CAPITOLO II.

Niccolò Machiavelli comincia ad esercitare l'ufficio di Segretario dei Dieci. - Sua legazione a Forlì. - Condanna e morte di Paolo Vitelli. - Discorso sopra le cose di Pisa.

(1498-1499)

La principale faccenda che la Repubblica avesse ora alle mani era la guerra di Pisa, e pareva che gli altri Stati dovessero finalmente permetterle che si misurasse coll'antica sua avversaria, senza altrimenti mescolarsene. Il Papa e gli alleati si dichiaravano, infatti, contenti di Firenze per il supplizio del Savonarola, e non chiedevano altro; l'amicizia di Firenze colla Francia si sperava che dovesse tenere in freno gli altri potentati italiani. È vero che Luigi XII, salendo sul trono di Francia, aveva assunto ancora i titoli di re di Gerusalemme e di Sicilia, di duca di Milano, alle antiche pretese sul Napoletano aggiungendo così quelle sulla Lombardia, da lui vantate a cagione della sua avola Valentina Visconti; ed è vero del pari che ciò faceva prevedere nuovi guai all'Italia, aveva anzi già messo Milano e Napoli in una grandissima paura. Ma da un altro lato tutto ciò procurava ai Fiorentini i segreti aiuti del Moro, che cercava d'averli amici; e così crescevano le loro speranze. Se non che i Veneziani continuavano apertamente a favorire Pisa; i Lucchesi, come più deboli, si contentavano d'aiutarla di nascosto, ed essa con animo risoluto, con mirabile energia, si teneva sempre pronta alla difesa. Aveva armato non solo tutti i suoi cittadini, ma anche gli uomini del contado, che nelle continue scaramucce s'erano agguerriti. I Veneziani le avevano mandato trecento Stradiotti, o sia Albanesi a cavallo, armati alla leggera, abilissimi nelle scorrerie e negli assalti improvvisi; parecchi soldati francesi erano, fin dalla venuta di Carlo VIII, rimasti nelle sue mura a difenderla. A questo s'aggiungeva che, negli ultimi tempi, a causa delle interne dissensioni, i Fiorentini avevano trascurato assai le cose della guerra, ed il loro capitano generale, conte Rinuccio da Marciano, insieme col commissario Guglielmo de' Pazzi, avevano in uno scontro di qualche importanza ricevuto tale rotta, che a fatica ne erano essi stessi scampati vivi. E fu questo appunto il momento scelto dai Veneziani, per minacciare d'avanzarsi nel Casentino, a fin di richiamare colà l'esercito assediante. Occorrevano adunque nuovi e sempre più energici provvedimenti.

Si cominciò collo scrivere lettere urgenti al re di Francia, perchè impedisse ai Veneziani suoi alleati di penetrare nel Casentino; si chiese e s'ottenne dal Moro buona somma in prestito; si deliberò ancora di far venire di Francia, col consenso del Re, Paolo e Vitellozzo Vitelli, al primo dei quali, che aveva reputazione di gran capitano, venne offerto addirittura il comando dell'esercito. Arrivato egli a Firenze, vi fu subito, ai primi del giugno 1498, una grande solennità. In piazza della Signoria, dinanzi al Palazzo, erano il popolo affollato e i magistrati della Repubblica; Marcello Virgilio leggeva un'orazione latina, in cui, celebrando le battaglie e le virtù del nuovo capitano, ivi presente, le paragonava a quelle dei più grandi dell'antichità. E nello stesso tempo, l'astrologo che il Vitelli menava seco, era con quelli della Signoria dentro la corte del Palazzo, osservando ed «aspettando l'avvenimento del felice punto.» Non appena che essi fecero il cenno convenuto, fu dato nelle trombe, e venne sospesa l'orazione, affrettandosi il Gonfaloniere a consegnare il bastone del comando, con la speranza di prosperi successi. Dopo di che, finita l'orazione, s'andò in duomo a sentire la messa, ed il 6 di giugno 1498 il celebrato capitano partì per il campo. Allora cominciò subito l'attività dei Dieci per dare impulso alla guerra, e cominciarono le molte e gravi faccende del Machiavelli.

È appena credibile quante brighe, noie e pericoli questa piccola impresa désse alla Repubblica. Si principiò subito con le gelosie tra il vecchio ed il nuovo capitano, per le quali fu necessario dare al conte Rinuccio la paga stessa che al Vitelli, lasciandogli il titolo di governatore generale, mentre a questo, col nome di capitano, veniva affidata la direzione principale della guerra. Le cose parevano cominciar prosperamente con la presa di varie terre, quando s'intese a un tratto che i Veneziani s'avanzavano già verso il Casentino. Bisognò quindi assoldare in fretta nuove genti e nuovi capitani, indebolire la guerra nel Pisano, per portare lo sforzo maggiore contro di questi, che nel settembre, passando per Val di Lamone, presero Marradi. Ivi trovarono però i Fiorentini comandati dal conte Rinuccio, ed ingrossati da genti mandate in aiuto dal Moro. Retrocessero perciò alquanto, ma s'inoltrarono invece per la via del Casentino, occupando la badìa di Camaldoli; passato poi il Monte Alvernia, pigliarono per sorpresa Bibbiena. Questi fatti costrinsero i Fiorentini a sospendere addirittura la guerra di Pisa, e, lasciati colà pochi uomini a guardia delle terre più importanti, a mandare tutto l'esercito col Vitelli contro il nuovo nemico. L'abate don Basilio dei Camaldolesi era corso intanto nella montagna a sollevare e comandare i contadini di quei luoghi alpestri, che a lui erano devoti, e riuscì a fermare i Veneziani, recando loro gravissimi danni. In questo momento il duca d'Urbino, che comandava nel campo nemico, trovandosi ammalato, chiese un salvocondotto per sè e pei suoi al Vitelli, che subito glielo concesse. La qual cosa produsse uno sdegno, e destò un gravissimo sospetto nell'animo dei Fiorentini, i quali allora seppero anche come il loro capitano si era pubblicamente fatto vedere in colloquio con Piero e Giuliano de' Medici, che seguivano il campo nemico.

Sopraggiunse intanto il verno, e la guerra con difficoltà si poteva continuare nei monti, sebbene nessuno volesse ritirarsi, quando il duca Ercole di Ferrara s'offerse mediatore di pace tra Firenze, Pisa e Venezia. Accettata che fu la mediazione, egli pronunziò il suo lodo ai primi del 1499. Secondo il quale, pel 24 di aprile i Veneziani dovevano ritirarsi dal Casentino e dal Pisano; i Fiorentini dovevano pagar loro la somma di 100,000 ducati in dodici anni; i Pisani, restando padroni della fortezza e liberi nel loro commercio, dovevano tornare sotto Firenze. Nessuno fu contento; pure i Fiorentini accettarono il lodo, ed i Veneziani ritirarono le loro genti; ma i Pisani s'apparecchiarono invece, con più ardore che mai, a combattere. Il segreto di tutta la faccenda era, che s'aspettavano altrove nuovi e maggiori avvenimenti, essendosi Luigi XII accordato col Papa e coi Veneziani, per venire in Italia contro il Moro. Quindi ognuno ritirava le sue genti dalla Toscana, dove Firenze e Pisa erano perciò lasciate sole, l'una di fronte all'altra.

Per questi eventi il Machiavelli aveva avuto moltissimo da fare, giacchè da lui dipendeva tutto il lavoro dell'ufficio dei Dieci. Scriveva un numero infinito di lettere; mandava ordini; spediva danari, armi, e qualche volta doveva egli stesso muoversi per andare a parlare ai capitani. Così il 24 marzo del 1499 fu mandato a Pontedera, presso Jacopo IV d'Appiano signore di Piombino, che essendo a servizio della Repubblica, chiedeva maggiore condotta ed una paga uguale a quella del conte Rinuccio. Potè indurlo a contentarsi d'un aumento della condotta; ma gli altri capitani erano più insistenti; le loro pretese e lamenti non avevano mai fine. Paolo Vitelli, non volendo stare alla pari col conte Rinuccio, chiese maggiore paga e l'ottenne, il che subito destò la gelosia del Conte, che a sua volta cominciò a strepitare. Tutte queste cose avevano portato le spese della guerra, e quindi le gravezze, a tale che erano divenute proprio incomportabili. I libri delle provvisioni della Repubblica in questi anni non ci presentano altro che una serie di sempre nuovi e più ingegnosi trovati, per cavar danari dai cittadini. Lo scontento popolare veniva cresciuto dal vedere che i Dieci, chiamati perciò i Dieci spendenti, avevano largheggiato non solo per poca prudenza, ma ancora per indebiti favori ai loro amici, cui davano commissioni o condotte inutili; e si minacciava quasi di prorompere in aperto tumulto. Così fu che, quando nel maggio doveva procedersi alle nuove elezioni, si sentì il popolo gridare: nè Dieci nè danari non fanno pei nostri pari; e non vi fu modo alcuno di indurlo a votare. La Signoria dovette quindi, per qualche mese piegarsi a dirigere essa le cose della guerra, coll'aiuto d'alcuni fra i più autorevoli cittadini. Tutte le accuse fatte ai Dieci non toccavano però, nè direttamente nè indirettamente, il Machiavelli loro segretario, il quale aveva anzi in questo breve tempo guadagnato assai di autorità e di reputazione. La seconda cancelleria a lui affidata, si trovò allora, insieme colla prima, alla dipendenza esclusiva dei Signori; ma questo modificò poco o punto la sua condizione, e solo potè crescergli le faccende.

Il 12 luglio 1499 egli ebbe la prima commissione di qualche importanza, essendo stato inviato con lettera dei Signori, firmata Marcello Virgilio, presso Caterina Sforza, contessa d'Imola e Forlì. Era questo un piccolo Stato, la cui amicizia veniva con grande premura ricercata dalla Repubblica, perchè trovavasi non solo sulla via che dall'Italia superiore conduce alla inferiore, ma anche su quella che per Val di Lamone conduce in Toscana. Di là s'erano avanzati i Veneziani, di là aveva minacciato il duca Valentino. Il paese era inoltre armigero, e forniva soldati di ventura a chi ne chiedeva alla Contessa, la quale ne faceva quasi commercio. Suo figlio primogenito, Ottaviano Riario, sebbene giovanissimo, per guadagnar danari cercava condotte, e nel 1498 ne aveva ottenuta dai Fiorentini, che volevano tenersi amica sua madre, una di quindicimila ducati, da durare sino a tutto giugno, ma che poteva essere rinnovata, a beneplacito dei Signori, per un secondo anno. Il primo termine era scorso con assai poca soddisfazione del Riario, il quale diceva che non gli erano stati mantenuti tutti i patti, e però non voleva saperne altro. Ma la Contessa, più prudente assai, vedendo che i Fiorentini desideravano esserle amici, e che il Valentino faceva sempre grandi disegni sulla Romagna, si dimostrava disposta invece a confermare il beneplacito, aggiungendo che aveva richiesta d'uomini d'arme da suo zio il Moro, e voleva quindi pronta risposta, per sapere come regolarsi. Da ciò la commissione data al Machiavelli.

La Contessa era una donna singolarissima, e ben capace di tenergli testa. Nata nel 1462 da illegittimi amori di Galeazzo Maria Sforza con Lucrezia, moglie d'un Landriani milanese, di forme regolari e belle, forte di corpo, d'animo più che virile, ebbe molte e strane avventure, nelle quali aveva sempre fatto prova di un'accortezza e prontezza ammirabili davvero, di una energia e d'un coraggio, che l'avevano resa celebre in tutta Italia. Giovanissima fu sposata al dissoluto figlio di Sisto IV, Girolamo Riario, il quale, per la violenza del suo carattere e del suo governo, si trovò sempre sotto il pugnale de' congiurati. Nel 1487, già vicina a partorire, lo assisteva malato in Imola, quando arrivò la nuova, che la fortezza di Forlì era stata presa dal maestro di palazzo Innocenzo Codronchi, il quale aveva ucciso il castellano. E Caterina partì la notte stessa, entrò nel castello, vi lasciò a guardia Tommaso Feo, e ne uscì menando seco il Codronchi ad Imola, dove il giorno di poi partorì. Il 14 aprile 1488 scoppiò in Forlì una congiura contro Girolamo Riario, che fu pugnalato; ed ella, restata a 26 anni vedova con sei figli, si trovò prigioniera degli Orsi capi della rivolta. Ma neppure allora si perdette d'animo. Entrò nel castello, che si teneva per lei, facendo credere che ne avrebbe ordinato la resa al popolo, nelle cui mani lasciava perciò in ostaggio i suoi figli. Invece aveva già mandato a chiedere aiuti a Milano, e quando fu al sicuro nel castello, s'apparecchiò a difendersi sino all'arrivo dei soccorsi. A chi voleva spaventarla, minacciando d'uccidere i figli, rispose che avrebbe avuto modo di farne degli altri. La città fu ripresa, e la ribellione venne da lei punita col sangue. Più tardi la Contessa fece a un tratto disarmare il fido castellano che l'aveva salvata, sostituendogli il fratello, Giacomo Feo, bellissimo giovane che poi sposò. Anche questo secondo marito fu assassinato nel 1495, un giorno che seguiva a cavallo la Contessa, la quale era in carrozza, e tornavano insieme dalla caccia. Ella montò subito a cavallo, ed entrò in Forlì, dove fece aspra, sanguinosa, quasi furibonda vendetta. Quaranta persone andarono a morte fra strazi atroci, e cinquanta vennero imprigionate o perseguitate. Pure fu detto e ripetuto, che ella aveva prezzolato gli uccisori del marito, e che ora ne pigliava pretesto a disfarsi dei propri nemici. Ma a ciò rispose, che, grazie a Dio, nè essa nè altri di casa Sforza avevano mai avuto bisogno di ricorrere a così volgari assassini, quando si erano voluti disfare di qualcuno. Nel 1497 sposò la terza volta, e fu moglie di Giovanni di Pier Francesco, del ramo cadetto de' Medici, che era stato mandato colà ambasciatore della Repubblica fiorentina. E allora fu fatta cittadina di Firenze, in parte perchè si cercava occasione di lusingarla e tenersela amica; in parte perchè le antiche leggi, che vietavano i matrimoni di cittadini, massime cittadini potenti, con stranieri, erano state rimesse in vigore dopo che il parentado dei Medici cogli Orsini di Roma aveva fatto salire i primi in grande superbia. Nell'aprile del 1498 ella ebbe un altro figlio, assai noto più tardi col nome di Giovanni delle Bande Nere, soldato valorosissimo e padre di Cosimo, primo granduca di Toscana. Verso la fine di quel medesimo anno, anche il suo terzo marito cessò di vivere. La Contessa dunque aveva 36 anni, era vedova di tre mariti, madre di molti figli, padrona assoluta del suo piccolo Stato, e nota come donna piena d'accortezza, d'ingegno e di grandissima energia, quando le si presentò Niccolò Machiavelli.

I Fiorentini erano disposti a riconfermare il beneplacito al signor Ottaviano, ma con una condotta che non superasse i 10,000 ducati, il loro scopo essendo solo d'avere la Contessa amica. Incaricavano il Machiavelli di ciò, e anche di comperare da lei, se ne aveva, polvere, salnitro e palle, perchè le richieste non cessavano mai dal campo di Pisa. Ed egli, dopo essersi fermato a Castrocaro, donde ragguagliò i Signori intorno ai partiti che dividevano quel paese, arrivato a Forlì, il giorno 16 luglio, si presentò subito alla Contessa, che trovò con l'agente del Moro, in presenza del quale espose lo scopo della sua legazione, l'animo della Repubblica e il desiderio che essa aveva di buona amicizia con lei. E questa, dopo avere ascoltato con attenzione, disse che le parole dei Fiorentini «l'avevano sempre soddisfatta, ma che le erano bene dispiaciuti sempre i fatti;» e pigliò tempo a pensare. Più tardi gli fece sapere che da Milano le erano offerti migliori patti, e poi cominciarono le trattative. Di polvere o altro non potè dar nulla, perchè ne mancava ella stessa. Invece abbondava di fanti, che raccoglieva, passava ogni giorno in rivista, e mandava poi a Milano. Il Machiavelli, invitato da Marcello Virgilio, trattò per averne subito e spedirli a Pisa; ma non furono d'accordo nè sulla somma da pagare, nè sul tempo in cui si potevano avere. Il 22 luglio egli credeva d'aver concluso la condotta, avendo offerto fino a 12,000 ducati; pure aggiungeva di non essere certo, perchè la Contessa «era stata sempre sull'onorevole,» ed a lui non era riuscito di capire se inclinava verso Firenze o verso Milano. «Io vedo bene,» egli scriveva, «la Corte piena di Fiorentini, i quali sembrano avere in mano lo Stato; inoltre, ed è quello che più importa, la Contessa vede pure il duca di Milano assalito, senza sapere che sicurezza vi sia in lui; ma da un altro lato l'agente del Moro par che comandi, e di continuo partono fanti per Milano.» Infatti, sebbene il 23 luglio tutto paresse che fosse concluso, e che si dovesse il giorno di poi sottoscrivere l'accordo, pure quando il Machiavelli si ripresentò per la firma, la Contessa, ricevutolo in presenza del solito agente milanese, gli disse: «Avere ripensato la notte, che a lei conveniva meglio aderire ai patti, solo quando i Fiorentini si dichiarassero obbligati a difenderle lo Stato. Che se essa gli mandò a dire altrimenti il giorno innanzi, non doveva maravigliarsene, perchè le cose quanto più si discutono, meglio s'intendono.» Ma i Signori avevano già fatto sapere al Machiavelli, che erano decisi a non assumere un tale obbligo; a lui dunque non restava altro che tornarsene a Firenze, come fece.

Tutta l'apparenza di questa legazione farebbe credere, che la Contessa fosse stata più furba del Machiavelli, il quale sembrerebbe essersi lasciato aggirare da una donna. Nè, se ciò fosse, vi sarebbe da maravigliarsene punto, pensando che Caterina Sforza era una donna d'animo virile, che da più tempo governava sola il suo Stato, ed aveva molta pratica degli affari, quando il Segretario fiorentino, invece, con tutto il suo grande ingegno, era un semplice letterato, che faceva ora le sue prime armi nella diplomazia. In sostanza però i Fiorentini non avevano nessuna ragione d'essere scontenti. Il loro scopo non era stato di concludere la condotta, bensì d'avere amica la Contessa, senza spendere danari; e ciò era riuscito a maraviglia, perchè le trattative non furono rotte, ma venne da Forlì un uomo fidato di lei a continuarle in Firenze. Al Machiavelli poi la legazione fu utilissima, perchè le sue lettere erano state da tutti molto lodate in Palazzo. Il suo sempre fido amico e collega Biagio Buonaccorsi, che era un repubblicano ammiratore del Savonarola, del Benivieni, di Pico della Mirandola; amante degli studi, sebbene mediocre letterato; autore di poesie e d'un Diario che narra assai fedelmente i fatti di Firenze dal 1498 al 1512, gli scriveva continuamente e lo ragguagliava di tutto. «A mio giudizio,» diceva una sua lettera del 19 luglio, «voi avete eseguito insino a ora con grande onore la commissione ingiuntavi, di che io ho preso piacere grandissimo, e di continuo piglio...: sì che seguitate, che infino ad ora ci avete fatto grande onore.» Lo stesso ripeteva in altre lettere, in una delle quali gli chiedeva un ritratto della Contessa, pregandolo che ne facesse «uno ruotolo, acciò le pieghe non la guastino.» E gli faceva anche vivissima istanza che tornasse subito, perchè senza di lui la cancelleria era caduta in un gran disordine, e l'invidia e la gelosia lavoravano assai; onde «lo star costì non fa per voi, e qui è un trabocco di faccende quanto fussi mai.»

Questi furono pel Machiavelli anni di dolori domestici. Nell'ottobre del 1496 gli era morta la madre, nel maggio del 1500 gli moriva il padre.

Prima di partire per la sua legazione a Forlì, il Machiavelli era stato, come dicemmo, occupato a scrivere lettere per calmare le gelosie dei capitani, e spingerli concordi alla guerra, cercando con ogni argomento di far nascere in essi quell'amore alla Repubblica, che non sentivano. Il Vitelli aveva proposto d'assaltare Cascina, ed essendogli stato consentito, la prese il 26 giugno, cosa che riempì di gioia e di speranza i Fiorentini, i quali cominciarono subito ad aver grande opinione del suo valore. Ma invece da questo momento ogni cosa restò ferma, mentre le spese crescevano smisuratamente; sicchè, quando il Machiavelli fece ritorno da Forlì trovò i Signori sgomenti, il popolo irritato, e i capitani che chiedevano danari che non v'erano. Nei primi d'agosto egli faceva loro scrivere, in nome dei Signori, che le difficoltà, per indurre i Consigli a votar nuove spese erano grandissime; che se si andava ancora in lungo così, «sarebbe impossibile a mezza Italia sopperire a queste artiglierie.»

E poco di poi aggiungeva, «come, avendo infino a oggi per cotesta espedizione speso fra costì e qui circa sessantaquattro mila ducati, si è munto ogni uno; e per fare questi vi mandiamo al presente (2000 ducati), si sono vôte tutte le casse....» Se non fate presto, «senza dubbio noi resteremo a piè, perchè sei mila ducati che bisognassino ancora, ci farebbero desperare al tutto di codesta vittoria.»

Allora però vi fu un momento di grandissima speranza, perchè giunse la nuova che era stata presa la torre di Stampace, e che da 25 a 30 braccia delle mura di Pisa erano già a terra; sicchè d'ora in ora s'aspettava il corriere con la desiderata notizia che gli assalitori erano entrati per la breccia. Invece si seppe che il giorno 10, data la battaglia, e giunti fino alla chiesa di San Paolo, quando tutto l'esercito, e specialmente i giovani fiorentini andati come volontarî al campo, si mostravano pieni d'indomabile ardore, sopravvenne a un tratto, non desiderato nè aspettato da nessuno, l'ordine della ritirata. Anzi Paolo Vitelli, vedendo che i soldati volevano andar oltre in ogni modo, corse con suo fratello Vitellozzo a ributtarli indietro a colpi di stocco.

Queste notizie portarono al colmo lo sdegno dei Fiorentini, e fecero nascere gravi sospetti di tradimento a carico del Vitelli. Si ricordava da tutti il salvocondotto da lui dato in Casentino al duca d'Urbino, quando s'era lasciato anche vedere dai suoi soldati parlare con Piero e Giuliano dei Medici. Poco prima della presa di Cascina, aveva fatto prigioniero un tal Ranieri della Sassetta, che, dopo essere stato a soldo dei Fiorentini, aveva disertato ai Pisani, pigliando parte in mille intrighi contro la Repubblica. I Signori lo volevano subito a Firenze, per condannarlo, ed egli invece lo lasciò fuggire, dicendo «non volersi render bargello d'un soldato valente e da bene.» Ed ora fermava l'esercito, quando appunto la vittoria era certa, e la città stessa di Pisa sembrava già presa, adducendo esser sicuro d'averla a patti! Tutto ciò era più che sufficiente a distruggere ogni fede in lui, ed a far perdere la pazienza. I Signori infatti dissero chiaro, che non volevano essere più «menati al buio;» ed il 20 agosto fecero dal Machiavelli scrivere ai commissarî nel campo: Noi abbiamo dato al capitano tutto quello che ha voluto, eppure vediamo, «con varie cavillazioni ed aggiramenti, tornare in vano ogni nostra fatica.» Due di noi sarebbero perciò venuti costà in persona, se le leggi lo consentissero, per cercar di scoprire le origini di codesti aggiramenti, «poi che voi o non ce li volete scrivere o in fatto non ve li pare conoscere.» Ma tutto era vano. Intanto le febbri facevano stragi nel campo, che s'andava così assottigliando, mentre i Pisani ricevevano aiuti. I due commissarî s'ammalarono di febbre anch'essi, ed uno ne morì. Ai nuovi che furono subito mandati, il Machiavelli scriveva in nome dei Signori: Noi avremmo preferito una disfatta al non tentare nulla in un momento così decisivo. «Non sappiamo nè che ci dire, nè con qual ragione escusarci in cospetto di tutto questo popolo, il quale ci parrà aver pasciuto di favole, tenendolo di dì in dì con vana promessa di certa vittoria.»

Un partito in ogni modo bisognava prendere, e siccome non v'era altro rimedio, nella totale mancanza di danaro, dopo la condotta del Vitelli ed i gravi sospetti che di lui s'erano concepiti, così fu dato ordine di levare addirittura il campo, lasciando fortificati e guardati solo alcuni luoghi di maggiore importanza. Ma anche allora tutto andò male, giacchè, fra le altre cose, affondarono in Arno dieci barche, che portavano munizioni ed artiglierie, parte delle quali vennero in mano dei Pisani, che le ripescarono. Ma questa faccenda non poteva passar liscia pel Vitelli. Dopo quel che era seguìto, e quando già tutti in Firenze lo credevano traditore, s'era anche sparsa la voce, che nella fuga del Moro da Milano, erano in mano dei Francesi venute delle carte dalle quali s'aveva la certezza, che egli trovavasi in segreti accordi per tirare in lungo la guerra. Braccio Martelli e Antonio Canigiani erano già partiti come commissarî di guerra, incaricati in apparenza di fornire il danaro necessario a levare il campo, ma in realtà mandati ad impadronirsi della persona di Paolo e di Vitellozzo Vitelli, il secondo dei quali, per fuggirsene, aveva allora chiesto un congedo, che gli era stato negato.

Le lettere scritte dal Machiavelli in questa occasione dimostrano che il segreto dell'affare era nelle sue mani, e che egli, persuaso della perfidia e tradimento del Vitelli, lavorava con zelo ed ardore grandissimi ad ottenere lo scopo desiderato. Il 27 settembre era assai vicino lo scioglimento del dramma, ed egli raccomandava ai commissarî che procedessero con energia contro i «nemici e ribelli» della Repubblica, trattandosi di salvarne l'onore, e di mostrare anche alla Francia, che si aveva il coraggio di provvedere alla propria sicurezza, e che si voleva essere rispettati non meno d'ogni altro potentato d'Italia. Poi conchiudeva, raccomandando che alla sollecitudine s'unisse tale circospezione e prudenza, «che nè il troppo animo, nè i troppi rispetti vi faccino errare, accelerando per l'una cagione più che non bisognerebbe, e per l'altra più che non patissi la occasione.»

I due commissarî eseguirono gli ordini con prudenza. Il Vitelli alloggiava un miglio lontano da Cascina, dove arrivavano le artiglierie del campo. Lo invitarono colà il giorno 28, sotto colore di volerlo consultare sulle cose della guerra; ma dopo avere desinato insieme, si ritirarono con lui in una stanza segreta, ed ivi lo ritennero prigione. Avevano nel medesimo tempo mandato a pigliar Vitellozzo, che era ammalato in letto; questi però, avvedutosene, chiese tempo a vestirsi, ed invece fuggì verso Pisa. Portato a Firenze, Paolo fu esaminato l'ultimo di settembre, e sebbene non avesse confessato nulla, pure il giorno appresso venne decapitato. Di questo fatto si parlò molto nella Città e fuori, essendo il Vitelli un soldato di reputazione, che aveva anche l'amicizia di Francia. Il Guicciardini lo giudica innocente, spiegandone la inesplicabile condotta con la natura e le consuetudini dei capitani di ventura; il Nardi invece lo dichiara colpevole e giustamente condannato; il Buonaccorsi, che si trovava nella cancelleria, racconta la cosa senza comenti, conchiudendo: «e questo fu il fine di Pagolo Vitegli, uomo eccellentissimo.» Quanto al Machiavelli, sebbene non avesse occasione di parlare del fatto nelle Storie o nei Frammenti, i quali non vanno oltre la metà del 99, pure la opinione di lui è manifesta dai suoi Decennali, dalle lettere che scrisse, e dall'ardore che mise nel condurre l'affare. Non sappiamo se il tradimento vero e proprio venisse allora provato; ma dalle deliberazioni e lettere del Consiglio dei Dieci in Venezia si vede chiaro che il Vitelli era disposto a tradire. Si tratta in esse di rimettere Piero de' Medici in Firenze con l'aiuto del Vitelli, cui si sarebbe data una condotta di quarantamila ducati, quale aveva già dai Fiorentini, o anche di più se egli insisteva. Sia che di ciò i Fiorentini fossero avvertiti o no, certo ad essi parve dimostrato abbastanza, che il Vitelli non aveva nessuna voglia di pigliar Pisa fino a che non si vedesse chiaro il resultato della guerra che i Francesi facevano contro Lodovico il Moro, col quale i Fiorentini temporeggiavano ancora. Seguìta che fu la vittoria dei Francesi, pare che il Vitelli si fosse deciso, secondo afferma anche il Nardi, ad operare per davvero; ma ormai era troppo tardi, aveva perduto ogni riputazione.

Un'altra prova, se pur ve ne fosse bisogno, della parte grandissima che il Machiavelli prendeva in tutte le faccende della guerra, e del conto in cui l'opera sua era tenuta, la troviamo nel suo breve Discorso fatto al Magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa, che non ha data, ma che dalla lettura apparisce scritto in quest'anno o poco dopo. È uno dei molti lavori, cui era dal suo ufficio obbligato, ed in esso, dopo avere con diversi e giusti ragionamenti dimostrata vana ogni speranza di sottomettere Pisa altrimenti che con la forza, ragguagliava intorno alle varie opinioni espresse dai capitani, circa il modo di distribuire in due o tre campi le genti fiorentine, ed alle operazioni di guerra che essi proponevano. Il Machiavelli esponeva questi pareri e proposte con tanta esattezza, con tanta minuzia, da mostrare come sin d'allora la sua mente ed il suo studio si fossero rivolti non solo alle cose politiche, ma anche alle militari. O per meglio dire, si vede assai chiaro che la cognizione dell'arte della guerra già era divenuta per lui una parte essenziale della scienza di Stato.

Share on Twitter Share on Facebook