CAPITOLO I.

Famiglia, nascita e primi studî di Niccolò Machiavelli.

Viene eletto segretario dei Dieci.

(1469-1498)

Niccolò Machiavelli comparisce la prima volta nella storia l'anno 1498, ventinovesimo di sua età. Allora era già arrivata in Firenze la scomunica contro il Savonarola, cui la Signoria era avversa, e intorno a lui s'addensava da ogni lato la tempesta, che doveva tra qualche mese condurlo al patibolo. Per evitare maggiori scandali, egli aveva ordinato al suo fido discepolo fra Domenico da Pescia di predicare in San Lorenzo alle donne, e, lasciato il Duomo, s'era ritirato in San Marco, dove rivolgeva la sua parola agli uomini solamente. Colà venne il Machiavelli ad ascoltare due prediche, delle quali dètte poi ragguaglio ad un amico in Roma, con una lettera del giorno 8 marzo di quell'anno medesimo. In essa appariscono già evidenti alcune qualità più notevoli della sua indole, tanto diversa, anzi contraria affatto a quella del Savonarola. Egli non riesce a capir nulla di ciò che v'è di grande e di nobile nel Frate. Ascolta con un sorriso d'ironia e di scherno lo strano linguaggio di questo che chiamerà più tardi profeta disarmato. Lo sente «squadernare i libri vostri, o preti, e trattarvi in modo che non ne mangerebbero i cani;» lo sente dire del Papa quello «che di quale vi vogliate scelleratissimo uomo dire si puote;» gli sembra che questo Frate venga «secondando i tempi e le sue bugìe colorendo:» ma non sa capire come abbia preso un così gran potere in Firenze, nè come debba andare a finire la faccenda, e quindi prega l'amico che, se può, lo illumini.

Chi era, in mezzo a tanto bollore di passioni, questo indagatore a freddo? Ricordando la parte non piccola che egli ebbe dipoi negli affari della Repubblica, e quella grandissima che ebbe nella storia del pensiero moderno, ogni particolare intorno ai suoi studî, alla sua giovinezza, riuscirebbe prezioso. Invece i primi anni del Machiavelli sono e forse resteranno per sempre avvolti nelle tenebre. I suoi contemporanei non parlarono quasi mai di lui; dopo la sua morte nessuno degli amici o conoscenti pensò di scriverne la vita. Ed egli, occupato continuamente ad osservare gli uomini e le cose che lo circondano, non si ferma mai sopra sè stesso, non torna mai sul suo passato. Come uomo, come carattere, non pare che abbia un gran peso fra coloro che gli son vicini; le sue azioni o non ebbero molta importanza, o non furono molto avvertite. La stessa sua prodigiosa attività negli affari si manifesta principalmente colla penna; la sua vita si può dire che sia quasi tutta ne' suoi scritti, quantunque egli si trovasse in mezzo a molte e varie vicende. In ciò è assai diverso dal Guicciardini, cui pur somiglia in tante cose. Questi, infatti, salito ad alti ufficî, fa ben sentire il potere e l'autorità della sua persona. Assalito dai contemporanei, si difende nell'Apologia, nei Ricordi biografici ed in altri scritti, nei quali spesso ed a lungo parla di sè. Comunque sia, noi ci sforzeremo di raccogliere tutte le notizie che ci fu dato trovare sulla famiglia e sui primi anni del Machiavelli. Sfortunatamente però sono assai poche.

La famiglia dei Machiavelli era antichissima in Toscana, e veniva da Montespertoli, piccolo Comune fra la val d'Elsa e la val di Pesa, poco lungi da Firenze. Nei loro antichi Quaderni di ricordanze, qualcuno dei quali trovasi anche oggi nelle biblioteche fiorentine, si legge che essi erano consorti dei signori di Montespertoli, anzi discendevano da un medesimo stipite. Buoninsegna di Dono dei Machiavelli, secondo queste Ricordanze, avrebbe, circa il 1120, avuto due figli, Castellano e Dono. Dal primo sarebbero venuti i Castellani signori di Montespertoli, dal secondo quelli che ebbero il nome di Machiavelli. L'arme dei primi fu un'aquila ad ali spiegate in campo azzurro; l'arme dei secondi fu una croce azzurra in campo d'argento, con quattro chiodi (chiovi, chiavelli) del pari azzurri, ai quattro angoli della croce. Nel 1393 Ciango dei Castellani di Montespertoli lasciò a Buoninsegna e Lorenzo di Filippo Machiavelli, trisavolo del grande scrittore, il castello di Montespertoli con diritti di giuspatronato sopra molte chiese. Questa eredità, che non aveva gran valore, essendo allora aboliti i diritti feudali, portò ai Machiavelli alcuni privilegi, come, per esempio, la privativa del peso e della misura pubblica, l'omaggio di alcuni ceri offerti ogni anno, e permise loro di mettere la propria arme sulla gola del pozzo, nella piazza del mercato, alla quale s'è ora dato il loro nome. Il resto della non pingue eredità s'andò dividendo fra i molti rami della numerosa famiglia. Assai poco ne venne quindi al padre di Niccolò Machiavelli, i cui beni erano nel vicino Comune di San Casciano. Aveva però sempre sul castello alcuni diritti, che non gli rendevano nulla, e diritti di patronato su varie chiese, parte dei quali venivano anch'essi dalla eredità di Montespertoli. I Machiavelli avevano le loro case nel quartiere di Santo Spirito, tra Santa Felicita e il Ponte Vecchio in Firenze: colà si erano stabiliti da tempi assai remoti, e furono poi tra i più notabili popolani. Infatti noi li troviamo fra coloro che dovettero nel 1260, dopo la rotta a Montaperti, esulare. Ben presto però rimpatriarono cogli altri Guelfi, e sono assai spesso ricordati nelle storie della Repubblica, al cui governo presero parte, vantando un gran numero di Priori e di Gonfalonieri.

Bernardo di Niccolò Machiavelli, nato nel 1428, fu giureconsulto, esercitò qualche tempo l'ufficio di tesoriere nella Marca, e nel 1450 ereditò ancora i beni di suo zio Totto di Boninsegna Machiavelli. Nel 1458 sposò Bartolommea vedova di Niccolò Benizzi, e figlia di Stefano dei Nelli, antica famiglia fiorentina. Non si può supporre che questo matrimonio aumentasse la sua privata fortuna, giacchè le donne portavano allora meschinissime doti. In ogni modo, nel catasto del 1498 la sua entrata, che poi, come vedremo, passò tutta, mediante un accordo di famiglia stipulato nel 1511, al figlio Niccolò, era valutata a fiorini larghi 110 e soldi 14, il che lo rendeva non ricco, ma certo neppur povero. È impossibile fare un calcolo esatto; ma, tenuto conto del valore assai maggiore che aveva l'oro in quel tempo, non si va forse molto lungi dal vero, affermando che era una rendita corrispondente a quel che sarebbero oggi quattro o cinquemila lire italiane. Se Bernardo era uomo dato agli studî, Bartolommea era donna religiosa e non priva di cultura, avendo scritto alcuni Capitoli e Laudi alla Beata Vergine, indirizzati, secondo che troviamo affermato, appunto al figlio Niccolò. Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Totto, Niccolò, Primerana e Ginevra. Delle donne, la prima sposò messer Francesco Vernacci, la seconda messer Bernardo Minerbetti. Dei maschi, Totto, nato nel 1463, non si sa che prendesse moglie, e cadde ben presto in oscurità; Niccolò, invece, nato il 3 di maggio 1469, divenne subito, come vedremo, il personaggio più autorevole della famiglia, così pe' suoi studî come pel suo ingegno. Il giorno 11 d'ottobre 1496 moriva la madre del Machiavelli; e neppure su questo fatto, che nella vita d'ogni uomo ebbe sempre un'importanza grandissima, troviamo una sola parola che ci possa, anche da lontano, far sapere quello che il figlio sentisse allora. Tutto rimane per noi interamente oscuro. Egli aveva già ventisette anni, e sino a quel tempo non ci resta di lui un sol verso, una qualche parola di scrittori antichi, che ce lo facciano conoscere poco o molto.

I più antichi scritti che abbiamo di lui, sono una lettera italiana ed un brano di lettera latina, ambedue del dicembre 1497, che trattano il medesimo argomento. Sin da tempi antichi, non però antichissimi, i Machiavelli avevano avuto il diritto di giuspatronato sulla chiesa di Santa Maria della Fagna in Mugello. Questo diritto era poi stato ad essi tolto, e volevano ora usurparlo i Pazzi. Laonde tutta la famiglia, sebbene fosse ancora vivo Bernardo, commise al figlio di lui, Niccolò, che scrivesse in favore dei comuni diritti. Così abbiamo le sue due prime lettere, che sono dirette A un prelato romano, che probabilmente era il cardinal Perugino, giacchè a lui scriveva con calore sul medesimo argomento anche la Repubblica. In esse il Machiavelli, con molta accortezza, con molte lusinghe e promesse, con un linguaggio altisonante, sostenne i giusti diritti, che Maclavellorum famiglia aveva alla sua difesa affidati, e che difatti finalmente trionfarono.

Due cose risultano chiare da tutto ciò: che egli conosceva allora il latino e lo scriveva, il che era stato messo in dubbio da qualcuno; che tutti i Machiavelli facevano gran conto di lui, avendolo eletto come loro rappresentante e difensore. In mezzo alle poche notizie pervenuteci, le quali spesso anche si contradicono, non sarà inopportuno cercare di fermar bene quelle almeno che sono sicure. Non può di certo far maraviglia, che avesse già una sufficiente istruzione letteraria un uomo così singolarmente dotato dalla natura, nato in una famiglia non priva di fortuna, nè di cultura; che passò la sua giovanezza ai tempi di Lorenzo il Magnifico, quando abbondavano le scuole e le pubbliche lezioni nello Studio, quando le lettere italiane e le latine s'imparavano quasi senza accorgersene, anche conversando, e le reminiscenze dell'antichità erano nell'atmosfera stessa che si respirava. Strano sarebbe stato invece quello che pretesero alcuni, seguendo le poco sicure affermazioni del Giovio, che cioè il Machiavelli fosse allora quasi privo d'ogni cultura, e solo più tardi apprendesse da Marcello Virgilio Adriani tutte quelle cognizioni, che troviamo nelle sue opere, d'autori greci o latini. Da un altro lato, sebbene egli avesse fin dalla sua gioventù una discreta cultura, e col tempo progredisse molto nello studio dei classici latini, ed in ciò gli giovasse non poco il conversare frequente con Marcello Virgilio, non si può neppure prestar fede all'affermazione di coloro che vorrebbero farne un erudito, un profondo conoscitore del greco. Che abbia o no conosciuto i primi elementi del greco, non si può nè affermare nè negare, ed è cosa in sè stessa di nessuna importanza; che molto leggesse le traduzioni di autori greci, e se ne valesse ne' suoi scritti, non si può mettere in dubbio; ma che fosse in grado di leggerli nell'originale, il che avrebbe certo molta importanza a sapersi, non vi è nessun sicuro argomento per poterlo credere. In mezzo a tante citazioni latine, non se ne trova una sola in greco; abbiamo di lui qualche traduzione dal latino, non una sola pagina che egli dica di aver tradotta dal greco, nè un solo autore che egli affermi di aver letto in quella lingua. Da un altro lato è certo che i suoi contemporanei non lo ponevano fra gli eruditi; il Varchi anzi lo dice «più tosto non senza lettere che letterato.» Giuliano de' Ricci, che pur era figlio d'una figlia del Machiavelli, combattendo il Giovio, dimostra che il suo illustre antenato conosceva il latino, ma del greco non dice neppure una sola parola. In conclusione, da tutto quel che sappiamo con certezza, si può dedurre che il Machiavelli ebbe nella sua gioventù la più generale istruzione letteraria de' suoi tempi, non quella d'un erudito, e gli scrittori greci studiò assai, ma solo nelle traduzioni; nè pare che si addentrasse gran fatto nello studio della giurisprudenza, di cui dovette però aver qualche cognizione. Il resto fece più tardi da sè con la lettura, con la meditazione, più di tutto con la esperienza degli affari e la conoscenza degli uomini. Certo egli dovè da una cultura comparativamente ristretta sentir qualche danno; ma ne ebbe anche l'inestimabile vantaggio di serbare più viva la spontanea originalità del suo ingegno e del suo stile, i quali non furono perciò, come a tanti seguiva allora, soffocati sotto il peso della erudizione.

Grande era tuttavia il suo entusiasmo per gli antichi, specialmente pei Romani; ma questa sua ammirazione aveva qualche cosa che ricordava Cola di Rienzo e Stefano Porcari, piuttosto che il semplice erudito. Vivendo poi in quel secolo di lettere, di arti, di congiure, di scandali papali e d'invasioni straniere, egli aveva passato il suo tempo non solo coi libri, ma anche con gli uomini, conversando e meditando di continuo sugli avvenimenti che seguivano assai rapidi intorno a lui. E fra questi, dovè fargli una profonda e penosa impressione la venuta dei Francesi nel 1494, impressione mitigata solo in parte dalla cacciata dei Medici e dalla proclamazione della repubblica in Firenze. Se non che, pieno di reminiscenze pagane e d'una grande avversione per tutto ciò che sentiva di preti o di frati, gli andò assai poco ai versi, che la Repubblica fosse dominata dalla eloquenza di un frate, ed inclinò piuttosto verso coloro che lo menarono al supplizio, sebbene più tardi si lasciasse ne' suoi scritti sfuggire parole di ammirazione, neppure queste però libere affatto da ogni ironia. Ma quando le ceneri del Savonarola vennero gettate in Arno, ed i Piagnoni furono perseguitati, le cose pigliarono un aspetto meno contrario alle sue idee. Allora, come è naturale, seguirono anche diversi mutamenti nei pubblici ufficî, ed il Machiavelli, che a ventinove anni si trovava senza una professione e senza una fortuna propria, pensò di cercare qualche occupazione, che gli désse col proprio lavoro onesto guadagno. La cosa non doveva essere molto difficile, perchè egli non mirava troppo alto, e la Repubblica soleva già da molto tempo adoperare in ufficî retribuiti, massime nelle sue segreterie, uomini di lettere.

La prima di esse era quella dei Signori, a capo della quale stava il primo Segretario o Cancelliere della Repubblica. Questo era un ufficio assai onorevole, affidato ad uomini come Leonardo Aretino, Bartolommeo Scala e simili. Veniva poi la seconda segreteria o cancelleria, che, sebbene avesse una sua propria importanza, e forse anche maggior lavoro, dovendo trattare gli affari interni dello Stato, pure dipendeva dalla prima. V'erano inoltre due, più specialmente chiamati i Segretarî della Signoria, ai quali s'assegnavano uffici diversi. Spesso li mandavano in giro pel territorio o fuori, con speciali commissioni; qualche volta affidavano ad uno di essi la direzione della seconda cancelleria, o lo ponevano a servigio dei Dieci. Questi, come è noto, provvedevano alle cose della guerra; nominavano o proponevano i commissarî nel territorio della Repubblica; inviavano anche ambasciatori all'estero, e tenevano con essi corrispondenza, ma allora si trovavano come alla dipendenza dei Signori, i quali con la loro prima cancelleria trattavano di regola gli affari esterni. Così la seconda cancelleria, della quale i Dieci si valevano pei loro affari, riceveva spesso ordini dalla prima, e quando, cosa che seguì più volte, essi non venivano eletti, ne facevano le veci i Signori.

Verso la fine del 1497 era morto Bartolommeo Scala, celebre erudito, il quale, salvo una breve interruzione, era stato fin dal 1465 Segretario della Repubblica, ed in sua vece fu, nel febbraio del 1498, nominato Marcello Virgilio Adriani. Più tardi fu privato d'ufficio Alessandro Braccesi, che era uno dei due Segretari della Signoria, messo a capo della seconda cancelleria, ed allora, il 15 giugno, vennero messi a partito quattro nomi, nel Consiglio degli Ottanta, e dopo quattro giorni, cioè il 19 dello stesso mese, nel Consiglio Maggiore. Fra questi nomi trovavasi appunto quello di Niccolò di Bernardo Machiavelli, il quale ebbe il maggior numero di voti, e restò quindi eletto. Fu così il primo dei due Segretari della Signoria, con l'incarico di reggere la seconda cancelleria. Il 14 luglio seguente venne dai Signori rinominato, con incarico di servire anche i Dieci; ed in questo doppio ufficio cui era stato eletto allora per un anno, fu di tempo in tempo riconfermato, fino a che non cadde il governo repubblicano nel 1512. Dopo la riforma delle segreterie, fatta nel 1498, al cancelliere della seconda spettava lo stipendio di fiorini 200 l'anno, al primo dei due Segretarî della Signoria ne spettavano invece 192, ma il Machiavelli, per le riduzioni recentemente fatte, ne riceveva solamente 100. Egli aveva circa ventinove anni, quando si trovò la prima volta in ufficio accanto a Marcello Virgilio, il quale potè essere perciò il suo dotto amico, non il suo maestro come da alcuni si pretese.

Marcello Virgilio era nato nel 1464, aveva quindi soli cinque anni più del Machiavelli. Era stato discepolo del Landino e del Poliziano; conosceva il greco ed il latino, la medicina e le scienze naturali; aveva una grande facilità di parlare improvviso, anche in latino. E queste qualità oratorie venivano favorite dalla sua apparenza esteriore; giacchè egli era alto della persona, di un portamento dignitoso, con una fronte spaziosa, un viso aperto. Nominato nello Studio professore di lettere nel 1497, continuò per alcuni anni, certamente fino al 1502, a dar lezione, cumulando, dopo il 1498, l'ufficio di professore con quello di segretario. Egli in realtà continuò ad esser sempre un erudito, ed anche come segretario della Repubblica si occupò più che altro di dar forma classica alle lettere che scriveva, secondo gli ordini ricevuti, e non tralasciò mai i suoi studi. Nelle biblioteche fiorentine si trova un gran numero di suoi lavori manoscritti. Molte sono le sue orazioni latine di ogni genere, filosofiche, letterarie, politiche, sempre erudite e retoriche. Egli fece, come vedremo fra poco, la solenne orazione, quando fu dato a Paolo Vitelli il bastone del comando dell'esercito, e fece anche l'elogio funebre di Marsilio Ficino. Non pochi sono gli scritti letterari che lasciò: poesie latine, traduzioni, comenti di autori greci o latini. Ma l'opera sua più nota, cominciata sin dai primi anni del suo ufficio di professore, fu la traduzione dell'Ars Medica di Dioscoride, pubblicata a Basilea nel 1518 e dedicata a Leone X. Nel 1515, per una caduta da cavallo, ebbe a soffrir molto degli occhi e restò balbuziente per tutta la vita. Morì nel 1521 in età di 56 anni.

Diverso assai appariva il Machiavelli. Di media statura, magro, con occhi vivacissimi, capelli scuri, naso piuttosto piccolo; la sua testa non era grossa, la fronte era larga, e la bocca soleva tenere sempre stretta: tutto aveva in lui l'espressione di un accortissimo osservatore e di un pensatore, non però d'un uomo molto autorevole, che s'imponesse agli altri. Nè poteva facilmente liberarsi da un sarcasmo che stava continuo sulle sue labbra, e scintillava da' suoi occhi, dandogli tutta l'apparenza d'uno spirito calcolatore, impassibile e mordace. Pure la sua fantasia aveva su di lui un gran potere, e facilmente lo dominava, qualche volta anzi lo trasportava a segno da farlo inaspettatamente sembrare un visionario. Cominciò subito a servire la Repubblica fedelmente, con tutto l'ardore d'un antico Fiorentino, esaltato com'era dalle reminiscenze di Roma pagana e repubblicana. Se egli non era in tutto contento del presente governo, era però contentissimo che fossero cessati la tirannide dei Medici, e il predominio di un frate. Certo il conversare con Marcello Virgilio fu utile ai suoi studî, ed è credibile che egli assistesse ancora ad alcune lezioni del suo superiore di ufficio; ma non gli poteva restare molto tempo libero, perchè era occupato da mattina a sera a scrivere lettere d'affari, delle quali si trovano anche oggi molte migliaia nell'Archivio fiorentino. Oltre di ciò, egli fu di continuo mandato dai Dieci in giro pel territorio dello Stato, e ben presto gli vennero affidate anche importanti legazioni all'estero. In queste faccende poneva tutto sè stesso, perchè erano di suo gusto, e perchè ebbe sempre una febbrile attività. Le poche ore che gli restavano libere dedicava alla lettura, al conversare, ed anche ai piaceri della vita. Di allegra compagnia, si trovava in buoni termini coi colleghi delle due cancellerie, e più assai che con Marcello Virgilio, fece lega con quelli che avevano un grado inferiore al suo, sopra tutto con Biagio Buonaccorsi, il quale, sebbene di non grande ingegno, era assai buon uomo e amico fedele. Quando il Machiavelli si trovava lontano, il Buonaccorsi gli scriveva lettere lunghe e affettuose, dalle quali trasparisce una vera amicizia; ma si vede ancora che il capo della seconda cancelleria e segretario dei Dieci era molto dato al vivere allegro, ai mutabili e poco casti amori, dei quali discorrevano fra loro con un linguaggio tutt'altro che edificante.

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