APPENDICE DI DOCUMENTI

DOCUMENTI

DOCUMENTO I.

(Pag. 52)

LETTERE AL MACHIAVELLI, SCRITTE DA COMMISSARI E DA AMICI NEGLI ANNI 1507-1509.

1

Lettera del Commissario Alessandro Nasi,

30 luglio 1507.

Machiavel gentile et non sciagurato, che ne sei guarito interamente. Havendo per la tua de' xxiij dischorso in modo che sono inluminato di molte cose, alle quale non voglio fare replicha, perchè el tempo non serve, et anche chi scrive à preso pocho foglio; piacemi che ti chachassi la imperial commissione, poi che sei sanifichato in tutto. Et credo sia molto al proposito, maxime tuo, trovarti più presto a Firenze che in Thodescheria, come dischorreremo una volta quando saremo insieme.

Le cose si ristringhano, et interverrà a molti come a' fanciulli, che sono qualche volta lasciati fare corpacciate da' padri o dalle madre, di cose che loro ne hanno gran contento: et poi quello è il propio mezo a torli loro. Però, chi si trova d'uno buono animo, recto, et a Idio et al ben comune, ragionevolmente in tutti li eventi si può fare iuditio si habbia meglio a resolvere, et sia richo o povero, o di qualità o non qualità, come si voglia.

Lo Amicho Napoletano interpetra sì bene spesso le cose al contrario, che se comentò quella male, non fu gran facto. Ho molto charo, acciò che tu conoscha gli homini, che interpetrassi a quel modo, et tu lo habbi saputo.

Quando sarà piovuto et rinfreschato, vi aspetto a ogni modo, cioè Alexandro, Biagio et tu. Et se alle volte in questo mezo tu scrivessi, non sarebbe però pechato mortale. Se el battaglione non è in altro termine che tu mi dicha, posso farne buon iuditio et vero.

Nec alia. Racomandomi a te et al Zampa.

Cascinae, die xxx julii mdvii.

Alexander Nasius

Generalis Commissarius.

Spectabili viro Nicholao de Machiavellis Secretario florentino ...... precipuo, Flo[rentie].

2

Lettera del Commissario Filippo Casavecchia.

30 luglio 1507.

Se io mi dolsi, et hora mi ridolgo. Quando io pensavo che tre huomini della qualità vostra avessino ad esser le gruccie et il sostegno della vita mia, et de risolvermi e' mia dubbi, et che hora me usciate adosso con sì facte cose, le quali mi paiono come addimandare quale fu prima, ho la machina del cielo ho l'astrologia, ho quale sia più densa, ho l'aqua ho 'l globo della terra, ho qual sieno più perfette, ho le figure triangulate ho circuli tondi. Hor non sapete voi che poche poche amicitie sono state quelle che in prociesso di tempo non diventino il suo contrario? Et come l'omo i' nella sua giovanezza, ho per me' dire infantia, se deletta di mano in mano di mutare le vestimenta et di varii colori, così medesimamente si mutano le amicitie: et venendo poi nell'età più matura, chi per defecto de compressione, et chi hopresso da una sordida et meschina povertà, così ancora da emulatione di stati et da varii sdengni, fanno tutte queste cose, con lungezza di tempo, diventare li uomini d'amici inimicissimi. Hor non sapete voi che lo inperio et grandezza di Roma fu disfacto, per conto dell'amicitie, infinitissime volte? Ho chi furono maggiori amici che Collatino et il figliuolo di Sesto Tarquineo? Per le qual cosa ne venne la ruina de' regi et totalmente di quella familglia. Et disciendendo poi a' tempi di Mario et Silla, la quale confederatone non fu mai pari, et finalmente ne seguitò la perturbatione di quel pacifico et populare governo di quella città. Ho non v'è elli noto la fratellanza et congiuntone di Julio Ciesare et il magnio Pompeo? et così ancora de el triumvirato, cioè Antonio et Hottavio et Lepido, che non solamente messono in ruina la patria loro, ma quasi tutto il circulo della terra? Et se non che l'ora è pure tarda, io empierei una lisima di folgli de esempri ebrei e greci e latini. Ma che bisongnia ricie[r]care le cose antiche, quando ne' tempi nostri moderni, et noi conlli nostri hochi abiamo più et più volte veduto per simili efetti la patria nostra in grandissima ruina e angustia? Dove fu maggiore familiarità et amicitia che in fra Dietisalvi et Piero di Cosimo, et così ancora poi in fra Giuliano et Francesco de' Pazi? Et vedete che icielerato fine ne seguitò.

Ma e' mi pare de continuo sentire qualcuno di voi che, legiendo questa letera, non isghingniazzi, et che non dichi: Ho! queste cose non seguitorno quando l'amicitia durava, ma dipoi che fatti furono inimici. Et io rispondo, che tutti li efectti sono generati dalle cause loro; et però si può dire iustificatamente, che quasi pro maiori parte tutte le ruine delle città sieno causate et generate dalle intrinseche et cotidiane amicitie, le quali genorono col tempo, et massime nelli homini grandi, pelle ragioni preallegate di sopra, simili e cotali efetti. Et però, carissimi amici, io ve esorto et conforto et imo priego ad volere usare in fra voi moderatamente et civilmente, prima perchè io giudico sieno più per durare, et etiam per evitare tutte le suspitioni et gelosie, le quali solgliono nasciare in simile città. Ma perchè questa mia lettera non diventassi cantafavola, farò fine al mio sermone, ricordandovi solamente una cosa; e questo è a patientia circa al trionfo di Germania. Et chi si fa bello d'avervelo impedito, non à e non trionferà però dell'Asia. Et di coteste cose non v'à mancare se non quelle non vorrete. Nec alia.

Ex Fivizana, die xxx iulii mdvii.

Io ve priego che e' non vi incresca racomandarmi al magnifico Gonfaloniere, quando capitate su. Ma questa parola bisongnierebbe fussi in sur uno prigetto, che agiugnessi insino a costì, et a mala pena lo faciessi. Ma io sono chiaro d'una cosa: che voi metterete un dì inn'oblivione voi medesimo, e basti. Voi me avisate che state tutti coll'arco teso, che Gigi Mannelli non venga. Se voi l'avete a schochare, schochatelo nel forame a Masino Del Tovalglia. Fatevi con Dio, et atendete a stare lieti; e racomandatemi a Paolo, a Giovanbatista, a Luigi, a meser Francesco, a Tomaso Del Bene; et basti.

Vostro Philippo Casavetia

Commissario.

Spectabili domino Nicolao Macravello dingnissimo Secretario apud D.[Novem Mi]lit ie Reipublicae florentine.

3

Lettera di B. Buonaccorsi. - 20 febbraio 1509.

Magnifice generalis Capitanee, etc. Io non vi scriverrò più, se voi non dite almanco della ricevuta, chè havendo costì 4 cancellieri, lo doverresti pure fare.

El Papa ha mandato per semila Svizeri, at anchora lui comincia ad spendere, et questo stoppino lavora da ogni lato. E' Vinitiani fanno il simile, et aiutonsi con le messe et paternostri; et hanno mandato costà, come harete visto per le lettere vi si mandorono, per Tarlatino et Romeo. Vedete dove si fondano e' casi loro. L'Imperatore, per quanto si ritrahe di queste ultime lettere di Francia, non pare habbi ad passare questo anno in Italia: pure s'intende si prepara et di gente et di danari. Ma di questo con voi non bisogna troppo parlare, sapendo meglio di noi quello può fare. Spagna, come vi dissi, manda in Puglia gente et artiglierie per la impresa delle sua terre: vedreno che seguirà. Qui non si pensa ad altro che ad ultimare le cose di Pisa, et non si guarda ad spesa alcuna. Et el ponte, avanti passi 4 dì, sarà in opera; chè s'è mandato di qui Antonio da Sangallo con assai maestri per questo conto: così si è spinto in giù legname assai, et ogni cosa vola.

Habbiate cura costì, che a uno temporale tristo, ancorachè l'armata sia ritirata, non si mectessino ad intrare etc., chè tutta l'acqua d'Arno non vi laverebbe. Quello vento ch'i' vi dixi s'era levato et non haveva havuto forza, di nuovo cominciò ad trarre, et hebbe el medesimo fine, et harà, se altro non nasce. Et cicali chi vuole.

El Commissario di Cascina scrive che quelli poveri scoppiettieri, così mal guidati da quel traditore ribaldo ubriaco come furono, amazorono 13 cavalli alli inimici et 5 homini, et perironne assai: che ha turato la bocca a chi si faceva huomo alle pancaccie; et hanno dimonstro essere homini come li altri. Qui s'ordina di riscattarli ad ogni modo, et far loro qualche altro bene per inanimire li altri per lo advenire.

Scrivete ad Niccolò Capponi, che bofonchia et duolsi non li havete mai scripto. Et dite a quel c.... di ser Battaglione che vadi adagio, et non si assicuri più, che la scusa del piè non varrà sempre; et ricordateli che facci fare prima la credenza alla mano, innanzi che vadi più là. Et raccomandatemi al Baldovino, che anchora elli è uno cazelloncello.

L'amico non ho visto da parechi dì in qua, perchè non ho potuto; et anche le faccende assai che li ha in questo carnesciale, non patiscono se li dia molta briga. Farenlo in questa quaresima. Advisate se volete facci altro.

Parlai al Fantone di quello vi scrissi hieri: dixemi che vi era surto 4 altre querele; et che non dubitassi, che vi harebbe advertentia.

Florentie, die carnescialis, 1508.

Quem nosti etc.

Nicolao Maclavello Secretario florentino suo plurimum honorando.

4

Lettera di B. Buonaccorsi. - 21 febbraio 1509.

Niccolò mio honorando. Io vi rispondo poche parole alla parte toccante el caso del Commissario verso di voi: il che non è punto piaciuto allo ufitio. Pure e' più potenti sempre hanno ad haver ragione, et a loro si ha ad havere respecto. Voi solete pure essere patiente et sapervi governare in simili frangenti, benchè questo fia di poco momento, havendo ad stare discosto; et se una o dua lettere lo hanno ad contentare, sarà poca fatica. Et superius, con chi parlai hiersera lungamente di questo, mi commisse ve lo scrivesse, et che io vi confortassi per suo amore ad haver patientia, con altre parole da haverle chare et stimare assai. Della licentia non bisogna ragionare per hora, et questo monstra se satisfate o no: che pure stamani, nel ricercare che voi fate di tenere uno in Mutrone, qualcuno arebbe volsuto vi fussi transferito fino ad Lucca ad domandare questa cosa: tamen, la gelosia che costì non si stessi sanza voi possè più; et si risolverono tentarla per altra via. Una cosa vi vo' ricordare, et questo è, quando scrivete, diciate ogni minimo accidente che segue, così costì come in Pisa; perchè questi particulari satisfanno et empiono la brigata assai, et sono quelli che vi porteranno in cielo. Quando vi paia altrimenti, me ne rimetto a voi. Stasera, da questa ultima in fuora, si leggeranno nelli 80 et Pratica tutte le vostre lettere, et così si seguiterà, sì che mandatecene qualcuna di quelle che voi solete. Se voi non volete rimandare ser Francesco, respondete di haverne bisognio, et farassene quello che voi vorrete.

El ponte si sollicita per tutti versi, nè si può fare più di quello si sia facto. Scrivete anchora qualche volta a' Nove, perchè ogniuno vuole essere dondolato et stimato; et pure bisogna farlo chi si truova dove voi; et quattro buone parole con dua advisi satisfaranno, et parrà sia tenuto conto di loro. Fatelo, ve ne prego. Di nuovo non ho da dirvi cosa alcuna, perchè da poi vi scrissi non è innovato nulla.

Hieri andai per visitare l'amico; non era in casa, se mi fu decto el vero, che ne dubito. Pure, sendo il dì che era, non me ne maraviglio. Spero che hora harà più agio. Qui si dice che a ser Battaglione è stato rotto el c.... et che 'l Baldovino è crepato. Advisate quello che ne sia, chè ne stiamo in gelosia grande, et amendua le donne loro fanno mille pazie. Quel matto di ser Antonio dalla Valle ha facto uno modello d'uno ponte, et vuol fare uno ponte levatoio sopr'Arno; et non se li può cavare del capo, in modo dubito non c'inpazi su. Rimediate se voi potete.

Florentiae, die prima quaresimae 1508.

Quem nosti.

Confortate, vi prego, messer Gandino ad rendere quelle bestie sanza andare più oltre, chè non è cosa l'habbi ad richire, et faranne piacere a più d'uno.

Postscripta. Ho ricevuto la vostra de' 20; et circa li scoppiettieri io ho facto el debito in questo come nell'altre cose vostre. Ma bisogna scriviate quanti ne sono presi, quanti morti, et come la cosa sta, chè qui si spasima. La mancia andrà domattina ad casa, et con lo amico farò il debito che fino ad qui non ho potuto. Et quell'altra faccenda non è anchora iudicata. Non so quello ne habbi ad essere.

Niccolao Maclavello Secretario fiorentino suo plurime honorando in Castris.

DOCUMENTO II.

(Pag. 53)

LETTERE DEI NOVE DELLA MILIZIA.

1

Al Vicario di Pescia, Berto da Filicaia. - 2 giugno 1507.

Don Giliberto spagnolo, nostro conestabole, ci scripse per una sua lectera, come el Papa da Fordigla da Uzano, havendo abbassato dopo certe parole uno spiede per darli, et lui defendendosi colla spada, et correndo ad quel rumore un suo garzone, ferì decto Papa; donde noi ti commettemo, facessi d'averlo nelle mani. Venne di poi hieri al magistrato nostro un fratello del Papa, et ci ha referito questo caso al contrario, et dice in sustanza che 'l Papa fu assaltato dal conestabole et dal suo garzone; et facendoci intendere come decto garzone era in Firenze, parendoci approposito, infino che noi intendessino bene la cosa, di haverlo nelle mani, lo facemo pigliare. Et desiderando hora intendere la verità del caso, ti scriviamo la presente, et voliamo che tu intenda quello che dice l'una parte et l'altra, et che tu esamini dipoi e' testimoni che n'allegano, et veggha con ogni debita diligentia d'intendere la verità di questo caso: et intesola, ci manderai per iscriptura tutto quello ne harai ritratto et quanto più presto potrai.

Manderaci le listre de' disubbidienti nell'ultima mostra, et serberatene copia, et da decti disubbidienti trarrai la pena di 20 soldi per ciascuno; et così finirai di risquotere da quelli disubbidienti che ti lasciò l'antecessore tuo, et ci farai rimettere e' danari riscossi infino ad qui.

2

Ad Agnolo da Ceterna. - 31 luglio 1507.

Noi intendiamo quello che tu ci advisi per la tua de' 28; et circha alli accordi che tu hai facti costà, per le questione che vi sono nate. Te ne commendiamo assai, et così seguirai per lo advenire; et quando non potessi comporre alcuna cosa, ce ne adviserai, perchè sopra ad ogni altra cosa desideriamo che cotesti nostri stieno uniti et in pace. Quanto ad Andrea del Bororo preso per condannagione dal podestà del Monte, scriviamo al podestà che lo rilaxi, perchè presupponiamo che tu dica el vero, che fussi condannato avanti che tu li dessi l'armi. Et però farai fede per via di testimoni a decto podestà, del dì che tu li desti le armi, et guarderai di dire la verità, acciò che non potessi accusarti di fraude, perchè l'ordine nostro lo fa securo delle condannagioni che li haveva dal dì che prese le armi indreto. Et quanto ad quello che tu desideri d'intendere come ti habbi ad governare, ti significhiamo che gli scripti non hanno altro privilegio, se non che sono securi dalle condannagioni vechie, et possono portare l'armi. In tucte l'altre cose eglino ànno ad essere tractati da' rectori et da ogni altro magistrato come se non fussino scripti.

Dispiaceci che sieno adoperati da' rectori ad fare le executioni; et però quanto adpartiene ad te, lo prohibirai loro per parte nostra, et noi anche ne advertireno e rectori.

3

A Giovencho de' Medici, potestà di Prato.

3 novembre 1507.

Havendoci facto constare et bene certificato Antonio di Zanobi del Papa, trombetto che fu di don Michele, havere impegnato una sua trombetta per dua ducati d'oro per li sua servitii, et parendoci ragionevole che si vaglia sopra la roba di decto don Michele, voliamo che del cavallo morello che è di don Michele, el quale detto trombetto ti ha facto staggire in mano, tu facci una delle dua cose, o che tu lo consegui a decto trombetto per stima, faccendoti pagare indreto quello più fussi stimato da due ducati in su, o veramente tu lo facci vendere allo incanto. Et del retracto ne darai dua ducati d'oro ad decto Antonio trombetto, et el restante serberai appresso di te per satisfare ad delli altri creditori di don Michele: et ad noi darai ad adviso di quello harai facto. Vale.

DOCUMENTO III.

(Pag. 53)

Lettera dei Dieci a Giovanbattista Bartolini.

27 novembre 1506.

Havendo noi inteso hieri per la tua de' 24 et per una del commissario di Libbrafacta in conformità della tua, come el Volterrano fu taglato ad pezi in casa quelli della Chiostra, poi che fu condocto prigione in Pisa; ci dette assai dispiacere tale caso, sì perchè noi amavamo el Volterrano, sì perchè e' ci dispiacque el modo della morte sua, parendoci apto crudele et non conforme a' buoni tractamenti facti da noi alli prigioni che de' Pisani habbiàno et habbiamo hauto sempre in mano. Et perchè ogni huomo conosca che, come noi non siamo per incrudelire qua a' nostri nemici, così non siamo per lasciare impunite le crudeltà loro, facemo questa mattina impiccare alle finestre del palazzo del Capitano nostro Giovanni Orlandi et Miniato del Seppia. Diamoti questo adviso ad ciò lo pubblichi, et che s'intenda in Pisa come e' loro cittadini non sono stati morti da noi, ma da la crudeltà che è stata usata contro a' nostri; et che l'intendino, poichè li usono male la nostra humanità, che e' si diventerà della natura loro. Bene vale.

DOCUMENTO IV.

(Pag. 62)

Lettera di Niccolò degli Alberti,

Capitano e Commissario ai Signori. - Arezzo, 16 luglio 1507.

Magnifici et excelsi domini, domini mei singularissimi, etc. Per cavallaro a posta di V. Excelse Signorie, cor una de' xiiij del presente, ho ricevuto fiorini cinquanta larghi d'oro in grossoni, a lire 6, soldi 18 per fiorino; et tanti questa mattina si sono pagati a don Michele Coreglia vinitiano, con promissione di partire lui di qui et trasferirsi a Firenzuola, come per le lettere di V. Excelse S. conmecte. Et da lui si è ricevuto la quetanza di detti fiorini 50 larghi d'oro in oro, rogata per mano del mio canceliere in valida forma.

Fece decto don Michele qualche resistentia nello acceptare detti denari, allegando non li essere abastanza per pagare e' debiti sua già facti qui et altrove. Tandem, presentatoli la lettera di V. Excelse S. et le persuasioni che ci occorse mostratoli (sic), disse esser contento ubbidire alle prefate V. Excelse S. Alle quali e lui e me del continuo si rachomandano: que bene valeant.

Ex civitate Arezii, die xvi iulii mdvii.

Nicolaus de Albertis,

Capitaneus et Commissarius.

Magnificis et excelsis dominis domis Prioribus libertatis et Vexillifero iustitie perpetuo Populi Florentini dominis meis singularissimis.

DOCUMENTO V.

(Pag. 62)

1

Lettera di don Michele Coreglia al Machiavelli.

Firenzuola, 15 settembre 1508.

Magnifico messere Nicholò mio. Ho riceputo una lectera facta a' 10 di setenbre: del che sto el più spantato homo del mondo, a dirmi che si dice che io sia diventato partigiano. È ben verro che io so' partigiano di quelli che serveno la excelsa Signoria vostra, et che sonno obidienti.

A la parte che V. S. mi scrive che vole intendere che io volevo pigliare uno di que' del Bello, che haverà caro sapere la cosa come passò; la cagione si hè questa che, asentato al palazo de la porta del capitano di Castrocara, viene a me una povera donna, dicemi: Signore, vi vorìa dire dieci parolle per l'amor di Dio. Di che io m'apartai con epsa da uno canto per intenderla. Come fu' apartato con epso lei, s'inginochiò et cominciò a piagnere cridando: - Misericordia, iustitia, iustitia. - Dimandai: - Che cossa ài bona donna? levati su, leva su. - Disce: - Signore, c'è uno magniano forestiere, che m'à tolto una mia figliola per forsa, vergine, et à facto quel ch'à voluto con lei: et mo' ricerca di portarmene una altra. - Io li dissi: - Bona donna, hè costui in la terra - ? - Disce: - Signiore sì; datemi due o tre fanti, che io insegnerò chi hè. - Allorra ci donai tre fanti, e epsa donna mandò uno suo parente con quelli fanti a insegnarcelo. Li dui fanti piglioro per una strada che furro bene informati, che veste portava costui, e l'altro andò con el garzon per una altra strada. Quello c'andò con el garzon si scontrò con questo magniano, et haveva commessione da me di pigliarlo et menarlo al palazo, dinanzi al capitano et a me, che l'aspetavamo al palazo.

In questo darli di picca per menarlo, che epso comincia a fare resistentia, per modo che stando apresso a una cassa di uno di questi del Bello, o di Pier Francesco, che io ho poca pratica in quelle casse, entrò dentro, et el fante dirieto, cridando l'uno et l'altro. Sentendo il romore, mi levai da sedere et corsi là. Entrai dentro la cassa, trovai lì Achille del Bello con uno mezo lancione in mano, adosso a quello fante mio, discendo che non lo meneria; che s'andase con Dio, si non, che faria e diria. Io in questo stante, dissemi el fante: - Signore, in questa canbera sta el magniano. - Allorra dissi: - Achille, damolo, sì non, ch'i' farò qualche patìa ogi. - Et mi disse che potía fare, che non era per darmello, et non volìa che si cavasse di là. Io allor li comandai, per quanto haveva car la gratia de' nostri excelsi Signori, c'andasse in palazo. Lui mi disse, che non ci voleva andare. Allor lo pressi per el pecto per menarlo via. In questo giunse el fratello et più di quaranta homini di Achugiano armati. Io allor vedendo questo, andai di fora, et pressi una rotella, et fei armare la compagnia, et ritornai a entrare dentro, deliberando o di haver costui intro le mani o morir, per modo che el capitano medesimo di Castricara venne allì; et per tanta la furia che c'era, io non lo vidi mai et tornosene a iscire. Di poi tornò per me, et loro m'inpromisseno di menare quello magniano in palazo, et venire lorro ancorra. Et cossì m'iscii de la cassa, et andamene in palazo insieme con el capitano; et di poi a uno pocho menarro el malfactore, et loro ancora s'apresentorro dinanzi a la signoria del capitano et a me.

Quando furro allì, io dissi al capitano: - Ecco qua el malfactore - ; et a costorro: - adesso che so' dinanzi a la signoria vostra, io non me ne voglio più inpaciare. Basta che io ho facto quello che ogni bon servitore della excelsa Signoria deve farre. - El capitano et uno ser Bacio et uno ser Giovani che mi sonno amici, et lorro ancora mi sonno amici, ma in quello stante mi tochava più la camiscia che il giubone, mi pregarro che fascesemo pace insieme, et che io non scrivessi di questa cossa a Fiorenza nè farne iscrivere; et così l'inpromissi di fare; et che io non erro costumato di scrivere nè fare iscrivere di queste frascarìe. Et così una matina c'invitorno a desinare a la signoria del capitano et a me, et desinamo tutti insieme.

Si ve par che io in questa parte habi pecato di Spirito Santo, prego la Signoria vostra che dicha a questi tali che v'aàno contato questo casso, che insieme con la Signoria vostra mi dièno quella penitentia che pare a lor Signorie; si li par che io habi peccato di Spirito Santo, como ho dicto di sopra: chè io doveva fare altra cossa che io non fei, che tutti son grandissimi servitor di Marzocho di parolle, et gra' merzè al capèllo, di Castricar et di Modigliana et Maradi; chè vedreben la fedelità dove sta. Un dì serò con la Signoria vostra, et vi conterrò cosse e faròvi tocar con mano che vi farò spantare, che non le uso iscrivere; chè io ho servito in questo mondo qualche re et dui pontifici, come la Signoria vostra sa, et non li scripsi mai, che non si degniassen di farmi far la risposta, et maxime in cosse che fusse in servitio de lor Santitate et di lor Signorie. Et di quante volte ho scripto a la exelsa Signoria et al Confalonieri mai ho hauto risposta, di uno ano et mezo che io sto con lor Signorie. Ma credo che sia l'usanza del paese cossì; perciò non mi maraviglio. Io havevo promisso di non scriver di questa cossa, ma m'è stato forza di darne ragione a la Signoria vostra, che so mi ama et volmi bene. Non n'averia scripto per cossa nissuna a persona del mondo. El capitan di Castricarra passato è meglio informato che non so' io, et epso potrà dire el tutto a la Signoria vostra. Et credo che lorro non habino scripto di questa cossa a Fiorenze, perchè io apria el sacheto poi quando credessi avessino scripto niente.

A la parte che dite che io so' diventato parzial de l'arciprete, non voglio altro testimon si non el capitan di Castricara, che per infin al primo giorno li dissi, che serìa el meglio che si levassi e l'arciprete et alcuno altro di Romagnia; de li quali ne mandai la lista per ser Apardo mio cancilier a la exelsa Signoria; et tutti li Retori si acardara con me, che 'l si levaseno di Romagnia per alcuno anno; et uno ce ne costà che non bisognia mandarlo, el quale hè l'arciprete. Guardate si io l'erro parziale, che dite che io vo con li suoi seguaci. Chi l'à dicto a la Signoria vostra, ne mente falsamente per la gola, che io non praticavo con altri si non con uno vechio che si domanda Giorgio de la Golfaia, che pageria la metà de la roba sua et stare in pace. Et esso mi prestò uno lecto in che io dormissi.

A la parte di Macteo Facenda, fo intendere a la Signoria vostra, che v'à dicto la magior falsità del mondo; che da poi so' stato in Castricara, non è mai stato in su el tenitorio de' Fiorentini. Et ci àno rotto la testa al capitan di Castricarra et a me, che lo volessemo fidare per venire a parlare con epso noi a dire la ragion soia. Noi non l'aviem mai volsuto fare nè sentito mentovare: et trovavassi allora a Vagnio a cavallo. Et di questo ne serà bon testimonio el capitan di Castricara. Et perchè cogniosciate voi le tristitie di quelli che vogliono macular l'onore d'uno gentilomo, per ben che di queste cosse non me ne curro niente, ne starò al paragon dinanzi a Dio, non tanto a li homini del mondo: chè dice il proverbio: Piscia chiaro et incacane el medico. Chè ho ancora le strutione che V. S. mi dè già uno ano et mezo fa, et olle in el core et entro la testa: cioè, che mi disse che io non volessi mangiare mai in cassa di capo di parte, et che non volessi pigliare amicitia con esbanditi che haveseno bando del capo, et ribelli della Signoria. È ben verro che in questo tempo ne ho parlato a dui o a tre, che l'ò fidati, solamente che mi veniseno a parlare, perchè m'avevano promisso di farmi havere de li altri inele mane. De li tre me n'è riuscito uno bene.

Preterea. la nocte che arivai a la rocha che veni di Fiorenzola, subito el sepeno a Castricarro; donde c'andò questo Francisco del Bello, et havisò o fe' avisare a Macteo Facenda, che stava in la pieve de l'Arciprete, come io erra in paesse, che s'andassi con Dio. Donde colui subito cavalcò et misesi in via. Donde che 'l diavolo l'aitò, che in questo tenpo lui si scontrò con parechi cavalli di Bartolomeo Moratini inimico suo che sta in Forlì; de che li deno la cacia per infin a Bagnio a Cavallo; et scapò per ugnia di cavallo. De che non caveria del capo a Mateo Facenda che costui non l'avesse facto a posta: de che recercha el dicto Mateo Facenda de far dispiacere a Francesco del Bello, credendo habi facto ispia a Bartolomeo Moratini. Come hai saputo tute queste cosse, don Michele? Io vi dirò: Uno povero homo, parente di Mateo Facenda, parlando con epso meco, me dise questa cossa, come Mateo Facenda haveva questo malo animo verso di costui. Di che me n'andai al Capitano di Castricara, et conta'li questa cossa. Di che mi contò punto per punto come erra verro, che l'aveva saputo ancorra lui; et così avisàno che si guardassi el dicto Francesco Del Bello. Queste sono le parte che tengo io: si vi pare che sieno parte, giudichelo V. S.

A la parte che V. S. me avisa d'una vignia ch'è d'Anton Corsini, vi rispondo, che è ben vero che Feragan di Castricare viene uno balestier de li mei, solo lui et el figliolo, et pregollo che volesse venire con lui a vendemiar una vignia, la qual vignia erra d'Anton Iacomini; et che certi sbanditi non ce la lasavan vendemiar. De che questo balestier, esendo stato servitore d'Anton Iacomini, andò con el decto figliol de Feragano (Como sai tu questo don Michele?). Costor si partiro al serar de le porte, et la matina, come viene el giorno, viene uno compagnio del dicto balestrieri, et dicemi: - El tal se n'è fugito, che se n'andò iersera, et non hè più tornato qua. - Di che io mi levai con furia de lecto, venendo con meco molta gente; et così scontrai Feragan. Disemi: - Come andate così, Signore, infuriato? - Dico: - Ogni dì mi fa un tristo una burla. Me n'è fugito uno balestrieri de li mei. Giuradìo, si qualcun me ne capita per le mani, le mecterò questa spada a mezo del core, a ciò che sia sperientia a li altri. - Disemi Feragan: - Non aviate malinconia, ch'è ito a vendemiar una vignia d'Anton Iacomini con el mio figliolo, che certi sbanditi non la volevan che la vendemiasse. - Dissi allora io: - Come andare di nocte di fora de la terra, senza licentia mia? Al nome di Dio sia. - Como tornò, ogni omo sa la penitentia ch'ebe di questo et de l'altre cose triste che lui à facto. Come dite che io cerchi di sadisfar questa cossa? Io ne so' inocente. Feragan viene ogni giorno in Fiorenze, fatelo pigliare et sadisfar a messer Anton Corsini; o vengami una lectera da li Signori Octo, et vederà se io li farò pagare più che non ha pigliato el vino due volte: chè di questa cossa io ne so' inocente, che non credo che habi condutiero la excelsa Signorìa, che li vogli meglio che io a messer Anton Corsini. Che si io l'avessi saputo allorra, ce l'averei caciato de li ochi: ma Feragan mi disse che era d'Anton Iacomini. Fatemi venire uno minimo cenno de li Signori Octo, et vederete si lo farò sadisfare. Io non voglio mandare la lectera a homo del mondo, si non quando sarò a Castricara, che ci serò presto. Manderò per don Nichola, et serà con epso meco; et io serò con el capitano di Castricara; et vederemo achetar questa cossa per modo ch'abi bon fine. Ma si doveria, quando Feragan viene in Fiorenze, che ci viene spesso, farlo pigliare et punirlo molto bene, a ciò che fusse exemplo a li altri, che non andasseno asasinare a questo modo. Et di quanto scrivo a la Signorìa vostra ne voglio esse' al paragon di Dio et delli homini del mondo, che io so' gentilomo et naqui gentilomo, che non fo cossa che non sia ben facta et chiarra. Et quando V. S. sa niente di queste cosse, prego a V. S. si degni iscrivermi et rispondermi a le lectere che io mando a V. S., che io li scriverìa d'ogni cossa quando credessi che la Signorìa vostra mi rispondessi.

Data in Fiorenzola à di 15 di setembre.

Di V. S. più che servo

don Michel de Orella

man propia.

Non altro si no che Cristo conservia V. S. in quello stato

che epsa medesima vole et che voria per la mia vita propio.

Al Magnifico messer Nicholò Machiavelli secretario de li Magnifici Signori Novi.... io honorando in Fiorenze.

2

Lettera di Pietro Corella al Machiavelli. - Pisa.

Yhs.

Mangificho singior mio. Già ripieno di molte et molte cose, et pure stavo a vedere altri avese a dirne et anche operarne, sequndo la ragione voleva, per esere io persona pocha disiderosa del malle di nissuno. Ora, forzato ad non potere più soportare, fastidioso di abundanzia d'ochasione, m'è parso scriverne alla Signoria vostra la vita del mio capitano di bandiera, et quello ultimamente à fato qui, sollo perlla frega et ribalderia di venirsene a chasa, ma al pigliare danari prontisimo per fare le sue vetine, o volete orcie et enbrici, et non farsi un paio di calze per suo logoro. Et benchè di tuto saria fastidioso darvi ragualgio, non mi distenderò tropo oltre, se non in qualche coseta, et del tuto dal mio cancieliere sarete più a pieno informato.

La Signoria vostra sa che io veni a Firenze, et non fui partito di qui di dua dì, lasandolli charicho della compangia, che lui andò da' comesari et domandolli licienzia per venirsene a chasa a vedere l'amorosa, sanza considerazione della mia partita o di nulla, come un bue sciagurato che lui è. Dove e' mia comesari li diseno tanta vilania che non si direbe a un asino, et chaciònnollo via; trovando squsa aveva un angio, che, quando fuse stato con la candella alla bocha, doveva aspetare a me. Et stetesi qui sbrachato, come credo vedrete che così va sempre, et scalzo come un proprio orciaio. Io gunsi qui da Firenze; subito giunto mi domandò licenzia che voleva venirsene a chasa. Io sì lli risposi, che servisi et poi se ne venise. Lui sì mi dise, che non lo farebe Dio, che lui non venise a chasa. Io sì mi isteti ceto. Et sanza dirmi altro si partì, et andosene 'Anziano a una fornacie del fratello, et lì se stete tre dì, et tornosene ridendo. Quando io lo vidi, lo riprisi, et lui trovò la squsa del da pocho, et io me ne pasai di legiere. Ora, ogi che n'abiamo sedici del presente mese di lulgio, esendo io in casa, costui con uno altro da Santa Maria Inpruneta, se ne venne da me furioso, e contòmi aveva roto il viso et la testa a uno Pistolese sopra cierta merchatantia d'enbrici et d'orcie: che se mi desiderate fare grazia, fatevi contare la mocichoneria sua, et la poltroneria che usò et superchieria, che lui medesimo se ne aqusa come da pocho, contandollo. Et vene da me, et bravava che aveva fato arotare lo spiede per far malle, et che era usato stare sempre in costione et in guerra, et che poi che ebe la bandiera era divenuto frate. Et domandomi consilgio della ribalderia aveva fata; di modo li disi si ritraese et lasasi fare a me. Et subito e' comesari mandonno per me; et io con quelle parolle si convenivano risposi a loro Singiorie; et che loro Singiorie intendesino l'una parte et l'altra, che io non vole o se non quello era ragione; et che chi erava fusi punito. El pover omo con lla testa rota et col viso enfiato, et è una persona da bene. Così mi parti' da comisari, et quasi mezo li plachai, aspetando riducere ongi cosa a buono fine.

El mio buono capitano di bandiera, senza dirmi altra cosa alcuna, la sera se n'era ito et aveva preso la bandiera, et aveva ordine, la matina, venirsene con Dio, con esa, et lasarmi come una bestia. Et davami a intendere starsi in casa el singiore Bandino, tanto la cosa si pasasi. Ora, come la Singioria vostra sa, ci è chi acusa tuta via le cose. Io fui informato di tuto; et subito rinveni la bandiera et portamella a chasa, come quello che l'ò a tenere apreso di me, et che n'ò avere qustodia, et riputarmi onore et disonore a me più che a nisuno altro. El buon omo intendendo quisto, ebe a dire che io avevo saputo più che lui: et che volse fare la cosa el dì, et non aspetare la sera: et che el diavollo l'aveva inganato; et che la bandiera era sua, et che la bandiera era sua, et che la voleva portare dove li pareva sanza licenzia di Cristo et d'omo del mondo; et io ci ero per una bestia.

Insoma la sequente matina l'amico Calcangio, sanza altra licenzia o altro, et così el suo compangio et e' se n'è venuto costi. M'è parso darvene aviso, a ciò che, se costi verà, la Singioria vostra di tuto sia informata. Et se ragualgio più a minuto volesi dare a quella, come bisongiando darò a lui sciagurato, et dinanzi a' mia Singiori et di chi bisongierà, come sanza màqulla nisuna di malivolenza che con lui abia, ma per la verità, come in me sempre troverete et non altrimenti, come publicho sa tuta la conpangia: chè non è omo che non l'abia più in odio che el malle del capo, et che non li volgia malle di morte. Misero come un pidochio, che avendo a entrare in Pisa, entrò con uno paro di calze rote fracide; che più di venti ributi li feci di dete calze, ma lui la vinse che entrò con ese. Et parlate con eso lui, none stima Cristo; et che non laserebbe di dare et di fare. Per e' mia Singiori non è nè per Cristo. Publicho trenta volte l'à dito qui et in champo.

Sa bene lui, el ribaldo, che inanzi pigliasi danari, li disi a lui et a tuti, che chi non facieva pensiero di stare qui, non tochase danari. Ma lui, per lla codigia ribalda di quelli denari della paga intera che l'ebe, li parevano asai, la pigliò, la qualle non facendongiene ristituire, si farà gran malle, benchè quelle sono padroni. Et perchè quella a pieno sapia l'animo mio, arò caro, e' mia Singiori, parendo a quella, sentino la presente letera et siano informati di quello io scrivo: et fóne una a loro Singiorie, che, capitando costì el mio capitano di bandiera, loro intenderanno dalla Singioria vostra el tuto, none scrivendo a loro Singiorie tanto lungo, per non esere proliscio. Sì che, bisongiando o parendo a quella di darla a loro Singiorie, quella per mio amore lo farà.

Pregando la Singioria vostra si richordi di me, et quanto più bene mi farà, serà a uno suo bono servitore; et che di continovo farò pregare Idio per quella, alla mia brigata sopra tute l'altre. Dicendovi che molto milgiore omo et più da bene istante ci è, che potrà portare questa bandiera, quando quelli voranno. Et se a me non si darà fede, troverete et tocherete con mano che ciò che io dicho sarà l'Evangiellio; et al tempo lo vedrete et sarete informato quando a questo s'abia a venire. Et non per nimicizia ma per verità ciò che io parllo: se non Dio non mi aiuti a me. Altro non achade. Son sempre parato a ubidire quella come buono servitore, pregando Idio vi conservi in sanità.

In Pisa, die diciasete di lulgio. M. P.

Della S. ia vostra ubidiente

Servo Pietro Liberio Corella

conestavolle.

Se m'avesi ciesto licienzia lo lasavo venire, et con la bandiera et con ciò che voleva. Sapia quella, che de' compangi n'ò più che io non volgio; et ònne qui dieci de l'Ordinanza che aspetano d'avere lugo, et sonsi molto ben vestiti.

Spectabilis (sic) viro Nicolò Machiavelli patrone mio onorando, in Fiorenza.

DOCUMENTO VI.

(Pag. 106)

1

Lettera del Commissario Filippo Casavecchia al Machiavelli.

Barga, 17 giugno 1509.

Magnifice vir et maior frater honorande, salute, etc. - Io credo, carissimo mio, che adpresso di voi abbi adquistato nome di negrigente hovero stracurato ho di qualche altra cattiva cosaccia, respecto ad lo avermi voi scriptto più giorni sono quando le cose erono dubie, che in verità ne ebbi grandissimo piaciere. Et per due vi feci risposta: l'uno non vi trovò mai, l'altro dicie che vi vide al Ponte ad Era con Alamanno et con li imbasciadori pisani, et non li bastò l'animo di apresantarvi la mia. Pertanto mi rendo cierto, queste iustificationi doveranno esere ad bastanza nel cospecto vostro; et basti.

Mille buon pro vi faccia del grandissimo adquisto di cotesta nobile città, che veramente si può dire ne sia suto cagione la persona vostra in grandissima parte: non però per questo biasimando nessuno di cotesti nobilissimi comissari, nè di prudentia nè etiam di solecitudine. Et benchè io ne abia preso un conforto mirabile, et pianto et stramazato et factte tutte quelle cose che fanno li uomini composti et rifatti di pecore vechie, tamen, avendo dipoi ripreso vigore la ragione, ne sto con grandissima gelosia, et non posso per nesun modo pensare nè esermi capace che le cose gravi non corrino al centro, et le cose subtili ad la superficie.

Nicolò, questo è un tempo che, se mai si fu savio, bisongnia eser ora. La vostra filosofia non credo che abbi a eser mai capacie a' pazzi; e' savi non son tanti che bastino. Voi m'intendete, benchè non abbi sì bello porgere. Ongni indì vi scopro el maggiore profeta che avessino mai li Ebrei o altra generatione. Nicolò, Nicolò, in verità vi dico che io non posso dire quello vorrei. Però siate contento, per quella buona amicitia auta insieme, non vi paia fatica per giorni quatro venirvi ad stare con esso meco. Oltre al ragionamento nostro, vi serbo un fossato pieno di trote et un vino no mai più beuto. Questo mi sarà un piaciere che mi farà dimenticare tutti li altri. De! Nicolò mio, compiacietemi in questo utimo solamente per dì 4; significandovi che non venendo sarete cagione che viverò malcontento. Questa non è però sì gran cosa che io non meriti el non eser compiaciuto. O meriti honnò, io vi pongo questa talglia. E verete in un giorno, perchè non ci è se non 26 milglia piana. Et avisatemi del quando, et disponetevi di consolarmi, perchè non venendo, mi metterei ad venire ad trovar voi; et sarebbe la ruina mia, perchè le leggie non mi promettono di potermi partire della provincia, sotto la pena di fiorini 500, et basti. Non vi dirò altro. Ricomandatemi a l'angelico comessario Nicolò Capponi; et diteli che non à facto quello li scripsi, ma che lui sarà el primo ad pentersene, e basti. Bene valete.

Ex Barga. die xvii iunii mdviiij.

Philippus de Casavet.

Comissarius.

Spectabili viro domino Nicolò Machiavelli dignissimo Comessario in Pisa honorando. In Pisa o in Firenze.

2

Lettera di A. Salviati al Machiavelli. - Pisa, 4 ottobre 1509.

Yhs.

Carissimo Nicolò. Io ho la tua sutami carissima, maxime che vegho ti sono nel cuore, perchè spesso ti ricordi di me: di che ti resto obligatissimo. E per essa ho visto in che ordine si truova Padova e di dentro e di fuori, che assai m'è piaciuto. Il discorso tuo è bellissimo; quale io ho mostro a questi signori condottieri e signori Consoli, quia omnes homines scire desiderant; e da tutti è stato assai conmendato. Io non lo posso nè aprobare nè riprobare, perchè qui siamo suti abandonati dal padre e dalla madre e da tutti e' parenti et amici: perchè non intendiamo cosa alcuna, salvo da qualche smarrito che vengha al campo di 15 giorni o uno mese: e però male ne possiamo fare qui iuditio, non intendendo qualche particulare come voi costì qualche volta intendete. Io ho bene qualche volta domandato questi signori condottieri che iudicio faccino della expugniatione de Padova; quali unitamente s'achordono, che per forza Padova non si possa perdere, assegnandone buone ragioni. In modo che, prestando loro fede, io inclinerei a quella oppinione volentieri. Ma me ne ritrae alquanto lo essere fratescho, che volentieri mi haderischo a tale oppinione, maxime vedendone e' subcessi im buona parte. E ci s'arogie il vedere e' tempi disposti totalmente contro ad essi Venetiani, adeo che credo sia cosa miracolosa più presto che naturale. Quomodocunque sit, credo che l'officio nostro sia più presto ricorrere a Idio, e pregharlo che lasci seguire il meglio, che poterne fare altro iuditio; anchora che io non sappia come questa conclusione t'abbia molto a satisfare, non perchè io creda che tu manchi di fede, ma sono certo non te n'avanza molta. Ricordovi bene, fate ogni diligentia di mantenere insieme il Cristianissimo, la Santità di Nostro Signore e il Cattolico; et advertite che una desperatione non facessi fare di quelle cose a qualcuno, di che nascessi la totale rovina di Italia; che quello exercito franzese non resti totalmente a discretione d'altri, che importerebbe troppo. Io harò caro haverti satisfatto, e in quello che io manchassi lascerò suplire al mio dottore. Ricordati sono tuo et a te mi rachomando. Idio ti guardi.

In Pisa a' dì iiij° d'ottobre 1509.

tuo Alamanno Salviati Capitano.

Al mio caro Nicolò Machiavelli in Firenze.

DOCUMENTO VII.

(Pag. 120)

LETTERE DI AMICI AL MACHIAVELLI,

SCRITTE NEGLI ANNI 1509-1510.

1

Lettera di B. Buonaccorsi al Machiavelli.

Firenze, 20 novembre 1509.

Niccolò honorando. - Io riceve' la vostra de' 18 da Mantova, et intendo la suspensione dello animo vostro, etc.: di che mi maraviglio, havendo havuto alle mani altre cure di molto maggiore importantia, et ad pigliare partiti più periculosi che andare fino ad Verona. Bisogna, se mai usasti diligentia in advisare, lo facciate hora ad volere «turare la bocca a le pancaccie. Feci la anbasciata al Gonfaloniere: respose atendessi ad scrivere solecitamente.» Hoggi andrò ad trovare l'amico che ha mandato per me, et farò el bisogno. Nuove non ci sono, che tutte dependono di costà. Fecionsi tutti e' Nove, così quelli cinque che mancavono come li altri 4 che hanno ad intrare ad gennaio. Hanno di già casso Francesco da Cortona, che è stato buona spesa. Non altro.

Florentiae, die xx novembris 1509.

Quem nosti.

Nicolao Maclavello secretario florentino, in Verona o dove sia.

2

Lettera di B. Buonaccorsi al Machiavelli.

Firenze, 30 novembre 1509.

Niccolò honorando. Io vi scripsi pochi dì sono brevemente, perchè non ci era cosa alcuna di nuovo da darvene adviso, et manco ci è di presente. Sì che, in questo caso, se alhora fu' breve, hora sarò brevissimo ec..... Et benchè molti chiachieroni cavassino fuora che fusti stato..., non è vero nulla.... Dio voglia.... Dixivi anchora come havevo visitato l'amico et datoli uno ducato, el quale mi ha renduto Francesco del Nero, perchè ne havevo necessità. Et li dixi havervi mandato certe zachere mi havevi chiesto. Sonvi ritornato dipoi. Hollo trovato che il male di che dubitava era chiaro, et voleva ire ad Prato in casa lo amico. Havevasi tagliato e capelli. Non so come si farà che bisogna patientia, et qui non è punto: et chi ne vuol guarire presto ne guarisce più tardi. Èlli advenuto quello mi ho sempre pensato. Attendete ad scrivere nuove assai, et fareteci piacere. Non attro. A voi mi raccomando.

Florentiae, die 30 novembris 1509.

Quem nosti.

El libro riharò hoggi et renderollo ec.

Nicolao Maclavello secretario florentino tanquam fratri honorando, in Verona.

3

Lettera di Francesco del Nero al Machiavelli.

Firenze, 22 novembre 1509.

Al nome di Dio, addì xxii di novembre 1509.

Nicolò carissimo. Io ò la vostra de' dì xviij, et per quella intendo quanto dite che tutto si farà nel modo scrivete. A Totto Machiavelli scrissi apunto nel modo avixate. Messer Giovanvettorio non si risolveva, però ò fatto scrivere a messer Antonio circha alla causa principale; et in la incompetentia scrisse anchora messer Antonio, et messer Giovanvettorio m'à promisso di soscrivere. Oggi ò avere da messer Giovanvettorio soscritta la incompetenzia, et da messer Antonio la cauxa principale; et subito la farò soscrivere a li altri advocati vostri, et manderolle a posta a messer Antonio, chome ne ordinasti. Da me non si mancha di sollecitarla, di modo sono più ripreso d'importunità che di negligentia; che ogni dì sono quatro volte almancho al palagio del potestà. Achordo non ci spero alchuno, perchè non ò mai intexo cosa alchuna. Andai al magnifico Gonfaloniere, richordandogli la causa vostra, et chome io era procuratore a potere obligarvi: quando gl'intendessi cosa alchuna, sua Magnificentia si degnassi farmelo intendere. Dissemi che Francesco del Pugliese gli aveva a rispondere; et che manderebbe per me quando avessi nulla. Io, chome v'ò detto, con ogni favore, diligentia et sollecitudine attendo a questa vostra causa; et oggi mando al giudice messer Francesco Nelli et Piero; et quando il giudice arà la causa principale, vi manderò e' parenti et amici vostri et ser Giuliano. Io scrissi in vostro nome et feci scrivere da Giovanbatista Soderini a Monsignore Reverendissimo; et detti a ser Filippo del Morello ducato uno, et di mano in mano lo terrò contento. Giovanni Ughuccioni mi disse, il conto nostro esser del pari et che non aveva denari: però mi sono fatto servire de' denari ò auti di bixogno da L.° Machiavelli. À mostrato di farlo volentieri. Non giudicherei fussi fuori di proposito voi gli scrivessi un verso, ringratiandolo; et inoltre, perchè io non so chome mi bixognerà spendere, dirgli che quello m'achade me ne serva; lui ne à posto debitore voi. Se io potrò avere quelli da Giovanni Ughuccioni, non bixognerà gli dia noia. Col priore si farà quanto scrivete; et quanto io abbia da dirvi circha al piato, lo farò sempre. Sono a' chomandi vostri.

Franc.° del N.° in Firenze.

Egregio viro Nicolao Maclavello Segretario dignissimo apud Maximianum.

DOCUMENTO VIII.

(Pag. 125)

1

Lettera del Gonfaloniere Pietro Soderini al Machiavelli.

Firenze, 27 giugno 1510.

Niccolò carissimo, etc. Ci è parso farvi questi versi, per allargare più il [tem]po del signor Mar. Antonio, il quale, come sapete, finì la condocta sua a dì xv di maggio; et essendo stato raffermo, non ha voluto acceptare, ma voleva crescere in condocta o in titolo; il che non è stato consentito, per non parere tempo adesso nè a l'una nè a l'altra cosa. Onde havendo lui forse qualche practica, existimando fare meglio e' facti suoi, dixe qua a noi, essersi acconcio con il Re de' Romani, ma che haveva tempo ad ratificare tucto il mese di giugno presente: et domandò qui uno mese di tempo ad levarsi, et così li furono conceduti li alloggiamenti gratis. Doppo il quale tempo si ritirò in quello di Luccha, in sulla campagna; et pare sia stato alloggiato in uno castagneto. Hora, da due giorni in qua, si è levato voce, per lettere di Roma, lui essere acconcio colla Chiesa, «et che debbi fare cinquecento fanti, et altri cinquecento se ne truova facti a Roma, sotto due connestaboli; et si dice si coniungeranno con lui. Ove si habbi ad andare et quello si habbi ad fare non s'intende dicerto. Alcuni dicono, per la guardia di Bologna; alcuni altri per andare contro al Duca o ad Vinegia in favore de' Vinitiani. Puossi ancora dubitare che queste cose non si faccino per li affari di Genova; perchè si dice quella terra essere molto sospesa et sublevata, dopo la morte di messer Gian Luigi.» Anchora è da considerare che «a Serazana si sono murati intorno a' fossi: dove si crede si sieno spesi quindici o 20 mila ducati; et vi è una forteza inexpugnabile. Et se detti fossi et fortificatione è fatta per ordine de Re, è da dubitare manco; ma se fussi facto per ordine de' Genovesi, è d'averne gran suspitione; perchè quello è uno ricetto inexpugnabile, et una porta da tenere il passo della Lombardia ad la Toscana, et havendo ad le spalle quali si vede che favoriscono tucte queste actioni et moti.»

Ci è parso significarvelo, «perchè ne advertiate Monsignore Aubertet, al quale di queste cose di Serezana facemo parlare più mesi sono d'Alexandro. Et ci pare questa cosa sia stata neglecta et straccurata. Recordateglielo per parte nostra et come cosa importantissima: che se v'entrassi messer Ottaviano Fregoso, non ne lo caverebbono per frecta.» Et vedete di porgere queste cose in maniera «che noi non ne riportiamo carico con altri,» come spesso suole intervenire. Et quando «conoscessi che fussi per resultarne carico d'altri, o le tacete o le fate intendere come da voi. Non mancate di ricordarli che tenghino bene le mani in capo a' Svizeri, et che intractenghino lo 'mperadore.» Circa alle altre parte harete lettere dal publico; et a noi non occorre dire altro. Bene valete.

Ex Palatio Florentino, die xxx iunii 1510, raptim.

Petrus de Soderinis

Vexillifer iustitiae perpetuus Populi Florentini.

Amico nostro carissimo [Nicolao] Machiavello man[datario] Florentino apud Christianissimam [Maiesta]tem etc. [Incort]e del Re Christianissimo.

2

Lettera di Francesco Vettori al Machiavelli.

Firenze, 3 agosto 1510.

Compare mio charo. Io ho pregato Ruberto che vi rimandi presto, perchè almeno, perdendo lui, rihabbia voi. E per questo siate chontento, poi che lui è giunto, tornarvene presto, che Filippo e io vi chiamiamo tutto dì, poi che vi partisti, chè fu il dì di San Giovanni, se bene ho inteso, che non c'ero. Sono stato del continuo malato, e ho creduto a ogni modo passare nell'altro mondo: pure, da 15 dì in quà, mi sono rihavuto in modo che hora sto bene. Ma intendo tante chose a un tratto, che m'agirano il cervello, perchè, havendo havuto male, non l'ho potute intendere dì per dì, chome hanno facto gl'altri. E prima, Marchantonio Colonna, chon 150 chavalli e 500 fanti, esser ito, per ordine del Pontefice, a rivoltare Genova, et essersi chondocto là presso; et manchando di speranza, esser stato forzato a montare in su l'armata de' Venitiani, che girava là intorno, per questo medesimo effecto; havervi messo su qualche chavallo e parte della chompagnia, e 'l resto havere lasciato a discrezione. Io havevo Marcantonio, per relazione di molti, per huomo di gran iudicio e buon discorso, e molto cauto nelle imprese sue; nè mi posso persuadere qual sia stata sì potente causa che l'habbi chonstrecto chon sì pocha gente a mettere in pericolo la chompagnia, l'honore suo quale stimava tanto, e anchora la vita; perchè, se veniva in mano de' Franzesi, non credo l'havessino salvato. Lascerovi un pocho pensare anchora a voi, e alla tornata vostra ne parleremo.

Ma vegnamo al Pontefice, al quale non si può dire che, poi è in quel grado, il governo suo sia stato di matto; e in quello ha havuto a fare, pare sia ito anchora assai cautamente. Nondimeno pigla una guerra chol re di Francia, nè si vede per anchora che habbi in chompagnia altri che e' Venitiani, mezzi rovinati e disperati; e chomincia in modo a offendere il Re, da non doverne seguire pace presto. Perchè prima pigla come un ladro Monsignore d'Aus, el quale el Re faceva dimostrazione stimare assai. Dipoi cercha, chon parole e chon fatti, farli ribellare Genova; e inanzi vi mandi armata o altro, publica per tutto che Genova si volterà, che non è se non dire al Re: Guardala. E poi che la prima volta non li è riuscito, dice volerla tentare la seconda. Assalta le chose del duca di Ferrara in Romagna, e per esser mal guardate, ne piglia parte. Restava la forteza di Luco che si bombardava: uscirono di Ferrara forse 605 chavalli franzesi, e al sol grido, tutte le gente del Papa si missono in fuga e lasciorono l'artiglerie; e' Franzesi ripresono tutte le terre che havevono prima tolto a Ferrara. In conclusione, io non intendo questo Papa, chome sia possibile che lui solo e' Venitiani voglin piglare la guerra contra a Francia. Dice G.i Chanacci che gli pare che 'l Papa habbi facto chome chi giuoca a fluxi o primiera, e vuole chacciare, e ha facto del resto; et che il Re sta dubbio di tenerla, dicendo fra sè: Se lui non havessi buono, e' non legherebbe sì gran posta. Ma se il Re la tiene, che si chonoscerà, chome chomincia a muovere gaglardo contro a Bologna, el Papa alhora tenterà di farne achordo. E io vi dirò il vero: vorrei che il Re pigliassi Bologna, seguissi la victoria, chacciassi il Papa di Roma, e che uscissimo di lezii, e seguitassi poi quel che volessi.

Restaci hora a vedere, se il Papa ha lo Imperadore e Spagna chon lui, chome molti giudicono. Io mi potrei ingannare, ma credo di no. Credo bene che lo Imperadore, quando havessi e' pacti che lui volessi dal Papa, si volterebbe contro al Re, perchè ha il cervello chome sapete volto a non si fermare. Ma sarebbono tali et tanti, che il Papa rimarrebbe sanza denari, e dubiterebbe di non perdere la guerra chol Re, e se la vincessi, di non havere a temere più lo Imperadore che hora non fa il Re. Hispagna, sanza lo 'mperadore, li parrebbe esser debole chon esso: dubiterebbe che se vincessi, havere a perdere non solo il Reame ma la Chastigla e l'Aragonia, per le ragioni v'à su il nipote.

Compare, io ho facto conto parlare chon voi. E delle cose drento non vo' dir niente, perchè Ruberto vi raguaglerà. L'amico è nelle mani del bechaio, chome era alla partita vostra. Nè altro. A voi mi rachomando.

In F., a dì 3 d'agosto 1510.

Franc.°

Spectabili viro Nicolao de Maclavellis Secretario florentino apud Christianissimum Regem Francie.

DOCUMENTO IX.

(Pag. 131)

Lettera di un amico a Niccolò Machiavelli.

Firenze, 29 agosto 1510.

Carissimo Nicolò. Questi di cancelleria non hanno paura d'una penna; ma l'harebbono bene d'un remo. Et se non ti hanno ragguagliato del termine in che si truovano tucte le cose tue, è stato perchè nessuno vuole fare quello che non se li apartiene. Mogliata è qui, et è viva; e' figliuoli vanno al lor piede. Della casa non si è visto il fumo, et al Pertussino sarà magra vindemia. Et questo è dove tu ti truovi. I'ò hoggi mandato duo volte per il nipote tuo. Non ci è venuto anchora: debbe forse essere fori alla villa. Domani farò di vederlo et li dirò il bisogno. La festa et questo subito spaccio ha facto che li 50 ducati non ti si sono potuti rimettere. Piglieronne il charico io. Et pensa che per la prima che si scriverrà a Lione, vi si scriverrà il bisogno. «Le tue lettere hanno facto di qua sbadigliare ogniuno, et pensa et ripensa, et poi non si fa nulla. Tu ci puoi vedere fino di costà, che si faccia et che si dica; et insomma noi siamo homini, che il caldo ci stempera et il freddo ci ranichia. Insomnia a noi ha a intervenire come a quelli di chi diceva Quintio (sic): sine gratia, sine honore, premium victoris erimus. Questa chiesta delle genti ci conduce in loco dove forse ancora non si vede. Io per me la veglio farci scala a un altro apuntamento con grande iactura nostra, perchè noi manchiamo dell'obligo, et bisognerà ratoparlo forse con più panno che non saria stato tucta la vesta. Così interviene a chi non prevede. Et sare' bene che chi fu causa della partita di Marcantonio provedessi hora a questo disordine, il quale con molti altri nasce da quella lasciata. Ma gli è un bene, o per meglio dire, manco male, che se queste cose vanno avanti, noi faremo un brodecto d'ogni cosa. Io per me credo che gli arà a omni mo' a intervenire del Papa e della Chiesa, come intervenne di Venezia, che tanto pinse che vi entrò. Io non somiti dire altro.» Bene vale.

Florentie, die 29 augusti 1510.

Compater vester.

«Non parlate con altri di questi mia ghiribizi.»

Spectabili viro Nicolò Machiavelli, ec.

DOCUMENTO X.

(Pag. 131)

1

Lettera di Antonio della Valle al Machiavelli,

Firenze, 5 agosto 1510.

Egregie vir maior honorande, etc. Hiarsera vi si scripse in frecta, et non vi si potè significare quello che per la presente vi si dirà. Per altre havete inteso che la condotta di Marcantonio finì a mezzo maggio, et volendo lui o titolo o augumento di condocta, li fu negato, et per rispecto delli altri condoctieri, et «per i pagamenti che ne corrono ogni fiera a Lione, et per conto de' due Re, et per i donativi.» Essendoli denegato lo aumento et il titolo, lui, come quello che doveva havere prima practiche colla Santità del Papa, si gittò in quello di Luccha, nè mai s'intese di chi lui fussi soldato, se non quando il Papa ne richiese del passo per a Bologna, il quale passo per a Bologna fu conceduto. Volle di poi il Papa particolarmente intendere il cammino che aveva ad fare, et li fu risposto che era per la Valdinievole, per il contado di Pistoia, et per la via della Sambuca, che riescie ad Albergha et al Saxo, in quello di Bologna. Lui finxe di volere andare a campo a Massa de' Marchesi Malespini.

Questo secreto di volere andare alla impresa di Genova a noi non fu mai noto. «Ma dubitandone, lo amico nostro vi scripse et di questo et d'altro sino a' dì ventisei di giugno. Ma Lucchesi dovevano sapernelo intero, che ci feciono, avanti la partita di Marcantonio, minacciare dal Papa delle cose di Bargha; et bisognocci provedere quello luogho in buona forma.» Il cammino suo fu per il Lucchese, per le terre del Marchese di Massa, il quale non poteva obstare, et per i terreni di Serzana: dove, passato la Magra, se ne andò alla Spetie. Dipoi stemo più giorni non potemo havere lingua con verità del progresso suo. L'armata dei Vinitiani comparì in uno tracto, nè mai se ne seppe niente, in modo che se noi non havamo provisto Livorno bene et Pisa, dove havamo messo per md delle bandiere, il forte di Pescia et Sancto Miniato, non saremo stati senza grande pericolo. «Perchè, poichè l'armata fu passata, il Papa hebbe a dire che se non voltava Genova, verrebbono a Pisa et Livorno; et questo perchè, volendo mandare nuove fanterie drieto a Marcantonio, et richiedendone del passo (perchè venendo da Roma bisognava toccassino il dominio nostro), noi glielo negamo assolutamente, rispondendogli, che se noi havamo conceduto il passo a Marcantonio per a Bologna, lo havamo facto perchè reputavamo andassi per defensione delle cose della Chiesa; ma domandandolo per andare in Genovese, che era contro alle cose del re di Francia, nè per queste nè per altre gente non pensassi che noi havessimo a dare passo per quella via: et così li togliemo la facultà di potere rinfrescare Marcantonio di gente. Il quale Marcantonio se andava diricto alle porte di Genova senza fermarsi, et che l'armata si fussi presentata a una medesima hora,» vi diciamo «con certitudine che Genova voltava. Questo habbiamo da persona prudente, amicissimo nostro, che era in sul luogho.»

Questo vi si significa non per «esaltare le cose di Marcantonio o del Papa, ma perchè voi advertiate il re di Francia et Robertet del pericolo che si è portato; acciò che si provegha per una altra volta, confortandoli ad fare quelli provedimenti» che habbino ad «tenere ferma quella terra,» che bisognano «grandi, mentre che il Papa sta in questa fantasia.» Et il più «importante provedimento che si possa fare,» come per la agiunta hiarsera vi si scripse, «è mandarvi subito uno nuovo governatore, il quale sia» buono et prudente, et sia per tenervi le fanterie che sono pagate da quella terra, «et per non fare di quelle cose che» vi si fanno. Et se non fussi una singulare affectione che noi portiamo al re di Francia, non si metterebbe la falcie nella biada d'altri. Ma li vogliamo havere facto intendere quello che forse non hanno inteso da altri: del governatore passato Genovesi si laudano, «et vorrebbe essere» lui o uno altro simile a lui, che fussi per administrare iustitia. Et ricordate faccino presto. Se piace al Re di Francia et Roberthet, lo tenghino secreto, per non nuocere ad altri sanza proficto alcuno. «Ma se ricercheranno, troveranno questa essere la verità.»

Nel ritornarsene, Marcantonio mandò qui a domandare il passo, et essendoli negato, si misse ad imbarcarsi. Di quelle poche gente haveva Marcantonio a cavallo, imbarchò cavalli buoni da 120 in 130; delli altri ne venderono una parte, 2 o 3 ducati l'uno. Et avendo cominciato ad amazzare quelli che avanzavano, domandandoli in dono alcuni fanti, li donò loro. De' quali, quelli che sono arrivati nel dominio nostro sono stati tucti isvaligiati; benchè fussino ronzini deboli et di pocha qualità. Èssi inteso che il signor Mutio ne ha recuperati qualche uno, come per altra vi si è scripto. Marcantonio per mare isboccò a Porto Baratto, et alla vista della armata franzese, si levò et andossene in quello di Siena sotto Massa, a uno luogho decto Pecora vecchia. Lui per staffecta se n'è andato a Roma, «donde s'intende che il Papa sta in opinione volere rifare la impresa di Genova.»

Il capitano delle galee vinitiane che sono a Civitavecchia si trova a Roma, «et dice aspectare altri legni per decta impresa di Genova, dove dice che hanno ad calare e' Svizeri per la via di Savoia et di Savona, de' quali il Papa haveva chiesti semila. Loro hanno decto che volevano essere octo mila, et ultimamente hanno facto intendere che vogliono essere diecimila almeno. Et il Papa si dice havere mandato là il danaro per altanti.» Se è vero o no, di costà se ne debba havere più certa notitia. Questo è «quanto a Marcantonio et alle cose di Genova.» Quanto alla causa del non havere dato «notitia a buona hora» etc., quello che si potè indovinare si scripse sino al tempo di Alexandro Nasi et a Francesco Pandolfini, apresso il quale ne può essere testimone. Ma si scriveva per coniectura. Quando si sarebbe potuto, «il Papa non ha lasciato venire li advisi prima da Roma, et dipoi da Bologna.»

Circa alla causa perchè lo oratore non è stato in Corte, se ne può assegnare molte. Prima Alexandro era stato di costà più di due anni, et desiderava extremamente tornare; et se cotesta Maestà non se ne contentava, stava a lei il dargli licentia. Lui, sanza licentia di costà, non sarebbe tornato. Et di qua si scontrarono le electioni qualificate ad non fare sì lungho viaggio. Venne di poi la electione di Ruberto Acciaiuoli, il quale per non essere di molto gagliarda complexione, non è potuto venire in questi caldi; ma infra due giorni partirà infallanter; «et non ci è stato artificio di alcuna ragione.» Questa cosa adunche «non debba ombreggiare,» essendovi «maxime stato voi che sete secretario della Signoria,» et per altri tempi «vi conoscono.» Qui non è stato «mai huomo che habbi pensato di partirsi dalle obligationi» etc., se non fussimo «in modo forzati che non havessimo rimedio.» Et quando questo si pensassi fare «da altri, doverrà Sua Maestà ancora lei provedere che noi possiamo persistere in fede,» come è «lo animo nostro. Et a' casi di Roberthet» si è pensato, et dato tale ordine «a Ruberto, che Sua Signoria vedrà» che non ha avuto «da dubitare della fede di qua di persona;» perchè noi «ci guardiamo dallo intromettere. Quando le promesse sono facte, non troverranno nel mondo una fede tanto stabile et tanto ferma quanto quella di qua.» Non si è differito di dare ordine «alli affari suoi per stare ad vedere quello che segue» etc. Perchè havendo una volta «fermo di stare in confederatione con il Re di Francia,» sappiamo molto bene quanto tempo è che «Roberthet è stato il primo secretario, et prima del Re Carlo, et dipoi di cotesta Maestà. Conosciamo la prudentia sua, la pratica grande che ha di cotesti maneggi, lo ingegno elevato che ha, et la cognitione che tiene delle cose di Italia;» et finaliter «quanto sia amato da cotesta Maestà.» Et però, non sia alcuno che existimi che noi habbiamo «immaginato o sognato non che pensato, che la auctorità sua non vengha a crescere in dies, perchè così meritano le sue virtù; et» così è desiderato grandemente da noi. Et però, chi havessi «pensato simile cose, si sarebbe partito molto dalla verità.» È parso di honorare Ruberto nel venire suo, che porti «la mente et ordine di quello che si ha ad fare verso Roberthet.» Et così seguirà et sarà cosa che «lui riconoscerà la fede di ciascheduno di qua, et basti.»

Restami ad farvi intendere che «indebitamente è stato dato carico a Monsignore di Volterra, che lui sia venuto dal canto di qua per operare che la Città si dispongha alla voglia del Papa. Chiamiamo Idio in testimone che questa opinion è falsissima, perchè nè lui enterrebbe in maneggio che tornassi contro S. Maestà, et qui non ne sarebbe udito.» Certificandovi che «S. Santità nuovamente lo chiama, forse per dubio che lui non pigli qualche altro cammino» etc. Fate fede di costà della verità, «chè certo le opere sue non meritano queste sinistre opinioni. Lui partì da Roma indispostissimo, macilento che non si reggeva a cavallo, et però in lettiera venne dal canto di qua, dove si è sempre stato in Casentino et in Mugello, nè qui è mai comparso, per non trovarsi in dispositione da potere negotiare. Pure speriamo in Dio che il male terminerà presto.» Vorremo che di costà si credessi che «lui non pensò mai di fare cosa che tornassi dishonore o damno a S. Maestà, ma sì bene utilità et honore.» Et sempre che «lui lo possa fare sanza incorrere nella indignatione di S. Santità, non porta huomo cappello in testa che lo facci più francamente et più volentieri.» Se sarà creduto così, sarà creduto la verità, sin minus, «harà patientia, seguiterà di fare bene, sperando che se non lo conosceranno li huomini, non mancherà di conoscerlo quello che vede tucto.» Et quelle verità che non appariscono in uno tempo, non mancha che si manifestano in uno altro. Non «fu mai più bella cosa. Noi dal Papa siamo tenuti franzesi naturali et stiecti;» et per questo «si è pensato da S. Santità delle cose che non sono state nè belle nè buone per noi: et i Franzesi dubitano della fede nostra.»

Questo ho voluto scrivervi per satisfare a me medesimo; «et perchè ne diciate di costà tucto a parte, secondo vi parrà conveniente. Tucto reputate scriptovi dallo amico nostro et così l'usate.» La brigata vostra sta bene. Scrivetele che, bisognando cosa che io possi, facci mecho con ogni sicurtà. Et bene valete. In frecta.

Ex Florentia, die vta augusti mdx.

Vester Antonius Iohannis della Valle.

notarius etc.

2

Lettera di Roberto Acciaiuoli al Machiavelli.

Blois, 10 ottobre 1510.

Compare carissimo. Io vi scripsi vj giorni sono. Di poi, come per le publiche vedete, el favore che si chiese «al Re, per havere uno condoctiere si mette di qua a entrata, perchè solicitato da qualcheuno desidera si tolga messere Teodoro. Et voi, hora che non havete più paura, non vi ricordate di quello si richiese al Re, che fu di potere trarre col suo favore uno condoctiere di Lombardia. Lui ve l'ha dato, et voi lo lasciate in secco. Et però non vi maravigliate se voi non siate adoperati ad nulla. Voi vorresti uno che non dependessi nè da Francia nè dal Papa nè da Spagna nè da' Vinitiani nè da lo Imperadore. Mandate pel Soffi o al Turco per un bascià, o pel Tamburlano: che vi venga,» dice Monsignore di Cattro foys, «el canchero.» E vi ricordo messer Hercole, che 'l fare et non fare non sta insieme. Il volere consiglio et favore di qua, et chiederlo et non lo acceptare, non sta insieme. Io vi dico che se «voi non torrete qualche uno di Lombardia, voi resterete in mala gratia, perchè io so che 'l Re ha dato intentione che voi torrete messere Teodoro.» Fatelo intendere a chi vi pare, et uscite di questa pratica, che non pare si possa far niente, senza mala gratia et dispiacere di tutto el mondo. Altro non accadendo, mi raccomanderete alla Excellentia del Gonfaloniere, et li amici. Valete.

Ex Blesis. Die x octobris mdx.

Manum agnoscis.

Spectabili viro Niccolao Maclavello, Secretario excelsi Populi Fiorentini [compatri] carissmo, in Florentia.

DOCUMENTO XI.

(Pag. 134)

Lettera di Biagio Bonaccorsi a Niccolò Machiavelli.

Firenze, 22 agosto 1510.

Niccolò, io vi ho scritto hoggi uno verso, dictante D. Mar., come vedrete. Et se io non vi ho scripto et non vi scriverrò, non ve ne maravigliate, chè li tanti affanni in che mi truovo mi cavono del cervello. Come sapete, la mia donna era malata al partire vostro; et finalmente mi è stata lasciata per morta da ogniuno, et se Dio non mi porge la sua gratia, non la troverrete viva. Et sono condocto ad tal termine che io desidero più la morte che la vita, non vedendo spiraglio alcuno alla salute mia, mancandomi lei. Spendo ogni dì poco meno d'uno fiorino; et così rimarrò abandonato sanza compagnia et sanza roba. Non altro; raccontandomi a voi; et pregate Dio vi dia migliore fortuna che non fa a me, che forse lo merito più di voi.

Florentiae, die xxii augusti 1510.

Vester Blasius.

Nicolao Maclavello secretario florentino suo plurime honorando. In corte del Christianissimo Re.

DOCUMENTO XII.

(Pag. 137)

Sentenza degli Otto di Guardia e Balia contro Filippo Strozzi, per aver preso in moglie Clarice figlia di Piero de' Medici, ribelle.

Die 16 ianuarii 1508/9.

Magnifici Octo viri Custodie et balie civitatis Florentie, omnes simul in loco eorum solite audientie et residentie collegialiter adunati, pro eorum officio exercendo, ut moris est, visa quadam notificatione, tempore eorum in officio precessorum reperta in tamburis, sub die xija mensis decembris proxime preteriti, continenti in effectu quabiter Filippus alterius Filippi de Stroziis accepit in uxorem filiam Pieri de Medicis, rebellis huius Civitatis, et inimici huic bono et optimo regimini; et quod in predictis et circa predicta fiat ius et iustitia, prout latius constat et apparet in dicta notificatione, ad quam et contenta in ea dicti domini Octo se retulerunt et referunt;

item visa quadam alia notificatione, coram dicto Officio exibita, sub die secunda presentis mensis ianuarii, per quam continetur idem effectus contra eumdem Filippum, et qualiter dictus Filippus accepit in uxorem Claricem filiam olim Pieri Laurentii de Medicis, et narratis quam pluribus per dictum Pierum de Medicis attentatis contra Comune Florentie, et contra formam statutorum dicti Comunis, et ibidem concluditur quod filii tam masculi quam femine dicti Pieri de Medicis declarentur rebelles Comunis Florentie;

et visis etiam duabus aliis notificationibus eiusdem effectus, repertis in tamburis dicti Officii, sub die quindecima presentis mensis ianuarii, et una alia notificatione exibita dicto Officio, hac presenti die, effectus predicti; et omnibus et singulis in dictis notificationibus et qualibet earum contentis, et de quibus latius continetur in libro querelarum et notificationum dicti Officii, sub diebus predictis, ad quem quidem librum et ad quas notificationes in omnibus et per omnia dicti domini Octo se retulerunt et referunt, et hic pro expresse narratis, et de verbo ad verbum appositis haberi voluerunt et mandaverunt;

et visis citationibus factis de dicto Filippo de Strozziis et earum relationibus: et visa ipsius Filippi comparitione et responsione et confexione, et qui confexus est matrimonium predictum contraxisse cum dicta Clarice iam sunt menses duo proxime elapsi, non tamen animo et intentione turbandi pacificum statum civitatis Florentie, et prout latius in dicta eius comparitione et responsione, facta coram dicto Officio, sub die quinta presentis mensis ianuarii, continetur et apparet, ad quam dicti domini Octo se retulerunt et referunt;

et visa etiam alia comparitione responsione et exceptionibus, factis et oppositis per dictum Filippum de Strozziis, sub die duodecima presentis mensis ianuarii, et omnibus et singulis in dicta comparitione contentis;

et visa etiam sententia rebellionis contra dictum Pierum de Medicis lata et data, de anno Domini millesimo quadringentesimo nonagesimo quinto et sub die vigesimaquinta mentis septembris dicti anni, vel alio veriori tempore, per quam in effectu tunc domini Octo Custodie et balie civitatis Florentie, servatis debitis servandis et obtento partito secundum ordinamenta, deliberaverunt et declaverunt dictum Pierum ac etiam Julianum fratres et filios Laurentii de Medicis de Florentia et quemlibet eorum fuisse et esse rebelles Comunis Florentie, et prout latius in dicta sententia continetur, ad quam ad infrascriptum effectum dicti domini Octo se retulerunt et referunt;

et visis omnibus et singulis statutis legibus provisionibus et ordinamentis Populi et Comunis Florentie, disponentibus tam contra rebelles Comunis Florentie et eorum filios et descendentes quam contra contrahentes matrimonium cum dictis rebellibus, et legibus provisionibus et ordinamentis quibuscumque, et maxime hiis de quibus in dictis notificationibus et qualibet vel altera earum fit mentio, et omnibus et singulis in eis contentis;

et visis omnibus et singulis legibus statutis provisionibus et ordinamentis circa predicta et infrascripta disponentibus, et omnibus et singulis in eis contentis;

et habito super predictis et infrascriptis dicti domini Octo inter eos maturo colloquio et consultatione;

Volentes in predictis, ut decet, ius et iustitiam ministrare, visis omnibus et singulis que in predictis et circa predicta videnda et consideranda fuerunt; vigore cuiuscumque eorum auctoritatis potestatis et balie, servatis servandis, et obtento partito secundum ordinamenta, et per omnes fabas nigras, amplectentes omnes notificationes predictas et de quibus supra fit mentio et qualibet earum, deliberaverunt et deliberando declaraverunt:

Filios masculos dicti Pieri Laurentii de Medicis, secundum formam statutorum et ordinamentorum Comunis Florentie, nec aliter nec alio modo, fuisse incursos et esse rebelles Populi et Comunis Florentie; dictam vero et infrascriptam

Claricem, filiam dicti olim Pieri Laurentii de Medicis, declaraverunt non fuisse nec esse rebelle in dicti Populi et Comunis Florentie; et propterea ipsam Claricem liberaverunt et obsolverunt a suprascriptis et supra narratis notificationibus et qualibet earum, et ab omnibus et singulis in eis et qualibet earum contentis, et pro absoluta et liberata haberi voluerunt et mandaverunt.

Quo vero ad dictum Filippum de Strozziis, pro eo quod contraxit matrimonium cum dicta Clarice, pro omnibus et singulis preiudiciis in quibus diceretur esse incursus, ex causis in notificationibus supra narratis et qualibet earum contentis; vigore cuiuscumque eorum auctoritatis potestatis et balie, servatis servandis, et obtento partito secundum ordinamenta et ut supra, deliberaverunt et deliberando relegaverunt et confinaverunt dictum et infrascriptum

Filippum alterius Filippi de Strozziis, civem florentinum, ad eundum, standum et permanendum in regno Neapolitano, pro tempore et termino trium annorum proxime futurorum, initiandorum die qua se ad dicta confinia presentaverit; ad que se presentare teneatur et debeat infra viginti dies proxime futuros a die notificationis sibi fiende de predictis; et infra triginta dies postea subcessive post dictos viginti dies proxime et inmediate sequentes, teneatur et debeat misisse, presentari fecisse et dimisisse eorum Officio fidem, manu publici notarii, talis sue presentationis ad confinia predicta. Et teneatur et debeat predicta omnia et singula attendere et observare, sub pena rebellis Populi et Comunis Florentie. Et quod finitis dictis tribus annis, absque aliquo partito aut deliberatione desuper fienda, redire possit ad civitatem Florentie eiusque comitatum et districtum et ubi sibi libuerit et plaucerit, libere licite et inpune.

Ac etiam, ultra predicta, dictum Filippum condemnaverunt in florenis quingentis auri largis in auro, dandis et solvendis Provisori eorum Officii pro dicto Officio recipienti, secundum ordinamenta, infra tres dies ab hodie proxime futuros, sub pena dupli quantitatis predicte dicto Officio solvende ut supra.

Et salvis predictis supra per dictos dominos Octo deliberatis iudicatis et declaratis et in suo robore permanentibus, eundem Filippum de Strozziis liberaverunt et absolverunt ab omnibus et singulis aliis penis et preiudiciis, in quibus modo aliquo diceretur et allegaretur incursum esse, ex narratis in supra narratis notificationibus et de quibus supra fit mentio et qualibet earum; et pro absoluto et liberato haberi voluerunt et mandaverunt in omnibus et per omnia. Mandantes etc.

Incamerata die 18 ianuarii 1508 per Joannem Malaspina famulum Rotellini dicti Officii; et ita retulit dicta die incamerasse condemnationem et relegationem suprascriptam.

Commissa fuerunt predicta notificare dicto Filippo, die 19 ianuarii 1508, Joanni Malaspine famulo Rotellini dicti Officii.

Qui dicta die retulit mihi notario infrascripto predicta notificasse dicto Filippo personaliter et in personam, dicta eadem die xviiij dicti mensis ianuarii, cum dimissione cedule notificationis predicte.

DOCUMENTO XIII.

(Pag. 141-2)

Niccolò Machiavelli disdice ai Senesi una tregua fatta con loro dai Fiorentini.

Die 5 decembris 1510 more florentino, indictione xiiii.

In Dei nomine amen etc. Pateat omnibus etc.: Come lo egregio homo Niccolò di messer Bernardo Machiavelli, cittadino fiorentino, facendo tucte le infrascritte cose come sindico et procuratore substituto in nome de la excelsa Republica Florentina da li magnifici signori Dieci, come del principale sindicato et mandato di decti magnifici signori Dieci ed de la substitutione di poi di decto et in decto Nicolò facta per li decti magnifici signori Dieci appariscano publici instrumenti, per mano di ser Antonio Vespucci cittadino fiorentino, sotto il dì primo di dicembre; de' quali instrumenti di sindicato et mandato principale et substitutione di poi facta il prefato Nicolò attualmente ha monstro et offertone copia ad questi magnifici signori Officiali di Balìa de la magnifica Comunità di Siena: e constituto a la presentia delle Signorie loro et di voi testimoni, in questo loco de la loro solita residentia, in sufficiente numero coadunati, con ogni miglior modo che sa et può et ha saputo et potuto, ha disdecto et denegato disdice et deniega a la magnifica Comunità di Siena et a li presenti magnifici signori Officiali di Balìa, qui presenti et intelligenti, una triegua et securtà già facta et sequìta tra la prefata magnifica et excelsa Repubblica Fiorentina da una parte et la prefata magnifica Comunità di Siena da l'altra, o vero da li agenti di decte Signorie, in nome loro: de la qual triegua et securtà appare instrumento rogato per mano del prefato ser Antonio Vespucci et ser Pietro di Francesco Landini da Lucignano notaro et cittadino senese, sotto dì vinticinque del mese di aprile, l'anno mdvi: la qual triegua et securtà fu di poi, ciò è sotto dì xxi d'aprile l'anno mdviiii, prorogata per certo tempo; di che ancora apparisce instrumento, per mano de li sopradecti ser Antonio Vespucci et ser Piero Landini notari. Affermando et expressamente declarando intimando et protestando il decto Nicolò, in decto nome, a li prefati magnifici signori Officiali di Balìa presenti et intelligenti, come lo officio de' magnifici signori Dieci di Libertà et balìa de la Republica Fiorentina, et lui ne' modi et nomi sopradecti, non volere che decta triegua et securtà et prorogatione duri et habbi effecto più in futuro, se non per quello tempo et termine che si contiene et si è convenuto in decti instrumenti, ciò è di mesi sei o altro tempo più vero dal dì di tal facta disdecta et denegatione. Et per più effecto et forza di ragione, il decto Nicolò, in decto nome, ha intimato et notificato a li prefati magnifici signori Officiali di Balia la disdecta et denegatione di triegua et securtà per decti magnifici signori Dieci di Libertà et balìa facta, et tucte le sopradecte cose, acciò che per alcuno tempo advenire la magnifica Comunità di Siena o vero decti magnifici signori Officiali di Balìa non possino dire et allegare non avere hauta notitia d'alcuna de le soprapredecte cose. Pregando noi, ser Giovanni di Salvatore notaro fiorentino infrascripto et ser Mariano di Pietro Barletti notaro senese infrascripto, che di tal cosa facciamo istrumento che di ragion vagla et tenga, distendendolo ad senno del savio nostro, non mutando lo effecto predecto.

Actum Senis et in palatio magnificorum dominorum Priorum gubernatorum Comunis et Capitanei populi dicte civitatis Senensis, et in residentia Balìe; coram et presentibus don Petro Tiberio de Corella connestabile ordinum et milicie Reipublice Florentine, Benedicto Mathei Zerini de Florentia tabellario Comunis Florentie, domino Dominico Nerii de Placidis equite et cancellario Reipublice Senensis, et ser Francisco Andree Duccij de Sancto Quirico, civibus senensibus; testibus ad predicta habitis vocatis et rogatis.

(L. S.) Ego Marianus olim Petri Andree de Barlettis civis senensis, publicus et imperiali auctoritate notarius ac iudex ordinarius, predictis omnibus et singulis dum sic agebantur, una cum supradicto et infrascripto ser Johanne olim Salvatoris, interfui; eaque rogatus scribere scripsi et publicavi, et in fidem premissorum propria manu me subscripsi, signumque meum cum nomine apposui consuetum. Laus Deo.

(L. S.) Ego Johannes olim Salvatoris Blasii de Puppio partium Casentini districtus Florentini, imperiali auctoritate notarius publicus florentinus, predictis omnibus et singulis dum sic agebantur, una cum suprascripto ser Mariano, interfui; eaque rogatus scribere scripsi legi et publicavi, et in fidem premissorum propria manu me subscripsi, signumque meum apposui solitum et consuetum.

DOCUMENTO XIV.

(Pag. 147-8)

Una lettera di Papa Giulio II (7 settembre 1511) ed una dell'imperatore Massimiliano I (27 settembre 1511) intorno al Concilio di Pisa.

1

Julius PP. II.

Dilecti filij salutem et apostolicam benedictionem. Nunquam putavimus fore, ut Dominium istum inclitum preter spem nobis ac nuntio nostro datam, Pisis locum conciliabulo Cardinalium scismaticorum concessurum esset: populumque istum semper chatolicum et apostolice Sancte Sedis observandissimum, animarum, corporumque et rerum externarum omnium periculis exponere vellet. Nam, quam grave hoc delictum sit, et quantis vos calamitatibus, ultra perpetuam infamiam, involvere possit, etsi pro prudentia vestra considerare potestis, tamen ex ven.li fr.e Guillelmo Ep.° Cortonensi prelato nostro domestico, cive vestro, quem dedita opera ad vos mittimus, latissime uberrimeque intelligetis: hortamur devotionem vestram ut ab hujusmodi errore (nunquam enim sera est ad benefaciendum via) resileatis: populumque in quo summa potestas vobis credita est, talibus calamitatibus, iacturis et erroribus liberetis. Episcopum vero ipsum oratorem et nuntium nostrum quam diligentissime audiatis; cuius verbis monitisque si parueritis, melius vobis et reipublice isti consuletis, cui fidem indubiam adhibeatis.

Dat. Rome apud Sanctum Petrum sub annulo Piscatoris. Die vii septembris m°.d.xi. Pont. nostri anno octavo.

Sigismundus.

(A tergo) Dilectis filiis Prioribus Libertatis et Vexillifero Justitie populi Florentini.

2

Maximilianus Divina Favente Clementia E.[electus]

Romanorum Imperator semper Augustus.

Spectabiles, prudentes, fideles, dilecti. Cum (ut notum jam omnibus esse debet) superioribus mensibus a Nobis ut Ecclesiae Advocato, cum adhesione ser.mi Principis domini Ludovici Francorum Regis fratris n.ri chariss.i ac aliquorum S.cae Ro. Ecclesiae Cardinalium, sub spe etiam quod caeteri christiani Reges, Principes et status, et in primis summus Pontifex, adherere illi deberent, ob urgentissimas et maxime reipub.cae Christianae necessarias causas, Concilium generale universalis Ecclesiae ad civitatem Pisarum indici per Procuratores nostros fecerimus, iamque constitutum et ordinatum tempus ad illud inchoandum et celebrandum advenerit; Existimamus ad Nos pertinere omnia agere, quae ad illud rite fundandum, ac ad saluberrimum et optatum finem perducendum conferre possint. Et quoniam quod pro publico et communi totius Christianitatis bono agitur communi etiam omnium Christianorum consensu, favore et auxilio foveri debet; Ideo ne a tam sancto et pio opere separemini vos, quamvis primo a Procuratoribus nostris per literas indictionis Concilij in genere admonitos et requisitos, per has nostras iterum specialiter duximus hortandos, monendos et requirendos, ut nobiscum dicto Concilio Pisano velitis adherere, assistentiamque praestare, ad illud Oratores vestros destinando. Qui una cum caeteris patribus ibi congregatis, consulere et dirigere habeant, quae Dei honorem ac reipublicae Christianae commoda sint paritura. Quod etsi offitio vestro et debito erga Deum et Mundum conveniat, tamen rem facietis nobis gratissimam, et pro qua v.ram erga nos obedientiam dignam commendatione consebimus.

Dat. in Arce n.ra Hanifels, die vigesima septima mensis Septembris, anno Domini m.d.xi., Regni n.ri Romani vicesimosexto.

(A tergo) Spectabilibus prudentibus n. ris et Imperij sacri fidelibus, dilectis n. [nostris] Vexillifero Justitiae Bailiaeque Civitatis n. rae Imperialis Florentiae.

DOCUMENTO XV.

(Pag. 177)

lettere del cardinal giovanni e di giuliano de' medici, sul sacco di prato e sul ritorno dei medici in firenze nel 1512.

1

Lettera del cardinal Giovanni de' Medici al Papa.

Dal campo presso Prato, 29 agosto 1512.

Sumario e copia de una letera scrita per il R.mo Cardinal di Medici al Summo Pontefice.

Sanctissime ac clementissime pater, post pedum oscula beatorum. Hoggi dandosi per gli Spagnoli su le mura di Prato lo assalto valorosamente, et per il muro roto et per le scale introrno drento circha ad sedici hore; hanno messo la terra ad sacco non senza qualche crudelità de occisione, de la quale non si è possuto far meno. Vi erano drento tre milia battaglioni, de li quali sono campati pochi: è stato preso Luca Savello et el figliolo. La presa di Prato così subita et cruda, quantunque io ne habbia preso dispiacere, pure harà portato seco questo bene, che serà exemplo et terrore a li altri; de modo mi persuado le cosse de qua haveranno ad exequire felice successo. Per essere io sforzato a mandare le lettere per la via de Bologna, son certo la Santità Vostra haverà adviso prima del mio; pure non ho voluto manchare del mio officio, et de le cose sequiranno sarà tuttavia advisata la Sanctità Vostra, alli cui sanctissimi piedi humilissimamente mi ricomando.

Ex felicissimis castris prope Pratum, die xxviii augusti 1512.

2

Lettera del cardinal Giovanni e di Giuliano de' Medici a Piero da Bibbiena in Venezia. - Prato, 31 agosto 1512.

Copia de una letera scrita per il Cardinal et Zulian di Medici, drizzata a Piero di Bibiena; venuta eri per via di Mantoa, lecta ozi in Collegio.

Spectabilis dilectissime noster, salutem. Essendo certi che quella illustrissima Signoria piglierà contento et piacere grande de ogni nostro bene, vi mandiamo a posta Guglielmo di Bibiena, fidelissimo servitore nostro, in diligentia, perchè voi in nome nostro facciate intendere ad quella Illma Signoria, come noi domani, col nome de Dio et della sua gloriosissima Matre, ritorneremo in casa et ne la patria nostra con letitia et satisfatione di tuta quella cità. Et di già sono venuti qui lo Arzivescovo de Firenze, Iacopo Saluiati, et Paulo Vectori, ambasatori di quella Signoria ad questo effecto, per comporre le cose nostre. Infinitissimi citadini, tucti di principali et de' più nobili, sono qui venuti da affectionatissimi nostri ad congratularsi con noi, pieni di soma letizia et contenteza per questa nostra felicissima tornata, la quale per tuti li capi ne satisfa grandemente, come voi pensar potete, ma precipue per esser seguita tal novità senza sangue et senza scandolo alcuno de quella cità.

Hoggi, a le 16 hore, fu deposto da la Signoria et dal Consiglio el Gonfaloniero, et mandatone a casa sua, non senza pericolo de esser per via tagliato a pezi da molti inimici suoi: pur si condusse salvo in casa di Paulo Vectori, che li dete la fede di salvarlo. Molti particulari intenderete da Guglielmo preditto. Il tutto farete intendere a quella Illma Signoria in nome nostro, accertandola che di tanto più potrà valere et servisse, quanto noi più potremo in casa nostra che in esilio; et ad quella humilmente ce recomandate.

Semo ben certi che voi non men piacere di noi prenderete di questa ritornata nostra, come queli che non havete ad godere il ben nostro punto mancho di noi tutti: et così li Magnifici nostri Lippomani, a li quali ce offerirete et racomandate.

Ex Prato, die ultimo augusti 1512, hora 9a noctis.

Io: Cardinalis et Iulianus De Medicis.

DOCUMENTO XVI.

(Pag. 180)

Lettera di Bernardo da Bibbiena a Piero suo fratello in Venezia. - Roma, 6 settembre 1512.

Copia de una letera di Bernardo da Bibiena, secretario dil R.mo Cardinale di Medici, scrita di Roma a dì 6 septembrio 1512 a domino Petro suo fratello, et recevuta a dì .... septembre, in Venecia.

Sit nomen Domini benedictum. Pur ha voluto Dio et la sua gloriosissima Matre che le cosse di' patroni nostri habbino quel felice successo che merita la bontà lhoro et che tutti havemo desiderato. Io non vi dirò li progressi de la impresa come siano passati, perchè da Guglielmo nostro, che da Prato vi si mandò per li patroni, harete inteso ogni particularità: quel che so io esser seguito dopo la partita sua, con poche parole vi dirò. Lui partì el martedì nocte da Prato, ove erano 6 oratori per la Cità, per comporre le cose tra la Republica et il signore Vicerè circa la partita di' danari: li tre oratori primi erano quelli che vi stavano al tempo del Gonfaloniero: messer Baldisare Carducci, messer Ormannozo Deti et Nicolò Valori. Questi el martedì havevano havuto il mandato ampio et il partito facto, che Medici et quelli che erano fuora per canto lhoro potessino liberamente tornare in Firenze con satisfactione di tucta la Cità, et praticavano che seguisse tal tornata con unione et acordo tra Medici et Soderini, contrahendo tra lhoro affinità, dando a Iuliano una nepote del Gonfaloniero per moglie. Et il Vicerè era per pigliare sopra di sè la cosa, havendo prima facti abracciare et pacificare li Medici et li oratori, in nome di tucta la cità insieme, quando in gran pressa sopragiunse Gioane Ruzelai, figliolo di Bernardo, a notificare a Monsignore et Iuliano, che non facessino altro, sin che non arrivasino li novi tre altri oratori, Arziuescovo di Firenze, Iacopo Salviati e Paulo Victori, perchè venivano con nova commissione, attento ch'el Gonfaloniero era stato deposto et mandatone a casa, non senza periculo de essere morto tra via: onde la pratica del parentado fu del tutto reserata, stando a posta de' Medici et de' suoi lo entrare in Firenza. Et co li oratori vennero un numero infinito di cittadini quasi di tutta la nobiltà della Cità. Tutto questo fu martedì, nel qual dì et nell'altro poi ad altro non se atendeva, mentre vi stetti, che a comporre col Vicerè li partita de' danari.

Su le xx horre venne Antonio Francesco di Luca de li Albizi, et menorne Iuliano a Firenze. Io, desideroso de exequire presto el desiderio mio, me n'andai drieto a lui, ma non poteti mai arivarlo; onde ce ne entramo drento d'uno Antonio da Ricasoli, suo fratello, Grifone vostro et molti altri di casa sino in x o xii cavalli. Et ce ne andamo prima a' Servi per nostra devotione, e poi a casa de' Medici, credendo Iuliano esser lì, ma in loco suo trovamo tanto populo, et sentimo tante grida di Palle, et havemo tanti tochamenti di mano et tanti baci et abbraciamenti, che fu talhora che nui credemo rimanere suffocati da la calca; chè tirati fummo più volte da cavallo. El bello erra che noi da tutti eravamo conosciuti, et ci chiamavano per nome, et noi pochissimi et quasi nessuno conosciavamo da quelli in fuora che qua o altrove, for di Fiorenza, havevamo revisti. Nè per la molta et strectissima calca potemo mai entrare in casa, sì piene erano le due porte delle genti, oltre che alle finestre se vedevano persone infinite, et drento si sentivano voci grande di Palle, Palle, expetando che Iuliano devessi venir lì. Ma noi intendendo lui essere ito a smontare a casa del prefato Antonio Francesco, ce ne andamo là, et per via c'erano facti tanti motti che impossibil saria poter dir più. Trovammo Iuliano che si lavava la barba, et era piena piena la casa di citadini quasi tucti nobili, che tutti mi baciorono con tanta letitia et contenteza del mondo; et molti mi domandarono di voi, benchè io non li conoscessi, fra' quali fu Poldo de Pazi, che tenerissimamente volse intendere de l'essere vostro. Nicolao non vidi, chè l'harei riconosciuto: la Lucretia vene a vedere Iuliano, et mi fece motto con assai bona ciera; ma molto migliore me la feciono la Contesina et la Clarice, le quali poco da poi trovai per via, che insieme andavano da Iuliano, commendandome con molto buone parole di quel che havevo facto per li lhoro fratelli et zii, mostrando conoscere ch'io mi ero affaticato assai: et invero posson bene haverlo inteso et dirlo liberamente, perchè ho facto per lhoro quanto ho conosciuto et saputo et potuto. Ad Iacomo Salviati nè alli altri suoi collegi non parlai a Prato, perchè non hebi a modo mio la commodità. Nicolao Valori mi parlò avanti si praticasse acordo tra li oratori et Medici, cegnandome sempre le cose nostre dovere passare bene. Stato adunque che io fui un pezo in casa Albizi, da Iuliano, chiesta licentia da lui, montai circa a due hore di note in poste, et me ne venni a la volta di Roma, ove penso vivere et morire: et questo è il desiderio mio che dico di sopra etc. El cardinal doveva intrare al .... che era il .... dil mexe ....

DOCUMENTO XVII.

(Pag. 182)

Lettera del cardinal Giovanni de' Medici a Piero da Bibbiena in Venezia. - Firenze, 16 settembre 1512.

Di Fiorenza fo lettere di Vincenzo Guidoto secretario di 14, et in Piero di Bibiena dil cardinal Medici, de' 16: scrive il suo intrar in Fiorenza honoratamente; et meterano novo Governo tutto a beneficio de la sanctissima Liga et di questo Stato, sì chome per la copia di la dita letera qui soto scrita se intenderà.

Copia de una letera dil cardinal Medici a Pietro di Bibiena, data in Fiorenza.

Missier Pietro nostro carissimo. Questa per farvi intendere el felice successo, che continuamente le cose nostre sortiscano, quale è questo: martedì, 14 del presente, accompagnati da gran moltitudine de primarii citadini de questa Cità, intrassemo in epsa honorificentissimamente, et non comune letitia del populo, usque adeo che in questa parte la nostra opinione fuit re ipsa longe superata. Hoggi, xvi del medesimo, questa excelsa Signoria, una con li nobili de la Cità et populo, hanno hauto comune Consiglio publicamente, nel quale hanno constituito certo numero de citadini, attribuendoli ampia facilità de ordinare el stato de la Città: da' quali se darà enixe opera ch'el Stato predicto se ordine et constituisca de sorte tale, che la Serma Lega se potrà accomodatamente servire di quello in le cose concernenti al proposito et stabilimento de epsa. Habiamo queste cose volute significare per questa nostra adligata ad quel Sermo Principe, a la cui Serenità ne recomanderete come se conviene, et comunicherete el tenore di sopra con quelli magnifici patri nostri, quali ve pareranno più accomodati alla participatione. Bene valete.

Florentie, die 16 septembris 1512.

Io: Cardinalis De Medicis legatus.

Spectabili Domino Petro de Bibiena,

Secretario nostro carissimo.

Io: Cardinalis De Medicis

Bononie ac Romandiole, Tuscieque ligatus.

DOCUMENTO XVIII.

(Pag. 197)

Lettera di Giuliano de' Medici a Piero da Bibbiena in Venezia. - Firenze, 19 febbraio 1513.

Copia di una letera dil magnifico Iuliano di Medici drizata a Piero di Bibiena in Venezia.

Carissime domine Petre, salutem. Questa è per significarvi come, per gratia di Dio, essendomi pervenuto a notitia una certa praticha di alcuni maligni citadini che haveno, di far violentia a me et a qualche cosa nostra; hieri dal magistrato de magnifici signor Octo furon presi e' capi et quasi tutti li altri sospecti, et per ancora non si è ritracto se non una mala intentione con poco ordine, senza fondamento o coda, et senza pericolo de lo Stato, quando fusse ben loro riusito el disegno, che haveno pensato fussi in su la morte di nostro Signor et ne la absentia del Rmo Legato. La qualità de li huomini di questa intelligentia sono, benchè nobili, di poco conto et men séguito, et le cose son procedute senza alteratione publica o privata, et più presto da poterne trar fructo che danno, atteso la universal unione et concorso de la Cità, et maxime de' primi parenti de' delinquenti. Procederassi con diligentia di intender bene tutto, et assicurare lo stato de la Cità et nostro, con la grafia de lo Altissimo: et di quello seguirà ne darò adviso. Interim mi raccomando a la Illma Signoria, et bene valete.

Florentie, die 19 februarii 1512.

Iulianus De Medicis.

Nicolò Valori.

Agostino Capponi.

Petro Paolo Boscholi.

Giovanni Folchi.

Lodovico de Nobeli.

Francesco Serragli.

Nicolò de missier Bernardo Machiavelli.

Andrea Marsuppini.

Piero Orlandini.

Daniele Strozi.

Cechotto Tosingi.

El prete de' Martini.

Spectabili domino Petro de Bibiena Venetiis.

DOCUMENTO XIX.

(Pag. 198)

Lettera di Giuliano de' Medici a Piero da Bibbiena in Venezia. - Firenze, 7 marzo 1513.

Copia de una letera dil magnifico Iuliano de Medici, data in Fiorenza, drizata a Piero Bibiena in Venecia: nara il sequito di retenuti citadini.

Domine Petre carissime. Io non ho vostre dopo l'ultima mia de' 19 del passato, per la quale vi significai la coniura scoperta et la nota de li huomini presi. Di poi si è aperta et purgata ben la piaga, et non si è per la gratia de Dio trovato alcuno fondamento ne la lhor malignità: habbia fuggito el pericolo et facto paragone de li amici et de la fede et benivolentia de la Cità, in forma che ne ho inmortale obligatione. Erono e' capi di questa intelligentia Agostino Capponi et Pietro Pagolo Boscoli giovani, benchè di buona casa, senza reputatione o séguito o facilità, et havién conferito più volte insieme di levarci da terra, consentito et deputato el luogo, et facto una lista di parecchi giovani che credevono fussin malcontenti di noi, et andaronli tentandoli. Riscontrorno in Nicolò Valori et Giovanni Folchi, e' quali prestorno orechie, et interogati più volte de' modi ad far novità, et aperto l'animo loro, vi si adviluporno drento. De' primi dua, Agostino et Pietro Paolo, suplicium capitis sumptum est. Nicolò et Giovanni son confinati nel fondo de la torre de la rocha de Volterra per due anni, et non ne possono ussire, se non col partito del magistrato de li Octo, con tutte le fave nere: di poi son relegati imperpetuo fuor del dominio fiorentino, in certi luoghi determinati: et tutto questo iuditio è facto con pratica et parere unito di buon numero di citadini de' primi ben qualificati. Alcuni altri per haver qualche participatione, come Francesco Seragli, Pandolpho Biliotti, Dutio Adimari, Ubertino Bonciani, son confinati per parechi anni nel contado, in diversi luogi: li altri che non erono in dolo, son relassati a buon sodamento. Noi staremo vigilanti, et con questa occasione, assicurando lo Stato et benefitio publico et privato; et di quello achaderà a la giornata vi faremo advisato el più comodamente si potrà fare, aprendosi come io spero el passo di Ferara. Hora io harò caro che voi largamente mi discoriate quel che ne intendete; et quanto più sarete libero et più particulare, tanto ne harò magior piacere.

Di le nove di Roma penso che ne siate benissimo informati; così de Lombardia, che si intende ch'el Duca et Vicerè si voglino insignorire di Piacenza et Parma. Qui è sparso voce che lo Sor Io. Paulo Baglioni si è partito senza licentia de la Illma Signoria. Quando in simili accidenti possiate advisare, molto ci sarà grato intender e' progressi di costì. Nè per questa mi occore altro se non mi racomando a quella Illma Signoria et bene valete.

Florentie, die 7 martii 1512.

Iulianus De Medicis.

DOCUMENTO XX.

(Pag. 198)

Bando degli Otto contro Niccolò Machiavelli.

Die 19 februarii 1512.

Li spectabili e dignissimi Otto di Guardia et balìa della ciptà di Firenze fanno bandire, et pubicamente notificare a ogni et qualunque persona di qualunque stato, grado o conditione si sia, che sapessi o havessi o sapessi chi havessi o tenessi Nicolò di messer Bernardo Machiavegli, lo debba, intra una hora da l'ora del presente bando, haverlo notifichato a decti Signori Otto, sotto pena di bando di ribello et confischatione de' loro beni: notifichando che, passato decto tempo, non se ne riceverà scusa alchuna. Bandito per Antonio di Chimenti sotto decto dì, soscripto, in filza.

DOCUMENTO XXI.

(Lib. I, cap. XVI; lib. II, cap. II e IV)

lettere scritte da francesco vettori in roma al machiavelli in firenze o in villa, dal novembre 1513 al gennaio 1515.

1

Compar mio charo. Io ho usato con voi tanta sobrietà chol chalamo, come dice Christofano Sernigi, che io non ho tenuto a mente dove io ero. Vuolmi bene ricordare, che l'ultima hebbi da voi chominciava dalla novella del lione e della golpe, della quale ho ricercho un pocho tra le mie lettere, et non la trovando presto, ho pensato non ne cerchare più. Perchè, in verità, io non vi risposi alhora, perchè dubitai non intervenissi a voi e a me chome è intervenuto qualche volta a me e al Panzano, che habbiamo cominciato a giucare con carte vechie e triste, et mandato per le nuove, et quando el messo è tornato con esse, a l'un di noi dua sono manchati danari. Chosì noi parlavammo di comporre e' principi, e loro del continuo giucavano: in modo che dubitai che mentre consumavammo le lettere nel comporli, a qualcuno di loro non manchassino e' danari. E poi che fermammo lo scrivere, s'è visto qualchoxa. E anchora che la festa non sia finita, pure pare un pocho ferma; et io credo che sia bene, insino ch'ella non si strigne, non ne parlare.

E per questa lettera ho facto pensiero scrivervi qual sia la vita mia in Roma. Et mi par conveniente farvi noto, la prima choxa, dove habito, perchè mi sono tramutato, nè sono più vicino a tante cortigiane, quanto ero questa state. La stanza mia si chiama San Michele in Borgo, che è molto vicina al Palazo e alla Piaza di San Pietro; ma è in luogo un pocho solitario, perchè è inverso il Monte chiamato dalli antiqui el Ianicolo. La casa è assai buona e ha molte habitationi, ma pichole; et è volta al vento oltramontano, in modo ci è una aria perfecta. Della chasa s'entra in chiesa, la quale, per essere io religioso come voi sapete, mi viene molto a proposito. È vero che la chiesa più presto s'adopera a passeggiare che altro, perchè non vi si dice mai messa nè altro divino uficio, se non una volta in tutto l'anno. Della chiesa s'entra in un orto, che soleva essere pulito et bello, ma hora in gran parte è guasto: pur si va del continuo rassettando. Dell'orto si sagle in sul monte Ianicolo, dove si può andare per viottoli e vigne a solazo, sanza esser veduto da nessuno; e in questo luogo, secondo li antiqui, erano li orti di Nerone, di che si vedono le vestigie. In questa chasa sto con nove servidori, e oltre a questi, il Brancaccio, un cappellano e uno scriptore, e sette chavalli, e spendo tutto il salario ho largamente. Nel principio ci venni, cominciai a volere vivere lauto e delicato, con invitare forestieri, dare 3 o 4 vivande, mangiare in argenti e simil choxe. Acorsimi poi che spendevo troppo, et non ero di meglo niente: in modo che feci pensiero non invitare nessuno, et vivere a un buono ordinario. Li argenti restitui' a chi me li haveva prestati, sì per non li havere a guardare, sì anchora perchè spesso mi richiedevono parlassi a N. S. per qualche loro bixogno. Facevolo, et non erono serviti: in modo diterminai di scaricarmi di questa faccenda, et non dare molestia nè charicho a nessuno, perchè non havessi a essere dato a me.

La mattina, in questo tempo, mi lievo a 16 hore, e vestito vo infino a Palazo, non però ogni mattina, ma delle due o tre una. Quivi, qualche volta, parlo venti parole al Papa, dieci al cardinale de' Medici, 6 al magnifico Iuliano; et se non posso parlare a lui, parlo a Piero Ardinghelli, poi a qualche imbasciatore che si truova per quelle camere; e intendo qualchoxetta, pure di poco momento. Facto questo, me ne torno a casa: excepto che, qualche volta, desino col cardinale de' Medici. Tornato, mangio con li mia, e qualche volta un forestiero o dua che vengono da loro, chome dire ser Sano o quel ser Tommaxo che era Trento, Giovanni Rucellai o Giovan Girolami. Dopo mangiare giucherei se havessi chon chi; ma non havendo, passeggio pella chiesa e per l'orto. Poi chavalcho un pochetto fuori di Roma, quando sono belli tempi. A nocte torno in casa; et ho ordinato d'havere historie assai, maxime de' Romani, chome dire Livio chon lo epitome di Lucio Floro, Salustio, Plutarcho, Appiano Alexandrino, Cornelio Tacito, Svetonio, Lampridio et Spartiano, et quelli altri che scrivono delli imperatori, Herodiano, Ammiano Marcellino et Procopio: et con essi mi passo tempo; et considero che imperatori ha sopportato questa misera Roma che già fece tremare il mondo, et che non è suta maravigla habbi anchora tollerati dua pontefici della qualità sono suti e' passati. Scrivo de' 4 dì una volta, una lettera a' signori X, e dico qualche novella stracha et che non rilieva, che altro non ho che scrivere, per le cause che per voi medesimo intendete. Poi me ne vo a dormire, quando ho cenato e decto qualche novelletta chol Brancaccio e chon messer Giovambatista Nasi, el quale si sta meco spesso. Il dì delle feste odo la messa, e non fo chome voi che qualche volta la lasciate indrieto. Se voi mi domandassi, se ho nessuna cortigiana, vi dico che da principio ci venni, n'hebbi chome vi scrissi; poi, impaurito dell'aria della state, mi sono ritenuto. Nondimeno, n'havevo aveza una in modo che spesso ci viene per sè medesima, la quale è assai ragionevole di belleza et nel parlare piacevole. Ho anchora in questo luogo, benchè sia solitario, una vicina che non vi dispiacerebbe; e benchè sia di nobil parentado, fa qualche faccenda.

Nicolò mio, a questa vita v'invito; e se ci verrete mi farete piacere, e poi ce ne torneremo chostà insieme. Qui voi non harete altra faccenda che andar vedendo, e poi tornarvi a chasa, a moteggiare e ridere. Nè voglo crediate che io viva da imbasciadore, perchè io volli sempre esser libero. Vesto quando lungo e quando corto, chavalcho solo, cho' famigli a piè, et quando chon essi a chavallo. A casa cardinali non vo mai, perchè non ho a visitare se non Medici, e qualche volta Bibbiena, quando è sano. Et dica ognuno quello che vuole; e se io non li satisfo, rivochinmi; chè in conclusione io me ne voglo tornare a capo uno anno, et esser stato in chapitale, venduto le veste et chavalli: et del mio non ci vorrei metter, se io potessi. E voglo mi crediate una cosa, che la dico sanza adulatione. Anchor che qui mi sia travaglato pocho, nondimeno il chonchorso è sì grande che non si può fare non si pratichi assai. Huomini in effecto a me ne satisfanno pochi, nè ho trovato huomo di miglore iudicio di voi. Sed fatis trahimur: chè quando parlo in lungo a certi, quando leggo le lor lettere, sto da me medesimo admirato, sieno venuti in grado alchuno, che non sono se non cerimonie, bugie et favole, et pochi ne sono che eschino fuori dell'ordinario. Bernardo da Bibbiena, hora cardinale, in verità ha gentile ingegno, et è huomo faceto e discreto, et ha durato a' suoi dì gran faticha; nondimeno, hora è malato; è stato chosì tre mesi, nè so se sarà più quel soleva. Et così spesso ci afatichiamo per posarci, e non riesce. E però stiamo allegri e segua che vuole. E ricordatevi che io sono al piacere vostro, et che mi rachomando a voi, a Filippo e Giovanni Machiavelli, a Donato, a messer Ciaio. Non altro. Christo vi guardi.

Franciscus Victorius orator,

die 23 novembris 1513, Rome.

Spectabili viro Nicolò di messer Bernardo Machiavelli, in Firenze.

2

A' dì 24 dicembre 1513

Compar mio caro. Se io non ho risposto presto a una vostra de' x, e forse non rispondo hora choxì a proposito, ne sono causa il Chasavechia et il Branchaccio, che ogni dì mi perturbano la mente, in ricordarmi la degnità della Città e quello si convenga a l'uficio mio.

Voi sapete che io mi dilecto un pocho delle femmine, e più per stare a cianciare con esse che ad altro effecto; perchè sono horamai tanto oltre che pocho altro posso fare che parlare. Sapete anchora quanto Filippo habbi l'animo alieno da esse; e avanti che lui ci venissi, perchè l'habitatione mia è alquanto fuori di mano, spesso qualche cortigiana veniva a vicitarmi, per vedere la chiesa e l'orto apichati cholla chasa dove habito. Non mi acorsi, quando Filippo giunse, mandare a significare loro che non fussino tanto ardite che ci capitasseno; in modo che, dua giorni appresso lo arrivare suo, a punto in su l'hora del desinare, ne capitò in una camera, che da' famigli, secondo il consueto, era stata lasciata venire liberamente; e giunta quivi, si pose a sedere chome si fussi in casa sua, in modo che io non la seppi licentiare, nè ricoprire la choxa con Filippo, el quale gl'aperse adosso un paio d'occhi admirativi e sdegnosi. Ponemmoci a tavola, e lei a luogo suo. Desinammo, parlammo, e dopo il mangiare, lei, secondo il consueto, per l'orto a spasso se n'andò. Restammo Filippo et io; il quale mi volle cominciare a fare una oratione colle parti sua; e in questo modo aperse la bocha: - Voi non harete per male, magnifico Oratore, che, sendo io insino da pueritia,... - Ma io, cognoscendo che l'oratione haveva a essere lunga, e vedendo quello voleva dire, lo interroppi, con dire che in quelle poche parole havevo compreso la intentione sua, et che non volevo iustificarmi nè udire sua correctione, perchè ero vixuto insino a qui libero et sanza respecto alchuno, et chosì volevo fare questo resto del tempo che ci havevo a vivere: in modo, pur mal volentieri, ha aconsentito che le femmine ci venghino a lor piacere.

Ma hora vi voglio dire la perturbatione m'ha dato il Branchaccio. Credo vi sia noto quanto Iacopo Gianfiglazi mi sia amico, e per molti respecti ho causa non solo d'amarlo ma d'observarlo. Quando lui fu qui imbasciadore mi commisse certa sua causa, la quale non achade dirvi; e stimando forse havessi più faccenda non ho, commesse a ser Sano che me la ricordassi. Lui per questo, quasi ogni settimana, è venuto per parlarmi di questa materia, e qualche volta a desinare mecho. Giuliano, poi che ha visto venirlo una volta et due et tre, m'ha cominciato a dire che ser Sano è un huomo infame; et che in Banchi li è suto domandato da qualche mercante di buona fama, che praticha io habbi chon esso, et che io mi doverrei guardare da simili pratiche: in modo che, a volermi excusare, sono stato forzato a narrarli per ordine tutta la trama tra Iacopo Gianfiglazi e lui. Sì che, compar mio, vedete dove io mi truovo, e chome ho a rendere ragione di ciò che parlo, e d'ogni huomo che mi viene a parlare. E voglo che mi diciate vostra oppenione: chi vi pare che mi riprenda con più ragione, o Filippo o Giuliano? E' quali non di meno ho chari, et chon tutte le loro monitioni et reprensioni, non resterò che non faccia quello mi verrà a proposito.

Voi mi scrivete, et anchora Filippo me l'ha decto, che havete composta certa opera di Stati. Se voi me la manderete, l'harò chara: et anchora che non sia di tanto iudicio, che sia conveniente indichi le chose vostre, non di meno, in quello mancherà la sufficienzia et il iudicio, suplirrà l'amore et la fede: et quando l'harò vista, dirò mia oppenione del presentarla al magnifico Iuliano o no, secondo mi parrà.

El respecto che voi havete a venire qui, mi pare facile a resolvere; perchè se voi andrete a vedere una volta il cardinale de' Soderini, non vi sarà posto cura. Piero ha fermo l'animo suo, nè credo havessi caro esser vicitato, et maxime da voi: et se voi nol vicitassi, non credo vi fussi imputato a ingratitudine; perchè sono ito examinando, nè truovo che lui o suoi v'habbino facto tale beneficio, che habbiate loro havere obligo se non ordinario. L'uficio non l'havesti da loro: cominciasti a essere adoperato tre anni avanti che lui fussi gonfaloniere. In quello poi vi adoperò, lo servisti chon fede, nè di quello ricercasti altro premio che ordinario. Et però, quando habbiate a venire, non voglo che simil respecto vi ritenga; perchè d'una semplice vicitatione non sarete notato, et quando ve n'abstenessi, non sarete da nessuno riputato ingrato.

E per la lettera vostra e da Filippo intendo che voi, sendo asueto a faccende et a guadagnare, con dificultà vi riducete a starvi e logorarvi le vostre poche entrate, perchè havete pure anchora qualche vogla chome io. Siamo iti examinando, et qui a Roma non troviamo choxa à proposito vostro. È stato qualche ragionamento ch'el cardinale de' Medici habbi a essere facto legato in Francia: sopra che ho pensato, quando sia facto, parlare, per essere voi stato là et havere qualche praticha in quella Corte, et notitia de' costumi loro. Se riuscirà, col nome di Dio; se non riuscirà, non haremo perduto choxa alchuna. Chome voi m'havrete mandato quello Tractato, vi dirò se mi pare vegnate a presentarlo.

Hora vegnamo a Donato, el quale desidero assai sia compiaciuto, e questo non credo durar faticha a farlo credere a voi et a lui. Chome io li scripsi, chiesi lettera, et fuori del generale, a Iuliano per lui; et me la promisse largamente. E perchè Piero non è molto presto allo scrivere, per le occupationi assai che ha, vi tenni uno, che vi stette tanto la scripse. E perchè spacciava una staffetta, feci fare una coverta a Donato in mio nome, e ordinai la lasciassi a Piero, che la mandassi. Maraviglomi non sia venuta. Parleronne di nuovo a Iuliano, et entrerrò, in quel modo mi dite, con Piero. Ma non vorrei che per Donato arrogessimo danno a danno, cioè che havessi a donare e non li riuscissi; perchè io non so che modo haremo a chiarirci che lui sia imborsato. Datemi notitia chome è ita la chosa di maestro Manente, ad ciò possa richiedere Iuliano et Piero di simil modo. Et pensate che io non ho a restare a fare choxa alchuna, pure che io li possa giovare.

Raccomandatemi a Filippo e Giovanni Machiavelli, e li fate mia scusa, che qualche volta, per assettare un verso s'esce qualcosa della verità, nè credecti li havessi a tornare alli orechi. E se l'ho offeso, gnene domando perdono.

El Casa è qui nella provincia sua, e credo farà qualche utile per la scarsella e anchora pel corpo; perchè con tre carlini condurrà di buone choxe. Hanno spesso diferentia lui et il Branchaccio; et io ho a mettermi di mezzo a comporli.

Del Romito non v'ho rispondere, perchè, come dite, Firenze è fondato sotto un planeta che simili huomini vi corrono, e sonvi uditi volentieri. Nè altro v'ho a dire per questa, che rachomandarmi a voi. Christo vi guardi.

Franciscus Victorius orator.

Spectabili viro Nicolò di Bernardo Machiavelli, in Firenze.

3

Compare carissimo. Io lodai sempre lo ingegno vostro, e approvai il iudicio et nelle pichole chose et nelle grande. Ma il discorso che mi fate per questa ultima lettera sopra Filippo et il Branchaccio m'è in pochi giorni riuscito in facto. Perchè, chome voi m'havete conosciuto, io credo più a altri che a me medesimo, e sempre voglo prima contentare ogni altro che me. E per questo, mosso dalle persuasioni mi facevono, chome vi scripsi per l'altra lettera, mi disposi a credere loro; e feci intendere in buon modo a ser Sano, che quando Iacopo Gianfiglazi mi scrivessi più choxa alchuna, manderei per lui, et che non durassi faticha a venirmi a trovare. In modo che lui, ch'è in queste chose astuto assai, chonobbe molto bene quello volevo dire. Chosì ordinai a dua femmine, che ci solevono venire spesso, che non venissino se non le faceva chiamare, perchè c'era venuto un mio parente al quale portavo reverentia, nè volevo le vedessi. Stetti in questo modo circa otto giorni, che qui non capitava se non qualche uno per sua faccende, et uno Donato Bossi, che fa professione di grammatico, con un viso austero et strano, et mai parla d'altro se non donde è decto un vocabolo o donde si forma un nome, et se il verbo s'ha a mettere in principio della clausula o in fine, et di simil chose di pocho momento et che danno fastidio assai a chi le ode. E io non facevo altro che domandarlo di queste favole, ad ciò havessi causa di parlarne più liberamente. E anchora che tal vita mi rincrescessi, la sopportavo il meglo potevo, perchè Filippo e Giuliano s'achorgessino dell'errore loro. La qual choxa intervenne presto: che una sera, standoci al fuoco, Giuliano chominciò a dire che io doverrei invitare una certa vicina ho qui, et che il non la chiamare una sera a cena dimostrava salvaticheza, la quale da molti è interpetrata in mala parte, et li huomini che stanno tanto in sul tirato sono tenuti strani et fantastichi. Ma è necessario vi narri la conditione di quella donna, perchè possiate considerare a che fine l'uno et l'altro di loro mi confortavano a invitarla.

Chome altra volta v'ho scripto, l'habitatione mia, anchor sia molto vicina al Palazo, è un pocho fuor di mano et in via non molto frequentata, e con vicini di bassa sorte. Pure a canto a essa, in una casa assai conveniente, habita una donna vedova romana et di buon parentado, che è stata et è buona compagna. E benchè sia oltre d'età, ha una figla di circa anni 20, la quale è bella per excellentia, et ha facta et fa qualche faccenda. Ha anchora un figlo d'età d'anni 14, pulito et gentile, ma di buon chostumi et honesto, chome si conviene a quella etate. E perchè le case son vicine et li orti entrono l'uno nell'altro, non s'è possuto fare non si pigli qualche praticità con decta donna, pure al largo; e spesso è venuta a ricercharmi di favore col Papa o chol Governatore; e io, in quello ho possuto, l'ho aiutata, perchè alle vedove e pupilli siamo tenuti. Questa dunque vedova mi persuadeva Giuliano che io dovessi chiamare a cena, e Filippo, rispetto a quel fanciulletto, ribadiva, allegando l'exemplo di Alexandro Nasi, che altra volta che fu a Roma lo vicitava spesso, e sempre la sera d'invernata lo trovava achompagnato da qualche vicino; e chon più altre ragione, chome sapete usa fare tanto mi seppe e lui e Giuliano dire, che io achonsenti' facessino quello paressi loro. Erano, quando facemmo tale ragionamento insieme, circa a hore dua di nocte, nè credecti però che chiamassino la sera questi vicini. E però, quando loro si partirono da me, mi posi a scrivere una lettera a' signori X, et ero in su fantasia, per ordinarla in modo che io non scoprissi però loro tutti e' disegni di N. S., perchè non sapevo se li piaceva; e anchora non volevo fussi tanto asciutta, che loro iudicassino o che io qua fussi pocho diligente o di pocho ingegno, o vero non tenessi quello conto di loro che s'appartiene, maxime sendo loro, per ogni qualità, primi huomini della città nostra. Et mentre ero in su questo ghiribizo, comparse la vicina colla figla e 'l figlo e da vantaggio un fratello d'essa, che veniva quasi per custode di questa brigata. La quale, chome hebbi veduta, ricevetti chon quello più piacevole modo mi concede la natura; che vi potete esser acorto che simili achoglenze liete et parole adulatorie non chaschono in me. Pure mi sforzai e fini' la lettera in brieve conclusione, col dire bixognava, a volere fare iudicio, aspettare la resolutione de' Svizeri, della dieta della Epifania.

Chosì Giuliano colla figlia femmina si messe a cianciare, e Filippo col maschio; e io per dare loro più commodità, chiamai la vedova e il fratello da canto, e li cominciai a domandare di certo piato hanno; ad ciò che, occupati in questo parlare, dessino tempo a coloro e intanto anchora fussi l'hora della cena. Nè potevo però fare che qualche volta non porgessi l'orecchio a quello diceva Giuliano alla Costantia (che chosì ha nome), ch'erano le più suave parole che voi udissi mai, lodandola della nobiltà, della belleza, del parlare e di tutte le parte si può lodare una donna. Filippo anchora chol maschio non si stava con certe parolette acomodate chol domandare se studiava, se havea maestro, e per entrare più adentro, interrogava se dormiva chon esso, in modo che spesso il vergognoso fanciullo abassava il viso senza risponderli. Venne il tempo della cena, la quale facemo allegramente. Dopo essa, ci ponemmo al fuoco, dove consumammo il tempo in dire novelle, in fare a' propositi, in besticci, o a che è buona la paglia. Ma haresti riso che pocho avanti cena, per interrompere non dirò la nostra, ma la loro quiete, ci capitò Piero del Bene, el quale harei desiderato non fussi entrato in camera. Ma non so dispiacere nè simulare; in modo che lui entrò. Ma acortosi essere racholto da Filippo e Giuliano con mala cera, stette pocho a partirsi. Passammo questa sera dolcemente, e circa a meza nocte le vicine si partirono, e noi restati n'andammo a dormire. Ma, Nicolò mio, non posso fare non mi dogga con esso voi, che per volere contentare li amici sono diventato quasi prigione di questa Constantia. Prima veniva quando una femmina e quando un'altra, e io non ponevo loro affectione: non di meno con esse passavo fantasia. È venuta questa, che ardirò di dire che voi non vedesti mai più bella femmina colli ochi, nè più galante, la quale havevo ben veduta prima, ma discosto; ma sendosi poi appressata, m'è tanto piaciuta che non posso pensare a altri che a lei. E perchè ho veduto qualche volta innamorato voi, e intexo quanta passione havete portata, fo quanta resistentia posso in questo principio. Non so se sarò tanto forte, e dubito di no; e quello seguirà, in questo caso vi scriverrò.

Ho visto e' capitoli dell'Opera vostra, e mi piacciono oltre a modo; ma se non ho il tutto, non voglio fare iudicio resoluto.

A Donato scripsi della settimana passata quanto mi ochorreva sopra il caso suo. Non di meno, se li achade altro, non mancherò. È ben vero che il caso di maestro Manente è più facile, perchè lui vinse nello squittino, e questo è certo.

Filippo non appruova che voi diciate si getti alle charogne, perchè dice sempre haver volute chose perfecte; et che voi siate quello che vi mettete ogni choxa avanti sanza distintone.

Havevo pensato far questa lettera più lunga, ma per fretta l'ho abarlozata; che leggo tanto volentieri le vostre lettere, che mi pare ogni dì mille di rispondervi, per haverne da voi, al quale mi rachomando. Cristo vi guardi.

Francesco Vettori in Roma oratore,

a' dì 18 di gennaio 1513.

Spectabili viro Nicholò Machiavelli, in Firenze.

4

A' dì 9 di febraio 1513.

Compar mio caro. Non risponderò in questo principio a l'ultima ho da voi, ma seguirò dove io lasciai, che credo fussi, in sul ripugnare all'amore quanto potevo. Nè credete pensassi che non bene conveniant maiestas et amor, perchè a me pare havere più maiestà quando sono Francesco in Firenze, che hora qui sendo oratore. Ma consideravo che ho 40 anni, ho donna, ho figluole maritate e da marito; non ho però roba da gittare; ma che sarebbe ragionevole che tutto quello potessi risparmiare lo serbassi pelle figluole; e quanto vile choxa sia lasciarsi vincere alle voluptà; et che costei era qui vicina, et che in essa spenderei a ogni giorno, n' harei mille fastidi; oltre a questo, per esser bella et giovane et galante, havevo a pensare che, come piaceva a me, piacerebbe anchora a altri e d'altra qualità non sono io, in modo la potrei goder pocho et ne starei in continua gelosia. Et chosì, andandomi raggirando questi pensieri pel capo, fermai il proposito levarmela in tutto dall'animo; e in questa fantasia stetti dua giorni. E già mi pareva essere confirmato in modo da non esser rimosso di mia oppenione. Accadde che il terzo giorno la madre venne a parlarmi, da sera, e menò seco la figla; e io ch'arei giurato difendermi da huom coperto d'arme, con parole et con atti fu' legato. La madre parlò di sue faccende, poi s'uscì di camera, e me la lasciò sola al fuoco: nè io potetti fare non parlassi seco e li tochassi le mani e 'l collo: e mi parve sì bella e sì piacevole che tutti e' propositi havevo facto, m'uscirono del capo, e deliberai darmi in preda a essa, e che mi governassi et guidassi chome li pareva. Nè vi voglio dire quello sia subcesso poi: basta che mi è achaduto e fastidi et gelosia più non stimavo. La spesa è bene insino a qui stata minore, ma l'animo è stato sempre in angustia. E quanto più li parlo, più li vorrei parlare, e quanto più la veggo, più la vorrei vedere. Pure mi è venuto a proposito, che Piero mio nipote ci sia venuto: perchè prima veniva in chasa a cena come li pareva; hora non vien più; e potrebbesi anchora spegnere il fuoco, che non credo però sia apichato in modo che questa aqua non lo debba extinguere. Ma, Nicolò mio, voi non vedesti mai colli ochi la più bella choxa: grande, ben proporzionata, più presto grassa che magra, biancha con un colore vivo, un viso non so se è affilato o tondo, basta che mi piace, galante, piacevole, motteggievole, sempre ride, pocho accurata di sua persona, sanza aque o lisci in sul viso: dell'altre parte non voglo dire dire nulla, perchè non l'ho provate quanto desidererei. Nè crediate però che in su questo non habbi havuto da Filippo e Giuliano qualche riprensione o voglam dire amorevole monitione; e io ho risposto loro quello mi par sia vero, che mai è da riprendere uno quando tu pensi che lui conosca d'errare, perchè questo non è altro che accrescerli passione, nè per quello si ritrahe o rimuove dell'errore....

A chi vive l'intervengono diversi casi; e però non mi maraviglo che la Riccia sopra ira habbi biasimato il consiglo de' savi: nè credo per questo non vi porti amore, et che non v'apra quando volete; perchè la reputerei ingrata, dove insino a hora l'ho iudicata humana et gentile. Et son certo che Antonfrancesco non l'ha facta superba; el quale mandò qui un suo frate, per un benificio, che m'ha decto che lui non dorme più a chasa sua, ma a un orto presso a Bernardo Rucellai, che si chiama la Riccia, e lo fa per havere più commodità di studiare.... Non voglo dimenticare Donato. Io sempre sono stato più rispiarmatore de' danari d'altri che de' mia, e però non ho usata la sua commessione. Io vorrei che Donato intendessi da Iacopo Gianfigliazi, se lui crede che Lorenzo lo facci imborsare chome mi promisse. Se lo crede, non entriàno in spendere più che quello s'è speso insino a hora. Se non lo crede, usereno questi rimedii che lui mi scrive. Et chome fia imborsato, pensereno al farlo vedere; e credo ci riuscirà. Sì che pensate se vi piace questo modo, che io farò quello vorrete. Nè altro v'ho a dire su per questa. Christo vi guardi.

Francesco Victori oratore in Roma.

5

A' dì 27 di luglio 1514

Compar mio. Non vi maraviglate che io non v' habbi risposto a una vostra de' x di giugno, perchè aspettavo quella che voi dicevi haver lasciato in villa, e poi vi volevo rispondere. Oltre a questo, voi in essa mi parevi fuor di modo aflicto, e io non potevo consolarvi, chome harei desiderato e chome desidero, perchè non sarebbe charico nè faticha nè incomodo che per voi non piglassi. E anchora che per la mia vi dicessi il rispecto havevo havuto a non vi chiamare qua su, vi dico per questa che, quando crediate sia a vostro proposito, non guardate a quello, e vegnate liberamente chome se venissi in chasa vostra. Perchè, anchora che a me chaschino più dubbii nella mente che a tutti gli altri huomini, nondimeno mi guardo da offendere nessuno; e seguita poi che vuole.

Per la vostra de' 22 di questo, intendo quello mi scrivete circa a Donato; e però io vi voglo replicare tutto quello ho operato in questo caso, e perchè domandavo la lettera de' cento ducati. Un anno fa Donato mi scripse che desiderava esser imborsato; e chosì per sua parte ricerchai il magnifico Iuliano, e lui ne scripse a Lorenzo, nè so che effecto si facessi la lettera. Se non che, Donato mi ricerchava del medesimo; in modo che io, stimando che la lettera di Iuliano non facessi fructo, ne chiesi una al Cardinale de' Medici. Promisse farla; ma intanto Lorenzo venne qui, di dicembre passato, e alhora feci che 'l Cardinale gnene parlò, e anchora io, e lui promisse liberamente farlo imborsare. Successe poi che Donato e anchor voi pensasti che era meglo far vedere, dicendo che in questo spenderesti ducati cento. Io, che non confidavo in una lettera semplice del Cardinale, ne conferi' con quello amico sapete, dicendoli: - Quando ci riesca, ne caveremo ducati cento. - Lui dixe: - Fa' che 'l Cardinale me ne dia commessione, e lascia poi fare a me. - In modo che la feci dare, non una volta ma dua; e alhora vi domandai per lettera, quando era il tempo che tochassi la Minore al nostro Gonfalone. Il tempo era lungo, come, sapete in modo che alhora non si potè fare niente. Cominciai dipoi a ricordare a' Signori, e trovai l'amico non volto chome prima. Dubitai non diffidassi de' cento, con pensare che, havendogli havere da me, farei a sicurtà. E però scripsi a Donato, che ordinassi ch'e danari fussino qui. Nè questo feci perchè, anchor che io sia povero, non habbi modo a spendere cento ducati per uno amico, ma solo per poterli dire: Ecco qui la lettera d'aviso al tal banco, che mi paghi e' danari a posta mia. E accadde appunto ch'una mattina che l'amico desinava mecho, venne una lettera di Donato chon una inclusa a Piero del Bene e compagnia. Domandòmi che lettera fussi, e io gnene dissi. E subito mandai uno a portare la lettera a' Beni, a domandare se me la pagassino quando volessi. Loro risposono che la pagherebbono ogni volta, ma che non volevono stare ubrigati dua mesi, ma bastava loro stare ubrigati sei dì. Questa risposta non li satisfece; e se bene io li dixi: - Io mi farò dare e' danari, e quando la chosa fia condocta, li harete - , non li piacque, chome quello che non li voleva havere haver da me. E io in facto non ero per tochare e' danari, insino l'effecto non fussi seguìto; perchè non voglo che sia mai huomo che pensi che per simil conto mi vogla valere nè far fare nessuno. A me bastava solo ch'e' Beni dicessino che mi pagherieno e' cento ducati sempre, intra sei mesi che io li volessi; e io harei potuto monstrare all'amico mio questo, e forse si saria satisfacto. Ma loro me li volevono dare contanti; il che non era il bixogno. Nientedimeno il chaxo è qui. Di nuovo rapicherò questo filo; e se lui vorrà scrivere in nome del Cardinale, in buona hora; se non, harò a ogni modo una lettera del Cardinale a Lorenzo, e una ne scriverrò io, e vedremo che effecto farà. Non biasimerei però che Donato facessi chostì qualche opera col magnifico Iuliano, che crederrei fussi a proposito. E pensate che di quello potrò fare non ho a manchare; e sono tutto vostro e suo. Christo vi guardi.

Franciscus Victorius orator Rome.

6

A' dì 15 di dicembre 1514.

Compare caro. Dopo un lungo silentio, in dua giorni passati ho tre vostre, una che mi domandate stamettio azurro per un paio di chalze, el quale vi manderò domani, nè ricercherò per chi lo voglate, che mi satisfarò del contentarvi; l'altra, latina, me la doveva portare un Tafano, amico vostro; e donde sia proceduto, non m'è chapitato inanzi, ma me l'ha facta dare a un bottegaio, che la pose in mano a un mio famiglo. Duolmi non l'havere visto, e per aiutarlo per amor vostro, e per intendere il modo del vivere vostro, di che vi rimettete a lui. Faronne cerchare, e se lo ritroverrò, anchora che sia di pocha auctorità, gli monsterrò che la vostra lettera gli gioverà. L'altra che mi risponde a' quesiti vi feci, hebbi hieri. Anchora non l'ho monstra a Monsignor de' Medici, el quale mi commisse ve li facessi. Credo gli satisfarà, perchè satisfa anchora a me. Quando l'harò monstra, vi risponderò quello mi dirà.

Pluries cum Paulo fratre meo, qui te plurimum diligit, de te loquutus sum. Is, ut spero, intra mensem redibit, et ab illo scire poteris quantum tibi tribuam, et quantum de te cogitem. Sed, crede mihi, fatis agimur. Legi, superioribus diebus, librum Pontani De Fortuna, noviter impressum, quem ipse ad Consalvum magnum direxit: in quo aperte ostendit, nihil valere ingenium neque prudentiam neque fortitudinem neque alias virtutes, ubi fortuna desit. Rome, de hac re, quotidie experimentum videmus. Aliquos enim cognoscimus ignobiles, sine literis, sine ingenio, in summa esse auctoritate. Tamen acquiescendum est; et presertim tu hoc facere debes, qui malorum non es ignarus, et qui graviora passus es. Dabit Deus his quoque finem. Ego hic vivo et valeo, non penitus tamen. Strumma quod in collo, ut scis, habeo, in dies crescit, animique dubius sum an resecandum sit. Pontifici Maximo et reliquis nostris Medicibus sum, meo iudicio, satis gratus: tamen nihil ab illis peto. De salario mihi secundum leges concesso sumptus facio, et mense finito nihil ex illo mihi reliqui est. Ab amore emancippatus sum: in gratiam cum libris redii, et cum lusoriis cartis.

Ho richiesto il magnifico Lorenzo della faccenda di Donato, che non pensassi nè voi nè lui me l'havessi dimentichato. E lui mi ha promesso, alla tornata, farlo ritirare, et che insino a qui non s'è ritirato alchuno; et che tutti quelli che sono seduti o veduti havevon voto. Ma voi et Donato mi facesti entrare a promettere a quello amico, che pensa ogni modo, chome la chosa riesce, trarne; anchor che non ci duri faticha, perchè le lettere lui l'ha scripte, ma io l'ho domandate; et col magnifico Lorenzo ho facta l'opera io et tanto calda quanto ho possuto. Nondimeno lui sa che io ho quella lettera di Piero del Bene, de' cento ducati, perchè gnene mostrai, per farlo andare; e sa ch'ella non dura se non sei mesi, che sono presso alla fine. Et non vorrei che lui, pensando non avere a esser di meglo, s'ingegnassi guastare; che sapete quanto è facile. Però, quando a Donato paressi farla rifare, me ne rimetto in lui; faccendoli sempre intendere che un quatrino non se ne tocherà insino che l'effecto non è seguìto. E anche poi c'ingegneremo rispiarmare, se fia possibile. Ma a non volere che impedisca, bixogna poter monstrare la lettera; che non è anchora dua giorni me lo ricordò. Vostro danno che anchora non potessi tirar tucto a vostro tempo; pure potevi qualchosa, e vi lasciasti uscire e' tordi di mano. Nè altro v'o ha dire, se non che mi rachomando a voi e alli altri Machiavelli. Cristo vi guardi.

Franciscus Victorius orator Rome.

Spectabili viro Nicolò Machiavelli, in Firenze.

7

A' dì 30 di dicembre 1514.

Ecce iterum mihi bella movet violenta cupido,

Compater, ecce iterum torqueor igne novo.

Veramente che Ovidio dixe bene che l'amore procedeva da otio. Io che non ho faccenda, vorrei fare chome Mino da Siena, e sto tanto ochupato in questo, che non vi riscrivo chome sarebbe il debito mio. L'una et l'altra lettera vostra circa e' quesiti vi feci, hanno visto il Papa e il Cardinale di Bibbiena e Medici, e tutti si sono maraviglati dello ingegno e lodato il iudicio. E anchora che non se ne chavi altro che parole, e per la mala sorte et perchè io non sono huomo che sappi aiutare gli amici, nondimeno, essere in buona oppenione delli huomini grandi qualche volta vi potrebbe giovare. Io volevo contradire a qualche ragione delle vostre, per passar tempo et darvi materia di scrivere; ma ochupato, chome dicho di sopra, ho posto da chanto lo scripto che havevo chominciato; e forse lo finirò un'altra volta, e manderovelo.

Io non so se havesti il panno per le chalze, che lo mandai pel prochaccio, e ordinai lo lasciassi a chasa Simon chavallaro, e poi a Filippo del Benino che ve lo facessi intendere, nè da lui ne ho risposta, in modo dubito non l'habbiate havuto. Sì che rinvenitelo, che non vorrei per niente, in una choxa m'havete chiesto da cento anni in qua, mancharvi.

Hebbi la vostra sopra il caso di Donato e la sua a' Beni, chon l'ordine di Piero. Diteli che Lorenzo m'ha promesso, chome torna, ritirarlo, e poi farlo vedere. Se lo farà, la experienza lo monstrerrà. A me ha promesso chosì, e avanti si parta, gliene ricorderò: e perchè voi mi chonoscete, lo potete far certo, che se non me l'havessi promesso, non lo direi: perchè mio chostume non è empiere li amici di vane speranze. A danari chon l'amico fareno il meglo potreno; che, ancora non s'habbi adoperare, sendo privato di speranza potrebbe cerchare d'impedire. E però lo terrò chon qualche apicho, che credo sia chosì a proposito. Nè per questa ho da dire altro. Christo vi guardi.

Franciscus Victorius orator Rome.

[Spectabili- vi]ro Nicholò Machiavelli, in Firenze.

DOCUMENTO XXII.

(Pag. 289 e 471)

Si epiloga la disputa sollevata intorno all'ipotesi che il Machiavelli conoscesse il greco, rispondendo alle ultime osservazioni fatte per sostenere questa ipotesi.

Da qualche tempo il professor C. Triantafillis ha sollevato una nuova questione letteraria, che ha richiamato l'attenzione del pubblico. Egli vorrebbe provare, contro l'opinione finora prevalente fra i dotti, che il Machiavelli conobbe il greco, e lesse gli scrittori della Grecia nella loro lingua originale. Se ciò gli riuscisse, sarebbe certamente utile, come è sempre utile ogni verità accertata, e cadrebbero molte considerazioni fatte da autorevoli scrittori sulle conseguenze che portò nelle opere del Machiavelli la sua ignoranza del greco. Oltre di ciò, a risolvere il problema che si era proposto, il professor Triantafillis, che è nato in Grecia, doveva necessariamente ricercare quali autori greci il Machiavelli aveva, nella lingua originale o nelle traduzioni, letti, studiati, imitati o anche copiati. Nessuno potrà negare che queste indagini sono utili, e che il professor Triantafillis meriti perciò di esser molto lodato. Ma ha egli risoluto il problema che s'era proposto? Che cosa ha trovato di nuovo? Ecco quello che ci proponiamo ora di esaminare, e lo faremo con tutta la franchezza e con tutta la deferenza dovute ad un uomo che si sforza di trovare la verità.

Due sono i lavori che iniziarono la discussione, e vennero alla luce in Venezia l'anno 1875. Avevano per titolo l'uno: Niccolò Machiavelli e gli scrittori greci; l'altro: Sulla vita di Castruccio Castracani, scritta da Niccolò Machiavelli. Ricerche. Nel primo di essi il professor Triantafillis dimostrava tre cose:

1° Che il dialogo Dell'ira e dei modi di curarla, attribuita al Machiavelli, era una traduzione dell'opuscolo di Plutarco, Del non adirarsi;

2° Che la brevissima lettera dedicatoria del Principe ha molta somiglianza coi pochi versi, che son come il proemio del Discorso del principato, da Isocrate indirizzato a Nicocle;

3° Che un brano abbastanza lungo e molto importante, perchè discorre delle varie forme di governo, nel secondo capitolo dei Discorsi sulla prima Deca, è quasi tradotto da un Frammento del sesto libro di Polibio.

Lasciando per ora da parte la seconda di queste affermazioni, perchè il professor Triantafillis tornò più tardi, come vedremo, sulle imitazioni da Isocrate, restano la prima e la terza, che meritano di essere ben ponderate. E ciò perchè l'autore vi aggiunge ancora questo ragionamento, che parrebbe molto chiaro e stringente: Secondo il Lessico bibliografico dell'Hoffmann, l'opuscolo di Plutarco fu tradotto la prima volta nel 1526, i Frammenti del sesto libro di Polibio, nel 1557. Ora il Machiavelli che morì nel 1527, aveva scritto assai prima i suoi lavori; dunque dovette leggere Plutarco e Polibio nell'originale, e così resta finalmente provato che egli conobbe il greco.

Se non che gli fu osservato dal prof. E. Piccolomini, che il ragionamento non era poi così chiaro e stringente come pareva; anzi non reggeva addirittura. Il Lessico dell'Hoffmann cita solo le traduzioni stampate, e l'anno in cui esse vennero alla luce. Or le traduzioni di autori greci, fatte in Italia nel secolo XV e nei primi del XVI, che restano ancora inedite nelle nostre biblioteche, sono infinite, ed il Machiavelli poteva, come fecero tanti altri, leggerle e valersene, senza perciò conoscere il greco. Venendo poi al caso speciale, è assai contrastato se il dialogo Dell'ira sia veramente del Machiavelli, anzi i più lo negano. L'opuscolo di Plutarco, Del non adirarsi, era inoltre già assai prima del Machiavelli stato tradotto. Una versione inedita e latina, corretta e raffazzonata da Coluccio Salutati, a cui venne da alcuni senz'altro attribuita, trovasi nella Laurenziana, e di essa, com'è naturale, l'Hoffmann non parlò, nè doveva parlare.

Quanto al brano dei Discorsi, è certo del Machiavelli, ed è imitato, quasi tradotto, da Polibio. Esso è molto importante, ed il fatto quindi abbastanza notevole. Ci duole però di dover qui dire al prof. Triantafillis, che la cosa era stata, assai prima che da lui, osservata già da altri. Nella Bibliotheca Graeca del Fabricio (Amburgo 1718-28), vol. II, p. 757, nota b, trovansi infatti queste parole: Hanc Polybii elegantissimam dissertationem expressisse videri potest Machiavellus, lib. I, diss. in Decadem primam Livii, cap. 2. Il prof. Piccolomini notò inoltre che i Frammenti del sesto libro di Polibio erano di certo stati tradotti nella prima metà del secolo XVI: quello sulla milizia romana da Giovanni Lascaris; l'altro sulle forme dei governi (lo stesso che il Machiavelli aveva imitato) da Francesco Zefi, la cui traduzione latina trovasi nella Laurenziana. Nè si può negare la possibilità che altre traduzioni inedite e più antiche si trovino nelle nostre biblioteche, o che, perdute oggi, esistessero al tempo del Machiavelli.

Il secondo opuscolo del prof. Triantafillis trattava della Vita di Castruccio Castracani, scritta dal Machiavelli. Si sapeva da tutti che questo non era un lavoro storico; molti lo avevano chiamato un romanzo, un ghiribizzo, un capriccio. Il Menagio, ricordato dal Fabricio (vol. III, pag. 352, § 64), affermò che i detti memorabili ivi ricordati eran presi dagli apoftegmi di Plutarco. Ma il prof. Triantafillis dimostrò, e per quanto sembra, fu il primo, che il Machiavelli aveva invece imitato la vita di Agatocle, narrata nei libri XIX e XX di Diodoro Siculo, pigliando non da Plutarco, ma dalla vita di Aristippo, scritta da Diogene Laerzio, i detti memorabili, che pose in bocca del Castracani. A questo però aggiungeva: i libri XIX e XX di Diodoro sono stati, secondo lo Schoell (Storia della Letteratura greca) tradotti la prima volta nel 1578; dunque il Machiavelli non potè leggerli che nell'originale greco, come anche dal greco di Diogene Laerzio dovè togliere i detti memorabili. E così si aveva, secondo lui, una nuova conferma, che il Segretario fiorentino conobbe la lingua di Omero.

Ma quanto alle Vite di Diogene Laerzio, esse furono tradotte in latino da Ambrogio Traversari, la cui versione era già stampata alla fine del secolo XV. È difficile supporre che il Machiavelli non l'avesse letta. Quanto ai libri XIX e XX di Diodoro, fu dal prof. Piccolomini osservato, che se il Bracciolini aveva tradotto solo i primi cinque libri; se un'altra versione inedita e poco nota, che è dedicata a Pio II, e trovasi nella Laurenziana (Cod. 10 del Plut. 67), non va oltre il libro XIV, nulla impediva il supporre che anche degli altri libri vi potessero essere traduzioni inedite, anteriori al Machiavelli. Infatti egli trovò più tardi, che anche dei libri XVI e XVII v'era una traduzione, già stampata a Venezia nel 1517 (Diodori Siculi scriptoris graeci libri duo [XVI e XVII] utrumque latinitati donavit Angelus Cospus Bononiensis. Venetiis, 1517). Da ciò si vedeva sempre più, come non fosse punto vero che gli altri libri non potessero essere stati tradotti: e che, in ogni modo, il volere sopra un fatto così ipotetico fondare la certezza che il Machiavelli avesse conosciuto il greco, quando si avevano affermazioni contrarie di autorevoli scrittori antichi e moderni, non era possibile. La questione, adunque, non aveva in verità dato alcun passo, e dopo gli opuscoli del prof. Triantafillis restava nelle condizioni di prima.

Tale però, come si può bene immaginare, non era la sua opinione. Infatti nelle Veglie Veneziane del 1877 egli pubblicava una lettera a me diretta, e più volte ristampata, con la quale cercava di ribattere tutte le obbiezioni che gli erano state mosse da me e dal prof. Piccolomini. Si doleva sopra tutto, che si tenesse in poco conto il Lessico bibliografico dell'Hoffmann, del quale faceva molti elogi. Ma nessuno aveva mai negato il merito di quel lavoro. La sua autorità non poteva però, nel caso nostro, essere tirata in campo, perchè fuori di luogo nella questione di cui si trattava. L'Hoffmann fece e professò di far solo una bibliografia delle traduzioni stampate; il Piccolomini parlava invece delle inedite, le quali a torto il prof. Triantafillis aveva escluse dalle sue ricerche.

Quanto alla traduzione dell'opuscolo di Plutarco, Del non adirarsi, la quale da alcuni si affermava solo corretta dal Salutati, e da altri era invece a lui stesso attribuita, il professor Triantafillis diceva: «Ma può Ella accertare che sia proprio di lui, e che non sia una traduzione più recente?» Si può accertare invece che è più antica, e lo sappiamo dallo stesso Salutati, che in una epistola premessa alla traduzione, la dice di un tal Symon archiepiscopus thebanus. Il fatto era stato ricordato dal prof. Piccolomini, che nei suoi scritti è sempre preciso ed esatto oltre lo scrupolo. Egli osservò poi che il Fabricio, nella sua Bibliotheca latina med. et inf. aet. (vol. VI, pag. 187), notava che il traduttore era un tal Simon Constantinopolitanus, Iacumaeus vel Sacumaeus ab Allatio dictus..., episcopus a Clemente VI renunciatus, anno 1348. E lo stesso Fabricio aggiungeva che la versione, essendo in più luoghi oscura ed ambigua, per la inesperienza del traduttore, che era greco e non conosceva bene il latino, cultiori stylo illam refinxit Coluccius Salutatus.

Quanto al Frammento di Polibio sulle forme di governo, il prof. Triantafillis sosteneva, che nessuna traduzione poteva essere antecedente al 1587, anno in cui il Frammento stesso fu pubblicato a Basilea. E continuava: «La principale poi delle ragioni per cui non potevano esistere traduzioni di alcuni brani e libri di Polibio, di Diodoro e di altri autori, era la mancanza degli originali: dico la mancanza e non la rarità.» Veramente questo linguaggio pareva allora assai sibillino, perchè non si capiva bene come mai il Machiavelli avesse potuto imitare e tradurre da originali che mancavano. Vedremo più tardi che cosa il prof. Triantafillis volesse con ciò significare. Intanto egli affermava, che in ogni caso la traduzione dello Zefi doveva essere posteriore al 1537, perchè il Negri dice che lo Zefi fioriva nel 1540, e si sa che fu censore dell'Accademia fiorentina dal 1542 al 1544. Veramente tutti sanno che l'autorità del Negri è molto disputabile. Certo è invece che alcuni lodati versi latini dello Zefi si trovano nel Lauretum, stampato dai Giunti verso il 1516, secondo il Bandini. E questi, che è ben più autorevole del Negri, discorrendo del manoscritto della traduzione di Polibio, lo dice: «saec. XVI ineuntis,» aggiungendo che lo Zefi morì nel 1546, valde senex. Nel 1540 non poteva dunque fiorire.

Circa alla traduzione di Diogene Laerzio, fatta dal Traversari e stampata nel secolo XV, il prof. Triantafillis non rispondeva nulla. Si fermava invece a disputare su Diodoro Siculo. Il prof. Piccolomini aveva scritto: «dei libri XIX e XX una versione latina che potesse essere adoperata dal Machiavelli, non mi è nota.» Ed il prof. Triantafillis diceva: «Confessa che le traduzioni non esistevano al tempo di Machiavelli, ma ciò non ostante egli preferisce di credere che il Machiavelli si valesse delle traduzioni e non degli originali!» Veramente qui ci deve scusare; ma il punto ammirativo sta proprio male. Egli fa dire al Piccolomini quel che non ha mai detto. - Dei libri XIX e XX non ho finora trovato una traduzione anteriore al Machiavelli. Non è impossibile che vi sia, o vi sia stata, ma non mi è nota. - Ciò è ben diverso dal dire: non esiste e più ancora dal dire: non esisteva al tempo del Machiavelli. Strano sarebbe poi il pretendere, che dal non essergli nota un'antica traduzione di quei due libri, egli dovesse cavarne la conclusione che il Machiavelli conosceva il greco. Se dunque i due opuscoli del prof. Triantafillis lasciavano la questione nello stato di prima, la sua risposta alle obbiezioni che gli erano state fatte, mi pare che lasciassero a queste tutta la loro forza.

Egli aveva però accennato ancora ad un'altra questione più grave assai; aveva cioè promesso di dimostrare che il Machiavelli non solo aveva imitato Isocrate nella brevissima lettera dedicatoria del Principe, come abbiamo accennato più sopra; ma aveva dal medesimo autore preso nientemeno che il concetto stesso del libro del Principe. Per quanto la cosa potesse parere poco credibile e assai strana, pure destò subito molta curiosità. Nei secoli XV e XVI era stato tanto generale l'uso di copiare brani, pagine, capitoli interi da autori antichi o contemporanei, senza citarli mai, che qualche cosa di questo genere poteva forse essere avvenuta anche nel Principe. E venne finalmente alla luce l'aspettato lavoro del prof. Triantafillis: Nuovi studii su Niccolò Machiavelli. Il Principe. Venezia, 1878. In esso però la questione era subito ridotta in limiti molto modesti. Da Isocrate non erano cavati i concetti fondamentali del Principe; ma le ultime cinque pagine, la esortazione cioè a liberare l'Italia dai barbari. Queste cinque pagine erano, secondo il prof. Triantafillis, imitate dalle ultime otto del Discorso d'Isocrate a Filippo re di Macedonia. - Quando tutto ciò fosse vero, sarebbe una cosa assai strana, perchè quella conclusione del Principe ha talmente l'impronta del suo tempo, si riferisce talmente a fatti contemporanei, che se fosse davvero copiata dai Greci, non ci sarebbe più da distinguere in nessun modo le epoche e gli uomini fra loro più lontani.

A me sembra, come del resto fu subito notato dal prof. Molmenti nella Nuova Antologia, che chi legge quelle due conclusioni non può in modo alcuno creder l'una copiata e neppure imitata dall'altra. Nell'una Isocrate persuade Filippo, che aveva già compiuto grandi imprese, a mettere la concordia tra i Greci, per assalire poi e domare i paesi barbari dell'Asia. Nell'altra il Machiavelli vuol persuadere Lorenzo dei Medici a liberare colle armi l'Italia dai barbari. Certo nella situazione generale v'è qualche analogia; ma, salvo ciò, chi legge quei due brani molto diversi per idee, per stile ed anche per lunghezza, poco altro può trovarvi di comune. Isocrate parla minutamente degli Argivi, dei Tebani, dei Lacedemoni, dei Macedoni, e consiglia la conquista dei paesi barbari; il Machiavelli parla delle condizioni generali d'Italia, e consiglia la liberazione della patria. Più volte si son fatti paragoni fra la storia dell'Italia e quella della Grecia; e se vi sono alcune vaghe somiglianze fra i due discorsi, ciò può dipendere dalla natura stessa del soggetto. Io non credo che si possa rigorosamente provare, che in quel luogo del Machiavelli siano vere e proprie imitazioni da Isocrate, quantunque non si possa escludere la possibilità di qualche reminiscenza, la quale io sono anzi disposto ad ammettere. Ma a confutare quello che dice il prof. Triantafillis, basta rimandare i lettori al suo libro stesso, dove i due brani sono con molta sincerità messi l'uno dopo l'altro. Chi non si persuadesse da sè, leggendoli, non potrebbe esser persuaso neppure da un lungo ragionamento. E chi poi volesse veder la grandissima distanza che corre fra le idee d'Isocrate e quelle esposte nel Principe, non dovrebbe fare altro che leggere qualche altra pagina del Discorso del Principato d'Isocrate a Nicocle, così ben tradotto dal Leopardi.

Ma il prof. Triantafillis prosegue dicendo che, dopo aver provato che il Machiavelli, «nella parte rettorica del suo lavoro, seguì le tracce d'Isocrate,» proverà che «nella parte politica si valse degli scritti di Aristotele, di Polibio, di Diodoro Siculo e di Plutarco» (pag. 50). Ora, che il Machiavelli si sia valso di Aristotele e di altri autori greci e latini è evidente, è notissimo, egli stesso lo dice più volte. Ma i brani che il prof. Triantafillis cita a conferma di ciò, sono così pochi e di così poca importanza, che se altro non vi fosse, si potrebbe dire provata piuttosto l'assoluta indipendenza del libro del Principe dall'antichità. Il Triantafillis si affatica, per esempio, a dimostrare che il Machiavelli quando, nel secondo capitolo del Principe, dice che non parlerà in esso delle repubbliche, avendone già parlato altrove, non può alludere ai Discorsi, perchè questi furono scritti dopo, e perchè fra essi ed il Principe v'è contradizione, avendo in quelli imitato Polibio, in questo Aristotele, ecc., ecc. A tutto ciò si potrebbe rispondere, e si potrebbe anche provare, che queste presunte contradizioni sono immaginarie. Ma, ammesso pure tutto quello che egli vuole, che cosa finalmente ne risulta? Ne risulta, secondo lui, che quando il Machiavelli diceva: «Io lascerò indietro il ragionare delle repubbliche, perchè altra volta ne ragionai a lungo,» copiava un tale concetto da Aristotele. Questa, infatti, è la sola cosa che hanno in comune i due periodi dell'uno e quelli dell'altro, che il prof. Triantafillis ristampa a pag. 57 del suo lavoro. Ma val proprio la pena d'occuparsi di ciò? Noi lasciamo da parte anche le altre poche citazioni da Aristotele, perchè troppo poco importanti, e perchè nessuno ha mai messo in dubbio che il Machiavelli avesse letto, studiato e qualche volta anche imitato Aristotele.

Qui sorge però un'altra questione. Il prof. Triantafillis aveva, come vedemmo, detto che di certi autori greci, studiati e imitati dal Machiavelli, non vi potevano allora essere traduzioni, perchè mancavano gli originali. Ora finalmente si capisce che cosa volesse con ciò significare. Egli crede d'avere scoperto, che il Machiavelli aveva conosciuto quella Raccolta del Porfirogenito, in cui erano molti brani di autori greci a noi sconosciuti, e della quale una piccola parte solamente ci è pervenuta. Non s'intende bene, se egli supponga che di questa Raccolta il Machiavelli conoscesse solo il libro Delle Virtù e dei Vizi, pervenuto sino a noi con qualche altro, come par che dica a pag. 52, o pure tutta quanta la Raccolta, come parrebbe a pag. 53. In questo caso, osserva giustamente il Piccolomini, la notizia sarebbe grandiosa davvero. Potremmo sperare di ritrovare molti e molti brani d'autori greci a noi affatto sconosciuti. Sfortunatamente però questi sogni si dileguano appena letto il libro del prof. Triantafillis, perchè in esso si trova invece quanto basta a mandare in fumo tutte le speranze che aveva prima fatte concepire.

Quali sono in vero le ragioni, le prove su cui si fonda l'asserzione, che il Machiavelli avesse conosciuto i famosi Excerpta del Porfirogenito?

1° Il Frammento del sesto libro di Polibio sui governi non era stato tradotto, perchè mancava; ma il Machiavelli lo conobbe, adunque lo lesse in greco, e lo trovò nella Raccolta del Porfirogenito (pag. 53), di cui conservava per suo uso esclusivo una copia. Così è provato ad un tempo che conobbe il greco e la Raccolta. - Ma noi abbiam visto, invece, che quel Frammento di Polibio potè esser tradotto dallo Zefi assai prima di quel che suppone il prof. Triantafillis. Ed in ogni caso, osservava il prof. Piccolomini, esso non venne a noi dalla Raccolta del Porfirogenito, ordinata per materie; ma da quella che procede, libro per libro, dal VI al XVII; fu stampata nell'edizione Hervagiana (Excerpta antiqua), e trovasi nel così detto Codice Urbinate ed in altri ancora.

2° Quel Frammento di Polibio ha nel Machiavelli un titolo speciale, che non si trova nell'originale, nè in alcuna traduzione antica: Di quante spezie sono le repubbliche e di quale fu la repubblica romana. Dunque il Machiavelli lo ha tradotto dalla Raccolta del Porfirogenito (pag. 53). - Prima di tutto il Machiavelli innestò un brano del Frammento di Polibio in un suo capitolo assai più lungo, ed a quel capitolo, come a tutti gli altri, pose un titolo che non era costretto a copiare da nessuno. La Raccolta del Porfirogenito poi, notò il Piccolomini, era divisa per materie, e non aveva un titolo speciale a ciascun estratto, ma un titolo generale a tutti gli estratti raccolti da un libro. Delle ambascerie è il titolo d'un libro, Delle Virtù e dei Vizi è il titolo d'un altro. I titoli in alcune edizioni premessi a Frammenti di Polibio son cavati da codici contenenti l'altra Raccolta, e spesso anche vennero raffazzonati da scrittori più moderni. Lo Schweighäuser, per esempio, si valse molto degli Excerpta antiqua, che procedono, libro per libro, senza seguire un ordine per materie, come la Raccolta del Porfirogenito.

3° Il Machiavelli, prosegue il prof. Triantafillis, citando fatti di storia greca e romana cade in molti errori e contradizioni. - Ciò, quando sia vero, potrebbe provare, che egli non conobbe a fondo la storia e gli scrittori antichi; ma il prof. Triantafillis ha bisogno invece di provare, che il Machiavelli era un erudito, che traduceva, imitava dalla Raccolta del Porfirogenito brani staccati di autori antichi, agli altri eruditi ancora ignoti. Questo spiegherebbe, secondo lui, com'è che nelle sue opere si trovino massime così generose accanto a massime così inique. Copiava da un'antologia, senza coordinare i brani discordanti. E i suoi errori storici nascevano appunto da ciò, che di alcuni autori antichi, ignoti agli altri, egli solo poteva in parte almeno valersi, perchè egli solo ne possedeva dei brani staccati, gli estratti cioè della Raccolta del Porfirogenito.

Nei cap. IX e XIX del Principe, il Machiavelli loda Nabide per la difesa di Sparta, e perchè seppe tenersi amico il popolo. E dopo d'aver ciò notato, il prof. Triantafillis riporta un lungo brano del libro XIII di Polibio, osservando che se il Machiavelli lo avesse conosciuto, avrebbe saputo che tristo uomo era Nabide, come si vede anche da Plutarco e da Diodoro Siculo. E ne conclude che il Machiavelli dovè conoscere qualche estratto della solita Raccolta del Porfirogenito, nel quale si parlava solamente della difesa fatta da Nabide, e non del suo carattere personale. - Se non che appunto il brano del libro XIII di Polibio, citato dal prof. Triantafillis, trovasi nella Raccolta del Porfirogenito anche più intero che negli Excerpta antiqua. Se dunque il Machiavelli avesse di quella conosciuto almeno la parte che ne conosciamo noi, avrebbe certamente letto anche il brano del libro XIII. Il vero è che nei due capitoli del Principe, citati dal prof. Triantafillis, non si parla del carattere di Nabide, ma si loda la difesa che egli fece di Sparta. Tante altre volte il Machiavelli, per fatti simili, lodò il Valentino, di cui pur conosceva assai bene il carattere perverso. In ogni modo non potè, quanto a Nabide, essere ingannato dalla Raccolta del Porfirogenito, la quale conteneva appunto quel brano di Polibio, che avrebbe dovuto trarlo d'inganno, secondo l'opinione del prof. Triantafillis. Il Burd (pag. 240-241) ha poi recentemente dimostrato, che qui il Machiavelli cavò invece le sue notizie da Livio (XXXIV, 22-40).

Nel cap. XII del Principe si legge, che Filippo il Macedone fu fatto dai Tebani, dopo la morte di Epaminonda, capitano delle loro genti, e tolse ad essi, dopo la vittoria, la libertà. Ciò è falso, secondo il prof. Triantafillis. Il Machiavelli fu tratto in errore da un altro fatto simile, avvenuto 150 anni dopo, che trovasi appunto narrato nel libro Delle Virtù e dei Vizi della Raccolta citata. - Ma si può invece notare, che Epaminonda morì nel 362, e Diodoro Siculo (XVI, 59) narra che nel 346 i Beozi chiesero aiuto a Filippo. Giustino poi (VIII, 2), riferendo forse al 352 fatti seguìti nel 346, narra la cosa quasi con le parole stesse del Machiavelli: Thebani, Thessalique.... Philippum Macedoniae regem ducem eligunt, et externae dominationi quam in suis timuerunt sponte succedunt. E altrove (VIII, 3), riferendosi ai medesimi fatti, dice: civitates quarum paulo ante dux fuerat.... hostiliter occupatas diripuit.

4° Il cap. XIX del Principe discorre di dieci imperatori, da Marco Aurelio a Massimino, e il prof. Triantafillis, dimenticando uno di questi imperatori, Marco Aurelio, divide in due un altro, Antonino Caracalla, per una malaugurata virgola che si trova più d'una volta fra i due nomi in molte edizioni italiane, e forse anche perchè, dopo la soppressione del primo imperatore, non gli tornava più il numero di dieci. In ogni modo egli aggiunge, che le notizie date dal Machiavelli su questi dieci imperatori si trovano tali e quali in alcuni brani di Dione Cassio e di Giovanni Antiocheno, riportati fra gli estratti del libro Delle Virtù e dei Vizi. Ed è vero, ma si trovano, come notò il Piccolomini, anche più in Erodiano che fu tradotto dal Poliziano. Ed il trovare nel Machiavelli espressioni affatto simili a quelle di Gio. Antiocheno, non deve trarre in inganno, se si osserva che questo autore copiava addirittura da Erodiano come in genere copiava le altre sue fonti. Intorno ai dieci imperatori sono però in Erodiano particolari dati dal Machiavelli, che mancano nell'Antiocheno.

5° Il cap. XXV del Principe comincia con alcune parole, che il prof. Triantafillis crede copiate da un luogo del XV libro di Polibio. Ma veramente quelle poche righe non si posson dire copiate da Polibio. Non v'è di comune altro che un accenno al potere che ha la fortuna nelle cose umane, idea mille volte ripetuta da tanti, specialmente nei secoli XV e XVI. Il brano di Polibio poi, è bene ricordarlo, fu pubblicato nel 1549 e non appartiene alla Raccolta del Porfirogenito.

6° Tornando indietro, notiamo, che nel cap. VIII del Principe il Machiavelli parla due volte di Agatocle; e secondo il Triantafillis i due brani si contradicono, perchè il primo è preso da Diodoro Siculo, il secondo invece da un Frammento di Polibio. Ma i due brani del Machiavelli non si contradicono, ed il secondo non par copiato dal brano di Polibio, che il Triantafillis ristampa, e che trovasi nella Raccolta del Porfirogenito. Infatti, nel primo il Machiavelli dice che Agatocle fu scellerato, e narra come con le sue scelleratezze seppe divenire sicuro principe di Siracusa, e difenderla dai Cartaginesi. Nel secondo dice che questi fortunati successi dipendono generalmente dalle crudeltà bene usate, cioè quando son necessarie, e smesse subito dopo. Polibio invece adduce, fra molti altri, l'esempio di Agatocle a provare come l'animo e i costumi dei principi mutino, uniformandosi ai tempi, e aggiunge che Agatocle, tenuto prima crudelissimo, fu poi «reputato clementissimo e dolcissimo.» Ora il Machiavelli nè lo dice mutato, nè tenuto dolce e clemente. Abbiam già detto che egli trasse invece da Giustino (libro XXII) le sue notizie su Agatocle.

Il prof. Triantafillis ha ragione, quando osserva (pag. 71) che nel cap. XIV del Principe sono molte reminiscenze del terzo capitolo della vita di Filopemene, scritta da Plutarco, senza che per ciò si debba consentirgli che il capitolo del Machiavelli «sia quasi tutto tolto» da Plutarco, il quale del resto era allora tradotto.

Dopo quanto abbiam detto ci sembra di poter concludere, che il prof. Triantafillis si è, colle sue ricerche, reso benemerito dei buoni studi, cercando le fonti antiche del Machiavelli, tanto più che ne ha anche scoperto qualcuna che finora non era stata osservata da altri (specialmente nella Vita di C. Castracani). Molte volte però ha voluto vedere imitazione dove veramente non ce n'era.

Non ha provato che il Machiavelli conoscesse il greco;

Nè che avesse cavato da Isocrate o da altri i concetti fondamentali del Principe;

Nè che avesse conosciuto gli Excerpta del Porfirogenito.

In tutto ciò si è, secondo noi, grandemente illuso.

Ci pare, invece, ad esuberanza provato, ed è generalmente ammesso dai dotti, che il Machiavelli non conobbe il greco. Sarebbe stato in verità un fatto assolutamente inesplicabile, se, conoscendolo, non lo avesse mai detto nè fatto sapere a nessuno, in un secolo in cui si dava tanta importanza allo studio di quella lingua, che il conoscerla recava non solamente grande onore, ma spesso anche materiale utilità. Il Machiavelli non ne fece mai ne' suoi scritti cenno diretto o indiretto. Una volta sola, che noi sappiamo, si trovò costretto a fare uso di alcune lettere greche, e fu nell'Arte della Guerra, nella quale se ne valse come di segni convenzionali, non bastandogli le lettere dell'alfabeto latino. Ebbene, in quella parte dell'autografo, che ancora ci resta dell'Arte della Guerra, trovasi un foglio, evidentemente del tempo, ma d'altra mano, il quale contiene appunto un alfabeto greco con alcune spiegazioni intorno ai dittonghi, alle vocali, alle consonanti, ecc. Questo può far supporre, che, anche per servirsi del solo alfabeto greco, avesse avuto bisogno di ricorrere ad un amico. Ma su di ciò ritorneremo, quando dovremo ragionare dell'Arte della Guerra.

DOCUMENTO XXIII.

(Pag. 355)

Alcune osservazioni di Bongianni Guicciardini sul capitolo 25, lib. I, dei Discorsi del Machiavelli.

I

Capitolo sopra et in contrario de' Discorsi del Machiavello.

Nè lo exemplo di Filippo nè le parole di David, che egli allega, costringono a credere ragionevolmente che, nello stabilire e ordinare uno principato, che la più certa via e il migliore modo per la sicurtà de' principi siano, nello ordinarlo, quegli ordini pieni di sangue, di ruine e di spavento, che egli presuppone sieno e migliori e più sicuri per la sicurtà loro; nè si può, con e discorsi generali, includere tucti quelli particulari, sanza la consideratione de' quali, nelle actione humane, si piglierebbe di molte fallacie. Chè ancora che gli huomini sieno da uno medesimo principio discesi, e de' medesimi fondamenti composta la sua complexione, non di meno la diversità de' tempi, de' luoghi, delli habiti e costumi, li diversi accidenti, le necessità e le occasioni gli fa spesso variare nello animo, e operare diversamente, talmente che quello principe che gli vuole regolare, e con sicurtà sua e con bene loro, è necessario che, quando colla rigidità e iustitia preceda, quando con più pietà e misericordia, e quando allarghi el favore agli amici, e quando lo ristringa. Non potè però Filippo, con tanto travaglo e ruina de' popoli, tramutandoli di ciptà in ciptà e da luogo a luogo, e, come e' dice, come le mandrie, evitare che non vi nascessi uno agnello, e surgessi uno agnello o montone, che hebbe ardire di ammazarlo nel mezo de' suoi satelliti e partigiani, che lui sì impiamente haveva elevati e arrichiti della roba e delli honori d'altri. Nè potè Attalo difenderlo, anzi fu causa per il favore che e' gli haveva dato, ingiuriando disonestamente quello adulescente, che lo offeso rivoltassi la vendetta della ingiuria nello auctore di tanti mali. E David, con tutto che fussi prudentissimo, dottissimo (ancora che pigli a questo fine la sententia di David nello ordinare una provincia o regno), sopportò pure la rebellione di Absalon, e con tanto disordine, che se egli havessi creduto al consiglio di Architofel, harebbe perso el regno, secondo la Scriptura: dove se e' si potessi conoscere tucti e particulari di quello tempo e accidenti, si sarebbe veduti di molti di quegli esaurienti, che David haveva ripieni di beni, essersi ribellati e accostatisi a Absalon contro a di lui. Talmente che si può giudicare che non basta e primi fondamenti nello stabilire una città, una provincia, uno regno: ma bisogna che sia regolato e recto continuamente dalla prudentia e virtù di chi li governa e regge. E se e buoni ordini e legge non bastono sanza essere veghiati e regolati, tanto maggiormente gli scelerati e pieni di sangue, come vuole el Machiavello: ne' quali, per tante offese e ingiustitie, v'è più cagione ne li offesi di alteratione. E perchè sempre è degli huomini ambitiosi avari e inquieti, surge etiandio tra li partigiani, tra e seguaci e favoriti di uno principe, emulatione, invidia, sdegno e molte cupidità, chè non [è] possibile a uno principe tucti contentargli e sadisfargli: in tanto che di quegli pericoli che vogliono che si tema in quegli che non chiamono amici, hanno da temere in epsi. Chi porse e administrò el veleno a Alexandro se non quegli che erono tenuti più amici e familiari suoi? Chi congiurava contro a lui più che Philota e Parmenione, tanto inalzati da lui? Chi si conduxe per ammazarlo più che Hermolao suo pagio, per haverlo facto baetere?

Voglio adunque inferire, che uno principe savio non ha a potere credere di stabilire per sempre el suo imperio, credendo torsi via tucti quelli che egli ha giudicati inimici, per fargli resistentia, e per credere contentare tucti quelli che lo hanno seguitato; perchè el tempo varia, e gli huomini sono mobili, e da varii affecti, accidenti e occasioni sospinti, dalla speranza e dal timore, si mutono e variono. Però spesse volte quegli che sono tenuti sospecti diventono amici, o almanco di animo tale che desiderono vivere quieti e riposati, e quelli che sono tenuti amici diventono inimici. E perchè egli, dove e' può, dà per exemplo e casi e gli accidenti di Firenze, chi nel 12 fece più opera che e' ritornassino in Firenze che lo Arcivescovo de' Pazi, la casa del quale e 'l fratello e gl'altri suoi propinqui furono tanto bactuti da loro? Chi più che Antonio Francesco delli Albizi, el padre del quale fu el primo, nel 94, che corse in piaza armato, e abbassò le arme contro al Cardinale, che fu poi papa Leone? Chi erono tenuti nel principio più amici de' Medici che Baccio Valori, Antonio Francesco e Filippo Strozi? E nel 37, tornando contro a quegli, rimasero presi e morti.

II

Lo exemplo di Filippo è contro a sè medesimo, perchè credendo stabilirsi con modi sì impii e crudeli, el regno, tramutando e popoli, come e' dice, a uso di mandrie, non potè evitare che e' non vi surgessi uno puledro, che havessi ardire di ammazarlo nel mezo de' suoi satelliti e partigiani, che egli haveva con tanta ruina e damno degli altri arrichiti e honorati. Nè Attalo, uno de' primi suoi favoriti e capitani, potè difenderlo, anzi per havergli, come a amico, troppo compiaciuto, fu causa della sua morte: rivoltando lo offeso la vendetta della ingiuria contro a quello che ingiustamente la haveva disprezata in cambio di punirla. E sarebbe quello imperio finito insieme colla sua vita, benchè e' credessi haverlo con tanto sangue e ruina stabilito, se e' non havessi riscontro la virtù et el valore di Alexandro suo figliuolo, che lo tenne fermo, chè benchè e' fussi poi con tante vittorie e fortuna accresciuto in uno tracto (di che si può giudicare quegli ordini che egli lauda tanto), doppo la morte sua si divise in più parte e roppe. Nè le parole che egli allega di David, extorcendole al suo senso, non contradicono che non vedessi la rebellione di Absalon suo figliuolo, col quale (se e' si potessi sapere e particulari di quegli tempi, si conoscerebbe) si congiunse contro a di lui di molti di quegli esurienti, che egli haveva ripieno di beni, insino a Architufel, uno de' suoi primi consiglieri, in tanto gran.... lui lo abbandonò; al quale se Absalon havessi dato fede, Architufel gli harebbe tolto el regno. E Salamone, non solamente per gli ordini di David pacificamente lo mantenne, ma per la sua tanta prudentia, che ammiravono gli huomini, nè dovea lasciare nascere particulare alcuno di disordine, o nato, subito ricorreggerlo. Non si mantenne poi doppo la morte, ancora che vi fussino quegli ordini e di David e di Salamone, ma perchè non trovò quello regno successori della loro virtù.

Non fermò lo imperio di Ottaviano la scelerata proscriptione del Triumvirato, alla quale conspirorono, non tanto per credere essere necessaria a dare principio alla loro monarchia, quanto per odio di vendicarsi e satiare le loro passioni. Però cedè a Ottaviano Marcantonio la morte del suo zio, perchè egli gli cedessi Cicerone, e in sino per compiacere a Fulvia sua donna, ne proscrisse, e chi per havere le richeze, e chi per una sadisfatione e chi per una altra, non tucti per conto dello stabilire lo Stato; ma si valsono bene di quella occasione, e sobto quello pretesto. Non fermò però questo che intra loro non si rompessino, che gli exerciti non si dividessino, adherendo chi a l'uno, chi allo altro. Nè mancò chi seguitassi la factione pompeiana, e di nuovo tucto el mondo si riempiecte di arme. Ma la fortuna di Octavio e la sua virtù superorono tucti gli obstacoli e tucte le difficultà: et el mondo stracco da tanti travagli per qualche tempo si quietò, anzi quando Roma cominciò ad venire al sangue, andò sempre multiplicando e suoi disordini, tanto che doppo la rovina degl'altri, rovinò se medesima, et quando Roma doveva per la experientia havere magiori ordini, haveva più riputatione, più imperio, più arme, più exerciti, più denari, la fecie maggiori pazie e maggiori disordini, perchè le legge non potevono quietare nè fermare quegli sì ambitiosi, e che havevono le arme in mano. Ma quando gli huomini erono buoni, e sobto e Re, sobto i Consoli, sobto e Decemviri, sobto e Tribuni militari, sempre andorono migliorando e crescendo; ma quando e' cominciorno a diventare di altra natura, non poterono tenere fermi nè gli ordini che gli havevono imparati, nè...., nè le legge, nè la reputatione, nè gli exerciti, nè le richeze, nè lo imperio, che doppo la rovina degli altri e' non rovinassino loro.

DOCUMENTO XXIV.

(Pag. 437)

Annotazioni autografe di Cristina di Svezia ad una traduzione francese del Principe di Niccolò Machiavelli.

Les maximes qu'il debite, sont, pour la pluspart absolument nécessaires aux Princes, qui, au dire du Grand-Cosme de Médicis, ne peuvent pas toujours gouverner leurs Etats avec le chapelet en main (Préface).

Sen doute.

Il faut suposer, dit Wicquefort dans son Ambassadeur, qu'il dit presque par tout ce que les Princes font, et non ce qu'ils devroient faire. C'est donc condanner ce que les Princes font que de condanner ce que Machiavel dit, s'il est vrai, qu'il die ce qu'ils font, ou, pour parler plus juste, ce qu'il sont quelquefois contraints de faire (Ivi).

Vicquefort se trompe. Machiavel n'a dit ni ce qu'il font ny ce qu'ils devroi faire, mais il a dit ce qu'ils voudroit faire.

Plusieurs prince on envi d'estre contraints qui le sont moins qu'il ne pense

L'homme, dit-il dans le Chapitre 15 de son Prince, qui voudra faire profession d'être parfaitement bon, parmi tant d'autres, qui ne le sont pas,

Qu'importe.

ne manquera jamais de périr. C'est donc une nécessité, que le Prince, qui veut se maintenir, aprenne à pouvoir n'être pas bon, quand il ne le faut pas être. Et dans son Chapitre 18, après avoir dit, que le Prince ne doit pas tenir sa parole, lors qu'elle fait tort à son intérest il avoüe franchement, que ce précepte ne seroit pas bon à donner, si tous les hommes étoient bons mais qu'étant tous méchans et trompeurs, il est de la sûreté du Prince de le savoir être aussi. Sans quoi il perdroit son Etat, et par conséquent sa réputation, étant impossible, que le Prince, qui a perdu l'un, conserve l'autre (Ivi).

Estre bon quant il ne faut pas l'estre, est estre sot non pas bon.

Il ny a pas d'interest plus gran que cellui de tenir sa parole.

Cela suffit pour ne s'y fier pas, mais ne justifie pas ceux qui sont comme le reste mechans et trompeurs.

Il n'est pas besoin, lui dit-il, que tu aies toutes les qualités que j'ai dites, mais seulement que tu paroisses les avoir. Tu dois paroitre clément, fidéle, afable, intégre et religieux: en sorte qu'à te voir et à t'entendre, l'on croie que tu n'es pas bonté, que fidélité, qu'integrité, que douceur et religion. Mais céte derniére qualité est celle, qu'il t'importe davantage d'avoir extérieurement (Ivi).

Maxime très sotte et très fause.

Ceux qui croy tromper les gens se trompe fort.

Il ne dit nullement ce qu'on l'acuse de dire, qu'il ne faut point avoir de Religion; mais seulement, que si le Prince n'en a point, comme il peut ariver quelquefois, il doit bien se garder de le montrer, la Religion étant le plus fort lien qu'il y ait entre lui et ses sujets; et le manque de Religion le plus juste, ou du moins le plus spécieux prétexte qu'ils puissent avoir de lui refuser l'obéissance. Or il vaut incomparablement mieux qu'un Prince soit hipocrite, que d'être manifestement impie (Ivi).

De superstition.

Cela n'est pas si ayse.

Il auroit raison de ne s'en vanter pas.

Cela n'est pas mal dit.

Il n'y a pas des plus grans impies que les hypocrites.

Qu'un chacun voit ce que le Prince paroît être, mais que presque personne ne connoît ce qu'il est en éfet (Ivi). On ne paroist pas longtemps ce qu'on n'est pas.
D'ailleurs, il faut considerer, que Machiavel raisonne en tout comme politique, c'est-à-dire selon l'Intérest-d'Etat, qui commande aussi absolument aux Princes que les Princes à leurs sujets: jusque la même, que les Princes, au dire d'un habile Ministre de ce siècle, aiment mieux blesser leur conscience que leur Etat. Et c'est tout ce que Juste-Lipse.... trouve à redire à la doctrine de Machiavel, dont il avoüe franchement, qu'il fait plus de cas, que de tous les autres Politiques modernes (Ivi).

Il faut le connoistre.

Cela est presque tousiour vrai.

Il avoit raison.

Machiavelli ingenium non contemno, acre, subtile, igneum. Sed nimis saepe deflexit et.... aberravit a regia via (Parole di G. Lipsio, riportate in nota).

Que cela est bien dit.

Ce qu'il se fût bien gardé de dire, s'il eût tant-soit-peu soupçonné Machiavel d'impieté ou d'atéisme (Préface)

On n'en jurerai pas.

Machiavel.... n'eût jamais osé dedier son Prince à Laurent de Medicis, du vivant du Pape Léon X son oncle, si c'eût été un livre impie (Ivi). On n'estoit pas si scrupuleux en ce temps là.
Il loüe les Ordres de S. François et de S. Dominique, comme les restaurateurs de la religion chretienne (Ivi). Il n'en a pas dit tout ce qu'il en a pensé.
Il faut interpréter plus équitablement qu'on ne fait de certaines maximes-d'Etat, dont la pratique est devenüe presque absolument nécessaire, à cause de la méchanceté, et de la perfidie des hommes. Joint que les Princes se sont tellement rafinés, que celui qui voudroit

Il n'y a nulle necessité d'estre infame ni méchant.

On ne corrige pas les méchants en se rendent semblable a eux.

aujourdhui procéder rondement envers ses voisins, en seroit bien-tôt la dupe (Ivi). On n'est iamais la duppe si non quant on est infame ou mechant.
Il fit des actions, qu'un homme-de-bien n'oseroit jamais faire (Ivi). Cet trop oser.
Je n'ai rien trouvé chés moi, qui me fût si cher, que la connoissance des actions des grans-hommes, la quelle j'ai aquise par un long usage des afaires modernes, et par la lecture continuelle des anciennes (Nicolas Machiavel.... au Tres-Illustre Laurent de Médicis....).

Les deux escoles des grans hommes.

J'ai été à l'école de l'adversité (Ivi). Austre escole admirable.
Que l'on m'impute point à présomption, si un homme de basse condition ose donner des leçons de gouvernement aux Princes. Car comme ceux, qui disseignent les païs, se métent embas dans une plaine, pour mieux découvrir la hauteur des montagnes, et la qualité des autres lieux élevés; et au contraire montent au sommet des montagnes, pour considérer la constitution des lieux bas; de même il faut être Prince, pour bien connoitre le caractère des peuples, et Populaire, pour bien savoir celui des Princes (Ivi).

Cest le contraire.

Cela est faux.

Je dis donc, qu'il est bien plus facile de conserver des Etats héréditaires, que des Etats nouvellement conquis. Parce qu'il sufit de ne point outrepasser l'ordre établi par ses ancêtres, et de s'acommoder aux tems. En sorte que

San doute.

Il ne suffit pas.

si un Prince est médiocrement habile, il se maintiendra toujours dans son Etat, à moins qu'il n'y ait une force excessive qui l'en prive. Encore le recouvrera-t-il, quelque forte que soit l'usurpateur (Le Prince, chapitre II).

Il est difficil aux princes hereditaires d'estre depouillies.

Il a raison.

Comme le Prince naturel a moins d'ocasions et de raisons d'ofenser ses sujets, il faut qu'il en soit plus aimé: et si des vices extraordinaires ne le font haïr, ils ont naturellement de l'inclination pour lui (Ivi).

On ne liait gere les vices des princes regnants.

Cela est vrai.

Au dire de Tacite, il y a toujours moins d'inconvenient à garder le Prince que l'on a, qu'à en chercher un autre. Minore discrimine sumi Principem quam quaeri (Ivi, in nota).

Je pense qu'il a raison.

Toute mutation d'Etat laisse toujours de quoi en faire d'autres (Chapitre II). - Car au dire de Paterculus, l'on enchérit toujours sur les premiers éxemples. Non enim ibi consistunt exempla unde coeperunt, etc. (Ivi, in nota).

Cela arrive par la faute des princes.

Les hommes changent volontiers de Prince, dans l'espérance d'en trouver un meilleur (Chap. III). Les hommes changent touiour ce quils ne trouve presque iamais.
An Neronem extremum dominorum putatis? Idem crediderant qui Tiberio, qui Caio superstites fuerunt: cum interim intestabilior et saevior exortus est (Ivi, in nota). Il est dificil d'avoir un pire que le present.
Ferenda Regum ingenia, neque usui erebras mutationes (Ivi, in nota). Pourveu quil ne se rendent pas insuportables.
Se miminisse temporum quibus natus sit:... bonos Imperatores voto expetere, qualescumque tolerare. - Paroles, que Machiavel a raison d'apeller sentence d'or (Ivi, in nota).

Il a raison.

Quiconque les voudroit conserver, après les avoir aquises, il faudroit faire deux choses. L'une, extirper toute la race de leur ancien Prince. L'autre, ne point changer leurs loix, ni augmenter les tailles (Chap. III). Tout cela nest pas mal remarqué.
Les colonies coûtent peu au Prince, qui d'ailleurs n'offense que ceux, à qui il ôte les terres et les maisons, pour les donner aux nouveaux habitans. Outre que ceux, qu'il ofense, ne faisant qu'une tres-petite partie de l'Etat, et restant pauvres et dispersés, ils ne lui peuvent jamais nuire (Ivi).

Il faut craindre ceux qui n'ont rien a perdre s'ils on du coeur.

Je conclus que les colonies, outre qu'elles ne coûtent rien, sont plus fidéles et ofensent moins: et que les ofensés étant pauvre et dispersés, il ne sauroient nuire (Ivi).

Tout ceci ne seroit pas sot, sil n'estoit impie.

Mais si au lieu de colonies, on emploie de la milice, la dépense est bien plus grande, et consume tous les revenus de cet Etat en garnisons (Ivi). Il n'a pas trop de tort.
Et ce sont là ceux, qui lui peuvent nuire devantage, comme étant ennemis domestiques (Ivi). Les ennemis domestiques son san doutte les plus dangereux.
Le Prince, qui aquert une province, qui a des coûtumes diférentes de celles de son Etat, doit encore se faire chef et protecteur des voisins moins puissans, et s'étudier à afoiblir les plus puissans: et sur tout empêcher absolument, qu'il n'entre dans céte Province quelque étranger aussi puissant que lui. Car il arive toujours, qu'il y en est mis quelqu'un par les mécontens de la Province, soit par ambition ou par peur. Tèmoin les Romains,

Tout cela n'est pas sot, et i'en conois qui se sont bien trouvé pour l'avoir pratiqué.

Le mond n'est plus fait de la sorte.

qui furent introduits dans la Grèce par les Etoliens, et qui, par tout ou ils mirent le piè, y furent toujours apellés par les Provinciaux (Ivi). Comme les Suedois en Allemange.
Aussi tôt qu'un étranger puissant entre dans une Provincie, tous ceux de la Provincie, qui sont moins puissans s'unissent volontier avec lui, par un motif de haine contre celui, qui étoit plus puissant qu'eux. Tout ce dont il a à se garder, est, qu'ils ne deviennent trop forts, et qu'ils ne prennent trop d'autorité. Et, pour cet éfet, il doit emploier ses propres forces et les leurs à abaisser ceux qui sont puissans, pour demeurer, lui seul, arbitre de toute la Province. Et quiconque ne saura pas méttre cela en oeuvre, perdra bien tôt ce qu'il aura aquis, et n'aura point de repos tant qu'il le gardera (Ivi).

Cela arriva a la Suede en Alemagne.

Cela ne manque iamais.

Cela ce fait assé.

Il a raison.

Nous austre Suedois savons bien pratique ausi.

Les Romains firent ce que doivent faire tous les Princes sages, qui ont à pourvoir, non seulement aux maux présens, mais encore aux maux à venir. Car en les prévoiant de loin, il est aisé d'y remédier; au lieu que si l'on atend, qu'ils soient proches, le reméde n'est plus à tems, dautant que la maladie est devenüe incurable. Les médecins disent, que la fièvre étique est facile à guérir, et dificile à connoître: au lieu que dans la suite du tems, elle devient facile à connoître et dificile à guérir, quand elle n'a pas été connüe, ni traitée dans son commencement. Il en est de même des afaires d'Etat. Si l'on connoit de loin les maux qui se forment (ce qui n'apartient qu'à l'homme prudent), on les guérit bien-tôt. Mais si, faute de les avoir connus, ils viennent à croitre à un point qu'un chacun le connoisse il n'y a plus de reméde. Comme les Romains prévoioient de loin les inconvéniens, ils y remédiérent toujours si à propos, qu'ils n'eurent jamais besoin d'esquiver la guerre, sachant, que de la diférer, ce n'est point l'éviter, mais plutôt procurer l'avantage d'autrui. Ils la firent donc à Filippes et à Antiocus en Grece, pour n'avoir pas à la faire avec eux en Italie. Et quoiqu'ils pussent alors éviter l'une et l'autre guerre, ils ne le voulurent pas. Contraires en cela aux sages modernes, qui disent à tous propos, qu'il faut joüir du bien fait du tems: au lieu qu'eux aimaient mieux éxercer leur valeur et leur prudence. Car le tems aporte du changement à toutes choses, et peut amener le bien comme le mal, et le mal comme le bien (Ivi).

Il a raison.

Comparaison admirable.

Tout consiste en ce prevoiance.

Ce sont des verités qui ne suffre point de contradition.

Que ceci est beau et vrai.

Voila la politique roiale et la seulle solide.

Verité incontestables.

Loüis fut introduit en Italie par l'ambition des Vénitiens, qui vouloient, par ce moien, gagner la moitié de la Lombardie (Ivi).

Ie pense qu'ils on la mesme envie.

Et ce fut alors que les Vénitiens purent s'apercevoir de la folie qu'ils avoient faite de rendre Loüis le maitre de deux tiers de l'Italie, pour aquerir seulement des villes en Lombardie (Ivi). Elle estoit grande sen doutte.
Aiant à craindre, les uns, le Pape, et les autres, Venise (Ivi). Qui craint aujour d'hui le P. P.
Il fit le contraire,... sans s'apercevoir qu'il s'afoiblissoit lui même en perdant ses amis, et ceux qui s'étoient jétés entre ses bras; et qu'il agrandissoit le Pape, en lui laissant aquérir tant de temporel, avec le spirituel, qui rend déjà son autorité si grande (Ivi). On corrige a present cette faute en France.
Pour métre fin à l'ambition d'Aléxandre..., il falut, qu'il passât en Italie (Ivi). Brave P. P.
Pendant qu'il pouvoit laisser à Naples un Roi tributaire, il l'en chassa pour y en métre un, qui le pût chasser lui même (Ivi). Ce roy tributaire auroit fait de mesme.
Toutes les fois que les hommes peuvent s'agrandir, ils en sont loüés, ou du moins ils n'en sont pas blamés. Mais quand ils ont le desir d'aquerir, sans en avoir les forces, c'est là qu'est l'erreur, et qu'ils sont dignes de blâme. Si donc la France pouvoit ataquer Naples avec ses forces, elle le devoit faire, et si elle ne le pouvoit pas, elle ne devoit point partager ce Roiaume (Ivi).

Cela est constant.

De mesme.

Cela est bien remarqué.

On ne doit jamais laisser ariver un désordre, pour fuir une guerre, parce qu'en éfet on ne la fait point, mais on la difére à son dommage (Ivi). Maxime admirable.
Ce Cardinal me disant que les Italiens n'entendoient rien au métier de la guerre, je lui répondis, qu'il paroissoit bien, que les François n'entendoient rien aux afaires-d'Etat, eux qui lassoient prendre un si grand accroissement au Pape (Ivi).

Il ne feront plus cette faute.

L'expérience a montré que c'est la France, qui a fait le Pape et le Roi d'Espagne si puissans en Italie, et que ce sont eux, qui l'y ont ruinée. D'où je tire une conclusion générale, presque infaillible, que le Prince qui en rend un autre puissant se perd lui même (Ivi). Cependant un prince catolique ne peut iamais devenir gran, si non en agrandissant l'Eglise avec lui.
Alexandre-le-Grand étant devenu maitre de l'Asie en peu d'années (Chap. IV).

6 annés.

Tous les Etats.... se trouvent gouvernés en deux manières diférentes, ou par un Prince absolu..., ou par un Prince et par les Grans du païs, qui ont part au Gouvernement (Ivi).

Ces grans son des chimeres.

Ces Grans ont des Etats et des sujets particuliers, qui les reconnoissent pour leurs vrais Seigneurs, et ont une afection naturelle pour eux. Dans les Etats qui sont gouvernés par le Prince seul, le Prince a plus d'autorité, parce qu'il n'y a que lui dans toute l'étendue de son païs, qui soit reconnu pour maitre (Ivi).

Ces sorte d'estats son un espece des gallimations comme l'Allemange.

L'estats qui sont governes par un prince seul sont monarchiques et meillieur des gouvernements.

Céte diférence de Gouvernement se voit aujourdhui entre la Turquie et la France. La Turquie est gouvernée par un seul Seigneur, tous les autres sont des Esclaves.... Au contraire la France a une multitude d'anciens Seigneurs, qui ont leur propres sujets et en sont aimés. Et le Roi ne leur sauroit ôter leurs prééminences sans risquer beaucoup. A bien considérer ces deux Etats, on verra, qu'il est trés-dificile d'aquerir celui du Turc, mais aussi qu'il seroit tres-facile de le conserver quand on l'auroit conquis. Les dificultés de le conquérir consistent en ce que le conquérant ne sauroit être apellé par les Grans de l'Etat, ni espérer que la révolte de ceux qui sont dans le Ministère, lui facilite jamais la conquête (Ivi).

Cette difference n'y est plus entre la Turquie et la France. Le gouvernement de la France est cellui de la Turchie, mais en miniature.

Il en verra à bout.

La primière difficultè est grande, mais la seconde ne l'est gere moins.

Il y en a d'austres difficultés qui ne son pas moindres.

Ainsi quiconque veut ataquer les Turcs, doit s'atendre à les trouver unis, et plus espérer de ses propres forces que de leurs désordres. Mais si une fois ils étoient si bien défaits dans une bataille, qu'ils ne pussent remétre une armée sur pié, il n'y auroit plus rien à craindre que du coté de la famille du Prince, qu'il faudroit exterminer (Ivi).

Cela s'appel parler en grandt homme, et ie m'i suscris à son sentiment.

Cela n'arrivera pas aysement.

Je doutte si l'empire du monde vaut un tel prix.

Il en est tout autrement des Etats gouvernés comme la France. Il est aisé d'y entrer, en gagnant quelque Grand du Roiaume, parce qu'il se trouve toujours des mécontens et des broüillons. Ceux-la, dis-je, pour les raisons aléguées, te peuvent bien fraier le chemins à cet Etat, et t'en faciliter la conquête, mais tu trouves mille dificultés à le conserver (Ivi).

Cela est changée.

Je tiens la France ayse à conquerir et pas difficile à conserver, n'en depaise a gran politique.

Il ne te sufit pas d'exterminer la race du Prince, parce que les Grans qui restent se font chefs de parti; et faute de les pouvoir contenter ou exterminer tous, tu perds cet Etat à la première occasion (Ivi).

Ce seroit un grandt ouvrage.

L'un et l'austre sont impraticables.

Pour les Etats gouvernés comme la France, il est impossible de les posseder si paisiblement. Têmoin les fréquentes revoltes des Espagnes, des Gaules et de la Gréce contre les Romains, qui venoient toutes de ce qu il y avoit quantités des Principautés dans ces Etats (Ivi).

Qui voudroit establir sa demeure en France apres l'avoir conquis, en viendroit aisement à bout.

Tout cela bien considéré, l'on ne s'étonnera point de la facilité qu'eut Aléxandre à conserver l'Asie (Ivi). On fai icy tort a nostre Alexandre.
Si l'Etat conquis est acoutumé à la liberté et à ses loix, il y a trois moiens de la conserver. Le premier est de le ruiner. Le second, d'y aler demeurer. Le troisième, de lui laisser ses propres loix, à condition de paier un tribut (Chap. V).

Tout ces maximes ne sont pas infalibles.

Le meilleur moien de conserver celles qu'on a conquises est de les ruiner, etc. (Ivi). C'est le pire et le plus cruel.
Quand ce sont des Villes ou des Provinces acoutumées à vivre sous un Prince, et qu'il ne reste plus personne de son sang, comme d'un coté elles sont faites à obéir, et que de l'autre la maison de l'ancien Prince est éteinte, elles ne s'acordent pas entre elles à en faire un autre (Ivi). Les nations acoutusmes à la monarchie ne peuve s'accommoder d'austre forme de gouvernement.
Les Républiques ont plus de vie..., et le souvenir de l'ancienne liberté n'y sauroit mourir (Ivi).

Tout meurt en

ce monde.

Comme l'on ne peut pas tenir entiérement la même route, ni même ariver toujours à la perfection de ceux, que l'on imite, l'homme prudent doit toujours suivre les traces des plus excellents personages, afin que s'il ne les égale pas, ses actions aient du moins quelque ressemblance aux leurs, faisant comme les bons tireurs, qui trouvant que le but est trop éloigné, et connoissant la vraie portée de leur arc, visent beaucoup plus haut, que n'est le but,... pour pouvoir frapper au but en le mirant ainsi. Je dis donc que le principautés nouvelles, et qui ont un nouveau Prince, sont plus ou moins dificiles à conserver, selon que ce Prince est plus ou moins habile. Or comme de particulier d'être devenu Prince, c'est une marque de valeur ou de bonheur, il semble, que l'un ou l'autre aide à surmonter beaucoup de dificultés (Chap. VI).

La lesson est tres bonne.

Belle comparaison.

C'est en quoi consiste tout.

Pas tousiour.

C'est quelque fois le plus grandes malheurs.

Celui qui s'est le moins fié à la fortune, s'est toujours maintenu plus longtems, et cela est encore plus facile a celui, qui, faute d'avoir d'autres Etats, est contraint d'aler demeurer dans sa nouvelle Principauté (Ivi).

Il faut ny se fier ni desperer de la fortune.

Ce n'est pas un gran malheur qu'une telle contrainte.

Et bien qu'il ne faille rien dire de Moïse, qui n'a fait qu'exécuter les choses que Dieu lui avait ordonnées, si est-ce qu'il merite d'être admiré, pour céte seule grace, qui le rendoit digne de parler avec Dieu. Mais pour Cirus et les autres, qui ont aquis ou fondé des Roiaumes, tout en est admirable. Et si l'on considére leurs actions, et leurs institutions particuliéres, elles se trouveront peu diférentes de celles de Moïse, qui avoit eu un si grand précepteur. Et à bien examiner leur vie, il se verra que la fortune ne leur avoit fourni que l'ocasion, qui leur donna lieu d'ètablir la forme de Gouvernement qu'ils jugérent à propos. Et faute d'ocasion leur valeur eût été sans fruit, et faute de valeur l'occasion se fut perdüe (Ivi).

Il merite sen doute l'admiration.

Tout est de Dieu, de quelque point qu'il vienne.

Que cecy est dit divinement.

Il n'y a point d'entreprise plus dificile, plus douteuse, ni plus dangereuse, que celle de vouloir introduire de nouvelles loix. Parce que l'auteur a pour ennemis tous ceux, qui se trouvent bien des anciennes, et pour tiédes défenseurs ceux même à qui les nouvelles tourneraient à profit. Et céte tiédeur vient en partie de la peur qu'ils ont de leurs adversaires,... en partie de l'incredulité des hommes qui n'ont jamais bonne opinion des nouveaux établissemens, qu'après en avoir fait une longue expérience (Ivi).

Cela est vrai.

Que tout ceci est bien dit.

Il on quelque raison.

Il est besoin.... de voir, si ces législateurs se soutiennent d'eux mémes, où s'ils dépendent d'autrui, c'est-à-dire, si pour conduire leur entreprise, il faut qu'ils prient, et en ce cas ils échoüent toujours; ou s'il peuvent se faire obéir par force, et pour lors ils ne manquent presque jamais de réüssir. De là vient, que tous le Princes que j'ai nommés, ont vaincu aiant les armes à la main, et ont péri étant désarmés (Ivi).

Ha que cela est bien dit.

La force est l'unique segret de faire tout reusir.

S'est l'unique segret.

Il est aisé de leur persuader une chose, mais il est dificile de les entretenir dans céte persuasion. Il faut donc métre si bon ordre, que lors qu'ils ne croient plus, on leur puisse faire croire par force. Moïse, Cirus, Tesée et Romulus, n'eussent jamais pû faire observer longtems leurs loix, s'ils eussent été désarmés (Ivi).

On ne peut faire croire les gens par force, mais on peut les forcer d'en faire le semblent, et c'est asse.

C'est là le gran miracle de la religion christienne.

Quiconque lira la Bible de sens rassis, dit Machiavel.... verra que Moïse, pour rendre ses loix inviolables, fut forcé de faire mourir une infinité d'hommes qui par envie s'oposaient à ses desseins (Ivi, in nota).

C'estoit un malheur.

Moise.... dit ces paroles: Et occidat unusquisque fratrem et amicum et proximum suum (Nella stessa nota). Que terrible commandement.
Ces sortes de gens rencontrent d'abord de grans obstacles, et même de grans dangers sur leur route, et il leur faut un grand courage pour les surmonter. Mais aussi, quand ils l'ont fait, et qu'ils commencent d'être en vénération par la mort de leurs envieux, ils deviennent puissans, hureux et respectés (Chap. VI).

Tout cela est infalible.

Il faut savoir thrionfer de l'envie sen faire mourir les envieux. Ce seroit leur faire trop d'honeur.

A ces grans éxemples, j'en veux ajouter un moindre.... C'est celui d'Hiéron, qui de particulier devint Prince de Siracuse, sans en devoir autre chose à la Fortune que l'occasion (Ivi).

Cet lui devoir beaucoup.

Les écrivains, qui ont parlé de lui, disent que, dans sa fortune privée, il ne lui manquoit rien pour regner qu'un Roiaume (Ivi).

Cet un gran et beau defaux.

Il quita ses anciens amis, et en fit de nouveaux, et aprés qu'il se fut fait des amis et des soldats entiérement dévoués à lui, il lui fut aisé de batir sur ces fondemens. Si bien qu'il eut beaucoup de peine à aquérir, mais peu à conserver (Ivi).

Ce de quoi ie ne le louerai pas.

Il est bien fait de faire des nouveaux amis sen faire tort aux anciens.

C'est la dificulté.

Comme ceux qui de particuliers deviennent Princes seulement par bonheur, ont peu de peine à le devenir, ils en ont beaucoup à se maintenir.... Or ces Princes sont ceux à qui un Etat est donné, ou pour de l'argent ou en pure grace, tels qu'étoient ceux que fit Darius pour sa sûreté et pour sa gloire, en divers endroits de la Gréce et de l'Hellespont; et ces Empereurs, qui de particuliers parvenoient à l'Empire par la faveur des soldats corrompus. Ceux-cy ne se maintiennent que par la volonté et la fortune de ceux qui les ont agrandis. Or ce sont deux choses très-sujètes à changement (Chap. VII).

On peut pour la gloire donner les Estats, mais on les donne guere pour sa seureté, et cest y pourvoir que de le donner.

Ils n'estoit pas touiour corrompus.

Cela n'est pas seur.

Si ce n'est pas un homme de grand esprit, comment saura-t-il commander, aiant toujours vécu dans une fortune privée (Ivi). Il est san doutte asse difficile.
Il en est des Etats, qui naissent tout à coup, comme de toutes les autres choses, qui naissent et qui croissent subitament. Ils ne peuvent avoir de si fortes racines.... que la première adversité ne les ruine, si ceux, qui sont devenus subitement Princes, de la maniére que j'ai dit, ne sont assés habiles, pour trouver d'abord les moiens de conserver ce que la fortune leur a mis entre les mains (Ivi).

Tout cela est vrai.

Il vaut mieux dire asse heureux. On est touiour habile pourveu qu'on soit heureux.

Je veux raporter deux éxemples.... L'un est de François Sforce, qui d'homme privé devint Duc de Milan par sa grande habiléte, et conserva sans peine, ce qui lui en avoit tant couté à aquerir. L'autre est de César Borgia,... qui aquit un Etat par la fortune de son Pére, et le perdit aussi tôt que son Pére fut mort, quoiqu'il eût fait tout ce qu'un homme habile et prudent devoit faire pour s'enraciner dans un Etat, qu'il tenoit de la fortune d'autrui. Car celui, qui n'a pas jeté les fondemens, avant que d'être Prince, y peut supléer par une grande adresse, aprés l'être devenu (Ivi).

Habilité et la fortune doivent est[re] d'accort ou on ne fait rien qui vallie.

Cet exemple prouve ce qui a esté dit icy desus.

Sans la fortune on ne fait rien qui vallie.

Il jugea si bien des intentions de la France, qu'il résolut de ne plus dépendre de la Fortune, ni des armes d'autrui (Ivi). Ce l'unique parti que doit prendre tout homme qui a de l'esprit et du coeur.
Mais aprés qu'il eut rétabli ses afaires, bien loin de se fier, ni à eux, ni aux autres étrangers, à la discrétion de qui il ne vouloit plus être, il mit tout son esprit à les tromper (Ivi). Le parti qu'il prist estoit scelerat. Il y a des voyes plus nobles et plus seures pour venir à bout de se passer d'autrui.
Nec unquam satis fida potentia ubi nimia est, dit Tacite (Ivi, in nota). Nunquam fida nisi nimia.
Il s'avisa un matin de faire pourfendre Remiro, et de faire exposer sur la place de Cesene les piéces de son corps,... pour montrer au peuple que les cruautés commises ne venoient point de lui, mais Action indigne.
du naturel violent de son ministre. Ce qui en éfet surprit, et contenta tout ensemble les esprits (Chap. VII). Meschante maxime, de contenter le peuple par le sacrifice des ministres.
C'est l'ordinaire des Princes de sacrifier tôt ou tard les instruments de leur cruauté (Ivi, in nota). Mechante maxime.
Comme il avoit à craindre, qu'un nouveau Pape ne voulût lui ôter ce qu'Alexandre lui avoit donné, il tâcha d'y obvier par quatre moiens: 1. En exterminant toute la race des Seigneurs, qu'il avoit dépouillés...; 4. En se rendant si grand Seigneur avant que le Pape mourût, qu'il pût de lui même résister à un premier assaut (Chap. VII).

Le dernier estoit le plus seur.

Il y a du danger à laisser la vie à ceux que l'on a dépouillés. Periculum ex misericordia... (Ivi, in nota).

Cette hydre ne s'esteint iamais.

Et si cela eût réussi, comme il fût arivé sans doute l'année même qu'Alexandre mourut, il devenoit si puissant et si acrédité, qu'il eût pû se soutenir lui même, sans dépendre nullement d'autrui (Chap. VII). C'est l'unique segret; quant il ne suffit pas, rien ne suffit.
Or il étoit si brave et si habile à connoitre, quand il faloit gagner ou ruiner les hommes; et les fondemens qu'il avoit jetés en si peu des tems étoient si bons, que, s'il eût été en santé ou qu'il n'eût pas eu deux puissantes armées à dos, il eût surmonter toutes les dificultés (Ivi).

Grandes qualités.

Je n'en doute pas.

Bien que les Baglioni, les Vitelli et les Ursins fussent venus à Rome, ils n'y purent rien faire contre lui, tout moribond qu'il étoit. Et s'il ne pût pas faire élire le Pape celui qu'il vouloit, du moins il fit exclure ceux qu'il ne vouloit pas (Ivi).

C'estoit bien assé pour un moribond.

Tout cela bien considéré, je ne sai que reprendre dans le conduite du Duc (Ivi). Sa mechanceté et sa cruautè: tout le reste estoit admirable.
Aiant un grand courage et de grans desseins, il ne se pouroit pas gouverner autrement. Car ses projets n'ont échoüé que par sa maladie et par la briéveté du Pontificat d'Aléxandre. C'est pourquoi le nouveau Prince, qui veut s'assurer de ses ennemis, se faire des amis, vaincre par la force ou par la ruse, étre aimé et craint des peuples, respectè et obéi des soldats, se défaire de ceux qui peuvent ou qui doivent lui nuire, introduire de nouveaux usages, étre grave et sevére, magnanime et libéral, détruire une milice infidéle et en faire une à sa mode, entretenir l'amitié et l'estime des Princes...; celui là, dis-je, ne sauroit trouver dex éxemples plus récens que les actions du Valentinois. Tout ce qu'on lui peut reprocher est les mauvais choix qu'il fit en la personne de Jules II. Car s'il ne pouvoit pas faire un Pape à sa mode, il étoit maitre de l'exclusion de tous ceux qu'il ne vouloit point. Or il ne devoit jamais consentir à l'éxaltation des Cardinaux, qu'il avoit ofensés, ou qui, devenant Papes, avoient lieu de le craindre (Ivi).

Il n'y a poin de grandeur ny de fortune qui merite d'estre achetè aux prix des crimes, et on n'est jamais ny grands ny heureux a ce prix.

Les méchants jouisse rarement de leur mechancete.

Tout cela se fait mieux par la vertu que par le crime.

Machiavelli se trompe.

C'est sur tout dans l'election des Papes que Dieu se moque de la prudence humaine.

Tant se trompent ceux, qui croient que les bienfaits nouveaux font oublier aux Grans les anciennes ofenses (Ivi, in nota). Maxime veritable.
Les bienfaits ne pénétrent jamais si avant que les injures, parce que la reconnaissance se fait à nos dépens, et la vangeance aux dépense des ceux que nous haïsson. Tanto proclivius est injuriae quam beneficio vicem exolvere, quia gratia oneri, ultio in quaestu habetur (Ivi).

Conter sur la reconoissance des hommes cest conter sur un fon perdu.

Sentiment de ames basses.

Agatoclés, sicilien,... fut scélérat dans tous les divers Etats de sa fortune, mais toujours homme de coeur et d'esprit (Chap. VIII). On est rarement scelerat avec de l'esprit et du coeur.
Véritablement, on ne peut pas dire, que ce soit vertu de tuer ses citoiens, de trahir ses amis, d'être sans foi, sans religion, sans humanité, moiens qui peuvent bien faire aquérir un Empire mais non une vraie gloire. Mais si je considére l'intrépidité d'Agatoclés dans les dangers, et sa costance invincible dans les adversités, je ne vois pas qu'il doive être estimé inférieur à pas un de plus grans capitaines, quoique d'ailleurs il ne mérite pas de tenir rang parmi les grans hommes, vû ses cruautés horribles et mille autres crimes. On ne peut pas donc atribuer à la fortune, ni à la vertu des choses, qu'il a faites sans l'une et sans l'autre (Ivi).

Cela est bien dit et tres veritable.

Tout est très bien dit.

Au contraire tout ces crimes n'enpecherent pas quil n'eust et de vertu et de la fortune. On ne fait rien sen eux.

Il fit un féstin solennel où il invita Fogliani et tous les premiers de la ville, puis à la fin du repas,... il ouvrit à dessin un entretien sérieux.... Et quand il vit son oncle et les autres conviés entrer en raisonnement, il se leva en sursaut.... et entra avec eux dans une chambre, où étoient cachés des soldats, qui les égorgèrent tous (Ivi).

Mechante et indigne action.

Il eût eté aussi dificile de le détroner,

qu'Agatoclés, si au bout d'un an il ne se fut pas laissè tromper par le Valentinois, qui le prit avec les Ursins à Sinigaille, où il fut étranglé avec Oliverotto son maitre de guerre et de scélératesse (Ivi).

Quel horrer.

Dieu punit le mechant par le mechant.

Je crois, que cela vient du bon ou mauvais usage, que l'on fait de la cruauté. On la peut apeller bien emploiée, s'il est jamais permis de dire, qu'un mal est un bien, quand elle ne se fait qu'une fois, et encore par nécessité de se métre en sûreté; et qu'elle tourne enfin au bien des sujets. Elle est mal exercée, quand on l'augmente dans la suite du tems, au lieu de la faire entiérement cesser (Ivi).

Cela n'est pas mal dit.

Il y a sen doutte des maux qui ne se gerisse que par le sang et par le feu. En la politique comme dans la chirurgie les pitoiables chirugin ne guerisse pas les playes, il tuent les malades.

L'usurpateur d'un Etat doit faire toutes ses cruautés à la fois, pour n'avoir pas à les recommencer tous les jours et pouvoir s'assurer et gagner les esprits par des bienfaits. Le Prince, qui fait autrement, par timidité, ou par mauvais conseil, est forcé de tenir toujours le couteau en main (Ivi).

Tout ce qui se fait par timidité est mal fait.

Ainsi, le mal se doit faire tout à la fois, afin que ceux à qui on le fait, n'aient pas le temps de le savourer. Au contraire, les bienfaits se doivent faire peu à peu, afin qu'on les savoure mieux. Enfin le Prince doit vivre de telle sort avec ses sujets, que nul accident, bon ou mauvais, ne le puisse faire varier. Car quand la nécessité te presse, tu n'est plus à tems de te vanger, et le bien que tu fais, ne te sert de rien, parceque l'on ne t'en sait point de gré, persuadé que l'on est que tu y es forcé (Ivi).

Il se trompe.

Il faut se faire craindre et aimer, cet le seul segret.

Punir et recompenser bien, mais punir avec regret, et recompenser avec ioye.

On peut se venger touiour.

Comme fit Auguste, qui posito Triumviri nomine, militem donis, populum annona, cunctos dulcedine otii pellexit.... et quae Triumviratu gesserat, abolevit (Ivi, in nota).

Les hommes oublie rarement les offence, mais ils oublie aysement les bienfaits.

Lorsqu'un citoien devient Prince de sa patrie.... par la faveur des ses concitoiens, (ce qui se peut appeller principauté civile) pour y parvenir, il ne lui faut ni un mérite, ni un bonheur extraordinaire, mais seulement une finesse heureuse (Chap. IX).

Il se trompe.

Au dire de Tacite, l'avarice et l'insolence sont les vices ordinaires des Grans. Avaritiam et arrogantiam praecipua validiorum vitia (Ivi, in nota). L'arogance est plus tost les vices des malheureux, quant il on du coeur, les grans coeur ye son iamais insolens dans la bonne fortune.
La Principauté est introduite par le peuple ou par les Grans (Chap. IX). Souvent par tout les deux.
On ne peut pas honnêtement, ni sans faire tort à autrui, contenter les Grans, mais bien le peuple, qui est plus reasonable que les Grans (Ivi).

On ne contente iamais les hommes.

C'est de quoi on peut doutter.

Tôt au tard il faut toujours gagner l'afection du peuple, sans la quelle on ne sauroit être en sûreté (Ivi, in nota).

Il a raison.

Le Prince ne se sauroit jamais assurer d'un peuple ennemi, aiant a faire à trop de têtes, au-lieu qu'y aiant peu de Grans il est facil d'en venir ci bout. Tout le pis qu'un Prince puisse atendre d'un peuple ennemi, est d'en être abandonné. Mais il n'a pas seulement cela à craindre des Grans, les aiant pour ennemis, mais encore qu'ils ne viennent fondre sur lui, dautant qu'aiant plus de pénétration d'esprit, ils anticipent toujours, pour se métre en sûreté, et cherchent à gagner l'afection de celui, qu'ils espérent qui vaincra. Enfin, c'est une nécessité, que le Prince vive toujours avec le même peuple, mais non pas avec le mêmes Grans, lesquels il peut acréditer ou décréditer, conserver ou détruire, quand il lui plait (Chap. IX).

Il n ya pas d'austre segret que d'estre le plus fort et le plus alert.

Il ne raisonne pas trop mal.

Ceux, qui s'atachent entiérement à la fortune du Prince, doivent être honorés et aimés, pourvu qu'il ne soient point gens de rapine. Ceux qui ne s'obligent pas au Prince, le font manque de courage ou par finesse. Si c'est par crainte, c'est alors que tu te dois servir d'eux, et sur tout de ceux, qui sont de bon conseil, parceque tu t'en fais honneur dans la prospérité, et que tu n'as rien à craindre d'eux dans l'adversité. Mais si c'est par ménagement, et par ambition, c'est signe, qu'ils pensent plus à eux qu'a toi (Ivi).

Document tres utile.

Le bon conseil n'est jamais timide.

Cela n'est pas mal dit.

Quelque sot en douteroit.

Un Valerius Flaccus Festus qui parloit en faveur de Vitellius, dans ses letres, et donnoit à Vespasien des avis secrets de ce qui se passoit, pour se faire un mérite auprès de l'un et de l'autre, et avoir toujours pour ami celui qui resteroit Empereur, devint justement suspect à tous les deux (Ivi, in nota). Cette infame conduite se pratique plus que iamais. Mais elle a tousiour le mesme succes.
Comme les hommes, quand ils reçoivent du bien de celui, de qui ils n'atendoient que du mal, en deviennent plus obligés à leur bienfaiteur, le Prince devient plus agréable au peuple que s'il tenoit de lui sa Principauté (Chap. IX). Il faut estre generalement bien faisant a tout le monde et ne faire du mal que par une nécessité indispensable.
Un Prince a besoin de l'amitié du peuple, faute de quoi il n'a point de ressource dans l'adversité (Ivi). Mechante resource.
Et que l'on ne m'objecte point le commun proverbe, qui dit, que de faire fond sur le peuple, c'est bâtir sur la boüe (Ivi).

Bien dit.

L'afection du peuple, se perd aussi aisément qu'elle se gagne (Ivi, in nota). Sentence d'or.
Lors que c'est un Prince, qui sait commander, et qui ne manque point de coeur dans l'adversité, ni de ce qu'il faut pour entretenir l'esprit du peuple, il ne se trouvera jamais mal d'avoir fait fond sur son afection. D'ordinaire, les Principautés civiles périclitent, quand il s'agit d'établir une domination absolüe. Car ses Princes commandent par eux-mêmes, ou par des Magistrats. Si c'est par autrui, le danger est plus grand, dautant qu'ils dépendent de la volonté des citoiens (Chap. IX).

Grandes paroles et un beau raisonnement.

Cela est sujet à con[di]tion, et n'est iamais vrai si non quant on est le plus fort et que l'on veillie l'estre.

Il raison asse bien.

L'afection du peuple, ajoute-t-il (Machiavel) se perd aussi aisement qu'elle se gagne (Ivi, in nota). Sentence d'or.
Et alors le Prince n'est plus à tems de se rendre maitre absolu, parcequ'il ne sait à qui se fier (Chap. IX). Il faut ne se fier a soi mesme.
Alors un chacun court, un chacun promet, un chacun veut mourir pour lui parce que la mort est éloignée (Ivi). Belle parole.
L'experience est d'autant-plus dangereuse, qu'on ne la peut faire qu'une fois. Ainsi, un Prince sage doit faire en sorte, que ses sujets aient besoin de lui en tout tems moiennant quoi il lui seront toujours fidèles (Ivi).

Bonne maxime.

En ce monde on ne peut se passer les uns des autres. Il faut rarement se fie a personne, mais il faut souvent faire semblent de s'y fier.

Il est bon d'éxaminer la qualité du Prince, c'est à dire, s'il a un si grand état, qu'il puisse de lui même se soutenir dans le besoin, ou bien, s'il ne sauroit se passer de I'assistence d'autrui (Chap. X).

Malheur a ceux qui on besoin d'autrui.

Ceux-là peuvent se soutenir d'eux mêmes, qui ont assés d'hommes ou d'argent, pour métre une bonne armée sus pié, et donner bataille à qui que ce soit qui les vienne assaillir. Au contraire ceux-là ont toujours besoin d'autrui, qui sont contraints de se tenir enfermés dans leurs villes, faute de pouvoir paroitre en campagne (Ivi).

Il n'y a pas d'austre segret que celui là.

Quan cela, on est perdu.

Le villes d'Alemagne.... n'obéissent qu'à leur mode à l'Empereur, qu'elles ne craignent point, ni pas-un autre voisin puissant (Ivi). Cela est fort changé.
Comme elles ont toutes de fortes murailles, de grans fossés,... un chacun voit, que les siéges de ces villes seroit long et pénible (Ivi).

Elle son venales.

Les choses du monde sont si sujétes au changement, qu'il est presque impossible de tenir, un an durant, le siége devant une place (Ivi). Quelle place durera tant, si elle est attaqué comme il faut, sen estre secourue.
C'est la coutume des hommes d'aimer autant pour le bien qu'ils font, que pour celui qu'ils reçoivent (Ivi). Il n'a pas tort.
Agricola renouvelloit tous les ans les garnisons et les munitions des places, afin qu'elles pussent soutenir un long siége (Ivi, in nota).

Il y a du pour et du contre.

Il ne me reste plus à parler, que des Principautés Eclésiastiques, qui sont dificiles à aquerir, mais faciles à conserver, parcequ'elles sont apuiées sur de vieilles coutumes des religion, qui sont toutes si puissantes, que de quelque maniére qu'on se gouverne, l'on s'y maintient toujours. Il ri y a que ces Princes, qui ont un Etat, et qui ne le défendent point; qui ont des sujets, et qui ne les gouvernent point. Il n'y a qu'eux, qui ne sons point depoüillés de leurs Etats, quoiqu'ils les laissent sans défense, et qui ont des sujets, qui n'ont ni la pensée, ni le pourvoir de s'aliéner d'eux. Ce sont donc là les seules Principautés assurées et hureuses. Mais comme elles sont régies et soutenües par des causes supérieures, où l'esprit humain ne sauroit ateindre, ce seroit présomption et témérité à moi d'en discourir. Néammoins, si quelqu'un me demande, d'où vient que l'Eglise est devenüe si puissante dans le temporel, qu'un roi de France en tremble aujourdhui, et qu'elle l'a pu chasser de l'Italie, et ruiner les Venitiens; au lieu qu'avant le Pontificat d'Aléxandre, non seulement le Potentats d'Italie, mais même les moindres barons et seigneurs Italiens la craignoient peu à l'egard du Temporel; il ne me paroit pas inutile de le remémorer.... Avant que Charles, Roi de France passât en Italie, céte province étoit sous l'empire du Pape, des Venitiens, du Roi de Naples, du Duc de Milan et des Florentins. Ces Potentats avoient deux principaux soucis, l'un d'empêcher, que les armes étrangères n'entrassent en Italie, l'autre, que pas-un d'eux ne s'agrandit davantage (Chap. XI).

Plus tan.

Tout les prince d'aujourdhui son ecclesiastiques a ce propos.

Toutte l'Italie est dans cet estat, et un grande partie de l'Europe.

Peut on [e]stre plus malheureux que le son le peuples de l'Estat ecclésiastique sous Inn. XI.

Il a raison.

Ce temps est passé.

On le feroit enco[re] il suffiroit de vouloir.

Alexandre VI estoit un gran Pape quoy que l'on dise.

A presen on ne craint plus ni le temporel ny le spirituel.

Trop de maistres.

Ce soins estoit bien fondé.

Celà ne se pouvoit à la longe.

Pour humilier le Pape, l'on se servoit des barons Romains, qui étant partagés en deux factions, les Ursins et les Colonnes, avoient toujours les armes à la main, pour vanger leurs queréles, jusque sous les yeux du Pape, ce qui enervoit le Pontificat (Ivi).

A present on ne se sert que de lui mesme.

Si Machiavel estoit vivant, que diroit il a present.

Une dixaine d'années, que vivoit un Pape, sufisoit à peine, pour abaisser l'une des factions.... Cela faisoit que les forces temporelles du Pape étoient méprisées en Italie. Il vint enfin un Alexandre VI, qui montra mieux que tous ses prédécesseurs ce qu'un Pape est capable de faire avec de l'argent ed des armes. Témoin tout ce que j'ai dit qu'il fit par le moien du Duc de Valentinois, et des François (Ivi).

Il raisonne bien.

On peut doutter s'il ont jamais ésté plus méprisés qu'a present.

Que ne peut faire un Pape, qui [a] du savoir faire avec de l'argent et des armes.

Il fist san doutte des grandes choses avec des instruments et moiens detestables.

Jules, successeur d'Alexandre, trouvant.... un chemin ouvert aux moiens de tesauriser (de quoi nul Pape ne s'étoit encore avisé avant Aléxandre)..., non seulement il suivit ces traces, mais enchérissant même per dessus, il se mit en tête d'aquérir Bologne, de ruiner le Vénitiens, et de chasser les François de l'Italie. Ce qui lui réüssit avec d'autant plus de gloire, qu'il fit tout cela, pour agrandir l'Eglise, et non pour avancer les siens. Il laissa les Ursins et les Colonnes au même état qu'il les trouva, et bien qu'il y eût quelque sujet d'altération entre eux, néanmoins deux choses les retinret dans le devoir, l'une la grandeur de l'Eglise qui les abaissoit, l'autre de n'avoir point de Cardinaux de leur maison (Ivi).

Je n'en croi rien.

Brave Pape.

Cet la le vray devoir des Papes.

C'est le segret.

Ainsi, Léon X a trouvé le Pontificat à un très-haut degré de puissance: et il y a lieu d'espérer, que comme Aléxandre et Jules l'ont agrandi par les armes, il le rendra encore plus grand, et plus vénérable par sa bonté, et par mille autres bonnes qualités, dont il est doüé (Ivi).

C'est les segrets.

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