PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Si è scritto e si scrive tanto sul Machiavelli, che nel pubblicare una nuova biografia di lui, mi par necessaria qualche spiegazione.

Per lungo tempo sembrava che egli fosse una sfinge, di cui niuno poteva comprendere l'enigma. Chi lo dipingeva come un mostro di perfidia, e chi lo diceva animato dal più puro e nobile patriottismo. Secondo alcuni, i suoi scritti davano iniqui consigli, per rendere sicura la tirannide; secondo altri, il Principe era una satira sanguinosa dei despoti, fatta per affilare i pugnali contro di essi, ed istigare i popoli a ribellione. A coloro che esaltavano il merito letterario e scientifico delle sue opere, rispondevano altri affermando che erano un ammasso di dottrine erronee e pericolose, capaci solo di corrompere e di mandare a rovina qualunque società stolta abbastanza per accettarle. E così il nome stesso del Machiavelli divenne nel linguaggio popolare un'ingiuria.

Non poche di queste esagerazioni, è vero, sono coll'andare del tempo, e per opera di critici autorevoli scomparse; ma s'ingannerebbe di certo chi credesse, che almeno sui punti di capitale importanza vi sia oggi un giudizio universalmente accettato. Molti ricorderanno le grida d'indignazione che alcuni sollevarono, specialmente in Francia, contro il Governo Provvisorio della Toscana, quando sin dai primi giorni della rivoluzione del 1859, esso decretava una nuova edizione di tutte le opere del Segretario fiorentino. Alle ingiurie che allora furono scagliate contro gl'italiani in generale, e contro il Machiavelli in particolare, risposero altri esaltandone il genio politico e l'animo incorrotto. È scorso appena qualche anno dacchè vide la luce una nuova Storia della Repubblica di Firenze, scritta da uno degli uomini più amati e venerati in Italia. In essa troviamo un paragone molto eloquente, pieno di acute e giuste osservazioni, fra il Guicciardini ed il Machiavelli, nel quale, dopo aver manifestato una preferenza decisa pel primo dei due scrittori, si afferma che il Machiavelli ebbe malvagio l'ingegno, l'anima corrotta dalla disperazione del bene. Questo giudizio non è certo improvvisato; è anzi il resultato di molti studî e di lungo meditare, ed è dato da uno storico fra noi autorevolissimo. I due eruditi toscani, che incominciarono nel 1873 la più recente edizione delle opere del Machiavelli, alludono più volte all'intima e cordiale amicizia che, secondo essi, egli avrebbe avuta col Valentino, di cui lo fanno consigliere, anche quando questi insanguinava le sue mani nei più atroci delitti; e pubblicano qualche documento inedito a conferma della loro asserzione. Da un altro lato i più recenti biografi, sebbene non vadano sempre fra di loro d'accordo, pure esaltano di nuovo il patriottismo non meno che l'ingegno del Machiavelli, e qualcuno, dopo accurate indagini sulle opere di lui e su documenti inediti, ne loda la generosità, la nobiltà e squisita delicatezza d'animo, tanto da farne un modello impareggiabile di virtù pubbliche e private. Tutto questo prova, mi sembra, che siamo assai lontani da un giudizio, da un'opinione concorde, e che però nuove ricerche e nuovi studî non sono del tutto superflui.

Le cagioni di un così grande e continuo dissenso furono varie. I tempi in cui il Machiavelli visse, sono per lo storico pieni di difficoltà e contradizioni, che in lui si personificano e moltiplicano in modo da farlo qualche volta sembrare addirittura un mistero inesplicabile. Vedere un uomo che in alcune pagine esalta la libertà e la virtù con eloquenza inarrivabile; in altre insegna come ingannare e tradire, come opprimere i popoli e render sicuri i tiranni, deve far nascere certamente molti dubbî. Vederlo quindici anni servire fedelmente la Repubblica, sostenere poi miseria e persecuzioni pel suo amore alla libertà, e vederlo più tardi ancora raccomandarsi per essere adoperato a servire i Medici, fosse pure a voltolare un sasso, non può certo dissipare questi dubbî. Pure le contradizioni nella storia e nell'umana natura sono molte, e nel caso presente si sarebbero assai più facilmente spiegate, se la maggior parte degli scrittori non avessero in ogni modo voluto essere accusatori o difensori del Machiavelli, facendosi giudici non sempre imparziali della moralità e del patriottismo di lui, piuttosto che veri biografi. A molti sembrava, specialmente in Italia, che bastasse aver provato che egli amò la libertà, l'unità e l'indipendenza della patria, per essere indulgenti su tutto il resto, esaltarne le dottrine ed il carattere morale, anche prima d'averli con diligenza e con critica esaminati, quasi che il patriottismo fosse una prova sicura del genio politico e letterario, nè venisse mai accompagnato da vizî e da colpe nella vita privata. Questo doveva inevitabilmente promuovere opinioni contrarie, cui dettero facile alimento le contradizioni più sopra notate. Così fu che, a poco a poco, tutta la questione parve ridotta a sapere se il Principe e i Discorsi erano stati scritti da un uomo onesto o disonesto, da un repubblicano o da un cortigiano, quando invece si doveva cercar di sapere che valore scientifico avevano le teorie in essi sostenute: erano vere o erano false, contenevano o no verità nuove, facevano o no avanzare la scienza? Nessuno vorrà negare che se le dottrine fossero false, le virtù dello scrittore non le muterebbero in vere; come, se fossero vere, non potrebbero i suoi vizî renderle false.

Certo non mancarono scrittori autorevoli, i quali intrapresero un esame imparziale e razionale delle opere del Machiavelli; ma essi ci dettero quasi sempre opuscoli storici o dissertazioni critiche, non vere e proprie biografie. Occupati nell'esame filosofico delle dottrine, si fermarono troppo poco ad esaminare i tempi ed il carattere dell'autore, o ne parlarono solo, come se ogni disputa si potesse comporre dicendo, che il Machiavelli ebbe la sua indole dal secolo in cui visse, e che fedelmente ritrasse nei proprî scritti. Ma in un secolo v'è luogo per molti uomini, molte idee, vizî e virtù diverse; nè possono i tempi per sè soli spiegare tutto ciò che è opera, creazione personale del genio. Lo studio di essi è tuttavia sempre necessario a chi vuol conoscere e giudicare le dottrine di un pensatore, massime quando si tratta d'un uomo come il Machiavelli, che tanto ricevette dalla società in cui nacque, e tanta parte di sè pose ne' suoi libri. Ma io non voglio qui prendere in esame i biografi ed i critici, dei quali dovrò parlare altrove, assai spesso citandoli e valendomi delle loro opere. Il mio scopo è ora solamente di dichiarare che non intendo essere nè l'apologista, nè l'accusatore del Segretario fiorentino. Mi accinsi a studiarne la vita, i tempi e gli scritti, per tentare di conoscerlo e descriverlo quale fu veramente, con tutti i suoi meriti e demeriti, i suoi vizî e le sue virtù.

Questo, è vero, può sembrare una strana presunzione, dopo i tentativi fatti da uomini assai più autorevoli di me. Se non che i materiali storici di recente pubblicati, e quelli che solamente ora son divenuti accessibili a tutti, rendono oggi molto più agevole il risolvere parecchi di quei dubbî che prima sembravano presentare difficoltà insormontabili. È certo che pubblicazioni come, ad esempio, i dieci volumi delle Opere inedite del Guicciardini, i carteggi diplomatici di quasi ogni provincia italiana, un numero infinito d'altri documenti, per non parlare dei tanti scritti originali d'Italiani e stranieri, hanno dissipato molte oscurità e contradizioni nella storia letteraria e politica del Rinascimento italiano. Anche i rapidi progressi fatti ai nostri giorni dalle scienze sociali, debbono rendere assai più agevole determinare il valore intrinseco ed il carattere storico di quello che molti chiamarono il Machiavellismo. E quanto alla persona stessa del Segretario fiorentino, non poca luce posson dare le carte che, dopo la sua morte, andarono alla famiglia Ricci, poi alla Biblioteca Palatina di Firenze, dove per molto tempo vennero assai gelosamente custodite, ed oggi sono nella Nazionale visibili a tutti, in parte anzi già pubblicate. I signori Passerini e Milanesi, nei cinque volumi finora usciti alla luce della nuova edizione delle Opere, da essi cominciata in Firenze, sono andati stampando dagli archivî e dalle biblioteche fiorentine molti utili documenti. Restava nondimeno ancora inesplorata una mole non piccola di carte preziosissime. Posso, ad esempio, affermare che ascendono a parecchie migliaia le lettere d'ufficio scritte di propria mano del Machiavelli, tuttavia inedite, e, per quanto io sappia, da nessun biografo esaminate. In tali condizioni adunque non mi parve addirittura presuntuoso l'accingersi a ritentare la prova.

Se tutte le biografie dovessero aver sempre la medesima forma, io di certo potrei meritar severo biasimo, per essermi, in alcune parti di quest'opera, fermato assai lungamente a parlar dei tempi. Ma ho creduto di dover preferire quella forma che meglio s'adattava alla natura del soggetto. Si conosce così poco del Machiavelli in tutti gli anni nei quali egli compiva i suoi studî giovanili, e s'andava formando la sua propria indole, che io ho cercato di colmare, in qualche parte almeno, la grave lacuna con un minuto esame della società e dei tempi in cui egli visse. Mi sono quindi sforzato di esaminare come nel secolo XV andasse sorgendo lo spirito del Machiavellismo, prima che egli comparisse sulla scena a dargli l'impronta originale del suo genio, a formularlo scientificamente. E dopo di avere, se così posso esprimermi, studiato il Machiavelli prima del Machiavelli, mi sono finalmente avvicinato a lui, quando egli comincia personalmente a divenir visibile nella storia, ed ho cercato di studiarne, di conoscerne le passioni, i pensieri, per quanto ho saputo e potuto, nei suoi proprî scritti, in quelli degli amici più intimi e degli altri contemporanei. Non ho mai tralasciato d'esaminare gli scrittori moderni, ma ho preferito sempre fondarmi sull'autorità di coloro che più erano vicini ai fatti che dovevo narrare.

Ma anche ciò ha contribuito non poco a dare una forma del tutto speciale a questa biografia. Uno dei documenti più importanti a conoscere la vita del Machiavelli sono di certo le Legazioni, trovandosi in esse non solamente la storia fedele delle sue ambascerìe, ma anche i primi germi delle sue dottrine politiche. Nondimeno, sebbene tutto ciò fosse stato già da altri, specialmente dal Gervinus, più volte avvertito, pure continuarono sempre ad esser poco lette, perchè in esse l'autore è necessariamente costretto a ripetere assai spesso le medesime cose, fermandosi di continuo sopra minuti particolari, e perchè a farle universalmente intendere e gustare occorrerebbe un comentario perpetuo sugli avvenimenti di cui ragionano o a cui alludono. Io quindi, affinchè il lettore potesse assistere da sè, e quasi vedere coi proprî occhi come nacquero e come s'andarono formando le idee del nostro autore, ho dovuto riportare letteralmente od in sunto molti de' suoi dispacci, assai più che non avrei voluto e che non giovi alla rapidità della narrazione, ma non più di quello che mi parve necessario alla piena conoscenza del soggetto.

Complemento opportunissimo alle Legazioni sono le lettere d'ufficio, che il Machiavelli scrisse nella Cancelleria. Se le prime ci fanno conoscere la sua vita politica fuori, le seconde ce la fanno conoscere dentro la Repubblica. Moltissime di certo non hanno valore alcuno, essendo semplici ordini dati ad uno o un altro Commissario, ripetendo fino alla sazietà in fretta e furia le medesime cose. In altre però rifulgono di tanto in tanto lo stile, il pensiero, l'originalità del grande scrittore. La massima parte di esse restando, come abbiamo già detto, ancora inedite, era pur necessario percorrerle ed esaminarle. E però m'accinsi al lungo e spesso ingrato lavoro, copiandone o facendone copiare qualche migliaio, molte citandone nelle note, di altre riportando notevoli brani; solo alcune poche dètti integralmente nell'Appendice, affinchè si potesse avere una chiara idea di ciò che veramente sono. Ed anche questo fece procedere più lenta la narrazione. Ma, per quanto io vi riflettessi e stessi in guardia contro me stesso, non vi potei trovare rimedio alcuno. Passare sotto silenzio quello che per tanti anni era stato il lavoro principale del Machiavelli, non mi sembrava possibile; nè potevo parlare d'una sì vasta mole di lettere inedite senza spesso citarle e darne qualche saggio, tanto più non essendo sperabile che qualcuno mai s'accingesse a pubblicarle tutte. Non starò qui ad enumerare i molti altri documenti che cercai e che lessi: si vedrà facilmente dalle note. Ricorderò nondimeno che, durante queste indagini, potei dare alla luce i tre volumi di Dispacci d'Antonio Giustinian, i quali raccolsi e studiai, non solamente perchè recavano nuova luce sui tempi di cui m'occupavo, ma ancora perchè mi davano modo di porre accanto al Segretario ed Oratore fiorentino uno dei principali ambasciatori della repubblica veneta, e così paragonarli fra loro.

Quando nel 1512, dopo la battaglia di Ravenna, i Medici tornarono a Firenze, la libertà fu spenta, ed il Machiavelli, uscito d'ufficio, ricadde nell'oscurità della vita privata. La sua biografia allora muta aspetto, dovendosi ridurre quasi esclusivamente all'esame delle opere che scrisse, ed al racconto degli avvenimenti in mezzo ai quali le compose. Ma tutto ciò formerà il soggetto del secondo volume, il quale, mi duole di doverlo dire, si farà aspettare più lungamente che non vorrei, essendo ancora lontano dal suo compimento. Avrei certo preferito di ritardare la stampa fino a quando avessi potuto dare alla luce tutta l'opera. Ma nei lunghi anni nei quali andavo continuando i miei studî, vidi pubblicar di continuo non solamente nuove dissertazioni e biografie del Machiavelli, ma anche documenti spesso da me già trovati e copiati, ed altri lavori già s'annunziano ora; sicchè, arrivato alla fine di questo primo volume, deliberai di darlo alla luce, senza più aspettare. È questa del resto un'usanza divenuta ormai così generale, che spero di non dover esser biasimato, se anch'io me ne giovo.

Debbo qui avvertire che per gli scritti del Machiavelli, mi sono valso dell'edizione che porta la data d'Italia 1813, una delle migliori fra quelle finora compiute. Ho però tenuto sempre a riscontro l'altra più recente, incominciata in Firenze l'anno 1873, ma ancora lontana dal suo compimento, e che ora ha perduto nel conte Passerini il principale suo collaboratore. In questa si cercò di riprodurre più fedelmente l'antica ortografia del Machiavelli, il che fu certo lodevole pensiero. Ma nel riportare, come spesso dovetti fare, brani de' suoi scritti, io ho creduto che certe forme puramente convenzionali e notissime si potessero, senza danno, purchè con molta cautela e parsimonia, tralasciare in un libro moderno, anche per non mutare troppo spesso e troppo rapidamente la forma materiale dello scrivere. Nell'Appendice mi sono invece attenuto sempre scrupolosamente all'antica ortografia. Il lettore vedrà che ho dovuto più volte dissentire dai due eruditi, i quali curarono la nuova edizione, massime per la importanza e pel significato che vollero attribuire ad alcuni dei documenti da essi pubblicati. Ma di ciò altrove; qui non intendo menomamente porre in dubbio il merito che ebbero per la molta diligenza usata nel darli alla luce, tanto più che, in ogni modo, sono documenti utilissimi al biografo, ed io stesso me ne giovai di frequente.

V'è però una notizia errata, che essi dettero, e della quale debbo qui necessariamente parlare. Nella Prefazione al terzo volume, venuto alla luce nel 1875, dopo aver deplorato la perdita di molte lettere del Machiavelli, i nuovi editori aggiungevano: «È noto infatti che andarono fuori d'Italia e per sempre i molti volumi delle sue lettere familiari, che erano nelle case dei Vettori, venduti per fraudolento inganno d'un prete a lord Guildford, e poi passati nelle mani di un signor Phillipps inglese, il quale tenne, finchè visse, con grandissima gelosia quelle ed altre rare cose che possedeva, tantochè si rifiutò di farle esaminare, non che copiare, anche per la nuova edizione delle Opere del Machiavelli, decretata nel 1859 dal Governo Toscano, il quale per il marchese di Laiatico suo ambasciatore straordinario a Londra, ne lo aveva fatto richiedere. Nè ora che egli, morendo, ha per testamento lasciato quelle ed altre sue cose al Museo Britannico, possiamo profittarne, perchè sono saltati fuori i suoi creditori, ed impediscono che quel lascito abbia il suo effetto.» - Scrivere una biografia del Machiavelli, senza prima cercare in ogni modo di vedere i molti volumi di lettere familiari, delle quali con tanta certezza s'affermava l'esistenza, non era possibile. Fatte dunque alcune indagini, trovai che realmente erano da Firenze venuti nelle mani di lord Guildford tre volumi di lettere manoscritte, date nel suo Catalogo a stampa per lettere inedite del Machiavelli, e dichiarate anche un tesoro letterario d'inestimabile valore. Le aveva comprate poi il gran collettore inglese di manoscritti d'ogni genere, sir Thomas Phillipps, che le lasciò, con tutta la sua ricchissima biblioteca, alla propria figlia, la quale, maritata al reverendo signor E. Fenwick, trovasi ora in Cheltenham, dove io andai, e così finalmente ebbi nelle mani i tre preziosi volumi. Il lettore capirà certo la mia maraviglia, quando gli dirò che nell'aprirli dovetti quasi istantaneamente accorgermi, che una sola di quelle lettere, sebbene neppur essa autografa, poteva ritenersi del Machiavelli; tutte le altre certamente non eran di lui.

Questi tre volumi di antica scrittura, segnati nel Catalogo Phillipps col numero 8238, hanno per titolo: Carteggio originale di Niccolò Machiavelli, al tempo che fu segretario della Repubblica fiorentina. Inedito. La prima lettera, senza nessuna importanza, è del 20 ottobre 1508, scritta in nome dei Dieci, ed a piè di pagina vi si trova il nome Nic. s Maclavello, messovi, secondo il solito, dal coadiutore che copiava nei registri della Cancelleria. È la sola di cui si possa credere che la minuta sia stata scritta dal Machiavelli, senza però neppure averne l'assoluta certezza. Tutte le altre, a cominciare dalla seconda del primo volume, vanno dal 1513, quando già il Machiavelli era uscito d'ufficio, e i Medici erano tornati a Firenze, sino al 1526, quando di certo egli non era stato ancora richiamato agli affari. Esse sono tutte indirizzate a Francesco Vettori, che in quegli anni fu ambasciatore a Roma ed altrove; sono scritte sempre in nome degli Otto di Pratica, che successero ai Dieci di Libertà nel 1512, quando il Machiavelli venne destituito. A piedi di molte pagine del registro si leggono le iniziali N. M. Qualche volta invece vi si legge, più o meno abbreviato, in modo però da non lasciare nessun dubbio, il nome di Niccolò Michelozzi, che allora appunto era il Cancelliere degli Otto di Pratica. La prima lettera adunque, cavata da un più antico registro della Repubblica, fu messa in fronte a questi volumi, per ingannare il troppo credulo compratore, il quale perciò le credette tutte di Niccolò Machiavelli, sebbene, anche senza conoscerne la scrittura, avrebbe assai facilmente, guardando solo alle date, potuto capire che non erano di lui. E così, dopo aver fatto invano il lungo viaggio, esaminato che ebbi il Catalogo della ricca biblioteca, preso qualche appunto da altri manoscritti italiani, dovetti tornarmene a Firenze con la certezza che il supposto epistolario del Machiavelli era un sogno.

Ed ora non mi resta che un'ultima parola. Assai spesso chi scrive un libro ha, nello scegliere il soggetto, un segreto pensiero che lo muove. Io sono stato mosso principalmente dal pensiero, che il Rinascimento italiano, di cui il Machiavelli fu certo uno dei più illustri rappresentanti, è il tempo in cui il nostro spirito nazionale ebbe la sua ultima manifestazione, la sua ultima forma veramente originali. Seguì poi un lungo sonno, da cui appena ci siamo svegliati. Lo studio d'un tale periodo storico può quindi, se non m'inganno, riuscire a noi doppiamente utile, facendoci non solo conoscere una parte assai splendida della nostra antica cultura, ma dandoci ancora più d'una spiegazione così dei vizî, contro i quali combattiamo oggi, come delle virtù che ci aiutarono a risorgere. E la lezione potrà essere ancora più utile, se lo storico non dimenticherà, che il suo ufficio non è di bandire precetti di politica o di morale, ma solo di sforzarsi a far rivivere il passato, dal quale è venuto il presente, che da esso riceve lume ed ammaestramento continuo anche per l'avvenire. Un tale pensiero in ogni modo è quello che più volte m'infuse lena e mi diè coraggio, mantenendo in me sempre viva la fede che, pure restando lontano dal mondo e chiuso fra i libri, io non dimenticavo il debito che tutti noi, ciascuno secondo le sue forze, oggi più che mai, abbiamo verso la patria.

Firenze, 1877.

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