luglio si venne a giornata, a Fornuovo presso il Taro. Gli alleati avevano messo insieme circa 30,000 uomini, tre quarti dei quali erano dei Veneziani, il resto del Moro, con alcuni Tedeschi mandati da Massimiliano. Nel momento dell'assalto avevano pronti a combattere un numero d'uomini doppio dei Francesi; ma una metà di essi restò inoperosa per errore di Rodolfo Gonzaga, ed i nemici invece furono tutti al loro posto, con l'avanguardia sotto gli ordini di G. G. Trivulzio, il quale era adesso coi Francesi, e sebbene combattesse contro la patria sua, dimostrò pure grandissimo valore e capacità militare. La battaglia fu sanguinosa, e si disputò molto di chi fosse veramente la vittoria; ma se gl'Italiani non furono respinti, anzi restarono padroni del campo, i Francesi volevano passare e passarono; ottennero quindi essi lo scopo cui miravano.

Ad Asti il Re si fermò alquanto, e ricevette gli ambasciatori fiorentini, ai quali promise nuovamente di render loro così le fortezze occupate dai suoi, come la città di Pisa, e ne ebbe 30,000 ducati a saldo dei 120,000 promessi in Firenze, dando però in pegno gioie d'egual valore, da restituirsi appena rese le fortezze. Oltre di ciò i Fiorentini promisero 250 uomini d'armi per aiutare il Re a Napoli, ed un prestito di 70,000 ducati, che poi non dettero, perchè non riebbero le fortezze. Il Moro, profittando dell'occasione, venne subito ad accordo coi Francesi, senza occuparsi dei Veneziani, credendo così d'essersi liberato dagli uni e dagli altri, mentre invece s'esponeva all'odio d'ambedue, come dovette ben presto accorgersene.

La fortuna dei Francesi continuava ora a decadere rapidamente in Italia, e contribuiva a renderla peggiore non solamente la loro mala signoria nel Reame, ma la pessima condotta che tenevano verso i pochi amici restati loro fedeli nella Penisola. Il capitano d'Entrangues, infatti, violando tutte le promesse del Re, cedeva ai Pisani, per danaro, la fortezza della loro città, ed essi v'entrarono a gran dispetto dei Fiorentini, il primo di gennaio 1496. Più tardi cedeva, per altra somma, Pietrasanta ai Lucchesi; altri capitani, imitando l'esempio, cedettero Sarzana e Sarzanello. Ferdinando II intanto, coll'aiuto degli Spagnuoli comandati da Consalvo di Cordova, s'avanzava vittorioso nelle Calabrie, ed entrava in Napoli il 7 luglio 1496. In breve tutte le fortezze napoletane capitolarono, ed i Francesi che le guardavano, tornarono in patria più che decimati ed in pessime condizioni. Il 6 di ottobre Ferdinando II moriva esausto dalle agitazioni e fatiche della guerra, e gli succedeva lo zio don Federico, che in tre anni fu il quinto re di Napoli, e venne incoronato dal cardinal di Valenza.

L'Italia poteva dirsi ora nuovamente libera dagli stranieri. Vi fu, è vero, in quell'anno stesso, una breve corsa di Massimiliano che, istigato dal Moro, venne ad aiutare Pisa, per non farla cadere in mano dei Fiorentini, nè dei Veneziani; ma egli, arrivato con poche genti e non trovando nessun aiuto, partì senza aver nulla concluso. Napoli era in realtà venuta sotto l'assoluto predominio degli Spagnuoli, i quali già maturavano sul Reame tenebrosi disegni; ma questi vennero in luce solo più tardi. Carlo VIII diceva d'essere pentito, di voler mutar vita, di voler punire il Papa, e tornare all'impresa d'Italia; ma intanto se ne restava in Francia, abbandonato ai piaceri. Così, in apparenza almeno, tutto era tranquillo. Se non che il giorno 7 aprile 1498, il Re moriva d'apoplessia, estinguendosi con lui il ramo primogenito dei Valois, e gli succedeva il duca d'Orléans col nome di Luigi XII. Questi, pei suoi legami di sangue coi Visconti, aveva sempre preteso d'avere diritti sul Ducato di Milano. Ponendosi ora in capo la corona di Francia, aggiungeva a ciò la presunzione di altri diritti sull'Italia, e la forza per farli valere. Con lui infatti ricominciano e continuano lungamente nuove invasioni e calamità nella Penisola.

3. - I BORGIA.

Mentre però la pace apparente durava ancora, l'attenzione generale era richiamata sui fatti che seguivano in Roma e nella Campagna. Alessandro VI aveva profittato della cattiva fortuna dei Francesi, confiscando i beni degli Orsini, i quali avevano disertato gli Aragonesi per darsi a Carlo VIII, e dopo averlo abbandonato, quando ne videro mutate le sorti, erano più tardi tornati nuovamente a lui. Virginio Orsini cadde allora prigioniero nelle mani degli Spagnuoli venuti a rimettere sul trono di Napoli Ferdinando II. Essi dovevano, secondo i patti, ricondurlo al confine; ma a ciò si oppose fieramente il Papa, minacciando la scomunica, perchè egli voleva lo sterminio di quella famiglia. E così fu invece chiuso nel Castello dell'Uovo a Napoli, dove morì. Le sue genti vennero intanto svaligiate negli Abruzzi, restando prigionieri l'Alviano e Giovan Giordano Orsini.

Fu questo il momento scelto dal Papa per muovere guerra a que' suoi eterni nemici, sempre numerosi e potenti. Le genti di lui, comandate dal duca d'Urbino e da Fabrizio Colonna, uscirono in campo il 27 d'ottobre contro gli Orsini, che s'erano ritirati a Bracciano. Sebbene i principali di essi fossero allora prigioni, e molte battiture crudeli avesse d'anno in anno ricevute tutta la famiglia, pure erano sempre in grado di misurarsi col nemico. E le loro speranze crebbero poi moltissimo, quando Bartolommeo d'Alviano, fuggito dal carcere, giunse in Bracciano con alcuni de' suoi. Ben presto si venne fieramente alle mani, combattendo con valore non solo l'Alviano, ma anche sua moglie, sorella di Virginio Orsini. I primi scontri furono tutti a danno dei papalini. Arrivarono poi di Francia Carlo Orsini e Vitellozzo Vitelli, ma gli avversarî si ripresentarono anch'essi aumentati d'armi e d'armati, onde si venne il 23 gennaio 1497 ad una vera battaglia, che finì con una segnalata vittoria degli Orsini. Negli scontri antecedenti il cardinale di Valenza era stato inseguìto fin sotto le mura di Roma; ora poi il duca di Gandia fu ferito, il duca d'Urbino venne fatto prigioniero, il cardinale Lunate fuggì con tanta fretta e spavento che ne morì. I nemici dei Borgia esultarono; gli Orsini furono di nuovo padroni della Campagna. Il Papa, fuori di sè per lo sdegno, faceva nuovi apparecchi di guerra, e chiamava in aiuto lo stesso Consalvo di Cordova, quando i Veneziani entrarono di mezzo, e la pace fu fatta. Pagarono gli Orsini 50,000 ducati, ma tornarono padroni delle proprie terre, e vennero liberati quelli fra di loro che erano prigioni nel Napoletano, salvo Virginio, morto prima ancora che gli giungesse la nuova della vittoria. Il duca d'Urbino, su cui avevano posto la taglia di 40,000 ducati, fu da essi consegnato al Papa in conto della somma che gli dovevano, ed il Papa non liberò il Duca, che era stato suo proprio capitano, se prima non pagò a lui la taglia imposta dai nemici. Questo figlio del celebre Federico, era senza prole, e i Borgia dopo essersi fatti difendere da lui, lo spogliavano ora de' suoi danari, per poi più iniquamente ancora spogliarlo dello Stato.

Nonostante la pace gravosa, gli Orsini avevano un potere immenso; il Papa, odiato da tutti, non poteva più fidare in altri che ne' suoi 3000 Spagnuoli e nell'amicizia dimostratagli da Consalvo di Cordova, che ripigliò per lui la fortezza di Ostia. Non potevano dunque i Borgia pensare a nuove imprese di guerra, ed allora subito sembrò che volessero adoperare le proprie armi per sterminarsi fra di loro, con non credibile malvagità. La notte del 14 giugno 1497 il duca di Gandia non tornò a casa. Il giorno di poi il suo staffiere fu trovato ferito, senza che sapesse dir nulla del padrone; la mula che il Duca aveva cavalcata, girava per le vie con una staffa sola, pendente dalla sella; l'altra era stata tagliata. Tutto pareva un mistero. Aveva la sera innanzi cenato con suo fratello il cardinale di Valenza presso la madre Vannozza. Erano usciti insieme a cavallo, separandosi poco dopo, il Duca seguìto da un uomo in maschera, che da molto tempo lo accompagnava sempre, e dallo staffiere che lasciò in Piazza dei Giudei. Null'altro si potè sapere. In sulle prime il Santo Padre rise, credendo che suo figlio si fosse nascosto con qualche donna. Non vedendolo però tornare a casa la seconda notte, fu preso da uno spavento e da un'agitazione grandissima. A un tratto, senza saper come, si sparse in Città la voce, che il Duca era stato gettato nel Tevere. Interrogato uno degli Schiavoni, che facevano a Ripetta commercio di carbone, rispose come, dormendo in barca la notte del 14, aveva visto arrivare un cavaliere con un cadavere in groppa, accompagnato da due pedoni, e gettato nel fiume il cadavere, erano tutti scomparsi. Interrogato perchè non ne avesse parlato prima, rispose, che di continuo aveva visto la notte, in quel medesimo luogo, seguir centinaia di simili fatti, senza che mai vi si facesse caso. Un gran numero di marinari fu mandato a cercar nel fiume, e pescarono il figlio del Papa ancora con gli stivali, sproni e mantello. Aveva le mani legate; nove ferite alla testa, alle braccia, al corpo, una delle quali mortale alla gola; trenta ducati nella borsa, segno evidente che non lo avevano ucciso per derubarlo. Il cadavere fu solennemente sepolto in Santa Maria del Popolo. I più erano contenti dell'accaduto; gli Spagnuoli bestemmiavano e piangevano; il Papa, quando fu certo che suo figlio era stato a Ripetta gettato nel Tevere come la spazzatura, s'abbandonò ad un profondo dolore, di cui nessuno lo credeva capace. Si chiuse nel Castel Sant'Angelo, inseguìto, dicevano molti, dallo spirito del Duca, e pianse. Non volle prendere cibo per più giorni, e le sue grida si sentivano di lontano. Il 19 giugno tenne un concistoro, in cui disse, che non mai aveva provato così grande dolore: «Se avessimo sette papati, li daremmo tutti per aver la vita del Duca.» Mostrò un pentimento, che parve sincero, della sua vita passata, e annunziò a tutti i potentati, che aveva affidato la riforma della Chiesa a sei cardinali: ad altro ormai non voleva più pensare. Tutti questi proponimenti cristiani andarono però subito in fumo.

Chi era l'autore dell'assassinio, da quali ragioni era stato mosso? Si sospettò degli Orsini; si sospettò del cardinale Ascanio Sforza, che aveva recentemente avuta qualche contesa col Duca, e questi sospetti furon tali, che il cardinale, anche dopo le esplicite dichiarazioni del Papa, di non aver mai prestato alcuna fede a simili dicerìe, non si presentò a lui senza essere accompagnato da amici sicuri e con armi nascoste. Si fecero mille ricerche, che poi a un tratto vennero sospese, e corse la voce da tutti creduta, che l'assassino del Duca era stato suo fratello il cardinal Cesare Borgia. «E certamente,» scriveva l'ambasciatore fiorentino, sin dal principio, «chi ha governato la cosa ha avuto e cervello e buono coraggio, et in ogni modo si crede sia stato gran maestro.» A poco a poco i dubbi non caddero più sull'autore dell'assassinio; ma sulle ragioni che aveva avute, per giungere a tale misfatto.

Si parlò di gelosia tra il Cardinale e il Duca per la cognata donna Sancia, moglie di don Giuffrè, la quale menava una vita assai scandolosa. Si disse di peggio ancora, osandosi pubblicamente parlare di gelosia tra i due fratelli, che si disputavano col padre la sorella Lucrezia. E queste voci orrende venivano registrate e credute da storici gravissimi, ricordate da poeti illustri. Pure, sebbene tutto ciò si ripetesse pubblicamente da ognuno, e tutti chiamassero autore dell'assassinio Cesare Borgia, questi allora appunto divenne l'uomo più potente in Roma e più temuto, anche dal Papa, che pareva subisse come il fascino misterioso del proprio figlio. Questi s'era omai deciso a lasciar la vita ecclesiastica, e già si parlava di fare in sua vece cardinale il fratello don Giuffrè, separandolo dalla moglie, la quale avrebbe sposato Cesare, appena fosse tornato laico.

Alessandro VI continuava intanto le sue tresche con la Giulia Bella e con alcune Spagnuole. Egli aveva ancora, secondo la pubblica voce, avuto un figlio da una Romana, il cui marito si vendicò uccidendone il padre, che l'aveva prostituita al Sommo Pontefice. La Lucrezia, che nel giugno 1497, quando cioè il duca di Gandia veniva assassinato dal fratello, trovavasi confinata in un convento, senza che se ne sapesse la ragione, fu per volontà del padre separata nel decembre dal marito Giovanni Sforza, che venne a tal fine dichiarato impotente. Nel marzo 1498, secondo notizie riferite anche da ambasciatori, essa partoriva un figlio illegittimo, intorno al quale si avvolse un gran mistero. Da un lato nessuno più parla di lui, da un altro comparisce alcuni anni dopo un Giovanni Borgia, che per la sua età dovè esser nato appunto verso il 1498. Il Papa lo legittimò prima con un Breve del 1° settembre 1501, come figlio naturale di Cesare, dicendolo di tre anni circa; e con un secondo Breve, in data dello stesso giorno, lo riconobbe invece come suo proprio figlio, dichiarando però che doveva, nonostante, sussistere la precedente legittimazione, la quale in sostanza fu fatta, perchè il misterioso fanciullo potesse legalmente ereditare. Tutti i documenti che lo risguardano, sono nell'archivio privato di Lucrezia, che fu portato a Modena. E presso di lei abbiamo notizie che si trovava una volta in Ferrara lo stesso Giovanni, di cui questo solo possiam dire, che la sua nascita misteriosa è quella certamente che dette origine alle sinistre voci che correvano intorno alle relazioni del Papa con la propria figlia. Queste voci vennero propagate dallo Sforza marito di lei, il quale a Milano disse chiaro, che questa era la ragione, per cui il Papa lo aveva voluto dividere dalla propria moglie.

Nel luglio 1497 Cesare Borgia andò a Napoli per incoronare re Federico, e per chiedere danari, favori, feudi, con tale insistenza, che l'ambasciatore fiorentino scriveva: «Non sarebbe da maravigliarsi se, per liberarsi da tante angherìe, il povero Re si gettasse disperato al Turco.» Il 4 settembre era di ritorno in Roma, dove fu notato che baciò il Papa senza che l'uno all'altro dicesse verbo. Cesare allora parlava poco e faceva paura a tutti. A lui occorrevano danari per supplire alle entrate che perdeva lasciando il cappello cardinalizio, e per attuare i suoi nuovi e vasti disegni. Il Papa, che in tutto lo secondava, si diede perciò, senza scrupoli, a cercar nuove vittime. Il segretario Florido fu accusato come autore di falsi Brevi, e subito venne saccheggiata la sua casa, e si portarono in Vaticano i danari, i tappeti e le argenterie che v'erano. L'infelice, gettato in un carcere perpetuo, vi restò solo con pane, acqua ed una lucerna. Il Papa di tanto in tanto vi mandava qualche prelato, perchè, giocando con lui a scacchi, s'adoperasse a cavarne confessioni, che déssero modo di porre le mani addosso ad altri, fino a che nel luglio 1498 quel disgraziato cessò di vivere.

Nel medesimo tempo si trattava col re di Napoli per sposare la figlia di lui, Carlotta, con Cesare ancora cardinale. Ed il Re, disperato di tante vessazioni, dopo aver dichiarato di voler piuttosto perdere il regno che dare la sua figlia leggittima ad un «prete bastardo di prete,» dovette nondimeno, per salvarsi dalle gravi minacce del Papa, quando già correvano le voci, di cui più sopra parlammo, consentire invece al matrimonio di Lucrezia Borgia con don Alfonso duca di Bisceglie, giovane di appena 17 anni, figlio naturale di Alfonso II. Le nozze furono celebrate il 20 giugno 1498, «et il Papa,» scriveva l'ambasciatore veneziano, «stete fino a zonzo (giorno) alla festa, adeo fece cosse da zovene.»

Il 13 agosto 1498 finalmente Cesare dichiarò in concistoro, che aveva accettato il cappello per far piacere al Papa; ma che la vita ecclesiastica non era per lui, e voleva ormai lasciarla. I cardinali consentirono, Alessandro VI soggiunse cinicamente, che dava il proprio assenso pel bene dell'anima di Cesare, pro salute animae suae; e questi, spogliato l'abito, venne subito inviato in Francia, dove portò una Bolla di divorzio a Luigi XII, che voleva separarsi dalla moglie, e sposare la vedova di Carlo VIII, la quale recava in dote la Brettagna. Il Re aveva già promesso a Cesare il ducato di Valentinois ed alcuni soldati, che con la bandiera di Francia dovevano aiutarlo grandemente nell'impresa di Romagna. Per trovare le molte migliaia di scudi necessarie a questo viaggio, che doveva superare in splendore ogni immaginazione, furono venduti ufficî, vennero accusati come Marrani e poi assoluti per danaro trecento individui. Il maestro di casa del Papa, col medesimo pretesto, venne messo in carcere, portandogli via da 20,000 ducati, che aveva in casa e nelle banche. Il 1° di ottobre 1498 Cesare partì per la Francia, con la Bolla del divorzio, con un cappello cardinalizio per monsignor d'Amboise, ed una lettera con cui il Papa diceva al Re: «destinamus Maiestati tuae cor nostrum, videlicet dilectum filium Ducem Valentinensem, quo nihil carius habemus.» Lo splendore del viaggio fece davvero sbalordire i Francesi; l'abito del Duca Valentino, ormai è questo il suo nome, era tempestato di gioie, ed egli gettava danaro per le vie. Anche adesso però fallirono i nuovi tentativi da lui fatti per ottenere la mano di Carlotta d'Aragona, che allora trovavasi in Francia. Invano il cardinale di San Pietro in Vincoli, altra volta nemico del Papa, s'adoperò a tutt'uomo. Il Duca la desiderava con ardore, per la speranza di potersene un giorno valere a impadronirsi del regno di Napoli; ma quella principessa aveva per lui un vero orrore, e trovavasi in ciò d'accordo col proprio padre.

Così Cesare, avuto il ducato di Valentinois e cento lance francesi, si dovè contentare di sposare Carlotta, sorella di Giovanni d'Albrét, re di Navarra, e parente di Luigi XII. Questi prometteva al Duca nuovi aiuti, quando la Francia avesse conquistato Milano, al qual fine metteva insieme un esercito, e s'era già alleato con Venezia (15 aprile 1499), aderendovi anche il Papa, che secondo il suo solito aveva mutato bandiera. Da ciò era seguìto un alterco vivissimo fra lui e l'ambasciatore spagnuolo. Questi minacciò di provargli che egli non era vero Papa, e l'altro di rimando minacciò di farlo gettare nel Tevere, e dimostrare che la regina Isabella non era poi «quella casta donna si predicava» Ne restò tuttavia il Santo Padre assai sgomento, perchè, sebbene si fosse dato alla Francia, aveva pur sempre molte speranze sul regno di Napoli, e queste riuscivano vane senza l'aiuto di Spagna. Egli, è ben vero, diceva e ripeteva ora di voler fare Italia «tutta de uno pezzo;» ma gli ambasciatori veneti, che lo conoscevano a fondo, avvertivano sempre che quest'uomo simulatore e dissimulatore, a 69 anni floridissimo di salute, e abbandonato sempre ai piaceri, mutava ogni giorno politica, e cercava garbugli solo per dare il Reame al figlio: intanto aveva ridotto Roma ad una «sentina di tutto il mondo.»

Il 6 di ottobre 1499 Luigi XII entrava in Milano, alla testa del suo esercito comandato da G. G. Trivulzio, e Lodovico il Moro, che s'era apparecchiato alla difesa, vedendo ora che aveva contro di sè Francesi e Veneziani, e che i suoi lo abbandonavano, se ne fuggì invece a cercare aiuti in Germania. Gli ambasciatori italiani accorrevano intanto a Milano per ossequiare il Re, che ricevette fra gli altri anche il Valentino, venuto in persona con piccolo seguito e con la bandiera di Francia. Assicuratosi della buona amicizia del vittorioso monarca, avuta promessa di nuovi aiuti per condurre innanzi le sue sanguinose imprese, e fatto a Milano un prestito di 45,000 ducati, egli se ne tornò a Roma, dove il Papa raccoglieva danari allo stesso fine, valendosi d'ogni mezzo, onesto e disonesto, anche di nuovi assassinii. Il protonotario Caetani messo in prigione vi morì, e i suoi beni furono confiscati; il suo nipote Bernardino venne ucciso dai birri del Valentino presso Sermoneta, feudo di cui subito s'impossessarono i Borgia. Intanto il Valentino venne nominato gonfaloniere della Chiesa, ed essendo già stata pubblicata la sentenza che dichiarava decaduti i signori della Romagna e delle Marche, col pretesto che non avevano pagato al Papa la somma dovuta, se ne partì per Imola, dove aveva inviato le sue genti, fra le quali un migliaio di Svizzeri, sotto il comando del Baglì di Dijon: era in tutto un esercito di circa 8000 uomini. Ai primi di dicembre cadde Imola e poi Forlì, dove Caterina Sforza, che vi comandava, si difese con gran valore nella fortezza fino al 12 gennaio 1500, cedendo solo ad un assalto dei Francesi, i quali, ammirati del coraggio virile di lei, la salvarono dai soldati del Valentino e dall'ira del Papa, che voleva fosse subito ammazzata, perchè, secondo lui, casa Sforzesca era «semenza di la serpe indiavolata.» In questo modo potè invece finire i suoi giorni a Firenze, ritirata nelle Murate.

Dopo di Forlì, il Valentino prese anche Cesena; ma si dovette allora fermare, perchè, tornato in Francia Luigi XII, il generale Trivulzio scontentò per modo Milano e la Lombardia, di cui era restato governatore, che il Moro, sostenuto da un esercito di Svizzeri, secondato dalle popolazioni, potè ripigliare il suo Stato, entrando vittorioso nella capitale il giorno 5 di febbraio. Questo fece sì che i Francesi del Duca Valentino furono in fretta richiamati, per raggiungere i compagni già in ritirata, ed egli dovette sospendere la guerra. Pensò allora d'andare a Roma, dove il Giubileo già incominciato portava molti danari, che venivano raccolti con l'usata avidità per i soliti fini. Vestito di velluto nero, con una catena d'oro al collo, severo e tragico nell'aspetto, alla testa del proprio esercito, fece il suo solenne ingresso trionfale nella Città Eterna, dove fu ricevuto dai cardinali a capo scoperto. Si gettò poi ai piedi del Papa, che, dopo scambiate alcune parole in spagnuolo, lacrimavit et rixit a un trato. E subito, ricorrendo allora il Carnevale, s'apparecchiarono grandi feste. Una figura rappresentante Victoria Iulii Caesaris, condotta sopra un carro a bella posta costruito, fece il giro della Piazza Navona, dove servatae sunt fatuitates Romanorum, more solito. E le feste crebbero assai più, quando arrivò la notizia che Luigi XII era tornato in Italia alla testa d'un nuovo esercito; che il Moro, abbandonato e tradito da' suoi Svizzeri, era il 10 aprile caduto in mano dei Francesi col fratello Ascanio. Questi fu messo nella torre di Bourges nel Berry, donde più tardi venne liberato; il Moro stette invece dieci anni prigione a Loches, dove finì i suoi giorni.

Al primo annunzio di sì liete novelle, il Duca Valentino, sicuro di poter ripigliare ormai subito la sanguinosa impresa di Romagna, non sapeva più frenare la sua gioia. Presso la chiesa di San Pietro fu dato un solenne torneo, in cui egli ammazzò sei tori selvaggi, «combattendo a cavallo, alla giannetta; et a uno tagliò la testa alla prima botta, cosa che a tutta Roma parve grande.» Continuava intanto l'arrivo dei pellegrini del Giubileo; crescevano le cerimonie religiose, e con esse le indulgenze e le rendite. Ogni mattina si trovavano per le vie cadaveri di gente ammazzata la notte, fra cui spesso erano prelati. Un giorno (27 maggio) se ne videro diciotto impiccati sul Ponte Sant'Angelo. Erano ladri condannati dal Papa, tra i quali fu anche il medico dell'ospedale di San Giovanni in Laterano, che la mattina di buon'ora rubava ed ammazzava. Il confessore dei malati quando sapeva di qualcuno che avesse danari, lo rivelava subito a lui, qui dabat ei recipe, e poi dividevano fra loro la preda. L'esempio di severa e pronta giustizia fu ora dato, perchè 13 degl'impiccati avevano rubato l'ambasciatore della Francia, che il Papa voleva tenersi amica.

Nel luglio di quel medesimo anno seguiva un'altra di quelle tragedie che erano proprie dei Borgia. Il duca di Bisceglie, marito della Lucrezia, s'era avvisto che, per l'amicizia coi Francesi, l'animo del Papa e del Valentino s'era subito alienato da lui, che per ciò non si sentiva più sicuro in Roma. Già nel 1499 aveva veduto che sua sorella donna Sancia era stata esiliata, minacciando il Santo Padre di cacciarla a forza di casa, se non se ne andava. Da questi e da altri segni restò sempre più insospettito, e però, dopo avere esitato alquanto, fuggì a un tratto presso i Colonna in Gennazzano, per andar poi nel Napoletano, lasciando la Lucrezia incinta, che piangeva o fingeva di piangere. Ma nell'agosto egli si lasciò persuadere, e venne a Spoleto, dove ella era stata nominata reggente della città. Di là tornarono insieme a Roma. La sera del 15 luglio 1500, il duca di Bisceglie venne sulle scale di San Pietro improvvisamente assalito da sicarî che lo ferirono al capo, alle braccia, e poi fuggirono. Egli corse in Vaticano, e raccontò come e da chi era stato ferito, al Papa, che al solito si trovava con la Lucrezia, la quale prima svenne, e poi condusse il marito in una camera del Vaticano, per curarlo. Si mandò a Napoli per medici, temendosi a Roma di veleno. Il malato era assistito dalla moglie e dalla sorella donna Sancia, che gli cucinavano «in una pignatella,» non fidandosi d'alcuno. Ma il Valentino disse: «quello che non s'è fatto a desinare, si farà a cena;» e tenne la parola. Vedendo infatti che quel disgraziato non voleva morire, quantunque fosse pur grave assai la ferita alla testa, entrò una sera improvvisamente in camera, e mandate via le due donne, che senza resistenza obbedirono, lo fece nel letto strangolare da don Micheletto. Nè questa volta si fece gran mistero dell'accaduto. Il Papa stesso, dopo il ferimento, disse tranquillamente all'ambasciatore veneto, Paolo Cappello: «il Duca (Valentino) dice di non lo aver ferito; ma se l'avesse ferito, lo meriterìa.» Il Valentino invece scusavasi solamente dicendo che il duca di Bisceglie voleva ammazzar lui.

Egli aveva allora ventisette anni; era nel fiore della salute e della forza; si sentiva padrone di Roma e del Papa stesso, il quale lo temeva a segno da non osar quasi di parlare il giorno in cui vide il suo fidato cameriere Pietro Caldes, o Pierotto, scannato fra le proprie braccia dal Duca, e sentì il sangue di lui schizzargli sulla faccia. Alessandro VI, del resto, non si turbava punto di tutto ciò, e non perdeva i sonni. «Ha anni settanta,» scriveva l'ambasciatore Cappello, «ogni dì si ringiovanisce, i suoi pensieri non passano mai una notte, è di natura allegra, e fa quello che gli torna utile.»

Il 28 settembre, per far danari, nominò a un tratto dodici cardinali, fra cui sei Spagnuoli, il che gli fruttò 120,000 ducati, che andarono subito al Valentino. Il quale con essi, con le entrate del Giubileo, e cogli aiuti francesi, uniti alle sue genti capitanate dagli Orsini, Savelli, Baglioni e Vitelli, s'impadronì di Pesaro, cacciandone (ottobre 1500) il già suo cognato Giovanni Sforza; quindi di Rimini, cacciandone Pandolfo Malatesta; e finalmente si fermò a Faenza, dove Astorre Manfredi di 16 anni era tanto amato dal suo popolo, che fu difeso valorosamente fino a che la fame non costrinse tutti a capitolare il 25 aprile 1501. Cesare Borgia dovette nondimeno, per aver la città, giurare di risparmiar gli abitanti e salvare la vita al Manfredi; ma invece poi, violando ogni fede, lo chiuse in Castel Sant'Angelo, e dopo averlo sottoposto ai più osceni oltraggi, lo fece strangolare e gettar nel Tevere il 9 giugno 1502. Dopo di ciò venne dal Papa nominato duca di Romagna. Imola, Faenza, Forlì, Rimini, Pesaro e Fano facevano già parte del suo Stato, di cui Bologna doveva più tardi esser la capitale, e che doveva poi allargarsi verso Sinigaglia ed Urbino, sperandosi di potervi annettere anche la Toscana. Ma per ora la Francia mise il suo veto al procedere verso Bologna o verso la Toscana, che a loro volta s'armavano per difendersi. Intanto seguivano segretissimi accordi tra la Spagna e la Francia, per dividersi fra loro il regno di Napoli: il Papa vi prendeva parte, sempre con l'usata, avida speranza di potere anche colà allargare la potenza del figlio.

4. - IL SAVONAROLA E LA REPUBBLICA FIORENTINA.

Mentre queste cose avvenivano in Roma, i Borgia avevano ordito un'altra tragedia in Firenze, dove erano seguìti mutamenti gravissimi, dei quali dobbiamo ora parlare.

Sin dalla venuta di Carlo VIII, un frate domenicano, Priore del convento di San Marco, uomo singolarissimo, era divenuto quasi padrone della Città, ed in essa nulla più si faceva senza prima avere dal pergamo i suoi consigli. Nato a Ferrara, venuto a Firenze sotto i Medici, aveva predicato contro il mal costume, contro la corruzione della Chiesa, attaccando più o meno copertamente papa Alessandro, e dimostrandosi fautore di libertà. In molte cose egli non pareva e non era uomo del suo tempo. Privo d'una vera cultura classica, odiava quel paganesimo letterario che allora invadeva tutto. Educato colla Bibbia, i Santi Padri e la filosofia scolastica, era animato da un vivissimo entusiasmo religioso. Dotto d'una dottrina allora poco stimata, scriveva versi non molto eleganti, nè sempre corretti, ma pieni d'ardore cristiano; aveva una grande indipendenza di carattere e d'ingegno, nè mancava di accortezza e buon senso, sebbene assai spesso parlasse come un uomo ispirato, perchè si credeva veramente privilegiato del dono profetico, e mandato da Dio a correggere la Chiesa, a salvare l'Italia. L'essere così diverso dagli altri, il non avere le qualità e le doti che allora erano in tutti, mentre a tutti mancavano quelle appunto che egli aveva, dava a questo Frate un prodigioso ascendente non solo sulle moltitudini, ma ancora sugli uomini più culti. Lorenzo de' Medici lo fece chiamare presso al suo letto di morte, chiedendo assoluzione de' suoi peccati, assoluzione che fu negata, per essere egli stato tiranno della sua patria. Angelo Poliziano, Pico della Mirandola, seguaci di quella erudizione pagana tanto condannata dal Savonarola, vollero avere sepoltura in San Marco, vestiti dell'abito domenicano. Molti altri letterati, moltissimi artisti pendevano estatici dalle labbra del Frate.

Trasportato dalla sua fantasia, ed ancora da un singolare presentimento, che spesso sembrava fargli davvero leggere nell'avvenire, non solo annunziava in genere futuri guai all'Italia; ma, determinando, aveva profetato la venuta d'eserciti stranieri, guidati da un nuovo Ciro. E la profezia parve miracolosamente avverarsi nel 1494, con la discesa di Carlo VIII. E però il Frate divenne addirittura il primo uomo di Firenze, la quale ricorreva a lui nei più difficili momenti, per le più gravi faccende di Stato. Così, insieme con Piero Capponi ed altri, egli fu mandato ambasciatore al Re, quando Piero de' Medici aveva vilmente ceduto ogni cosa. Ed il Re, che s'era mostrato assai burbero con tutti, divenne umile dinanzi a colui che gli minacciava l'ira di Dio. Quando poi furono in Firenze firmati gli accordi, e l'esercito alloggiato dentro le mura non si moveva, con pericolo grandissimo della Città, solo il Savonarola osò presentarsi a Carlo VIII, invitandolo severamente a partire, e fu obbedito. Non è quindi da far maraviglia, se ponendosi allora mano alla formazione d'un nuovo governo, tutti si rivolgessero al Frate, e nulla più si facesse in Firenze senza prima sentir lui, che diè prova non solo di vero e disinteressato amore del pubblico bene, ma anche di un senno politico veramente singolare.

Il 2 dicembre la campana di Palazzo Vecchio chiamava a generale Parlamento il popolo, che accorse ordinato e condotto dai Gonfalonieri delle Compagnie. Fu subito data Balìa a venti Accoppiatori di nominare i magistrati, e fare le necessarie proposte di riforma. Così in breve si venne ad un nuovo ordinamento della Repubblica, col quale le antiche istituzioni, dai Medici profondamente falsate o distrutte, vennero richiamate in vita, modificandole però in molte parti. Il Gonfaloniere cogli otto Priori, che costituivano la Signoria, da rinnovarsi ogni due mesi, furono conservati; e così pure gli Otto, che vegliavano all'ordine interno della Città, ed erano un tribunale pei delitti criminali, più specialmente ancora per quelli di Stato. L'antico magistrato dei Dieci, che provvedeva alle cose della guerra, fu del pari conservato. I Gonfalonieri delle Compagnie e i dodici Buoni Uomini, residuo di antiche istituzioni, i quali formavano i così detti Collegi, che assistevano la Signoria, sebbene non avessero più una vera importanza, pure restarono. Sorse però una grave disputa intorno ai Consigli o sia assemblee della Repubblica. Il Consiglio dei Settanta, organo del dispotismo mediceo, fu subito abolito; ma non era possibile ricostituire quelli del Popolo e del Comune, perchè rispondevano nell'antica Repubblica ad uno stato di cose, ad una divisione della cittadinanza, che più non esisteva, nè potevasi rinnovare. Cominciarono quindi le discussioni. Alcuni, alla testa dei quali trovavasi Paolo Antonio Soderini, tornato allora da Venezia, proponevano addirittura un Consiglio Maggiore, in cui entrassero tutti i cittadini, ed un Consiglio, meno numeroso, di Ottimati, a similitudine appunto del Gran Consiglio e dei Pregadi in Venezia. Ma a questa proposta si opponevano coloro che, capitanati da Guidantonio Vespucci, volevano un governo più ristretto, e combattevano perciò l'istituzione del Consiglio Maggiore, che dicevano utile a Venezia, dove erano i Patrizi, che soli ne facevano parte; pericolosissimo invece a Firenze, dove, mancando i Patrizi, bisognava ammettervi tutti i cittadini. Il pericolo, in tanta divisione degli animi, stava, secondo ciò che ne scrive anche il Guicciardini, in questo, che prevalendo un governo ristretto invece di uno temperatamente libero, si sarebbe poi, per reazione, venuto ad un governo di eccessiva larghezza, il quale avrebbe messo a repentaglio la Repubblica. Ed è perciò che quel grande storico ed accorto politico esaltò il Savonarola, come colui che, entrato di mezzo, salvò ogni cosa, predicando una forma di governo universale con un Consiglio Maggiore al modo veneziano, adattato però ai bisogni e costumi fiorentini. L'autorità della sua parola fece subito vincere questo partito già proposto dal Soderini, ed il Frate ne guadagnò tale ascendente sul popolo, che d'allora in poi le discussioni fatte in Palazzo, e le leggi che ne seguirono, sembrano spesso copiate dalle sue prediche.

Il 22 e 23 dicembre 1494 fu deliberato il Consiglio Maggiore, di cui vennero chiamati a far parte tutti i cittadini di ventinove anni, che erano beneficiati, che godevano cioè il beneficio dello Stato, o sia che, secondo le antiche leggi della Repubblica, avevano il diritto di prender parte al governo. Quando costoro avessero passato il numero di 1500, un terzo di essi solamente, alternandosi cogli altri due, avrebbero di sei in sei mesi formato il Consiglio. La Città aveva allora circa 90,000 abitanti; i cittadini beneficiati dell'età di ventinove anni erano 3200, sicchè il Consiglio Maggiore veniva ad essere formato di poco più che mille persone. Ogni tre anni si sceglievano inoltre sessanta cittadini senza il beneficio, e ventiquattro giovani di ventiquattro anni, con facoltà di partecipare al Consiglio, e ciò si faceva «per dare animo ai giovani ed incitarli a virtù.» L'ufficio principale del Consiglio era quello d'eleggere i magistrati, nel che si riponeva allora la garanzia della libertà, e di votare le leggi, senza però discuterle. Esso doveva inoltre eleggere subito ottanta cittadini di quarant'anni almeno, per formare il Consiglio degli Ottanta, specie di Senato, che si rinnovava ogni sei mesi, e del quale facevano parte di diritto alcuni dei principali magistrati. Esso radunavasi ogni settimana, per deliberare, insieme colla Signoria, gli affari più gravi e gelosi, che non si potevano esporre a molti. Vi pigliavano parte anche i Collegi, quando trattavasi di nominare gli ambasciatori e i capitani, o deliberare condotte di genti d'arme.

In tal modo venne costituita la nuova Repubblica. La divisione dei poteri non era allora conosciuta, e le attribuzioni dei magistrati erano quindi assai confuse. Nondimeno, quando si voleva sanzionare una nuova legge, il procedimento ordinario era questo: la proposta toccava alla Signoria, che poteva, se la cosa lo richiedeva, radunar prima una Pratica o una Consulta, composte dei Collegi, dei principali magistrati e di Arroti, o sieno cittadini richiesti a quello scopo determinato, domandando il loro avviso. Quando tutto ciò non si reputava necessario, s'andava addirittura agli Ottanta, e poi al Consiglio Maggiore. Nella Pratica e nella Consulta soleva farsi una qualche discussione; ma nei Consigli si votava e non si discuteva. Lo stesso procedimento si seguiva ancora, quando trattavasi non di leggi, ma di affari molto gravi, come sarebbe stato il dichiarare la guerra, il fare qualche alleanza, che potesse aver gravi conseguenze, e simili.

Questa nuova costituzione cominciò subito ad operare regolarmente, ed il Savonarola, che ne era stato uno dei principali autori, contribuì colle sue prediche a consigliare e promuovere altre riforme importanti. Fu istituita la Decima, cioè l'imposta del 10% sui beni stabili, fino allora tassati ad arbitrio; fu abolito il Parlamento, il quale, approvando sempre per acclamazione tutte le proposte della Signoria, era stato più volte docile strumento d'inconsulte mutazioni e di tirannide; fu istituito il Monte di Pietà. Venne poi votata una nuova legge che, nelle cause di Stato, concedeva l'appello dagli Otto al Consiglio Maggiore, cosa di certo assai poco prudente, perchè affidava la giustizia alle passioni popolari. Il Savonarola, che pur desiderava l'appello, ma ad un assai minor numero di persone, non riuscì questa volta a fermare il popolo, istigato dagli avversari, i quali volevano cogli eccessi mettere a pericolo la Repubblica, o almeno levarla, come essi dicevano, dalle mani del Frate. Infatti ben presto si vide che quella legge era stata imprudentissima.

Tuttavia le cose cominciarono a procedere assai regolarmente, nè altri disturbi vi furono in sul principio, se non quelli che nascevano dalla guerra contro i Pisani, la quale però, senza essere ancora di molta gravità, contribuiva a tenere in Firenze gli animi uniti. Gli alleati, è vero, chiamarono in Italia Massimiliano re dei Romani, perchè recasse aiuto a Pisa; ma quando egli venne senza un proprio esercito, non gli dettero nè uomini nè denari, sicchè dovette tornarsene a casa senza aver concluso nulla.

V'erano tuttavia in Firenze i germi di un gravissimo pericolo. Il Savonarola predicava con crescente ardore la riforma dei costumi e la difesa della libertà, suggeriva utili provvedimenti, faceva una dipintura vivacissima dei mali che portava la tirannide, ma non si fermava a ciò. Egli predicava ancora la necessità d'una riforma della Chiesa, caduta, come tutti sapevano e vedevano, nella più triste corruzione. Non toccava il domma e neppure il principio dell'autorità papale, restò infatti sempre cattolico; ma accennava pure alla necessità di un Concilio per attuare la riforma, ed alludeva assai spesso alla vita scandalosa di papa Alessandro VI. Questi cominciò quindi ad impensierirsi vivissimamente d'uno stato di cose tanto nuovo in Italia, tanto pericoloso per lui che era, come altra volta aveva scritto Piero Capponi, «di natura vile e conscius criminis sui.» Dapprima invitò a Roma, con parole assai benevole, il Savonarola, il quale si scusò. Allora invece lo sospese dalla predicazione; ma i Dieci scrissero subito con tanto favore in difesa di lui, che il Breve, per paura di peggio, venne revocato. Si tornò alle lusinghe, lasciando sperare al Frate perfino il cappello cardinalizio; ma egli nuovamente ricusò di partire, e nella quaresima dal 1496 tuonò più che mai dal pergamo. Annunziava future calamità, tornava a proporre la riforma della Chiesa, e conchiudeva che Firenze doveva fermar bene il suo governo popolare, affine di promuovere in Italia e fuori il rinnovamento ed il trionfo della religione, purificata da ogni corruzione. La cosa assunse allora una così straordinaria gravità, che da ogni parte d'Italia gli occhi si rivolsero sopra di lui con intenzioni assai diverse. Si sentiva da tutti che la corruzione della Chiesa era spaventosa, e si capiva che, nonostante il profondo e generale scetticismo religioso degl'Italiani, non si poteva così durare a lungo. I segni precursori di una riforma, già manifestatisi a Costanza, a Basilea, altrove, non si potevano dimenticare. La grande attenzione, l'entusiasmo con cui una città indifferente e scettica come Firenze, ascoltava ora il Savonarola, ispirava una confusa paura in moltissimi, ed uno sdegno feroce in Alessandro VI, che si vedeva attaccato personalmente da un frate, senza poter far nulla, egli che pure così facilmente aveva saputo mandare all'altro mondo tanti prelati e cardinali.

Il pericolo temuto non era però senza qualche speranza di rimedio pel Papa. Il Savonarola era certo un oratore rozzo, ma potente; aveva un'attività prodigiosa; scriveva un numero grandissimo di opere, di opuscoli, di lettere; non si fermava mai; predicava ogni giorno, più volte al giorno, in diverse chiese; il suo amore pel bene era grande; il suo religioso entusiasmo ardentissimo; la sua autorità immensa. Pure, noi lo abbiamo già notato, egli non era in tutto uomo del suo tempo; la sua cultura era in parte scolastica, e il suo entusiasmo arrivava spesso fino quasi al fanatismo; aveva visioni e si credeva profeta; qualche volta anche gli pareva che il Signore, per mezzo di lui, volesse operare miracoli. Amava ardentemente la libertà; ma era pur sempre un frate, che la cercava come mezzo a promuovere la riforma religiosa; non di rado pareva che volesse proprio ridurre Firenze ad un convento, il che doveva a molti sembrare una puerile illusione. Egli era circondato da artisti e da eruditi, sui quali aveva come sul popolo e sugli uomini politici un ascendente straordinario; ma se amava la cultura e promoveva le arti, era pure acerrimo nemico di quello spirito pagano che allora invadeva e, secondo lui, corrompeva tutto. Tra i suoi frati, come tra i suoi seguaci fuori del convento, si trovavano uomini di nobile carattere e di grande energia; ma non mancavano neppure spiriti deboli e superstiziosi, che esageravano le idee del maestro, il quale non era senza esagerazioni egli stesso. L'immenso potere da lui acquistato in Firenze pei savi consigli politici che aveva dati, per le nobilissime doti del suo animo, per la sua irresistibile eloquenza, veniva cresciuto più dalla maraviglia che recava la singolarità del suo carattere, che dall'essere egli riuscito a risvegliare in Firenze un vero ardore religioso, il che non era invece avvenuto. Questo era anzi il punto su cui il Savonarola s'illudeva assai, e non s'avvedeva perciò che, in parte almeno, egli fabbricava sull'arena: voleva il governo libero per promuovere la riforma religiosa, ed i Fiorentini accettavano la riforma religiosa, solo per meglio rafforzare il libero governo. La base del suo potere era quindi meno solida di quel che pareva, e non dovevano al Papa mancar modi di formare o di alimentare i partiti avversi.

Un buon numero di giovani amanti del lieto vivere, già tanto favorito dai Medici, ed ora così aspramente biasimato e combattuto dal Frate, si raccolsero pigliando nome di Compagnacci, combattendo, col ridicolo e con ogni arte, lui e i suoi amici, che chiamavano Piagnoni, Frateschi e simili. Tutto questo fece sì che nel 1497, da un lato si tentò di ripristinare l'antico carnevale mediceo co' suoi baccanali e le sue oscenità; dall'altro, invece, per opera del Savonarola e de' suoi seguaci, i fanciulli giravano le vie e le case di Firenze, cercando le vanità, o sia libri, scritture, disegni e statue oscene, abiti e maschere carnovalesche. Il 7 febbraio, ultimo giorno di carnovale, fu fatta una solenne processione, la quale ebbe fine col famoso bruciamento delle vanità, raccolte in Piazza della Signoria, sopra gli scalini d'una grande piramide di legno, a tal'uopo costruita. Come è ben naturale, tutto ciò fu soggetto di molte accuse e di ridicolo da parte dei Compagnacci, quantunque i magistrati stessi avessero non solo permessa, ma quasi diretta la singolare solennità, affinchè procedesse ordinata e dignitosa. I Compagnacci biasimavano aspramente che il governo s'andasse mescolando di processioni fratesche. E ad essi s'univano poi gli Arrabbiati, i quali volevano un governo più ristretto di Ottimati, ed i Bigi, chiamati così perchè non osavano manifestare il loro segreto pensiero, che era di tornare ad una pura e semplice restaurazione medicea. Ma tutto ciò non bastava ancora a mettere in pericolo nè la Repubblica, nè il Savonarola. I Compagnacci non erano un partito politico; gli Ottimati avevano poco séguito in Firenze, stata sempre città popolare; i Bigi, con aderenze potenti in città e fuori, avevano in Piero de' Medici un capo così odiato e disprezzato, da non poter esser desiderato da molti. Un primo tentativo da lui fatto, per rientrare in Firenze, dove si lusingava di trovar grandissimo favore, riuscì solo a fargli con disprezzo chiudere le porte in faccia. Una congiura tentata allo stesso effetto da Bernardo del Nero e da altri, finì con la loro condanna a morte.

Questo è ciò che formava uno stato di cose, in cui Alessandro VI facilmente poteva trovare quell'occasione di vendetta, che con tanto ardore cercava da un pezzo. Il Savonarola ogni giorno lanciava nuove accuse contro gli scandali di Roma, accennava sempre più apertamente alla necessaria riunione del Concilio, alludeva dal pergamo alle oscenità ed ai delitti del Papa. Invitato più volte a tacere, aveva invece parlato più forte. Giunse finalmente una scomunica contro di lui, ed egli la dichiarò nulla, aggiungendo che parlava in nome di Dio, ed era pronto a sostenere la propria innocenza al cospetto del mondo; rinunziava però a convincere Alessandro VI, il quale, eletto simoniacamente, autore di tanti scandali e delitti, non poteva dirsi vero Papa. Era allora seguìta l'uccisione del duca di Gandia; correvano per tutto le voci d'incesto tra il Papa e la figlia Lucrezia; il Savonarola s'era esaltato per modo che non sapeva, nè voleva più frenarsi. Indirizzò lettere ai principi d'Europa, incitandoli a radunare un Concilio, per salvare da totale rovina la Chiesa, la quale, come egli avrebbe pubblicamente dimostrato, era senza capo vero e legittimo. Una di queste lettere venne sfortunatamente nelle mani di Alessandro VI. S'aggiunse poi che Carlo VIII, il quale pareva pentito de' suoi peccati, e deciso a metter mano alla riforma consigliata dal Savonarola, che vedeva in lui appunto il suo più valido sostegno, morì improvvisamente nei primi mesi del 1498. E quantunque ciò ancora non fosse noto in Italia, pure si vedeva già che tutto cospirava ai danni del povero Frate. Fu questo il momento in cui inaspettatamente si presentò al Papa un'occasione favorevole, che egli colse senza punto esitare.

La Signoria in ufficio era avversa al Savonarola; gli Arrabbiati ed i Compagnacci erano audacissimi per i continui incoraggiamenti che ricevevano di fuori; i Bigi erano pronti sempre a tutto ciò che poteva riuscire in danno della Repubblica; perfino alcuni dei Piagnoni erano impensieriti della fiera lotta col Papa, quando seguì un fatto stranissimo, di cui nessuno avrebbe potuto mai prevedere le gravi conseguenze. Un frate francescano, chiamato Francesco di Puglia, predicando in Santa Croce aspramente contro il Savonarola, venne fuori con la dichiarazione che era pronto ad entrare nel fuoco con lui, per provargli la falsità delle dottrine che sosteneva. Al Savonarola la cosa parve assai strana, e si tacque: ma non fu così del suo discepolo frate Domenico Buonvicini da Pescia. Uomo di poca testa, ma d'una grande energia e buona fede, d'uno zelo ardentissimo, accettò la sfida, e si dichiarò senz'altro prontissimo a tentare l'esperimento del fuoco, per provare la verità delle dottrine sostenute dal suo maestro. Francesco di Puglia rispose, che aveva sfidato il Savonarola, e con lui solamente sarebbe entrato nel fuoco; ma con fra Domenico Buonvicini da Pescia si sarebbe provato invece Giuliano Rondinelli, anch'egli francescano. La cosa sfortunatamente andò innanzi, ed al Savonarola non riuscì di fermarla, quantunque lo tentasse, perchè fra Domenico era già caduto nella rete che gli avevano tesa, e perchè egli stesso non sembrava punto alieno dal prestar fede alla buona riuscita dell'esperimento, convinto com'era d'essere mandato da Dio, e da lui ispirato nel predicare le dottrine che venivano ora combattute. Gli Arrabbiati e i Compagnacci spingevano a tutta possa, perchè speravano di poter seppellire i Piagnoni nel ridicolo, e uccidere il Savonarola nel tumulto che apparecchiavano. Teneva loro mano la Signoria stessa, che si trovava allora in segreti accordi con Roma.

In conseguenza di tutto ciò lo stranissimo esperimento, che nel secolo XV era un vero e proprio anacronismo, fu fissato pel giorno 7 aprile 1498. All'ora indicata i frati vennero nella Piazza, davanti al Palazzo, dove tutto era stato dalla Signoria ordinato, e dove un popolo immenso era impaziente di vedere uno spettacolo che ricordava il Medio Evo. Il Savonarola, persuaso anch'egli che lo zelo impaziente di fra Domenico, contro cui aveva invano resistito, fosse veramente ispirato da Dio, aveva consentito a dirigere i suoi frati. Quando però tutto era pronto da parte loro, e fra Domenico da Pescia aspettava il segnale per muoversi, i Francescani, i quali avevano mirato solo a tendere una rete agli avversarî, esitavano, ed il Rondinelli non pareva che avesse nessuna voglia di cimentarsi. Si cercarono mille pretesti per far nascere un tumulto desiderato, ma invano, perchè l'ardita figura di fra Domenico era lì, sempre pronta a muoversi, e questo contegno disarmava ogni avversario. Se non che, le continue dispute e i nuovi pretesti dei Francescani fecero consumare il giorno, e finalmente una pioggia improvvisa e dirotta diè modo alla Signoria, già scoraggiata, di dichiarare che l'esperimento non poteva ormai più farsi.

Secondo ogni ragione, la disfatta doveva essere dei nemici del Savonarola; ma accadde invece il contrario. Il popolo era scontentissimo di non aver avuto il desiderato spettacolo, e molti ne davano la colpa al Savonarola, dicendo che se veramente fosse stato persuaso del suo lume divino, sarebbe, senza altre discussioni, egli stesso, anche solo, entrato nel fuoco, il che avrebbe d'un tratto e per sempre fatto tacere gli avversari. I suoi seguaci erano in buona parte o fanatici credenti, o uomini politici che vedevano in lui solamente il sostenitore del libero reggimento. I primi restarono addolorati che l'esperimento non si fosse fatto, i secondi deploravano che egli vi avesse consentito, e così lo scontento parve a un tratto universale. Allora riuscì agevole agli Arrabbiati ed ai Compagnacci, secondati dai Bigi, aiutati dalla Signoria, sollevare un vero e proprio tumulto contro i Piagnoni, alcuni dei quali vennero infatti ammazzati o feriti per le vie, gli altri furono per ogni dove insultati, inseguiti. Cominciata una volta la reazione, s'andò, armata mano, ad assaltare addirittura il convento di San Marco, che, dopo la gagliarda resistenza d'alcuni frati e di pochi amici ivi radunati, fu preso. Il Savonarola, fra Domenico, che mai non lo lasciò, e fra Salvestro Maruffi, altro de' suoi più noti seguaci, ma superstizioso e di carattere debolissimo, vennero condotti in prigione, e s'iniziò subito il processo.

Il Papa voleva ad ogni costo aver nelle mani il Frate, e faceva perciò grandi promesse; ma la Signoria, sebbene composta d'Arrabbiati dispostissimi a consentirne la morte, non volle, per la dignità della Repubblica, permettere che il processo si facesse altrove. Lo fece però a Firenze secondo le istruzioni e gli ordini venuti da Roma. Si adoperò ripetutamente la tortura, ed al Savonarola si strapparono confessioni nel delirio del dolore. Ma sebbene in quello stato egli non fosse più padrone di sè, e non avesse più la forza di sostenere che la sua dottrina e la sua opera erano ispirate da Dio, pure negò recisamente d'aver mai avuto un fine personale, o d'essere stato di mala fede; confermò anzi d'aver solo e sempre operato pel pubblico bene. A tutto questo s'aggiunse, che se fra Salvestro, debolissimo e vanissimo sempre, rinnegò il maestro, e disse tutto quello che gli vollero far dire, fra Domenico, invece, sprezzando le minacce e la tortura, restò uguale a sè stesso, riconfermando coraggiosamente l'indomita fede nel suo maestro. Si ricorse quindi all'antico e facile espediente d'alterare, nel miglior modo che si poteva, anche le confessioni strappate colla tortura, senza tuttavia riuscire, neppure con questo artifizio, a trovare giusta materia di condanna. E intanto il Papa minacciava ferocemente da Roma, perchè o gli dessero in mano i tre frati, che avrebbe egli pensato al resto, o li mettessero subito a morte. Nè la Signoria voleva o poteva ormai più tornare indietro. Siccome però due mesi erano già trascorsi, ed essa doveva quindi, secondo le leggi fiorentine, uscire d'uffizio, così s'occupò solo a fare in maniera che le nuove elezioni risultassero favorevoli agli Arrabbiati, il che ottenne facilmente. E i nuovi eletti convennero subito col Papa, che egli avrebbe inviato a Firenze due commissarî apostolici, per condurre a termine il processo, e trovar materia di condanna capitale, specialmente in ciò che si riferiva all'accusa d'eresia. Il Savonarola intanto, lasciato qualche tempo tranquillo in carcere, aveva scritto altri opuscoli religiosi, nei quali, riconfermando le sue dottrine, dichiaravasi nuovamente in tutto e per tutto cattolico fedelissimo ed incrollabile, quale era sempre stato. Ma ciò non voleva dir nulla, la sua morte era stata irremissibilmente decisa.

Il 19 maggio arrivarono i due commissarî apostolici, con ordine di condannarlo, fosse pure un San Giovanni Battista. Essi lo processarono e torturarono da capo più fieramente; e quantunque egli, indebolito com'era, resistesse al dolore anche meglio di prima, e non si potesse quindi trovare alcun giusto pretesto di condanna, pure, senza esitare, sentenziarono a morte lui ed i suoi compagni, e li consegnarono al braccio secolare, non usando indulgenza neanco al Maruffi, che aveva vilmente calunniato, rinnegato il maestro, ed affermato tutto quello che avevano voluto. - Un frataccio di più o di meno poco monta, - così essi esclamarono. Ed in verità non era per loro prudente salvare la vita d'un uomo così debole e vano, che avrebbe potuto, anche senza volerlo, rivelare la falsificazione dei processi. Il giorno 23 maggio 1498 si vide in Piazza della Signoria costruito un lungo palco, alla estremità del quale sorgeva una gran croce, alle cui braccia furono impiccati i tre frati, il Savonarola nel mezzo, gli altri due dai lati. Quando essi furono spirati, i loro cadaveri vennero subito bruciati, e le loro ceneri gettate in Arno, in mezzo a una folla di monelli che applaudivano.

In tutto questo dramma v'era stato qualche cosa di eroico, e qualche cosa d'effimero. Eroici erano stati la fede, l'amore del bene universale, l'abnegazione del Savonarola; grande la sua eloquenza, il suo senno politico; effimero era stato invece lo zelo religioso che egli credette aver destato nel popolo fiorentino. Questo s'era esaltato solo per l'amore della libertà, ed aveva ascoltato con entusiasmo la parola religiosa del Frate fino a che essa aveva dato forza al governo popolare. Ma appena vide in lui un pericolo per la Repubblica, senza molto esitare lo abbandonò al Papa. Ed invero, quando il povero Frate cessò di respirare, parve un momento che i pericoli da ogni parte minacciati al governo da lui fondato, scomparissero del tutto. Gli alleati non parlavano più di voler rimettere Piero de' Medici; il Papa, contentissimo, mandava elogi e dava speranze; il Valentino non minacciava più d'invadere la Toscana, e Firenze credette perciò di potersi occupare solo della guerra contro Pisa, senza pensare ad altro. Pur troppo non andò molto e si vide che queste erano speranze vane, che ben altro ci voleva a saziare la inestinguibile avidità dei Borgia. Ma non v'era allora più rimedio. Bisognò invano pentirsi d'aver soffocato una voce che aveva sempre sostenuto la libertà; di avere spento ingiustamente, iniquamente un uomo che tanto bene aveva fatto e poteva ancora fare allo Stato, alla morale, alla religione. La sua morte lo rese per molti un santo ed un martire, e per più di un secolo gli mantenne in Firenze ammiratori ed adoratori, i quali nei nuovi pericoli della patria si dimostrarono degni seguaci del loro maestro, illustrando con eroismo la fine della Repubblica. Comunque sia di ciò, nel maggio del 1498 gli Arrabbiati avevano trionfato; ma non osarono per questo di mutar la forma di governo consigliata dal Savonarola, la quale fu invece consolidata. I Piagnoni continuarono tuttavia ad essere perseguitati, e molti di essi vennero cacciati dagli uffici, nei quali entrarono i loro avversarî più dichiarati. In questo momento appunto comparisce sulla scena, ed ottiene ufficio politico un uomo che fu certo più grande del Savonarola, ma di una grandezza assai diversa. Di lui dobbiamo ora esclusivamente occuparci.

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