CAPITOLO V.

I critici del Principe. - I contemporanei. - I Fiorentini dopo il 1530. - I difensori della Chiesa. - I gesuiti. - Carlo V e gli uomini di Stato. - I protestanti. - Cristina di Svezia, Federico di Prussia, Napoleone I, il principe di Metternich. - I filosofi ed i nuovi critici. - Il Ranke ed il Leo. - Il Macaulay. - Il Gervinus ed altri. - Il De Sanctis. - Il Baumgarten.

Sebbene il Machiavelli avesse sempre esposto le sue opinioni con una chiarezza, che può qualche volta sembrare eccessiva, pure non v'è nella storia di tutte le letterature un altro uomo che sia stato soggetto a tante e così diverse interpretazioni. Nel Principe soprattutto si sono voluti scoprire fini reconditi e misteriosi; e per meglio riuscirvi si è voluto metterlo in aperta contradizione coi Discorsi. Quando poi fu dimostrato, che questa contradizione era immaginaria; allora i sottili comenti, le artificiose ipotesi si fecero non solo sull'una e sull'altra opera ad un tempo, ma anche sulla condotta politica, sul carattere morale dell'autore. Queste interpetrazioni essendo in grandissimo numero e diversissime fra loro, spesso sostenute da uomini di molta dottrina ed ingegno, n'è finalmente avvenuto, che all'enigma del Machiavelli s'è aggiunto quello de' suoi critici. Noi siamo ben lontani dal voler compilare un elenco del numero veramente straordinario di tutti coloro che, in un modo o nell'altro, scrissero di lui. Dovremmo estenderci al di là d'ogni giusto limite, oltre di che, questo è un lavoro cominciato già da molto tempo, e mirabilmente compiuto poi dal Mohl, il cui scritto oggi avrebbe bisogno solamente d'essere condotto dall'anno 1858, in cui fu pubblicato, fino ai nostri giorni. Ma a noi qui importa ricordar solo i principali comentatori ed espositori, per determinare le diverse correnti che seguì la critica, ed indagare le cagioni di tanti e così opposti modi di giudicare uno stesso autore.

Finchè visse il Machiavelli non furono dati alla stampa nè i Discorsi, nè il Principe. Questo ben presto girò, per le mani di molti, in più copie manoscritte, alcune delle quali si trovano ancora oggi in varie biblioteche italiane e straniere.

La prima edizione del Principe è quella stampata dal Blado a Roma, cum Gratia et Privilegio di N. S. Clemente VII, nel gennaio del 1532, il che vuol dire cinque anni dopo la morte del Machiavelli. Nel maggio dello stesso anno la medesima edizione fu riprodotta in Firenze da ser Bernardo di Giunta, e senza giusta ragione, come dimostrò il prof. Lisio, si credette che questa riproduzione fosse condotta sull'autografo, che sfortunatamente non si conosce. Uno studio assai diligente dei più antichi manoscritti, confrontandoli fra loro e con le due antiche edizioni, fu fatto dallo stesso prof. Lisio, il quale si provò a darci una edizione critica del testo, avvicinandolo, per quanto era possibile, a quello che presumibilmente era stato l'autografo. L'impresa doveva riuscire di una estrema difficoltà, perchè non solo le lezioni (spesso arbitrarie) dei codici più antichi e delle due prime edizioni differiscono fra loro; ma l'ortografia e le forme grammaticali usate dal Machiavelli nei suoi autografi variano continuamente. Una norma sicura da seguire costantemente non è quindi possibile trovarla, ed in ogni caso non varrebbe a darci una immagine fedele della spontanea mutabilità dell'originale. Non è perciò da maravigliarsi se, non ostante la sua molta diligenza ed il buon metodo, il prof. Lisio, pure avvicinandosi più degli altri a quello che dovette essere l'autografo, non riuscì sempre a contentare i critici. Non può infatti soddisfare l'avere egli adottato certe forme come, per esempio, preta per pietra, torgnene per toglierne, posserno, possuto e possè, per poterono, potuto e potè, specialmente quando anche alcuni degli antichi manoscritti e delle antiche edizioni adottarono le forme meno lontane dall'uso comune e più moderne.

Uno dei codici più autorevoli che abbiamo del Principe è quello che si trova nella Laurenziana (Pluteo XLIV, cod. 32), da alcuni ritenuto di mano del fido Buonaccorsi e da lui indirizzato a Pandolfo Bellacci con una lettera, nella quale dice che gli manda l'opera «nuovamente composta» dal Machiavelli, e che in essa troverà descritte «tutte le qualità de' principati, tutti i modi a conservarli, tutte le offese di essi, con una esatta notizia delle istorie antiche e moderne.» Lo prega poi di apparecchiarsi «acerrimo difensore contro a tutti quelli che, per malignità o invidia, lo volessino, secondo l'uso di questi tempi, mordere e lacerare.» Tali parole dimostrano, che già si temevano critiche, non però uno scandalo; e provano ancora, che un uomo di mediocre ingegno, ma di animo onesto quale era il Buonaccorsi, aveva abbastanza chiaramente inteso il significato e lo scopo manifesto del libro, riconoscendone il valore. Il Vettori, come noi vedemmo, appena che ebbe letto i primi capitoli del libro, gli aveva assai lodati. Il Guicciardini, quando esaminò i Discorsi, s'era più volte fermato a quelle massime appunto, che si ritrovano anche nel Principe, e se spesso aveva dissentito dal Machiavelli, non s'era poi molto scandalizzato, nè aveva fatto cenno alcuno che altri avesse allora protestato. È difficile supporre, che se scandalo vi fosse stato davvero, non se ne trovasse almeno qualche ricordo nelle lettere del Machiavelli o in quelle a lui dirette. Leone X non lo avrebbe consultato, come fece, sulla politica generale e sulle condizioni di Firenze; Clemente VII non gli avrebbe fatto aver la commissione di scriver le Storie, nè lo avrebbe più tardi adoperato, come vedremo, in ufficî di qualche importanza.

V'è un altro fatto, il quale conferma quello che noi diciamo, e dimostra ancora che il Principe, prima d'essere pubblicato, ciò che avvenne solo nel 1532, era assai conosciuto e diffuso in Italia. Agostino Nifo di Sessa, filosofo di mediocre ingegno, ma pur molto lodato allora, insegnò qualche tempo a Pisa, fino all'anno scolastico 1521-22. Tornato a Napoli, egli pubblicava nel 1523 un libro intitolato: De regnandi peritia, il quale non è altro che una imitazione, anzi cattiva traduzione latina del Principe. Lo divise in quattro libri, sopprimendone l'ultimo capitolo, quello che conclude l'opera con la celebre esortazione a liberare l'Italia, aggiungendovi invece di suo un quinto libro, diviso in pochi capitoli, che trattano di quelli che egli chiama i modi onesti di governare, ripetendo in essi i soliti luoghi comuni sulle virtù del buon Sovrano. Evidentemente il Nifo pretendeva d'aver così compiuto, anzi corretto il Principe, di cui mostrava invece di non aver capito nè il significato, nè il valore. Questa cattiva copia egli dedicava, come suo lavoro originale, a Carlo V, dicendogli che in esso avrebbe trovato brevemente esposte le azioni dei tiranni e dei re, «come nei libri dei medici si trovano indicati i veleni e gli antidoti.» Il Machiavelli, fin da quando scriveva il suo libro nel 1513, aveva, come noi vedemmo, temuto che qualcuno si volesse far bello dell'opera sua. Pure della pretesa imitazione, che fu molto lodata dai letterati napoletani, non pare che s'accorgesse o desse molta importanza al plagio. Fu però ben presto notato da altri, ed ai giorni nostri molti se ne occuparono. Primo fra questi v'accennò il Ferrari. Poi se ne occupò il Settembrini, il quale da principio credette che il Machiavelli avesse imitato il Nifo; più tardi suppose che l'uno o l'altro avesse imitato Isocrate. Il Nourrisson, in un suo libro sul Machiavelli, pubblicato nel 1875, credendo d'essere il primo a notare le somiglianze, si fermò a dimostrare il plagio; e suppose che fosse rimasto lungamente inosservato, perchè il Nifo era poco conosciuto, e perchè le massime che i due scrittori sostenevano, non avevano allora nulla di singolare, essendo, come egli dice, la moneta corrente a quel tempo. Bisogna però notare che il Nifo, professore nell'Università di Pisa, non era uno sconosciuto, e che il plagio, come vedremo, non era rimasto ignoto neppure ai contemporanei. Egli pubblicò il suo libro quattro anni prima della morte del Machiavelli. Oltre di ciò, con le modificazioni e aggiunte fatte nel suo scritto, il Nifo aveva cercato di attenuare l'effetto che certe massime troppo audaci potevano produrre sull'animo dei lettori; e così modificato, aveva dedicato il suo lavoro a Carlo V. Il che sembra provare che quelle massime non erano poi interamente, secondo affermava il Nourrisson, la moneta corrente a quel tempo. E come questi aveva ignorato i suoi predecessori, così non li conobbe neppure il prof. Francesco Fiorentino, il quale credette anch'egli d'essere stato il primo a scoprire il plagio. Aggiunse però alcune utili notizie sulla vita del Nifo.

Recentemente della stessa questione si è occupato a lungo e con diligenza il Tommasini. Egli non vuol credere ad un vero e proprio plagio (II, 137 e nota 2). Il Nifo, secondo lui, avrebbe pensato piuttosto ad un rifacimento in latino e con forma peripatetica, seguendo il gergo della scuola. - Il Machiavelli, egli dice, «se ne compiacque forse,» quantunque non amasse quel gergo scolastico. - Al plagio però, che a me parve evidente, credettero non solo i moderni, ma anche gli antichi. Bernardo di Giunta, nella sua lettera dedicata a Monsignor Gaddi, premessa alla prima edizione del Principe (1532), allude evidentemente al Nifo, quando dice: «Con ciò sia che di già, siano stati di quegli che in buona parte tradottala nella lingua latina, l'abbiano per sua mandata fuori in stampa come facilmente potrà vedere chiunque.» E nella stessa lettera, ripetendo la raccomandazione già fatta dal Buonaccorsi al Bellacci, prega Monsignor Gaddi di difendere il libro «da quelli che, per il suo soggetto, lo vanno ogni giorno lacerando sì aspramente, non sapendo che coloro i quali insegnano le medicine, insegnano del pari i veleni, acciò possano difendersene.» Eran queste le parole stesse adoperate dal Nifo nella sua lettera a Carlo V, parole le quali pare che facessero fortuna, giacchè le troviamo ripetute fino ai nostri giorni.

Le condizioni politiche e la pubblica opinione s'andarono, dopo la morte del Machiavelli, rapidamente mutando in Firenze. Dopo l'assedio e la resa della Città nel 1530, i Medici tornarono colla forza, non più come timidi protettori d'una repubblica efimera, ma come tiranni assetati di vendetta; e ben presto cominciarono gli esilî, le persecuzioni, le condanne a morte. Se quindi al tempo di Giuliano e Lorenzo nessuno aveva biasimato il Machiavelli, perchè voleva servire i Medici, nè il Principe aveva dato origine a sospetti o calunnie, ora invece cominciarono a giudicarsi diversamente il libro ed il suo autore. Perchè un repubblicano aveva cercato di servire la famiglia di coloro che erano stati sempre tiranni della patria? Che scopo aveva egli avuto nel dare a Lorenzo, uomo di sua natura dispotico e crudele, consigli intorno al modo di conservare il principato e la tirannide? Così l'antica invidia e i nemici che lo spirito mordace del Machiavelli gli aveva suscitati, si ridestavano. E tanto è vero che il modo di vedere e di giudicar le cose politiche s'era in pochi anni sostanzialmente mutato, che coloro stessi i quali volevano difenderlo, ricorrevano ora ad argomenti, ai quali nessuno aveva prima pensato. Si disse che, se aveva nel suo libro insegnato ai principi come farsi tiranni, aveva anche insegnato ai popoli come spegnerli. Si aggiunse da altri, che egli aveva dato quei consigli a Lorenzo, perchè seguendoli andasse ad inevitabile rovina. Si pretese ancora, che il Machiavelli stesso si fosse a questo modo difeso, nel rispondere agli amici che lo avevano accusato o interrogato; ma di ciò non v'è traccia o memoria alcuna durante la sua vita, nè risponde punto alle intenzioni da lui realmente avute, e francamente manifestate.

Se si fosse tenuto conto di questo mutamento della pubblica opinione in Firenze, non si sarebbe dato gran peso ad una lettera scritta l'anno 1549 dal Busini a Benedetto Varchi. In essa, riconoscendo pure che il Machiavelli «amava la libertà estraordinarissimamente,» aggiungeva che tutti l'odiavano. «Ai ricchi pareva che quel suo Principe fosse stato un documento da insegnare al Duca tor loro tutta la roba, ai poveri tutta la libertà. Ai Piagnoni pareva che e' fosse eretico, ai buoni disonesto, ai tristi più tristo e più valente di loro, talchè ognuno l'odiava.» Ed il Varchi ripetè nella sua Storia le medesime accuse. Ma se la lettera del Busini fu scritta ventidue anni dopo la morte del Machiavelli, e diciannove circa dopo il ritorno dei Medici, il Varchi, che se ne valse, compose più tardi ancora la sua opera, per ordine del duca Cosimo, quando tutto era mutato, non solo in Firenze, ma anche in Italia ed in Europa. La repubblica era spenta per sempre, il dominio assoluto dei Medici era costituito, gli stranieri percorrevano da padroni la Penisola. La riforma aveva ridestato il sentimento religioso in Germania, e la Chiesa cattolica costretta a reagire, a correggersi, si trovava in condizioni ben diverse da quelle del Rinascimento. Il Machiavelli l'aveva accusata d'essere stata sempre la rovina d'Italia, il principio della corruzione del mondo: queste ed altre sanguinose ingiurie non si potevano ora ascoltare o leggere con la quasi indifferenza con cui le avevano udite Leone X e Clemente VII. Coloro i quali lavoravano a ricostituirne l'autorità, a restituirle la direzione suprema delle coscienze, della condotta politica dei governanti, dovevano naturalmente vedere un nemico da combattere, da distruggere in colui che aveva parlato di essa con tanto disprezzo, che aveva voluto sottometterla allo Stato, occupandosi della religione solo come un mezzo di governo. E così fu che il Machiavelli si trovò a un tratto circondato da mille nemici, esposto al fuoco incrociato delle loro armi. Gli esuli fiorentini non gli perdonavano il desiderio manifestato di voler servire i Medici e i consigli dati a Lorenzo; i sostenitori del nuovo Duca non gli perdonavano i suoi sentimenti repubblicani e l'odio ai tiranni, che egli aveva smascherati; i protestanti erano scandalizzati del suo indifferentismo religioso, e del modo in cui aveva parlato del Cristianesimo; la Chiesa cattolica vedeva in lui l'idra da calpestare.

Infatti i primi suoi fieri assalitori furono uomini di Chiesa. Incominciò il cardinal Reginaldo Polo, dicendo nella sua Apologia, che le opere del Machiavelli erano state scritte col dito del diavolo, che egli aveva mirato alla rovina di coloro stessi cui aveva dato consigli, che la sua vita non poteva non essere stata trista e detestabile al pari de' suoi scritti. Seguirono il vescovo di Cosenza Catarino Politi, il vescovo portoghese Osorio, ripetendo le medesime ingiurie. Ma la battaglia regolare fu intrapresa dai gesuiti, i quali, lavorando a tutta possa per rimettere lo Stato sotto la Chiesa, e credendo giustificato, santificato ogni mezzo che conducesse a questo fine, divennero i nemici dichiarati di colui che aveva combattuto per l'indipendenza dello Stato. Incominciarono quindi col farlo bruciare in effigie ad Ingolstadt, ed indussero nel 1559 Paolo IV a metterne all'Indice le opere, con decreto che fu nel 1564 confermato dal Concilio di Trento. Il Possevino, promotore di tutto ciò, fu anch'egli dei primi e più fieri ad assalire il Machiavelli. Non gli negava ingegno, ma gli negava religione, morale ed anche vera conoscenza del mondo. I suoi consigli, così diceva, porterebbero a sicura rovina chiunque li seguisse. Ma questa sua critica era fatta in modo, che subito si vide che egli non aveva neppur letto il Principe, che, fra le altre cose, supponeva diviso in varî libri, quando è solo diviso in capitoli. In sostanza al Machiavelli si faceva allora una guerra di partito. Egli era divenuto per questi avversarî una specie di mito, che rappresentava l'opposizione dello Stato alla supremazia della Chiesa. Lo chiamavano autore della così detta Ragione di Stato, parole che non furon mai da lui pronunziate nè scritte. Combattendolo, volevano sopra tutto sostenere, persuadere, che chiunque, privato cittadino o principe, non si fosse lasciato guidar dalla Chiesa, era un nemico di Dio e del genere umano. Qualunque arme a questo fine adoperata era buona, era santa.

E che tal fosse veramente lo scopo che avevano, apparisce assai chiaro dalle loro stesse parole. Il gesuita Ribadeneira pubblicò varie opere a difesa «delle virtù vere e non simulate dei principi,» contro il Machiavelli. E in una di esse, rivolgendosi al principe ereditario di Spagna, che stava per succedere a Filippo II, dice che «l'infernal fuoco dei politici e machiavellisti va dilatandosi per tutto, e minaccia di bruciare il mondo.» Lo consigliava perciò d'imitare l'esempio di Ferdinando di Castiglia, il quale non si contentava di far condannare gli eretici; ma quando dovevano esser bruciati, «andava egli stesso a porvi di propria mano il fuoco e le legna, per fare il sacrificio.» Chi non fa a questo modo, egli aggiunge, va incontro a certa rovina. Infatti Enrico III di Francia, che invece di farsi regolare dalla legge del Signore, prese consiglio dai politici e machiavellisti, dovette, per giusto giudizio di Dio, «morire per mano d'un povero frate, giovine, semplice e pio, d'una ferita che li diede con un picciol coltello nella propria sua stanza.»

Il frate Bozio da Gubbio, dell'Oratorio, assalì il Machiavelli, per ordine d'Innocenzo IX, usando un linguaggio molto più temperato; ma facendo comprender del pari, che il suo scopo finale era pur quello di ristabilire, al di sopra delle repubbliche e dei principi, il papato di Gregorio VII e di Bonifacio VIII. E così si continuò fino al Machiavellismo degollato del gesuita spagnuolo Clemente, ed al Saggio della Sciocchezza di Niccolò Machiavelli, che fu scritto dal gesuita italiano Lucchesini, e che i librai chiamarono Le sciocchezze del padre Lucchesini, solo titolo che davvero meritasse.

Chi ne abbia voglia, può trovare molte notizie sopra altri simili scrittori nel Cristio e nel Mohl. La loro critica è però sempre la stessa, accecata sempre dalle stesse passioni, senza mai alcun valore scientifico. Tutto il loro metodo si riduce a separare le sentenze del Machiavelli dalle condizioni in cui furono pensate ed esposte, dallo scopo che avevano, considerando e giudicando come massime di morale assoluta, quelle che sono norme di condotta politica, e così vengono alterate in modo da non poterle più riconoscere. Certo si può discutere, si può trovar modo di combattere uno scrittore, il quale dice: in politica, in diplomazia è lecito qualche volta mentire; in uno Stato gettato nel disordine dalla violenza dei partiti e delle ribellioni, si possono, debbono usar la forza, la violenza, anche l'inganno, per rimetterlo in condizioni normali; il Principe deve, se anche non crede alla religione, fingere di credervi e rispettarla. Ma se, per meglio combattere queste sentenze, si fa, in termini generali, dire allo scrittore, che bisogna mentire, ingannare, esser crudele, e finger di credere quello che non si crede o si disprezza, allora cessa la possibilità d'ogni discussione, e si ha facile vittoria contro un mostro, che però esiste solo nella immaginazione del critico. Questo è quello che assai spesso si fece contro il Machiavelli, e non senza fortuna, riuscendosi a farlo passare presso i più per un nemico della morale, della religione e della giustizia, animato da una sola passione: l'odio del bene.

Mentre però si continuava questa facile e fortunata crociata, seguiva un fatto singolare, che obbligava a riflettere. Le edizioni e le traduzioni del Principe si moltiplicavano, ed il libro faceva grande cammino nel mondo. È certo che Carlo V lo studiava con diligenza, che i suoi cortigiani e suo figlio lo leggevano. Il cardinal Polo lasciò scritto, che Tommaso Cromwell, l'accorto, audace e potente ministro di Enrico VIII d'Inghilterra, gli espresse la sua grande ammirazione pel Principe, dicendo d'averlo preso a guida della propria condotta politica. E sebbene la verità di questa asserzione sia stata recentemente negata, pure l'essere essa stata creduta e ripetuta da storici autorevolissimi, è un'altra prova della opinione universalmente accolta, che cioè i più celebri politici del secolo XVI studiassero e pigliassero a modello il Principe. Certo è che il cardinale di Richelieu dette incarico di scrivere un'apologia del Machiavelli a Luigi Machon, arcidiacono di Toul. Questi che, contro l'opinione de' suoi concittadini, era un dichiarato fautore della politica d'annessione della Lorena alla Francia, sostenuta dal Cardinale, non potè compiere la sua opera prima del 1643, quando cioè il suo protettore era già morto. Così essa restò non solo inedita, ma per molto tempo anche poco nota, ignorandosene perfino l'autore. Pure sembrò scritta con tanto calore, con tanta eloquenza, che alcuni vollero attribuirla perfino al Pascal. Ora però che è stata da molti esaminata, studiata, in parte anche pubblicata, si può affermare, che non ha nessun valore scientifico, essendo l'opera non di un critico, ma di un avvocato, il quale, difendendo il Machiavelli, voleva difendere la politica del Richelieu. Ed in ciò sta la sua storica importanza. Caterina dei Medici, secondo uno scrittore moderno, fu quella che introdusse la prima volta il Principe in Francia, dove il Machiavelli acquistò una vera cittadinanza, esercitando, secondo l'espressione di un moderno, un'autorità quasi dinastica, nella Corte e nelle guerre di religione. Si affermò ancora che Enrico III ed Enrico IV avevano indosso il Principe quando furono uccisi. Sisto V ne fece di sua propria mano un sunto. Il fatto certo è che gli uomini di Stato leggevano allora con avidità il Machiavelli, perchè in lui trovavano il solo scrittore, che parlasse un linguaggio che rispondeva alla realtà delle cose, e desse consigli i quali riuscivano davvero praticamente applicabili nella condotta generale dei grandi affari politici. Tutti coloro che, in un modo o nell'altro, consapevolmente o inconsapevolmente, lavoravano alla ferma costituzione ed alla durevole indipendenza del nuovo Stato, dovevano riconoscere che esso s'andava costituendo sulle rovine del Medio Evo, per opera di principi quali appunto il Machiavelli li aveva descritti. Chiara appariva allora l'altezza del suo genio politico, trovandosi in lui solamente la vera spiegazione, e fino ad un certo segno anche la storica giustificazione della realtà in mezzo alla quale si viveva. E quando a questa corrispondenza del libro colla realtà, anzi in conseguenza di essa, si aggiunse la continua lettura che ne facevano allora i più grandi uomini di Stato, e la esplicita ammirazione che perciò professavano al suo autore, si finì col credere che tutto quello che allora seguiva in Europa, era conseguenza delle dottrine esposte nel Principe. E ciò appunto doveva procurare al Machiavelli un'altra serie di non meno implacabili e più formidabili nemici.

Quando il potere regio fu assicurato e l'unità dello Stato consolidata in Europa, cominciò subito la lotta di coloro che volevano mettere un freno al dispotismo crescente, per salvare la libertà politica e l'indipendenza delle coscienze. Il Machiavelli s'era nei Discorsi occupato solo della prima, lasciando sempre da parte il problema della libertà di coscienza, e nel Principe aveva soprattutto dimostrato la necessità di sospendere ogni franchigia per poter costituire lo Stato. Egli doveva quindi facilmente apparire allora, come il sostenitore del dispotismo; fu infatti odiato da tutti coloro che combattevano per le nuove libertà. E vediamo quindi entrare in lizza i protestanti, specialmente in Francia, dove allora si trovavano in lotta colla monarchia, cui domandavano la libertà di coscienza. Essi odiavano il Machiavelli, che era tenuto ispiratore della politica della Corte, e che sapevano poco fervido cristiano, indifferente verso la religione, di cui aveva parlato solo come mezzo di governo.

Primo di tutti fra costoro si presenta Innocenzo Gentillet, il quale, attribuendo alle dottrine del Principe le stragi della notte di San Bartolommeo, e scrivendo sotto l'azione di un tale convincimento, assaliva senza pietà il Machiavelli, che chiamava ce chien impur. Sebbene il Gentillet abbia uno scopo assai diverso, anzi contrario a quello dei gesuiti, pure egli in sostanza segue la loro stessa critica. Riduce cioè le parole del Machiavelli a sentenze generali di condotta morale, dopo di che gli è facile accusarlo d'immoralità, d'iniquità. E non basta, perchè gli nega anche l'ingegno. La sua politica, egli dice, non arriverebbe mai allo scopo che si propone: non conobbe che i piccoli Stati in dodicesimo dell'Italia, e gli mancò quindi una vera cognizione della storia e del mondo: De jugement naturel, ferme et solide, Machiavel n'en avait point. Pure una critica così superficiale, nè punto nuova, fece allora grande fortuna, perchè rispondeva ad un nuovo bisogno dei tempi. Essa, è vero, ripeteva cose vecchie, ma con uno scopo affatto diverso, a difesa cioè della libertà religiosa, non del dispotismo teocratico; e però il libro del Gentillet venne subito imitato, copiato da molti. Così il Machiavelli si trovò assalito con le stesse armi dai gesuiti e dai protestanti, dai sostenitori del dispotismo e dagli amici della libertà.

Ma il primo degli avversarî, che ebbe un ingegno veramente originale, fu Giovanni Bodino, il celebre autore del libro De Republica, in cui il Machiavelli è continuamente preso di mira. Il Bodino non è un protestante; ma si connette con lo spirito della Riforma, sebbene da un altro lato sia ancora legato al Medio Evo. Egli oscilla fra il metodo storico ed il metodo scolastico-teologico, fra l'esperienza e le scienze occulte, con le quali ultime pretende qualche volta di spiegare le rivoluzioni politiche. In sostanza il Bodino si proponeva di far quello appunto che il Machiavelli aveva dichiarato inutile e puerile, costruire cioè uno Stato a priori; esaminare non quel che fanno gli uomini, ma quel che dovrebbero fare, e persisteva nelle sue teorie, che credeva sostenute dalla ragione, anche quando non poteva metterle d'accordo colla storia e colla realtà. Si credeva predestinato a fondare la politica sulla morale cristiana, facendo del sovrano un modello di virtù. Con tali idee egli doveva di necessità trovarsi in contradizione col Machiavelli; ed infatti egli continuamente assale «questo tristo uomo, che è venuto in voga fra i cortigiani, e mena vanto del suo ateismo. Coloro i quali sanno veramente ragionare degli affari di Stato, converranno però che egli non si addentrò mai nelle profondità della scienza politica, la quale non consiste in quelle furberie tiranniche, andate da lui cercando in tutti gli angoli d'Italia. Il suo Principe innalza fino al cielo, e prende a modello dei re il più sleale figlio di prete, che sia mai esistito al mondo, e che, non ostante tutta la sua accortezza, precipitò vergognosamente qual furfante che era. Così è sempre avvenuto ai principi che ne hanno seguito l'esempio, andando dietro ai precetti del Machiavelli, il quale pone a fondamento della sua repubblica l'empietà e l'ingiustizia.»

Insieme col Bodino possiamo citare anche Tommaso Campanella, filosofo di molto ingegno, che cospirò in Calabria contro il dispotismo spagnuolo, e sopportò con eroismo una prigionia di molti anni, una tortura prolungata e crudelissima. Anch'egli ogni volta che incontra il Machiavelli, lo morde ferocemente. Il Campanella era frate domenicano, nemico degli eretici, che voleva estirpare; autore della Città del Sole, che è un'utopia filosofica, della Monarchia di Spagna e della Monarchia Messianica, altre due utopie, con la prima delle quali sosteneva il dominio universale della Spagna, che poi sottoponeva nella seconda alla Chiesa universale. Ci vuol quindi assai poco a capire che doveva essere nemico del Machiavelli: infatti lo chiama sempre tristissimo uomo, inventore della ragione di Stato, che sostituisce l'interesse del sovrano a quello del popolo, e segue l'egoismo invece d'uniformarsi alla schietta giustizia, la quale guarda alla ragione universale, eterna.

così la questione del Machiavelli era pei protestanti e pei cattolici, pei filosofi e pei teologi divenuta un caso di coscienza. Molti credevano che per assalirlo non fosse neppur necessario leggerne le opere. Egli era il tristo, l'eretico, il cane impuro, l'ateo che conduceva a rovina la società e chiunque lo seguiva. E sebbene una tale critica non avesse ombra di carattere scientifico, continuò tuttavia a trovare seguaci fino ai nostri giorni. Citiamo un ultimo e più recente esempio. Il signor Barthélemy Saint-Hilaire ha premesso alla sua traduzione della Politica d'Aristotele una prefazione. In essa si dichiara partigiano deciso di Platone, «che fondò la politica sulla morale,» e condanna Aristotele, «che volle invece fondarla sui fatti e sulla storia, la quale sollevò all'altezza d'un metodo. Polibio andò oltre per questa via, arrivando sino all'empirismo, col quale apparecchiò il terreno al Machiavelli, che merita addirittura l'obbrobrio universale. I personaggi che questi prende a modello, Alessandro VI e Cesare Borgia, sono dei mostri, ed egli approva senza esitare lo spergiuro, il veleno, l'assassinio. Pour peindre d'un mot tout cette politique, c'est le génie appliqué à la scélératesse.» Il dotto scrittore esalta lo stile del Machiavelli al di sopra d'ogni elogio, e conclude dicendo: «che se nelle opere di lui, alla parola succès si sostituisse le bien, allora veramente ci sarebbe molto da imparare intorno agli affari. Ma in sostanza, il metodo storico che aveva portato qualche conseguenza dannosa in Aristotele, che in Polibio viene esagerato, non ha più nel Machiavelli nè freno nè pudore. Ciò che principalmente a lui manca sono le idee generali. Del resto qualunque sieno i suoi meriti, la sua politica rimarrà per sempre disonorata. E di ciò due sono le cagioni: la perversità del cuore ed il cattivo metodo, che egli non ha neppure inventato, ma solo spinto agli estremi.» Noi abbiamo già detto, che il carattere d'un uomo non è stato, nè sarà mai un criterio sufficiente a spiegare e giudicare il suo sistema scientifico. Basta forse a condannare la filosofia di Bacone da Verulamio il suo carattere immorale? E quanto al metodo, il Barthélemy Saint-Hilaire è addirittura fuori di strada, essendo troppo manifesto che quello di Aristotele solamente, non quello di Platone, poteva riuscire, come riuscì di fatto, a creare la scienza politica, la quale se non si fonda sulla esperienza e sulla storia, rimane sospesa in aria. Così noi troviamo anche qui ripetute vecchie ed ormai insostenibili accuse, che rendono il dotto Francese del pari ingiusto verso Aristotele e verso il Machiavelli.

Ma a questo toccava di peggio. Finora i soli che abbiamo trovati a lui favorevoli, sono stati alcuni sovrani o i loro ministri. Ben presto anch'essi cominciarono a volgerglisi contro. Col cadere del secolo XVI le condizioni politiche dell'Europa mutavano di nuovo, ed il sovrano trovavasi nel proprio Stato in una posizione sostanzialmente diversa da quella tenuta nel Rinascimento. Non si trattava più di conquiste contro il feudalismo già domato, contro piccole repubbliche e governi locali già scomparsi; il potere sovrano non era più oscillante ed incerto, ma stabilmente assicurato alle dinastie regnanti. Intanto sorgeva nelle monarchie un popolo nuovo, a cui i re sentivano bisogno di avvicinarsi, per trovare aiuto nella lotta contro l'aristocrazia, nelle guerre che facevan tra loro; per ricever forza dal benessere, dall'incremento morale, civile, industriale di tutti. E così si apparecchiava la via a quelli che furono nel secolo XVIII chiamati principi illuminati e riformatori. Essi sentivano ora di dover essere il capo e la guida dello Stato, i rappresentanti del popolo, i sostenitori o promotori de' suoi veri interessi; non potevano, non volevano quindi più vedere nel Principe, la loro immagine. Questo sovrano che sembrava confondere lo Stato con la sua persona; occuparsi solo di consolidare il proprio potere; presumer di dare al popolo la forma che più a lui piaceva, più a lui conveniva, si presentava ai loro sguardi come la negazione della vera e giusta politica, fatta a vantaggio delle moltitudini, secondo le norme della nuova filosofia. E così anche i re ed i loro ministri divennero finalmente nemici del Machiavelli.

C'è una traduzione francese del Principe, stampata in Amsterdam nel 1683, ed un esemplare di essa fu annotato di mano della ex-regina Cristina di Svezia. L'occhio corre avido a leggere queste note finora inedite, scritte in un francese assai svedese, da una donna culta e d'ingegno, che fu a capo d'uno Stato forte e d'un popolo valoroso; che menò una vita piena delle più singolari vicende; che abbandonò prima la corona, poi la religione de' suoi padri, e si fece cattolica; che non fu senza capacità politica, e non ebbe molti scrupoli; che si macchiò, quando non era più sovrana, del sangue d'un uomo che aveva amato, e finì ritirata in Roma fra gli artisti, meditando sul Principe del Machiavelli. La sola conseguenza che si possa però cavare dalla lettura di quelle note, è che la Regina viveva in un periodo di transizione, e che però la sua mente oscillava incerta fra quell'ammirazione che Carlo V e Richelieu avevano avuta pel Machiavelli, e l'avversione che dovevano fra poco avere per lui i principi riformatori. Ella senza dubbio ammira il Principe, e di continuo scrive nei margini: Que cela est bien dit! - Que ceci est beau et vrai! - Vérité incontestable! - Maxime admirable! - Spesso però respinge sdegnosa altre sentenze. Quando il Machiavelli scrive, che chi vuole esser leale fra molti tristi, trova la sua rovina, ella esclama: «Che importa? Non v'è interesse più grande, che quello di mantenere la propria parola.» Ed altrove: «Io dubito che l'impero del mondo valga un tal prezzo.» Ma poi si va di nuovo lentamente riavvicinando al Machiavelli, e quando questi racconta le uccisioni commesse dal Valentino in Romagna, ella riconosce che furono scelleraggini; ma freddamente aggiunge: «Vi sono altre vie più nobili e più sicure per disfarsi di qualcuno.» Conviene che la forza e le armi sono i soli mezzi che in politica riescano sempre, e quando il Machiavelli loda in termini generali la capacità e l'ardire di Valentino, ella scrive subito: «Grandi qualità! Io non ne dubito punto.» Ha molta ammirazione anche per Alessandro VI, «che fu un gran papa, checchè se ne dica.» E queste oscillazioni continuano sino alla fine. Qualche volta afferma nobilmente: «Non v'è grandezza che meriti d'esser comprata a prezzo di delitti; non si è mai grandi nè felici a questo modo; di rado i malvagi godono della loro fortuna.» Ma quando il Machiavelli discorre delle crudeltà da lodarsi o da biasimarsi, secondo che sono bene o male usate, allora l'ex-regina non resiste, e scrive in margine - Cela n'est pas mal dit. - E poco dopo riconosce, che «senza dubbio vi sono, in politica come in chirurgia, mali che si guariscono solo col sangue e col fuoco.»

Tutte queste incertezze scompariscono nel linguaggio d'un altro sovrano, venuto più tardi, ed assai superiore per ingegno e carattere politico alla regina di Svezia. Federigo il Grande di Prussia scrisse nella sua gioventù una Réfutation du Prince de Machiavel, pubblicata ai nostri giorni nella sua forma originale, ma che era già nota, per essere stata nel 1710 pubblicata dal Voltaire, riveduta e corretta da lui, col titolo: L'Antimachiavel. Il futuro Re si scaglia con tutto l'impeto del suo carattere, contro il Machiavelli, e facendosi difensore dell'onore oltraggiato dei sovrani, dice che il libro del Principe può ritenersi come lo scritto d'uno che voglia insegnare ai ladri ed agli assassini. Esaminando una ad una le principali massime del Machiavelli, le isola, come fecero il Possevino, il Gentillet e tanti altri, dalle condizioni in cui furono scritte, dallo scopo che avevano, considerandole al solito come regole generali e incondizionate di condotta, come norme di morale, e così, al pari de' suoi predecessori, ne ha subito facile vittoria; nè si avvede che in questo modo combatte non il Machiavelli, ma un personaggio fantastico di sua creazione. Egli difende con calore la lealtà, la giustizia, l'onore, che debbono essere le virtù proprie dei sovrani, e conclude al solito, che una politica come quella consigliata nel Principe condurrebbe a certa rovina chiunque volesse seguirla. Una così esplicita condanna, pronunziata da un uomo che fu poi un grande genio politico e militare, il vero fondatore della monarchia prussiana e della sua potenza, doveva certo avere un grandissimo peso a danno del Machiavelli.

Se non che si presentava molto naturale una domanda: quali norme seguì poi Federigo nella sua condotta politica, quelle del Machiavelli o quelle dell'Antimachiavelli? E la risposta non poteva essere dubbia. L'assalto inaspettato ed ingiustificato contro Maria Teresa; la conquista della Slesia; le alleanze tante volte fatte e disfatte, senza scrupoli e senza fede, provavano con ogni evidenza che egli fu nei suoi atti uno dei più fedeli seguaci di quelle dottrine del Principe, che con tanta acrimonia aveva combattute a parole. La sua biografia dimostra con lampante evidenza che, sapendo seguire i consigli del Machiavelli, non si va poi necessariamente a rovina; si può anzi fondare la gloria e la grandezza del proprio Stato; essere ammirato, quasi idolatrato dal proprio popolo, durante la vita e dopo la morte. Perchè dunque aveva il gran Re tenuto un linguaggio da lui stesso così manifestamente smentito coi fatti? Si fecero al solito mille ipotesi. Si disse che il suo alto ingegno vedeva il bene, ed il suo tristo carattere seguiva il male; si disse che l'avere egli scritto L'Antimachiavelli fu un atto del più consumato machiavellismo, con cui voleva farsi credere diverso da quel che era, per poi potere sul trono riuscir meglio nei suoi intenti. Ma queste sottigliezze non erano del suo carattere, e sono smentite nelle sue lettere, dalle quali invece apparisce che il suo sdegno contro il Machiavelli era sincero. Noi crediamo che la vera spiegazione sia molto più semplice.

Il carattere, le condizioni morali e politiche dei sovrani nei loro propri Stati apparivano allora, come abbiamo già detto, assai mutate da quel che erano state al tempo del Machiavelli. Ciò che costituisce davvero la storica grandezza di Federigo di Prussia, e ne fa, nonostante le sue colpe, un grande uomo ed un gran re, è il profondo sentimento che lo immedesimava col suo popolo. Innanzi alla battaglia di Rossbach, egli scriveva al suo primo ministro: «Se venissi fatto prigioniero, ordino che, sotto il comando di mio fratello, sia continuata la guerra, come se io non fossi mai esistito a questo mondo. Egli ed i ministri saranno tenuti a rispondermi sul loro capo, che non si penserà a nulla concedere pel mio riscatto.» Un uomo animato da questo sentimento profondo di sacrificare tutto sè stesso alla grandezza, alla gloria del suo popolo, del suo Stato, della sua patria, sebbene ad ottenere un tale scopo non si fosse lasciato mai fermare da veruno scrupolo di coscienza, doveva sentire uno sdegno invincibile contro uno scrittore, che a lui sembrava presentar come imitabile modello l'immagine d'un principe, che voleva sottomettere lo Stato, il popolo, ogni cosa al suo solo personale arbitrio. E se anche Federigo s'ingannò nel suo giudizio, ciò non esclude punto che il suo sdegno fosse sincero, quando diceva: «Il Machiavelli non ha compreso la vera natura del sovrano, il quale deve preferire a tutto la grandezza e la felicità del suo popolo. Invece di essere il padrone assoluto di coloro che son sotto il suo dominio, egli ne è il primo servitore, e deve essere lo strumento della loro felicità, come essi sono lo strumento della sua gloria. Che cosa divengono allora tutte le idee di ambizione personale e di dispotismo? Ecco quello che rovescia dalle fondamenta il libro del Principe, e ricopre di vergogna il Machiavelli. Secondo lui, le azioni più ingiuste e più atroci divengono legittime, quando hanno per iscopo l'interesse e l'ambizione. I sudditi sono schiavi, di cui la vita e la morte dipendono dalla volontà del sovrano, presso a poco come gli agnelli d'una mandra, il latte e la lana dei quali sono destinati all'utilità del padrone, che li fa anche scannare, quando gli torna comodo.»

Educato dalla filosofia umanitaria del secolo XVIII, sebbene d'un carattere violento, ambizioso e niente scrupoloso; ignaro della storia e della letteratura italiana; non avendo neppur letto le altre opere del Machiavelli, a Federigo era impossibile capire il vero significato del Principe, sorto nella mente dell'autore a similitudine dei tiranni del Rinascimento, i quali costituivano l'unità dello Stato e del popolo, sottoponendoli colla violenza alla propria ambizione. Egli non si avvedeva, non capiva, si sarebbe anzi sdegnato e ribellato contro chi gli avesse voluto dimostrare che Il Principe del Machiavelli era stato il precedente storico, necessario del sovrano del secolo XVIII. Pure in nessuno più che nel gran re di Prussia la stretta parentela dei due personaggi appariva evidente, e nessuno più di lui seppe cavar profitto dalle massime che aveva condannate. Nel suo proprio caso egli credeva di certo giustificate quelle massime dallo scopo che aveva, e dalla ineluttabile necessità di praticarle a benefizio dello Stato; ma questo era anche il modo con cui il Machiavelli le aveva giustificate nel Principe. Fin dai primi del secolo XVI questi aveva chiaramente compreso, che la nuova tirannide sarebbe stata un apparecchio alle nuove libertà, e dal Principe contemporaneo aveva profeticamente veduto discendere il futuro sovrano riformatore. Un tale concetto, è ben vero, egli lo accennò nei Discorsi assai più spesso che nel Principe; ma nell'ultimo capitolo di questo è tuttavia esposto chiarissimamente, in quella esortazione nella quale il pubblico bene sorge e s'innalza al di sopra di tutto, come fine ultimo dell'opera. Ma Federigo, arrivato a questo punto, sospende a un tratto il suo giudizio, e si tace, perchè l'esame della esortazione avrebbe anche a lui fatto capire, che la sua critica senza sicuro fondamento, cadeva per terra. In verità, date le cognizioni storiche e letterarie assai limitate del gran Re, che del Machiavelli aveva letto solo il Principe; dato il sentimento che egli aveva dei doveri del sovrano; date le premesse erronee da cui partiva, tutto il resto era una conseguenza logica, necessaria, che non deve recarci nessuna maraviglia. Così potè avvenire che, mentre la sua vita è il più chiaro comento, la più sicura conferma delle verità esposte nel Principe, l'Antimachiavelli n'è invece solamente una parodia superficiale. Ebbe perciò ragione il Mohl, quando disse, che lo scritto di Federigo «non è una critica, ma un malinteso, perchè egli combatte una sua propria creazione, e quindi non si è con lui molto severi se si dice, che il suo è un lavoro da scuola sopra un argomento mal compreso.» Si può aggiungere tuttavia che l'Antimachiavelli rimane, ciò nonostante, un documento storico di grandissimo valore, perchè, se fa poco onore allo scrittore, che non capì il Machiavelli, ne fa invece molto al sovrano, che fin dalla sua gioventù, sentiva l'altezza della propria missione nel mondo.

Nell'esame di questi così varî giudizî, non bisogna mai dimenticare, che se tutte le scienze che si chiamano morali, sono in una stretta relazione con la società in mezzo alla quale nascono e si svolgono, più di ogni altra è soggetta a questa legge la scienza politica. Rispetto ad essa infatti, mutano non solo le idee, le cognizioni e il modo di pensare di coloro che la trattano; ma muta ancora il soggetto di cui essa si occupa, che è per l'appunto la società umana. E quanto al Machiavelli, il fatto diviene anche più visibile, perchè, come vedemmo, i suoi scritti s'immedesimano per modo con la società e i tempi in cui egli visse, che le sue dottrine assumono qualche volta un valore così obiettivo, da apparire addirittura come un prodotto impersonale, fatale della storia. E questo ci spiega perchè anche gli uomini di Stato lo giudicarono tanto diversamente, secondo la diversa condizione in cui si trovarono. Carlo V e Richelieu ammiravano molto il Principe, a cui si sentivano ancora assai vicini; Federigo II, che si trovava in una condizione sociale e politica affatto nuova, lo biasimava. Napoleone I, che era di un carattere ben diverso, si trovò in condizioni non molto lontane da quelle osservate, studiate dal Machiavelli, e lo ammirò. Egli fu veramente un principe nuovo, che tutto dovè alla fortuna, al proprio coraggio ed ingegno; un usurpatore sorto per storica necessità a levare la Francia dal caos in cui l'aveva gettata la Rivoluzione. Il sentimento dominante di Federigo, quello che ne determinava il carattere politico, era la sua immedesimazione con lo Stato e col popolo, in mezzo a cui era nato, per cui doveva e voleva vivere, e di cui diceva d'essere il primo servitore. Napoleone I, invece, comandava e guidava popolazioni alle quali spesso si sentiva affatto estraneo. Le sue stesse parole qualche volta dipingono mirabilmente questa sua condizione. - Mais après tout, un homme d'État est-il fait pour être sensible? N'est-ce pas un personnage complètement excentrique, toujours seul d'un côté, avec le monde de l'autre? - Non solamente tutta la sua vita ci dimostra una continua applicazione delle teorie del Principe; ma spesso anche egli manifesta opinioni, sentimenti che sembrano imitati dal Machiavelli. Anche Napoleone aveva un'assai cattiva opinione degli uomini, ed era convintissimo che seguivano sempre e solo l'interesse personale. Che poi la condotta dell'uomo di Stato dovesse essere giudicata con norme sue proprie, diverse affatto da quelle della vita privata, era per lui un altro assioma. «Le sue azioni,» egli diceva, «che, considerate assolutamente, il mondo così spesso biasima, formano parte integrante della grande opera, che sarà poi ammirata, e che sola può farle giudicare. Innalzate la vostra immaginazione, guardate più avanti, e vedrete che quei personaggi, i quali vi paiono violenti, crudeli e che so io, non sono altro che uomini politici, i quali sanno rendersi padroni delle loro passioni, e calcolar meglio gli effetti delle loro azioni.» Leggendo questo ed altri suoi simili discorsi, si vede assai chiaro come e perchè egli fosse così grande ammiratore di quel Machiavelli che Federigo tanto biasimava.

Il principe di Metternich, che fu invece grande oppositore di Napoleone, rappresentante contro lui delle vecchie tradizioni e della reazione europea, fu anche un avversario dichiarato del Machiavelli, di cui parla con grande disprezzo nelle sue Memorie. Noi qui non vogliamo prendere in esame le poche parole che ne dice in una nota, perchè sono le solite vecchie e vuote frasi senza valore. Tutto intento a descrivere sè stesso, non quale fu veramente, ma quale voleva esser tenuto dalla posterità, il Metternich insiste di continuo sulla indissolubile unione della morale con la vera politica, con la vera diplomazia, che debbono valersi solamente di mezzi leali ed onesti. Partendo da questi principii, ai quali noi sappiamo quanto poco si attenne nella pratica, egli muove guerra alla Rivoluzione, a Napoleone, al Machiavelli, ripetendo sempre che la morale, la lealtà, la giustizia sono i soli criterî coi quali si possono sicuramente giudicare le azioni dei principi e dei popoli, il valore reale di ogni politica. Ma quando poi viene ad esaminare il carattere di Napoleone I, e domanda a sè stesso: fu egli sostanzialmente buono o cattivo? Quale è allora la sua risposta? «Ad un uomo come Napoleone,» egli dice, «non si può applicare nè l'uno nè l'altro epiteto, nel senso che generalmente si dà a queste parole. Occupato dalla sua grande impresa, avanzava sempre, schiacciando tutto quello che incontrava per via, senza poter mai fermare il suo carro. Egli aveva due facce: come uomo privato, era assai alla buona e molto trattabile; come uomo di Stato, non aveva alcun sentimento. Non v'è che un solo modo di giudicarne la grandezza, e sta tutto nel saper giudicare la sua opera, ed il secolo che egli riuscì a dominare. Se quest'opera fu veramente grande, tale deve esser giudicato anche Napoleone I; se invece fu effimera, tale è anche la sua gloria.» Ma tutto questo ragionamento, che forma certo uno dei brani migliori nelle Memorie del Metternich, è una negazione della teoria, che egli pretende di darci come norma costante della sua condotta, e colla quale vuol combattere il Machiavelli, di cui, senza avvedersene, finisce poi coll'ammettere la dottrina fondamentale, che politica, cioè, e morale sono due cose assai diverse.

Il Machiavelli non era però restato lungamente senza difesa. Appena in fatti, colla nuova filosofia, cominciò nel secolo XVI una critica indipendente, sbalzarono subito voci autorevoli in favore di lui. Giusto Lipsio fu dei primi a dichiarare, che egli lo credeva superiore a quanti avevano mai scritto del principato. Gli doleva solamente che non avesse sempre condotto il suo Principe nella via della virtù e dell'onore, giacchè troppo spesso aberravit a regia hac via. Questa dichiarazione per altro non bastò a salvarlo dagli assalti, che ben presto gli mossero i nemici del Machiavelli, dai quali dovette difendersi. Poco dopo venne Bacone da Verulamio, il quale, pratico com'era degli affari, e promotore della filosofia sperimentale, si dichiarò aperto fautore del Machiavelli, dicendo che bisognava esser grati a lui ed a tutti coloro che come lui esaminarono ciò che gli uomini fanno, non ciò che dovrebbero fare. Tali parole dimostrano chiaro, che egli aveva giustamente veduto un lato sostanziale, ma un lato solo del Machiavelli. Questi in vero esaminò ciò che gli uomini fanno, ma per indagar poi quello ancora che debbono fare in determinate condizioni, specialmente per riuscire nei loro fini. Le sue opere sono infatti piene di consigli e di precetti pratici. Ebbe quindi ragione Traiano Boccalini quando, nello stesso secolo, ci rappresentò, in una forma satirica e burlesca, il Machiavelli, che condotto innanzi ad Apollo, si difende contro la condanna del fuoco, cui volevano sottoporlo. «Io non capisco,» così gli fa dire, «perchè mi si voglia condannare, non avendo io fatto altro che descrivere la condotta e le azioni dei principi, quale ce la narrano tutte le storie. Se essi non sono puniti di ciò che fanno, debbo io esser condannato al fuoco per aver descritto le loro azioni?» Ed aggiunge che, dopo una tale difesa il Machiavelli stava per essere assoluto, quando l'avvocato fiscale affermò, che era stato veduto di notte in mezzo ad una mandra di pecore, alle quali cercava porre in bocca denti di cane. In questo modo, osservava, non sarebbe stato più possibile farle governare come prima da un solo guardiano, col fischio e con la verga. Così fu pronunziata la condanna. Nè è difficile capire il senso della favola.

Anche Alberigo Gentile, tanto celebrato pel suo libro De iure belli, s'era già nel secolo XVI chiaramente avvisto, che il Machiavelli non era un semplice descrittore di fatti, avendo colle sue opere desiderato e cercato di promuovere anche la libertà. Lo chiamava perciò democratiae laudator et assertor acerrimus, tyrannidis summe inimicus, aggiungendo che, sotto colore d'istruire i principi, aveva voluto svelare ai popoli gli arcani della tirannide. E questa opinione trovò un numero sempre crescente di sostenitori. Il Rousseau scriveva nel suo Contratto sociale, che il Principe era il libro dei repubblicani, perchè, fingendo di dar lezioni ai re, ne aveva date invece ai popoli. E l'Alfieri, che all'alto ingegno univa un nobile carattere, e non soleva nominare il Machiavelli senza chiamarlo anche divino, affermò: «Se nel Principe si trovano a mala pena sparse alcune poche massime tiranniche, esse sono esposte solo per svelare ai popoli le crudeltà dei re, non certo per insegnare a questi ciò che essi han sempre fatto e sempre faranno. Le Storie e i Discorsi, invece, spirano in ogni pagina grandezza d'animo, giustizia e libertà, nè si possono leggere senza sentirsi ardere da questi sentimenti. Pure il Machiavelli fu creduto un precettore di tirannide, di vizî e di viltà; e così avvenne, che la moderna Italia, in ogni servire maestra, non riconobbe il solo vero filosofo politico che ella abbia avuto finora.»

Sebbene questi scrittori parlassero del Machiavelli per incidenza, pure l'autorità della loro dottrina e del loro ingegno era di gran lunga superiore a quella di coloro che se n'erano fatti accusatori, ed ebbe perciò un peso assai maggiore. Se però vogliamo essere giusti, è forza notare che, pure andando per opposti sentieri, gli uni e gli altri cadevano in un medesimo errore. I detrattori del Machiavelli credevano che bastasse denigrare il suo carattere, per condannarne le dottrine; i suoi difensori credevano invece che, esaltandone il patriottismo, dimostrando l'amore che egli ebbe per la libertà, venivano nello stesso tempo a provare implicitamente il valore e la verità delle sue dottrine. E non si capiva che, se la questione del Machiavelli non era un caso di coscienza, non era neppure una disputa di patriottismo e di liberalismo. Il punto essenziale doveva essere: Aveva egli detto il vero o il falso? Che valore scientifico hanno le sue dottrine? Tutto il resto doveva venire in seconda linea. È evidente che, anche difendendo il dispotismo, si può essere un uomo di grande ingegno, come si può essere un retore ed un uomo tristo, pur difendendo la libertà. Nondimeno pareva che tutto questo non si volesse riconoscere, e si continuò un pezzo, specialmente in Italia, ad andar sempre per la medesima via. Quando infatti cominciarono fra di noi le aspirazioni nazionali, e la letteratura divenne il mezzo più efficace ad apparecchiare la nostra redenzione politica, tutto allora, anche la critica, volle avere un fine, una tendenza patriottica. Ed il Machiavelli repubblicano, nemico dei Papi, sostenitore dell'unità e dell'indipendenza italiana, divenne per molti addirittura un idolo, senza che altro si richiedesse da lui. Il Foscolo che nei Sepolcri lo esaltò come un nemico dei tiranni, lo esaltava nelle Prose come un avversario dei Papi e degli stranieri, un fautore della repubblica e della indipendenza nazionale. Il Ridolfi, nel suo libro sul Principe, credè di assolvere il Machiavelli da ogni accusa, osservando che egli voleva liberare la patria dallo straniero, impresa per la quale tutto è permesso. E così i critici di questa scuola continuarono un pezzo fra noi, pubblicando lavori che erano sempre animati da sentimenti patriottici, e dimostravano uno studio, una ammirazione sincera pel Machiavelli; ma, salvo uno scritto dello Zambelli, per molti rispetti assai pregevole, e del quale parleremo fra poco, essi non facevano altro che ripetere, con maggiore o minore eloquenza, le medesime idee generali e indeterminate.

Una critica non molto diversa, sebbene con maggiore apparato di dottrina, si fece strada anche in Germania. Quando colà cominciarono a rendersi più vive le aspirazioni verso l'unità nazionale, sotto l'egemonia della Prussia, e l'attenzione si volse ad esaminare la realtà vera delle condizioni politiche del paese, si ebbe una più esatta idea delle difficoltà pratiche che si presentavano, dei mezzi coi quali solamente si potevano superare, e si comprese allora il gran valore che avevano le sentenze del Machiavelli, il quale fu perciò studiato ed ammirato assai più di prima. L'avere egli invocato un principe liberatore, che riunisse la patria, e la liberasse dallo straniero, l'essere stato nemico del Papa, erano tutte condizioni che, come gli avevano cresciuto favore in Italia, quando essa mirava ad abbattere il potere temporale dei Papi, e liberarsi dallo straniero sotto l'egemonia del Piemonte, così gliene crescevano nella Germania protestante, che voleva costituirsi per una via non molto diversa. Ciò spiega il gran numero di libri, di opuscoli, di articoli di riviste e giornali tedeschi, che negli ultimi anni parlarono del Machiavelli con grande entusiasmo, pieni sempre di sentimenti patriottici. Citeremo un solo esempio, fra i molti che si potrebbero addurre. Il signor Bollmann, nella sua Difesa del Machiavellismo, pubblicata l'anno 1858, incomincia coll'osservare che la morale politica è profondamente diversa dalla privata; che l'una non ha quasi relazione con l'altra; che in mezzo alla malvagità degli uomini ed alle miserie della patria, il volerla salvare con una nobile e leale condotta sarebbe pazzia: ci vuole fermezza di volontà e chiarezza di mente, lasciando da parte ogni sentimentalismo. Il Machiavelli ebbe il gran merito di esporre francamente queste verità. Egli credette di trovare in Cesare Borgia le qualità necessarie, e lo propose a modello. A dimostrare poi che questa difesa non deriva da fantastica e teoretica ammirazione per uno straniero, il Bollmann si rivolgeva alla Germania, cercando dimostrarle, che allora nessuno de' suoi partiti politici poteva salvarla. Era quindi necessario che sorgesse in Prussia un principe riformatore ed armato, quale appunto era stato descritto dal Machiavelli. Questo principe, egli concludeva, potrà nell'interno seguire le norme della giustizia e della morale; ma di fronte allo straniero, seguendo i consigli del Machiavelli, non penserà nè a mitezza, nè a crudeltà, nè a fede, nè a onore, nè a vergogna, ma solo alla salute della patria. Quando sorgerai, o principe dell'avvenire? Siffatti scrittori apparivano in Germania quando già gli studi storici, massime sul nostro Rinascimento, avevano fatto gran cammino, e però non di rado or gli uni or gli altri scrittori s'allargavano a considerazioni generali più o meno notevoli. Pure in essi si faceva sempre strada un patriottismo che, per quanto si voglia lodare, riesciva spesso inopportuno, e finiva coll'attribuire al Machiavelli idee che questi non ebbe mai, specialmente poi nella forma tutta moderna, in cui gli venivano attribuite.

Era però da un pezzo cominciata anche una critica più scientifica, che lentamente, ma costantemente faceva il suo cammino. Il Raumer e lo Schlegel, per esempio, avevano creduto di trovare la sorgente degli errori del Machiavelli nell'aver egli avuto un concetto antico e pagano dello Stato, tale infatti che faceva scomparire ogni valore morale dell'individuo, non riconoscendo altro che l'intelligenza e la forza. Nello Stato del Machiavelli, aggiungeva lo Schlegel, non si sa nulla di Dio e de' suoi precetti; nè si vede che il male d'Italia veniva dalla corruzione del suo popolo, a cui bisognava innanzi tutto portare rimedio. Il Matter trovava invece la sorgente degli errori nella separazione della politica dalla morale. Così, egli diceva, si dimenticarono i diritti del popolo; ed il principe cercò uno Stato per suo uso, che avesse uno scopo indipendente dalla giustizia. Questi non furono, è vero, che deboli ed incerti tentativi; ma pur si cominciava con essi a riconoscere, che il merito o demerito delle dottrine, bisognava cercarlo non nel carattere dell'autore, ma nei suoi scritti, ad essi applicando quei criteri scientifici che si credevano giusti. Il Franck, assai più recente, cercò di entrare anch'egli in questa nuova via. Secondo lui, il Machiavelli, dopo aver diviso la politica dalla morale, esaminando due sole forme di governo, la monarchia e la repubblica, non trovò nè cercò mai i vincoli che possono unire la monarchia alla libertà. I suoi errori non sono conseguenza del male che egli non voleva, ma delle false premesse, da cui logicamente li deduceva. I vari elementi sociali, l'individuo e la coscienza, sono sottomessi all'unità dello Stato; i vizî e le virtù sono considerati come qualità relative, che bisogna stimare o biasimare, non già per sè stesse, ma per gli effetti che ne derivano. E però il suo nome resta odioso anche quando vengono remosse tutte le ingiuste accuse. In conclusione però il Machiavelli era, secondo il Franck, un uomo senza principii, che nell'ordine politico non credeva alla distinzione fra il bene ed il male, non riconosceva una giustizia assoluta, nessun dovere inviolabile, e sottometteva i diritti più sacri dell'umanità alla ragione di Stato.

Lasciando però da parte che così il Franck ritorna, sebbene in una forma assai più mite, a quella guerra personale contro il carattere del Machiavelli, che dapprima sembrava volesse evitare, due sono in genere i difetti principali di questi critici. Essi vogliono dedurre l'intera dottrina del Machiavelli da alcune poche idee molto semplici e molto chiare, sulle quali rivolgono tutta quanta la loro attenzione. Ma il Machiavelli non ha mai una forma rigorosamente filosofica e sistematica; la sua mente, le sue opere sono molteplici e varie; le sue dottrine si formano di parti diversissime, nelle quali è qualche volta difficile trovare un nesso che le unisca. Se non si esaminano da ogni lato, sotto i loro mille mutabili aspetti, riesce impossibile comprenderle. La divisione della politica dalla morale è una sola delle molte questioni su cui deve fermarsi il critico. Ma da essa solamente non si può certo dedurre tutta la dottrina. Un altro errore di questa scuola è quello di voler esaminare gli scritti del Machiavelli, senza quasi occuparsi della sua vita e de' suoi tempi; onde le sfugge assai spesso lo scopo pratico che le dottrine avevano, e le riesce quindi impossibile determinarne il carattere ed il valore. Non si capirà mai il Principe, se prima non si conoscono i fatti che lo ispirarono, le condizioni in cui fu scritto, lo scopo pratico che si propose. È ben vero che così in esso come nei Discorsi v'è un'idea pagana dello Stato; ma se non si aggiunge che questa idea prese in Italia, durante il Rinascimento, una forma affatto nuova, tutta propria di quel tempo, e non si definisce quale era questa forma, non si capirà mai nulla del Machiavelli.

Fra questi critici va collocato anche P. S. Mancini, il quale, venuto più tardi, allargò i confini della scuola, non evitandone però gli errori. Egli incomincia col dichiarare di voler esaminare il valore intrinseco delle dottrine, cosa che non crede sia stata ancora fatta da nessuno. La questione principale anche per lui sta tutta nella separazione della politica dalla morale, separazione che egli condanna senza riserve. Aggiunge poi giustamente: il Machiavelli voleva liberare lo Stato dalla Chiesa, e perciò separava la politica dalla teologia, dalla religione, dalla morale, dall'astratta filosofia scolastica, applicando ad essa il metodo storico e sperimentale. Insiste ancora, e con ragione, nell'affermare che il Machiavelli non pensò mai a negare la virtù, la giustizia, la libertà, le quali anzi ammirò ed esaltò, come dimostrano chiaramente infiniti brani, alcuni dei quali vengono da lui citati e riprodotti. Siccome però il punto fondamentale riman sempre la separazione della politica dalla morale, il che è dal Mancini dichiarato un errore gravissimo, così tutte le citazioni fatte non valgono a salvare il Machiavelli dalla condanna. Questi proponendosi, sopra ogni cosa, di salvare l'indipendenza dello Stato, cercò i mezzi che conducono ad un tal fine, buoni o cattivi che fossero, e divenne perciò l'antesignano degli utilitari. «Così la politica, abbandonata a sè stessa, ed allevata in una selvaggia indipendenza, addiviene una teoria sistematica di mezzi senza presupposta rettitudine di volontà.» L'aver creduto possibile di escludere dal campo proprio di essa il problema morale, lo fece cadere in «un errore fondamentale, che guasta e corrompe tutto il sistema,» il quale rimane affatto «destituito della salda base di cui abbisogna.» È chiaro che il valore intrinseco di questa dottrina si deve ridurre a ben poca cosa, quando essa manca della necessaria base, quando è adulterata da un veleno intrinseco, che tutta la corrode e corrompe.

Secondo il Mancini, la parte meno originale nelle opere del Machiavelli è quella che parla del principato, perchè imitata da Aristotele e da San Tommaso, il che, come abbiamo già visto, non è esatto. Suo merito sarebbe l'essere egli riuscito a dimostrare come il principato assoluto debba, per preservare la sua esistenza, adoperare, quali mezzi ordinarî di governo, l'immoralità e l'ingiustizia; mirare sempre al fine dinastico, non al bene dello Stato e del popolo, dal che ne segue implicitamente «la condanna più sapiente, più perentoria della monarchia assoluta.» - Sfortunatamente però questo merito indiretto non si può, secondo noi, attribuire al Machiavelli, che s'adoperò invece a dimostrare la storica necessità del dispotismo in alcune condizioni sociali, cosa di cui l'Europa de' suoi tempi gli offriva una dimostrazione incontrastabile. Egli era profondamente convinto, che solo il potere assoluto poteva colla forza riunire e salvare dall'anarchia un popolo corrotto, e lo disse chiaro. Anzi in ciò appunto, non già nella indiretta condanna dell'assolutismo, sta tutto il significato del Principe, che è un prodotto originale della mente e dei tempi del Machiavelli, non una imitazione d'Aristotele. È qui che bisogna giudicarlo e decidersi ad assolverlo o condannarlo. Così, sebbene il Mancini cercasse d'allargare le sue osservazioni, finì col restringersi anch'egli a voler dedurre tutta la dottrina del Machiavelli da poche e semplici premesse, nè s'occupò in modo alcuno dei tempi. Qualche volta infatti egli sembra esaminare il Principe e i Discorsi, come se si trattasse addirittura di opere composte ai nostri giorni, senza tener conto alcuno delle condizioni storiche, in cui furono scritte. E quando dà al Machiavelli lode meritata, per aver separato la politica dalla scolastica e dalla teologia, dimentica affatto così coloro da cui questi era stato preceduto, come coloro che avevano con lui lavorato al medesimo fine. Di tutto ciò il Mancini si sarebbe, col suo acuto ingegno, facilmente accorto, se avesse preso in più attento esame i critici che avevano scritto prima di lui.

Già da un pezzo s'era cominciato a mettere il Machiavelli in relazione coi tempi; qualche tentativo anzi s'era visto sin dal principio del nostro secolo. Il Rehberg, che scrisse quando la Germania era oppressa dai Francesi, e non senza pensare a ciò, giudicava il Principe opera d'un ingegno grandissimo, ma privo di un alto ideale, e che perciò non pensava punto al vero benessere del genere umano. Essendo la repubblica divenuta allora impossibile in Italia, egli si rivolse a ciò che era pratico, immaginando un monarca forte e potente, che sperò di trovare in uno dei Medici. In tal modo pensava di poter cacciare i barbari dall'Italia, lasciando che il popolo aiutasse l'alta impresa, come e quanto poteva. I suoi consigli furono dati in queste condizioni politiche, e bisogna tenerne conto nel giudicarli. La immoralità di molti di essi non repugnava all'autore, perchè anch'egli era macchiato dai corrotti costumi del secolo. Quasi contemporaneamente il Ginguené cercava di dare, nella sua Storia della letteratura italiana, un giudizio largo ed intero su tutte le opere del Machiavelli, tenendo conto dei tempi e dello scopo pratico, che l'autore aveva costantemente preso di mira.

Ma questi ed altri lavori simili, sebbene dotti e lodevoli per nuove indagini, sebbene esaminassero il Machiavelli sotto vari aspetti, non potevano riuscire ad un resultato soddisfacente, perchè mancavano d'un metodo rigoroso. Erano osservazioni più o meno acute, più o meno originali, sempre però incompiute ed incerte. I primi tentativi d'un vero esame scientifico cominciarono con la nuova critica storica, e furono fatti dal Ranke e dal Leo, i quali ci lasciarono solo poche pagine sul Machiavelli; ma in esse una via più larga e sicura era indicata. Leopoldo Ranke, che sin dalla sua prima giovinezza s'annunziò come un uomo di straordinario ingegno, e fondò poi una grande scuola storica in Germania, pubblicava nel 1824 le sue brevi considerazioni sul Machiavelli, insieme con altre su molti storici italiani del secolo XVI. Nei Discorsi, egli dice, il Machiavelli ragiona sulla storia romana e su Tito Livio; ma in realtà si occupa poco di ciò, perchè il suo pensiero è rivolto all'avvenire d'Italia, in cui aiuto chiama l'esperienza del passato. La grandezza di Roma a lui non sembra derivare da una forza interiore del popolo romano, ma da alcune massime, da alcuni assiomi, che espone agl'Italiani, perchè, seguendoli, possano giungere alla medesima grandezza. Per riuscirvi però, sarebbe stato necessario un altro popolo, che avesse avuto forza e virtù, un'altra educazione morale. Egli andava quindi dietro all'impossibile, e dovette più volte accorgersene, e disperare, persuadendosi finalmente, che occorreva un principe assoluto, per rimediare colla violenza alla generale corruzione. Anche nell'Arte della Guerra, dopo avere escogitato le combinazioni diverse sui modi di formare in Italia un esercito a similitudine del romano, finiva col disperare, tornando all'idea che risulta dai Discorsi, cioè alla necessità di uno Stato forte, con potere assoluto. Chi fonderà un tale Stato, sarà come Filippo di Macedonia, e s'impadronirà dell'Italia. Questa idea di riunire la patria, che forma il soggetto del Principe, v'era già nel Rinascimento, e molte volte gli scrittori l'avevano accennata. Al tempo di Leone X erano grandi le speranze dei Medici su tutta o gran parte d'Italia, e i loro amici si lusingavano molto. In tali condizioni fu ideato il Principe.

Qui il Ranke viene ad esaminare quelle che chiama le fonti del libro, e cita la prima volta alcuni brani che sembrano davvero imitati da Aristotele, specialmente in ciò che si riferisce alla natura del tiranno. Questi brani però non solo si riducono a poca cosa, e descrizioni simili del tiranno si trovano anche in San Tommaso, nel Savonarola ed in molti scrittori del Medio Evo e del secolo XV; ma lo stesso professor Ranke, col suo inarrivabile acume, ammette subito che il Machiavelli dette ad essi un significato diverso, e che anzi in questa diversità sta appunto il valore de' suoi scritti. Aristotele descrive i vizi del tiranno, aggiungendo che il vero sovrano deve sforzarsi di essere giusto e buono, perchè il fondamento dello Stato e della politica deve essere la giustizia. Il Machiavelli sostiene invece, che il principe nuovo, se non vuole rovinare fra i tristi, deve serbar le apparenze di buono; ma esser pronto a divenire crudele, a violare la fede, quando la necessità lo imponga nell'interesse dello Stato. Così quello che per Aristotele è un fatto, diviene pel Machiavelli un precetto; e quindi la imitazione propriamente detta nei punti essenziali scomparisce del tutto, e la pretesa fonte non è più una fonte. Ed il professor Ranke riconosce anch'egli, non ammette anzi ombra di dubbio, che il Principe sia sostanzialmente ispirato dai nuovi tempi, dei quali fa parte, e senza i quali non sarebbe intelligibile. Il suo scopo, così continua, è veramente immediato e pratico; se l'intitolazione dei capitoli è generale, il contenuto di essi è sempre speciale. Non è un trattato generale, sono consigli che il Machiavelli dette a Lorenzo, come più tardi ne dette a Leone X. Prese a modello Cesare Borgia, che aveva somiglianza con colui al quale il Principe venne dedicato, e per cui fu scritto. L'uno infatti era figlio, l'altro nipote d'un papa; ambedue speravano di poter fare grandi conquiste. Tutta la prima parte, cioè i primi dodici capitoli si riferiscono a Lorenzo, alle condizioni in cui egli si trovava, ed a quelle in cui trovavasi l'Italia. La seconda e la terza parte, cioè gli ultimi quindici capitoli, sono in istretta relazione colla prima. In conclusione, tre cose sono certe, secondo il Ranke: 1° Che il Machiavelli era persuaso della necessità di un principe per l'Italia; 2° Che i Medici, e massime Lorenzo, erano desiderosi e pronti ad assumere questo principato; 3° Che il libro non solo fu dedicato a Lorenzo, ma fu scritto per lui. Chi perde di vista questo suo scopo pratico, non ne comprende più nulla. Il suo vero significato è il seguente: Questa Italia corrotta, solo da un principe, con mezzi crudeli e violenti, può essere unita e riuscire a cacciar lo straniero. Fino a che il governo libero di Firenze si resse, il Machiavelli servì la repubblica, e fu contento della libertà fiorentina. Tornati i Medici, dimesso egli da ogni ufficio, si destò in lui l'Italiano, e pensò al modo di liberare la patria comune, anche sacrificando la libertà di Firenze. Ma i Medici furono cacciati, la repubblica ristabilita, ed il partito popolare non gli perdonò l'aver voluto sacrificare all'Italia la libertà di Firenze. In conclusione, il Machiavelli cercava la salute d'Italia, che era in condizioni disperate, e fu ardito abbastanza da prescriverle, come unica medicina, il veleno.

Il Ranke adunque, col suo sguardo acuto e col suo ingegno superiore, riconobbe il patriottismo del Machiavelli, e l'ispirazione che aveva continuamente dato alle opere di lui. Mentre però da una parte ricordò appena che il Machiavelli, dopo avere scritto il Principe, pensò pure di cavarne qualche vantaggio personale, dall'altra lo ridusse un po' troppo ad un libro d'occasione, senza tuttavia negargli affatto ogni carattere generale e scientifico. Nè è vero che il Principe fu scritto per Lorenzo esclusivamente, giacchè era stato prima indirizzato a Giuliano, e solo dopo la costui morte venne dedicato a Lorenzo. Eccessivo addirittura riesce poi l'applicare tutte queste considerazioni, nello stesso tempo, al Principe e ai Discorsi, quasi fossero un'opera sola, con uno scopo unico; e ciò perchè anche dai secondi risulta la necessità del principato. Il carattere assolutamente scientifico e generale dei Discorsi apparisce in ogni pagina troppo evidente per poterne dubitare. E se in essi, come afferma il professor Ranke, l'autore attribuisce tutta la grandezza dei Romani all'avere questi seguìto costantemente alcune savie massime di politica e di governo, era opportuno, ci sembra, prendere in esame il valore di tali massime, le quali di certo non possono essere un veleno prescritto come unico rimedio a salvare un popolo corrotto. Occupato a cercar la relazione che passa tra il Principe e le condizioni in cui fu scritto, egli trascurò troppo l'esame del valore intrinseco e del valore storico delle dottrine ivi esposte. Se però si considera, che il suo era un lavoro giovanile di poche pagine, il quale iniziò nondimeno una critica nuova del Machiavelli, allora il merito dell'autore apparirà grandissimo davvero.

Due anni dopo pubblicato lo scritto del Ranke, venne alla luce in Berlino la traduzione delle lettere del Machiavelli, fatta da Enrico Leo, e preceduta da una sua prefazione. In questa erano combattute alcune idee del Ranke, ed in mezzo ad osservazioni di un valore assai disputabile, ve n'era pure qualcuna giusta ed originale. Il Leo fu tra i primi ad osservare, che il Principe, quale lo aveva descritto il Machiavelli, era stato un fatto storico ed inevitabile nel Rinascimento. Questo Principe e la sua condotta politica avevano quindi bisogno di essere spiegati e giustificati come storicamente necessarî, e ciò fece la prima volta il Machiavelli. Veleno o non veleno, diceva il Leo, alludendo alle parole del Ranke, qui sta tutta la grande importanza del libro, ed il sentimento confuso di ciò che esso veramente era, lo fece leggere e studiare con ammirazione. «Ma (ed è qui che il Leo entra, secondo noi, in un terreno assai disputabile), se il libro ebbe realmente un gran peso nel mondo, non è questa una ragione per concluderne, che un egual valore ebbe colui che lo scrisse. Il Machiavelli sperò di cavarne qualche utile per sè, e quanto al resto, che cosa importava a lui del genere umano? Egli spiegò e giustificò il Principe, per far piacere ai Medici, per avere un ufficio, e la sua spiegazione riuscì invece utile alla società. Che un Italiano si persuada, che un tale uomo volesse davvero scrivere un libro per salvare la patria, si può perdonare all'amor proprio nazionale; ma ci vuol troppa ingenuità, perchè se ne persuada uno straniero. Come poteva il Machiavelli, il quale parlava con tanto disprezzo de' suoi connazionali, pensare sul serio che essi fossero capaci di cacciar dall'Italia Spagnuoli, Francesi e Tedeschi? Egli non pensava a liberare l'Italia, pensava ad avere un ufficio. Indirizzò il libro a Giuliano, e quando da lui non potè sperare più nulla, lo dedicò invece a Lorenzo, aggiungendovi quell'ultimo capitolo, che risponde così poco al concetto generale di tutta l'opera.»

In questo modo il patriottismo del Machiavelli, che il Ranke aveva con tanto acume veduto e posto in evidenza, è stranamente negato dal Leo, che, dopo aver riconosciuto tutta l'importanza e l'originalità del Principe, vorrebbe levarne ogni merito all'autore, dando al suo libro un gran valore storico, ma quasi accidentale e casuale, o almeno affatto impersonale. Egli non vede, non sospetta neppure, che l'ultimo capitolo è la sintesi ultima di tutto il resto, che il concetto se ne trova in germe anche nei Discorsi. Nè qui ci fermeremo ad esaminare la teoria esposta dal Leo, d'una coscienza germanica e d'una coscienza latina. La prima, secondo lui, si modifica, si altera secondo le diverse relazioni in cui si trova con gli uomini e con la società; la seconda resta inalterabile al pari d'un cristallo, facendo col mondo esteriore quasi una partita a scacchi, come se il bene ed il male che va compiendo, non la toccassero punto. Tutto quello che possiam dire, senza entrare in una disputa, che sarebbe qui fuori di luogo, si è che il Leo da alcune osservazioni fatte sul Rinascimento, passa troppo presto, per non dir troppo leggermente, a determinare non già le condizioni in cui erano allora lo spirito umano e lo spirito italiano, ma il carattere dei popoli latini in generale, arrivando così a scoprir due coscienze, una germanica ed una latina. E di ciò si vale poi, non a determinare o definire le colpe del Machiavelli, non a spiegarne il carattere, ma ad inveire sempre più contro di lui. Se avesse invece circoscritto i proprî giudizî al periodo del Rinascimento, sul quale faceva allora le sue osservazioni,, ne avrebbe cavato conseguenze meno generiche e più giuste. Sarebbe stato anche più cauto se, volendo condannare il cinismo dissoluto, come egli dice, e lo scetticismo del Machiavelli, non avesse citato a sostegno delle asserzioni la Descrizione della Peste, che nessun critico autorevole crede scritta da lui. Nè sappiamo capire, perchè mai neghi a Francesco Vettori quell'ingegno e quella coltura che pur tanto chiare appariscono dalle sue lettere, dalle sue opere, dalla sua vita. Ma se, lasciando da parte le divagazioni, le troppo acerbe e poco ponderate critiche, noi uniamo la molto giusta, quantunque breve e fugace osservazione del Leo sul valore storico del Principe, a quelle fatte dal Ranke sul carattere politico del Machiavelli e de' suoi scritti, cominciamo a veder chiara quale è la via che bisogna percorrere, per arrivare a qualche risultato soddisfacente e sicuro. Crediamo quindi che si debba dar lode non piccola a questi due scrittori, specialmente al Ranke, sebbene non ci abbiano lasciato sul Machiavelli che poche pagine, nelle quali si contengono solo osservazioni staccate. Ma essi non si erano proposto di scrivere un libro, e neppure un opuscolo sul difficile tema.

Ad un lavoro più lungo si accinse il Macaulay col suo celebre Saggio, pubblicato nella Rivista d'Edimburgo (1827), un anno dopo il lavoro del Leo. Quel suo scritto ebbe in Inghilterra grandissima fortuna, pel merito letterario dell'autore, e perchè era veramente il primo tentativo d'un esame serio e compiuto del Machiavelli e delle sue opere. Il Macaulay era un uomo del secolo XIX con le idee del XVIII, scrittore elegante ed eloquentissimo, narratore impareggiabile, espositore lucidissimo, ma di un ingegno poco filosofico, e qualche volta anche superficiale. La sua critica scientifica era assai più debole del suo gusto e giudizio letterario. Volendo sempre ridur tutto a grande semplicità ed evidenza, evitava troppo spesso le maggiori difficoltà con uno sforzo d'eloquenza. Per lui il Machiavelli è un enigma, che si spiega assai facilmente coi tempi. Incomincia descrivendoci come nelle opere di lui si trovino sentenze, che esaltano la virtù col più puro entusiasmo, accanto ad altre, che il più corrotto diplomatico oserebbe appena comunicare in cifra a qualche sua spia. Procede poi, con molta eloquenza, con smaglianti colori, a ritrarci il carattere nazionale degl'italiani del Rinascimento, nei quali trova le stesse contradizioni che nel Machiavelli. In questo modo l'enigma è, secondo lui, risoluto; tutto divien chiaro. Ma, lasciando anche da parte, che egli ci pone dinanzi agli occhi un ritratto, che è solo la riproduzione vivace d'un tipo generico e convenzionale dell'Italia, quale fu per molto tempo immaginata dagli stranieri, che cosa potrebbe mai cavarsene, quando anche il ritratto fosse così fedele com'è eloquente? Noi avremmo contradizione nel carattere degl'Italiani, contradizione nel carattere e nelle idee del Machiavelli; bisognerebbe spiegare un enigma con un altro: ecco tutto. Oltre di che, per spiegar l'uomo coi tempi, si finisce di nuovo col negare al Machiavelli ogni individualità ed originalità sua propria. Quanto poi al valore intrinseco delle dottrine politiche, esso rimane affatto oscuro al critico inglese, che non riesce nè a spiegarle nè a giudicarle. Ci dà invece osservazioni e giudizî molto precisi sulle opere letterarie, di cui esamina anche lo stile con una sicurezza singolare davvero in uno straniero. Da storico valente qual egli era, discorre con molta perizia ed acume delle Legazioni; è anzi fra i primi a notare il gran tesoro di notizie e di ritratti che in esse si trovano. E con esse alla mano, difende vittoriosamente il Machiavelli dalla strana e ridicola accusa, già fatta allora e ripetuta anche poi, d'avere consigliato Cesare Borgia e preso anche parte ai suoi delitti in Romagna. Pone in rilievo il patriottismo del Machiavelli, e gli sforzi costanti e generosi che fece, per dare all'Italia una milizia nazionale, fatto, egli osserva giustamente, che per sè solo basterebbe a rendere per sempre onorato il suo nome. E così, trasportati dalla sua affascinante parola, noi arriviamo ai quattro quinti del Saggio, senza che ancora sieno stati esaminati il Principe, i Discorsi e le Storie, cioè le opere su cui riposa principalmente la fama del Segretario fiorentino.

I Discorsi ed Il Principe, dice finalmente il Macaulay, sostengono una sola e medesima teoria; i primi ci espongono il progresso di un popolo conquistatore, il secondo, quello di un uomo ambizioso. In quanto alla immoralità di alcune massime, tutto, come abbiamo visto, si presume spiegato riferendosi ai tempi. Il Machiavelli fu immorale, perchè immorale era allora l'Italia, e fu non ostante animato dal più puro patriottismo, spesso anche dal più puro entusiasmo per la virtù, perchè anche queste qualità si trovavano in molti degl'Italiani del Rinascimento. Volendo poi determinare in breve il valore intrinseco delle due opere, e darcene un'idea chiara e precisa, il Macaulay fa uno di quei ragionamenti che dimostrano subito quale è la vera natura della sua critica, scoprendone il lato più debole. Nulla a questo mondo, egli dice, è inutile quanto una massima generale. Se essa è vera, può tutto al più servire come esemplare da impararsi a mente o copiarsi in un asilo infantile. Il gran merito del Machiavelli sta nell'averci dato massime che sono, non più vere o più profonde, ma più applicabili alla realtà di quelle d'ogni altro scrittore. Se non che, lasciando anche da parte l'osservare, che una sentenza può essere nello stesso tempo pratica e di poco valore, di nessuna originalità, questo carattere non è proprio esclusivamente del Machiavelli, ma è comune a tutti gli scrittori politici, a tutti gli ambasciatori italiani del tempo; anzi appunto in questo carattere pratico, egli, come abbiam visto, è assai spesso vinto dal Guicciardini. Il suo merito principale sta invece nell'avere, con metodo sicuro, creato una nuova scienza politica, fondandola sulla storia e sulla esperienza. Ma che cosa potrebbe mai essere una scienza dello Stato, se, come pretende il Macaulay, le sentenze generali fossero prive d'ogni valore? Un ragionamento simile egli fece più tardi, anche nel suo celebre Saggio su Bacone da Verulamio, quando, volendo dimostrare che tutto il merito del grande filosofo stava nell'avere cercato sempre l'utile ed il pratico, conchiudeva affermando, che il primo inventore delle scarpe doveva essere preferito all'autore del libro sull'ira, perchè le scarpe salvarono molti dall'umidità e dai raffreddori, mentre assai probabilmente Seneca non salvò mai nessuno dall'ira. E non s'avvide che, ciò dicendo, negava ogni valore alla filosofia stessa ed a tutte quante le scienze morali. Nondimeno così lo scritto sul Machiavelli come quello sul Bacone sono fra i migliori esempi della prosa inglese. Nel secondo di essi l'eloquenza risulta, scintilla dal contrasto che ci vien descritto fra la bassezza morale e l'altezza intellettuale di Bacone, senza farci capire che cosa è la sua filosofia. Nel primo risulta invece dalle descrizione delle molte contradizioni, che il Macaulay crede di vedere nel carattere degl'Italiani ed in quello del Machiavelli, non meno che negli scritti di lui. Ma così, invece di un'enigma, ne abbiamo due, ed il problema rimane affatto inesplicabile.

Nè più fortunato riesce il critico inglese, quando cerca di penetrare nel vero concetto delle dottrine del Machiavelli, per scoprirne gli errori. Secondo lui, la sorgente prima di questi errori sta tutta nel non aver l'autore saputo distinguere il bene pubblico dal privato; dal credere che uno Stato prospero e forte renda sempre felici i suoi sudditi. E ciò gli avvenne, perchè non aveva dinanzi a sè che i piccoli Stati dell'Italia medioevale e della Grecia antica, nei quali le pubbliche calamità o fortune divenivano subito calamità e fortune private. Una disfatta impoveriva, una vittoria arricchiva tutti i cittadini. Così egli die' sempre grandissimo valore a ciò che può rendere una nazione formidabile ai vicini; nessuno invece a ciò che può renderla prospera nell'interno. Certo in tutto questo vi ha del vero, ma l'ideale del Machiavelli non era nelle piccole repubbliche della Grecia e dell'Italia, era in quella di Roma e nell'Impero. Nelle repubbliche del Medio Evo le particolari associazioni e le individuali passioni si trovavano in continua ribellione contro il potere centrale dello Stato, che riducevano perciò all'impotenza. Il Machiavelli voleva invece uno Stato grande e forte, cui era disposto a sacrificare ogni cosa, anche la felicità e la prosperità interna. Non confondeva il pubblico col privato interesse; ma questo a quello eccessivamente sottoponeva, perchè altro modo allora non vedeva per dare alle nazioni quell'unità e quella forza che, nell'anarchia de' suoi tempi, erano divenute la suprema necessità. Lungi dal credere che la prosperità pubblica portasse sempre ed inevitabilmente alla privata, non vedeva abbastanza che il benessere dell'individuo è necessario al benessere dello Stato, e lodava sempre le repubbliche della Germania, nelle quali, egli diceva, i privati eran poveri ed il pubblico era ricco; esaltava più di tutto quei tempi romani, nei quali i grandi capitani d'eserciti, dopo la guerra, se ne tornavano poveri a casa, dove vivevano coltivando colle proprie mani i loro campi.

Quando, dopo tutto ciò, il Macaulay, parlando nuovamente dello stile del Machiavelli, lo paragona a quello del Montesquieu, e ne dimostra la grande superiorità, noi ritroviamo da capo il merito eminente del critico letterario. Reca però non poca meraviglia il vedere, come uno storico tanto giustamente celebrato, si perda nell'esaminare qualità assai secondarie e di pura forma nelle Storie fiorentine, senza mai accorgersi, che il merito principale di esse, la loro vera originalità sta nello scoprire per la prima volta la logica e necessaria successione dei partiti che divisero la repubblica, le varie forme di governo che ne risultarono, e le cagioni di queste mutabili e continue vicende. Egli finisce tornando ad esaltare il patriottismo del Machiavelli, le cui opere, dice, saranno comprese dagl'Italiani solo quando per le vie delle loro città echeggierà di nuovo il grido: popolo, popolo, muoiano i tiranni! E veramente appena che l'Italia fu libera, ricominciarono con molto ardore gli studi sul Machiavelli, che fu sempre meglio inteso e giudicato. I difetti principali di questo Saggio derivano, non solo dall'essere troppo più letterario e descrittivo, che critico e scientifico, ma anche dall'avere esagerato quel metodo storico, il quale crede che si possa assai facilmente spiegare tutto un uomo, descrivendone i tempi. Ciò non ostante, esso riman sempre il primo tentativo d'un lavoro abbastanza compiuto sul carattere e sulle opere del Machiavelli; e lo stile eloquente dell'autore lo farà continuare a leggere con avidità, anche quando molti altri di merito maggiore saranno dimenticati.

Nel 1833 comparve un volume di scritti storici di G. Gervinus, e la prima metà di esso ne conteneva uno intitolato, Florentinische Historiographie, il quale non era altro che un nuovo lavoro sul Machiavelli, preceduto da alcune considerazioni sugli storici fiorentini anteriori. Lo stile n'è monotono, confuso, senza colorito, e le ripetizioni sono continue. Il Gervinus però cercava di riparare al difetto principale del Macaulay, occupandosi poco o punto delle opere letterarie; fermandosi invece a prendere in attento e minuto esame le opere politiche, l'Arte della Guerra, le Legazioni e le Storie; cercando di scoprire il concetto fondamentale che le informa tutte. E fu il primo a dimostrare che il pensiero politico del Machiavelli trovasi anche nelle Storie, di cui riconobbe ed esaminò così il valore letterario, come il valore scientifico. Le studiò con molta diligenza, facendo utili osservazioni sulle fonti; e ciò lo condusse ad esaminare gli storici anteriori. Ad una grande e sincera ammirazione pel Machiavelli, egli univa il vantaggio d'essere stato educato alla scuola critica dei grandi storici tedeschi. Essendo però anche di coloro che più si adoperarono a ridestare, per mezzo della letteratura, lo spirito nazionale della Germania, fu spinto di nuovo nella via pericolosa d'introdurre troppa politica e troppo patriottismo moderno nella critica storica.

Secondo lui, una parte delle idee del Machiavelli deriva da considerazioni pratiche sulle condizioni del suo tempo, e da una conoscenza dello stato reale del proprio paese; un'altra deriva da desideri ideali, da bisogni del suo spirito. Egli non si fermava punto, come molti hanno creduto, solamente alle cose materiali; cercava nell'antichità quella eccellenza che il suo intelletto ed il suo cuore desideravano, che mancava alla sua patria, ed alla quale il suo secolo non sapeva innalzarsi. Offrì il risultato di questo lungo e difficile lavoro all'Italia, di cui con grande ardore desiderò il rinascimento, per mezzo dei costumi romani. Nella sua mente c'era però, secondo il Gervinus, un grave difetto, e questo derivava dal non avere egli conosciuto la letteratura greca, ma formato il suo spirito, educato l'intelletto solamente colla storia e colla letteratura romana. Il non avere conosciuto l'epopea, la tragedia, la lirica greca; l'avere poco stimato e poco conosciuto il vero spirito del Cristianesimo e della Riforma, gli tolsero l'amore per ogni alta e vera idealità poetica, per tutte le arti e le scienze che uscivano fuori dei confini della politica. Da ciò nacque in lui anche la tendenza ad esaminare il lato esteriore delle cose e degli avvenimenti, più che l'interiore, e quindi a cercar le cause delle grandi rivoluzioni politiche, non già in una forza o bisogno interiore dei popoli, ma sempre in qualche causa esteriore e negativa. L'aristocrazia nasce, secondo il Machiavelli, per reazione contro l'oppressione esercitata dal tiranno; la democrazia, per reazione contro la potenza soverchiante e dispotica dell'aristocrazia. Così nulla vien mai da un intimo bisogno, da un irresistibile impulso verso la libertà. E qui il Gervinus s'accinge a ritrovare questo medesimo difetto nelle Storie, in tutte le opere del Machiavelli, anzi nella storia e nel carattere dei popoli latini in genere.

È però molto singolare, che non si sia avvisto, come questa teoria intorno alla successione dei governi, dalla quale tutta la sua critica prende le mosse, e che egli fa derivare originariamente da poca conoscenza degli scrittori greci, non era una creazione del Machiavelli, il quale anzi l'aveva presa di pianta per l'appunto da uno di essi. Noi abbiamo infatti già osservato, che è quasi tradotta da Polibio, che la sua prima origine si trova in Aristotile. Di ciò il Gervinus avrebbe dovuto accorgersi, anche perchè il fatto era già stato notato da altri. E avrebbe potuto anche osservare, che quell'alto idealismo, quella intimità, come la chiamano i Tedeschi, della quale tanto egli deplora la mancanza nel Machiavelli e negl'Italiani, si trovava pure in Dante, che non conosceva il greco; cominciò a mancare nel Petrarca, che fu dei primi a studiarlo; mancò sempre più nel Boccaccio e negli eruditi, quando appunto lo studio del greco andò progredendo. Il fatto non è certo conseguenza di questo studio, ma della storica evoluzione dello spirito italiano, e tutto proprio del nostro Rinascimento, che perciò appunto, anche nella letteratura e nell'antichità greca, cercava la bellezza della forma esteriore, una guida che l'aiutasse ad uscire dalla Scolastica, ad avvicinarsi alla natura, al mondo reale. Buona o cattiva che si giudichi siffatta tendenza, essa fu propria del secolo e dell'Italia d'allora, e contribuì non poco alla creazione della scienza politica, che delle umane azioni studia appunto il lato esteriore e le conseguenze pratiche.

Il Gervinus ammira grandemente il patriottismo e l'ingegno del Machiavelli, tanto da concludere il suo scritto dicendo, che in lui trovasi tutto ciò che pensarono e sentirono gl'Italiani in un tempo, che si può ritenere fra i più gloriosi nella storia del mondo, e durante il quale essi furono la prima delle nazioni civili. Se avesse, egli conchiude, conosciuto più da vicino il pensiero greco e la Riforma, iniziata allora da Martino Lutero, difficilmente l'Europa moderna potrebbe vantare un altro uomo degno di stargli accanto. Questa sincera ammirazione però qualche volta lo tradisce. Infatti quando egli trova sentenze che offendono la sua coscienza, invece di pesarle e spiegarle, cerca troppo spesso di attenuarle. Ma a che giova affannarsi a provare che il Machiavelli poneva Teseo, Perseo e Mosè al disopra del Valentino? A che giova insistere a provare, che egli non accettava senza restrizioni la teoria che il fine giustifica i mezzi, quando, attenuando finchè si vuole, resta pur sempre molto che ha bisogno d'essere giustificato; riman sempre necessario trovare una spiegazione fondamentale del sistema, o rassegnarsi a non comprenderlo affatto? A tutto ciò il Gervinus crede troppo facilmente di rimediare, esaltando il patriottismo del suo autore. Ma questa è una deviazione, non è una soluzione del problema.

Il Machiavelli, continua il critico tedesco, esaminò solo il principato e la repubblica, perchè queste, secondo lui, sono le due sole forme veramente utili di governo. Era inoltre convinto, che un popolo guasto solo colla forza può essere corretto. Siccome poi le cose d'Italia andavano a rovina, ed il governo popolare v'era quasi per tutto divenuto impossibile, unico mezzo di salute alla patria si presentava allora il principato, che egli quindi raccomandò, sebbene facesse un'eccezione per Firenze, a cui voleva conservare la forma repubblicana, come apparisce dal suo discorso a Leone X. Il Gervinus si trova d'accordo col Machiavelli circa la successione dei governi, perchè al pari di lui riconosce nella storia una legge generale, secondo cui il governo dalle mani d'un solo passa in quelle di pochi, per arrivare ai molti, dai quali fa ritorno di nuovo ad un solo. Ma in Italia, dove la democrazia era profondamente corrotta, e l'aristocrazia formava il più grande ostacolo ad ogni miglioramento, altro non rimaneva possibile che il principato, perchè, «una moltitudine può essere rigenerata solo colla forza, di che la storia moderna offre moltissimi esempî. Ed il Principe ci presenta l'immagine d'un legislatore armato, il quale non è veramente cattivo, ma non può neppure essere scrupoloso: gli basta evitare ciò che è scellerato, senza con questo potersi rigorosamente attenere alla morale ordinaria di tutti i giorni. La necessità non conosce legge, e i grandi uomini si sono sempre creduti come piccole divinità. In tutto ciò il Machiavelli ha con grande acume esaminato, compreso le leggi della storia e della società, animato sempre dal più puro patriottismo.»

C'è però, secondo il Gervinus, una ragione evidente, per la quale gli scritti del Machiavelli non furono mai bene intesi, e questa è, che gli eventi seguìti dopo di lui dimostravano solamente in parte la verità delle sue dottrine. «I secoli posteriori combatterono con energia l'assolutismo risorto nel Rinascimento; ma non videro come e perchè esso era stato necessario, il che fu invece chiaramente compreso dal Machiavelli. E però le nuove generazioni capiranno tutta l'altezza del suo genio, solo quando, finita la guerra che noi oggi combattiamo ancora, potranno, in mezzo alla vittoria, accorgersi che esse non avrebbero mai ottenuto i benefizi delle moderne libertà, se la lotta non fosse stata provocata dalla esistenza del dispotismo. È certo che, quando si alza la voce per difendere i diritti del popolo, che combatte i tiranni, non si può comprendere, nè molto meno approvare un uomo i cui scritti dettero regole seguite da Carlo V, da Enrico III e da Sisto V. In tempi migliori però si potrà ben esser favorevoli al gran pensatore, che osò profeticamente dire il vero, e riuscì davvero, ne abbia o non ne abbia egli stesso avuto l'intenzione, ad ammaestrare i principi come opprimere i popoli, e ad ammaestrare i popoli come spezzare il giogo ad essi imposto, o, per seguir le parole di Bernardo di Giunta, insegnò ad un tempo l'uso delle medicine e quello dei veleni. Io posso,» conchiude il Gervinus, «mirare ad un più alto ideale, a cui il Machiavelli non arrivò mai; quando però lo vedo così poco apprezzato in tutto quello appunto cui dedicò la vita ed il grande ingegno; quando vedo disconosciute le storiche e politiche verità dai lui trovate, messa in dubbio la integrità del suo carattere politico e morale, allora debbo deplorare con lui quei tempi nei quali non v'è forza per le magnanime imprese, nè perseveranza per gli studi profondi, nè intelligenza pei grandi esempi della storia.»

In tutto questo v'è di certo un sincero entusiasmo, ma v'è anche un po' di retorica politica, e di politica del secolo XIX. Il patriotta si fa innanzi anche quando dovrebbe parlar solo il critico. Non fu quindi senza ragione nella stessa Germania osservato, che egli era appunto uno di coloro, che da un lato mettevano il Machiavelli troppo, e da un altro troppo poco nel suo tempo. Troppo poco, quando dimenticava che il pensatore politico, anche nel formulare in astratto leggi generali, è costretto a concepirle dentro i limiti della cultura nazionale del proprio tempo. Non poteva quindi il Machiavelli, in una età disordinata come la sua, conoscere ed invocare un principato legale, temperato, proprio de' nostri giorni. L'attribuirgli perciò quelle aspirazioni che ebbero la Germania e l'Italia negli anni che precedettero la loro nazionale ricostituzione, finisce col dargli una fisonomia moderna, che certamente non ebbe. Il Machiavelli è poi messo troppo nel proprio tempo, quando anche le sue teorie più generali si vogliono presentare come conseguenza de' suoi personali sentimenti e del suo patriottismo: esse debbono avere anche un valore scientifico indipendente dall'uomo e dal suo secolo. Anzi è questo valore appunto, che il critico deve cercar di conoscere e di giudicare con esattezza.

In condizioni politiche non molto diverse da quelle in cui era allora la Germania, vennero fuori in Italia, l'anno 1840, Le Considerazioni sul libro del Principe, del prof. Andrea Zambelli. Esse sono di certo il miglior lavoro che sul Principe fosse stato finallora pubblicato in Italia. Lo Zambelli aveva non comune ingegno e dottrina, conosceva la storia moderna e le letterature straniere, aveva studiato con intelligenza e con diligenza le opere del Machiavelli, di cui era grande ammiratore. Nelle sue Considerazioni egli disputava a lungo contro il Macaulay, per dimostrargli, che non solo l'Italia e la sua politica eran corrotte; ma che la corruzione era grandissima in tutta l'Europa dei secoli XV e XVI. E molte volte, a giudizio anche degli stranieri, riesce ad aver ragione. Sfortunatamente però cade egli stesso in esagerazioni opposte, quando vuole, per esempio, attenuare le colpe, le iniquità del Valentino, di Alessandro VI e di Lucrezia Borgia. Ciò non ostante, la descrizione che ci fa dei tempi e dell'insieme abbastanza fedele, e pone in chiaro le enormi difficoltà contro cui dovevano allora lottare i principi ed i tiranni italiani, i quali, in uno stato di guerra continua contro tutto e contro tutti, erano costretti a seguire quella morale che sola era possibile in una quasi anarchia.

L'accentramento necessario per uscire dal Medio Evo, la fondazione dei nuovi Stati e delle nazioni, si potevano, osserva lo Zambelli, ottenere solo per mezzo di quei tiranni. I consigli che dà ad essi il Machiavelli, e le massime che espone nelle sue opere, sono le migliori che si potevano dare allora, le sole pratiche, quelle che infatti, quando furono seguite, condussero allo scopo. Ma egli cerca, esponendole, di attenuarle più che può, raccogliendo con gran cura tutte quelle che esaltano la virtù, la indipendenza e la libertà della patria. La mira costante del suo lavoro è sempre nel cercar di provare, che il Machiavelli voleva l'Italia unita, libera e indipendente; che indagò e propose quei mezzi che soli potevano riuscire nell'intento. Ma com'è che noi ora lo troviamo fautore di repubblica, ora di monarchia? Egli cercava il possibile. Conobbe il Valentino e questi fu il suo ideale. Morto il Valentino, tornò alla repubblica, che amava anche per intima convinzione; spenta la repubblica, si volse ai Medici, e scrisse il Principe, sperando l'unità d'Italia dalla monarchia. E quanto ai mezzi che il Machiavelli suggerisce a porre in atto questo suo disegno, lo Zambelli, come abbiam detto, ne attenua più che egli può la violenza e la crudeltà, andando sempre in traccia d'esempi che valgano in qualche modo a giustificarlo, ricorrendo perfino alle Sacre Carte, nelle quali, egli osserva, si trovano sentenze, che, se fossero nei Discorsi o nel Principe, sarebbero più delle altre biasimate.

Due in sostanza sono i punti su cui riposa la difesa, che questo autore fa del Machiavelli. - La politica consigliata nel Principe, sebbene impossibile oggi, perchè solleverebbe contro di sè la coscienza pubblica, era la sola possibile in quel tempo, la migliore che poteva seguirsi; il Machiavelli l'accettò e la consigliò per liberare la patria. - È però innegabile, che questi espose ancora alcuni principii generali di governo, per reggere gli Stati in tutti i tempi ed in tutti luoghi, repubbliche o monarchie che fossero. Di ciò lo Zambelli, che esaminava solo il Principe, non pare si avvedesse; e quindi cercò di spiegare tutto coi tempi e col patriottismo dell'autore, dimostrandosi così anch'egli più dotto e patriottico apologista, che critico indipendente e giudice imparziale.

In conclusione dunque, esaminando i lavori del Macaulay, del Gervinus e dello Zambelli, dobbiamo riconoscere che un grandissimo cammino si è fatto, seguendo i precetti di quella critica storica, di cui il Ranke era stato in Germania uno dei principali iniziatori. Ma da un altro lato si è cercato di esagerare stranamente la pretesa di tutto spiegare coi tempi, e si è ceduto troppo all'altra pretesa non meno strana di tutto giustificare col patriottismo. Nel principio del suo lavoro bibliografico, il Mohl osservò giustamente, che in uno scritto sul Machiavelli occorre determinar bene, non solo che cosa si deve pensare dell'uomo, ma ancora che giudizio bisogna dare sulle dottrine, e farci inoltre capire come mai un così grande scrittore potè esporre e sostenere sentenze tanto contrarie al bene, alla virtù. Si può la questione morale spiegare colla corruzione dei tempi; ma se i tempi ci fanno capire come il Machiavelli potè arrivare a dottrine immorali, ciò non prova punto che egli dovesse inevitabilmente arrivarvi, perchè un grande uomo s'innalza al di sopra del suo secolo, e lo trascina dietro di sè. Quindi è chiaro che, secondo il Mohl, la spiegazione storica risulta, per questo lato almeno, insufficiente: il suo giudizio finisce infatti non con una esposizione e giustificazione, ma con una condanna.

«Bisogna ricordarsi, egli dice, che il Machiavelli si propose nel Principe un problema speciale ai suoi tempi, e che anche nei Discorsi tenne sempre presente lo Stato libero italiano, mirò costantemente ad esso. Non si deve quindi giudicarlo, come se avesse voluto scrivere e parlare in astratto per tutti i tempi. Ma anche dopo di ciò, riman sempre la domanda: Che valore intrinseco hanno le sue dottrine? Vi sono alcune sentenze del Machiavelli, che dimostrano certo una profonda conoscenza degli uomini e del mondo. Il suo metodo è eccellente, nè da Aristotele in poi si vide mai nulla di simile. Tutto ciò, se non è ancora la scienza, costituisce le condizioni o, se si vuole, le basi necessarie a crearla. Il Machiavelli ignora però la profonda differenza che passa fra lo Stato antico e il moderno, e così la sua dottrina riesce ad un vero anacronismo. Egli disprezza troppo gli uomini, e crede che solo la forza possa correggerli. Questo è un secondo ed assai grave errore, da cui deriva una politica violenta, che non tien conto della parte più nobile dell'umana natura. Quando anche i suoi consigli si risguardano come dati solo in condizioni e per tempi speciali, riman sempre vero che l'astuzia e la mala fede, a lungo andare, non riescono mai. Per quanto sien tristi gli uomini, essi si spaventano di tali massime, ne diffidano, e finalmente le riducono all'impotenza. Ed è un altro errore il credere che un popolo corrotto possa colla violenza essere reso capace di libertà. Più facile sarebbe stato allora vedere gl'Italiani corrompersi sempre più, seguendo i consigli del Machiavelli, ed allontanarsi quindi sempre più dal fine proposto.» Così, in conclusione, il valore intrinseco delle dottrine si riduce a ben povera cosa. Sono frammenti d'un sistema che mal si regge insieme; anzi il Machiavelli stesso non è, secondo il Mohl, che un frammento, quasi il torso di un grande uomo, e rimane perciò come un esempio ed un avvertimento a tutti, contro la falsa via che egli aveva presa.

In queste brevi osservazioni, come si vede, il Mohl ritorna, sebbene con molta moderazione e moltissima dottrina, in parte alla spiegazione puramente storica, in parte alla critica ed alla condanna morale del Machiavelli. E così, più o meno, s'è continuato sempre. Dopo tanti studi, adunque, dopo tante ricerche, che negli ultimi anni si moltiplicarono sempre di più, si finiva col mettere in dubbio il valore intrinseco del pensiero, delle opere e del carattere del Machiavelli. Se alcuni si ostinarono a spiegar tutto coi tempi e tutto giustificare col patriottismo, altri persistettero a pronunziare, in nome della morale, una condanna temperata da molte considerazioni storiche e filosofiche, ma sempre severissima.

Il signor E. Feuerlein pubblicava, l'anno 1868, nella Rivista storica del prof. Sybel, uno scritto che ha, su quella che esso chiamava la questione Machiavelli e sul modo di trattarla, alcune considerazioni assai opportune. La questione Machiavelli, egli dice, è ora mutata. Prima si trattava di sapere quali erano i sentimenti morali dell'autore; oggi si tratta innanzi tutto di sapere qual era il suo intendimento politico. Questo ha fatto sì che molte idee moderne, o almeno in una forma moderna, gli vennero attribuite. Ma il Machiavelli sarà assai meglio inteso, se una volta si distinguerà bene ciò che aveva pensato come dotto sulle leggi della politica in generale, da ciò che aveva pensato come cittadino e patriotta sul destino del proprio paese. Si vedrà allora, che, nel primo caso, egli non ci dà la logica e rigorosa esposizione dell'assolutismo storico, come noi oggi lo vediamo, e nel secondo, non poteva pensare alla soluzione moderna del problema nazionale al modo germanico. Importa moltissimo distinguere ciò che in lui fu un prodotto del suo pensiero, e porta bensì l'impronta inevitabile del suo tempo, ma solo come un accessorio, dai desideri e dai sentimenti del patriotta, che sono un vero e proprio risultato sostanziale del tempo in cui e per cui egli visse.

Dopo queste considerazioni, l'autore viene ad esaminare qual era lo scopo patriottico del Machiavelli. Ma qui non ci sembra che riesca felicemente, perchè egli vuol farne addirittura un federalista. Ed il Principe sarebbe il capo della supposta confederazione, forma di governo per la quale noi abbiam visto invece, che il Machiavelli non ebbe mai simpatia di sorta; dichiarò anzi esplicitamente che la trovava accettabile solo in alcuni casi eccezionali, quando non era possibile sperare di meglio. Poteva consigliarla in uno Stato piccolo come la Toscana, ma non la propose mai all'Italia, che solo colla monarchia poteva, secondo lui, divenire unita e forte.

Il signor Feuerlein continua accennando, con quella brevità che i limiti del suo scritto richiedevano, qual è il valore delle dottrine, quale il loro merito di fronte alla scienza, che cosa esse dicono di nuovo. Il Machiavelli vide che lo Stato ha un suo proprio scopo, e che vi è unità nei vari scopi sociali. Lo Stato per lui non è mezzo, ma fine a sè stesso; è un organismo, che non ammette ostacoli al proprio svolgimento, cui tutto deve cedere. Per noi esso è invece una delle molte forme della vita che facciamo in comune; ma ve ne sono altre ancora, le quali hanno uguale diritto di esistere, e le molteplici loro relazioni vengono anch'esse regolate da leggi. Egli si accorse, che il Medio Evo era in un caos d'istituzioni diverse, sempre in disordine, sempre in conflitto fra di loro, e fu il primo che osò dire; nella società, cui tutti apparteniamo, v'è un fine comune, e non possono esservene molti. Visse in un secolo nel quale le antiche divisioni medioevali di Chiesa ed Impero, di repubbliche, feudalismo, consorterie, associazioni d'arti e mestieri, compagnie di ventura erano scomparse o in via di scomparire, e respinse, condannò ad un tratto ed irremissibilmente tutto quello che impediva l'unità dello Stato. La formola infatti con la quale si passa dal caos medioevale all'ordine giuridico moderno, è appunto la riduzione dei vari scopi dello Stato ad uno solo, determinato e concreto, quello stesso che il Machiavelli vide ed annunziò la prima volta al mondo. È però una formola, un'astrazione, che ci conduce ad un meccanismo, non allo svolgimento ampio, naturale, organico e libero della varia cultura e della coscienza sociale. Ed egli fu indotto ad entrare in questa via, perchè aveva sempre in mente l'unità antica dello Stato romano, e voleva riprodurla. A lui tuttavia seguì come alla Riforma, che, volendo riprodurre il passato, iniziò invece l'avvenire. Il Principe parla della monarchia, i Discorsi della repubblica, di comune v'è però sempre l'autonomia dello Stato e lo scopo esclusivo di esso, che è il punto essenziale. Il Machiavelli studiò queste due forme di governo, come due fatti esistenti nel passato e nel presente; ma non conobbe i mezzi che uniscono, con la libertà, la monarchia al popolo, nè quelli che, separando il potere esecutivo dal legislativo, danno stabilità alla repubblica; e però il suo principato ha un'aspra e dispotica durezza, la sua repubblica abbandona troppo le redini al popolo.

In tutta questa esposizione v'è un linguaggio filosofico ed astratto, che non ritrae punto il carattere degli scritti del Machiavelli, il quale vide e presentò ogni sua idea sotto una forma personale, pratica, concreta. E ciò, sebbene egli sia, nello stesso tempo, come giustamente osserva il signor Feuerlein, il più obiettivo degli scrittori tale infatti che ne' suoi libri sembrano parlare gli avvenimenti stessi, donde viene la forza maravigliosa del suo stile. Questo doppio carattere, obiettivo e personale, che si trova nelle opere del Machiavelli, e ne determina la fisonomia, lo spinge di continuo ad esporre le sue teorie in forma di precetti, di consigli per regolare la condotta dell'uomo di Stato, e fa quindi ad ogni piè sospinto ricomparire, con la questione politica, anche la questione morale. Principalissima riman sempre la prima, ma la seconda non si può sopprimere del tutto, come pare che vorrebbe fare il signor Feuerlein.

Fra coloro, che recentemente hanno scritto del Machiavelli, va prima di tutti annoverato il De Sanctis. Già nel suo Saggio intitolato l'Uomo del Guicciardini, egli aveva esposto notevolissime considerazioni sul Cinquecento. In fine del capitolo XII della sua Storia della letteratura italiana, ed in tutto il capitolo XV, discorre a lungo del Machiavelli, ed anche qui balenano a più riprese lampi di vera luce. De' suoi predecessori il De Sanctis non si occupa punto, forse neppure li lesse, per serbare più genuina la propria impressione. Della Biografia non dice verbo, nè ci dà una critica particolareggiata e distinta delle varie Opere. «Il Machiavelli, egli dice, è stato giudicato dal Principe, e questo libro è stato giudicato, non già nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. Hanno detto che è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima, che il fine giustifica i mezzi. Molte difese sonosi fatte, ed assai ingegnose, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione, più o meno lodevole.» «Così n'è uscita una discussione limitata, e un Machiavelli rimpiccinito. Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercare ivi i fondamenti della sua grandezza» (pagine 106-107).

Così noi abbiamo, in brevi parole, la condanna di quella critica, che d'una questione scientifica volle fare una questione di morale o di patriottismo. E si comprende anche la ragione per la quale le Opere non sono esaminate, ciascuna partitamente per sè, ma solo in quanto servono allo scopo, che il critico si è prefisso. Sul Machiavelli scrittore, sulla sua forma letteraria, sul suo stile, come si può facilmente immaginare, troviamo subito la solita originalità del valoroso critico. «Dove non pensò alla forma, riuscì maestro della forma. E senza cercarla, creò la prosa italiana (p. 104). - Nel secolo in cui la forma era la sola divinità riconosciuta, egli uccideva la forma come tale.» «Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto, e la forma è nulla. O per parlare più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale e materiale» (p. 122). E queste ultime osservazioni acquistano un vigore ed una eloquenza singolari davvero, quando egli viene a parlar della Mandragola.

Naturalmente però lo scopo principale non è qui lo scrittore, ma il pensatore. E il De Sanctis s'accinge subito a descriverlo, a riprodurlo, a ricostruirne, come dice, la immagine ideale. Se non che, egli crede di poterlo fare, fermandosi poco o punto nell'esaminare e giudicare il valore intrinseco delle dottrine. «Non è il caso di disputare della verità o falsità delle dottrine. Non fo una storia, e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia della letteratura. Ed è mio obbligo notare ciò che si muove nel pensiero italiano, perchè quello solo è vivo nella letteratura, che è vivo nella coscienza» (p. 43). E quindi, sebbene egli non resti sempre fermo a questo programma, che sarebbe davvero troppo ristretto, pure ne segue necessariamente, che assai spesso i pensieri, le contradizioni, che erano nello spirito del Machiavelli e nei suoi tempi, vengono riprodotti con una grande vivacità, ma senza occuparsi di distinguerli, di conciliarli o di giudicarli. «Passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, il Machiavelli ha la forza di staccarsi dalla sua società, e interrogarla: cosa sei? dove vai? (p. 107). - Vide la malattia dove altri vedeva la più prospera salute (p. 108). - Riabilitare la vita terrena e darle uno scopo, rifare la coscienza, ricercare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività, questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli» (p. 111). - Qui veramente noi abbiamo lo spirito, non del solo Machiavelli ma de' suoi tempi. Dal Boiardo in poi, il presentimento che l'Italia andava a rovina, era divenuto assai generale. Basta leggere le lettere del Vettori, per persuadersene. La riabilitazione della vita terrena era stata già opera degli eruditi. E quanto al rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, il Machiavelli ci pensò assai poco: questo si può dire piuttosto il lato debole delle sue dottrine. Per lui l'uomo era di sua natura cattivo, e non sperandone egli, come Lutero, la redenzione dalla fede infusa dalla grazia divina, la cercava in qualche cosa di esteriore, nelle buone leggi, nei buoni ordini, che con la forza e la minaccia della pena, lo avrebbero migliorato. Nè s'avvedeva che, a fare le buone leggi, ad eseguirle davvero, era necessario appunto un uomo migliore. «Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, ei mette a base l'immutabilità e l'immortabilità dello spirito umano, fattore della storia. Questa è già tutta una rivoluzione» (p. 120). Ma della immutabilità e immortabilità dello spirito umano, il Machiavelli non parlò, nè vi pensò mai. Si occupò invece dell'uomo individuo, dei partiti, dei principi, dei nobili e del popolo, non dello spirito umano, che suppone qualche cosa di affatto impersonale, cui egli non giunse mai, nè vi giunse altri al suo tempo. Bisognava per ciò arrivare a G. B. Vico.

Una redenzione italica, dice assai giustamente il De Sanctis, non era allora possibile. E nello stesso Machiavelli non fu che un'idea; nè sappiamo che, per attuarla, abbia fatto altro di serio che scrivere un magnifico capitolo, il quale testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore, che la calma persuasione di un uomo politico. «Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' attraverso dei suoi desideri. Il suo onore come cittadino è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria come pensatore è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro» (p. 136-137). Non sarebbe possibile dir meglio.

«Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza è la regola della forza mondana: il risultato è scienza. Bisogna amare, dice Dante. Bisogna intendere, dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore; l'anima del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico, questo è essenzialmente umano e logico (p. 126). - L'uomo vi è come natura, sottoposto, nella sua azione, a leggi immutabili; non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare, non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo.... L'Italia non ti poteva dare più un mondo etico, ti dava un mondo logico (p. 129). - Proporsi uno scopo, quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere uomo significa marciare allo scopo.... Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò a che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo; ciò a che mira, è di rifare la pianta uomo in declinazione» (p. 149). Ma si può dir che sia veramente un uomo quegli in cui è scomparsa ogni distinzione fra il bene ed il male? Si può dir che sia mondo umano quello in cui manca ogni elemento etico? Non è questo un darla vinta agli avversarî, ai detrattori del Machiavelli, i quali mirano appunto a presentar come massime generali di condotta e di morale, quelle che sono invece di politica, per poterle così più facilmente condannare? «Il suo torto, comunissimo a tutti i grandi pensatori,» dice più volte il De Sanctis, «non è nel sistema, è nell'averlo esagerato, esprimendo tutto in modo assoluto, anche ciò che è essenzialmente relativo e mutabile.» «Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto e di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza, della sua decadenza, come uomo e come società» (p. 152). Ma se una volta si ammette che le dottrine del Machiavelli si riferiscono non solamente allo Stato ed all'uomo politico in ispecie, ma alla società, all'uomo ed alle sue azioni in genere, allora il considerare le sue massime come generali ed assolute, non è più la esagerazione, è invece la conseguenza logica del sistema, che rimane senza possibile difesa.

Una cosa bisogna tenere ben ferma. Il Machiavelli s'è occupato dell'arte dello Stato e dell'uomo politico, avendo continuamente di mira l'Italia de' suoi tempi. Il problema dell'uomo in genere e del suo destino, non se lo è mai posto; lo ha anzi lasciato assolutamente da parte. In ciò sta tutta la sua difesa e la sua accusa. La difesa, perchè la condotta delle azioni politiche deve essere guidata dalla ragione, dalla logica, non dal sentimento; deve mirare sopra tutto a raggiungere il fine propostosi. L'accusa, perchè, se nell'azione politica l'uomo non scomparisce del tutto, non potrà neppure scomparir mai del tutto il carattere, il valore morale di essa. E qui abbiamo non l'esagerazione, ma il lato intrinsecamente debole, erroneo del sistema. Su di ciò il De Sanctis non si è fermato abbastanza, e però la sua critica più di una volta oscilla incerta fra tendenze opposte. Un tale difetto però è assai diminuito dalle descrizioni vivaci, eloquenti, vere che egli fa dello spirito del Machiavelli, del suo pensiero. «La sua patria mi rassomiglia troppo all'antica divinità, e assorbe in sè religione, morale, individualità. Il suo Stato non è contento di essere autonomo esso, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i diritti dello Stato, mancano i diritti dell'uomo» (p. 150). Qui in poche parole noi abbiamo un concetto fedele del sistema, che ne contiene in germe anche la critica, perchè ne pone in luce il difetto fondamentale. Ma queste esposizioni e descrizioni veridiche, eloquenti, quasi divinatrici, che assai spesso ci fa il De Sanctis, sollevano una quantità di domande, di problemi che la sua critica lascia insoluti. E quindi il lettore, nello stesso tempo ammirato ed attonito, rimane dubbioso ed incerto.

Anche il signor H. Baumgarten, di cui la scienza deplora la perdita recente, ha nella sua nuova e bella Storia di Carlo V, ripreso in esame il Principe. In verità egli si occupa più di combattere le opinioni altrui, che di esporre e sostenere la propria, la quale è un ritorno alla questione morale ed alla critica puramente storica. Abbiamo da capo il Machiavelli cinico, corrotto, senza fede, senza patriottismo, in mezzo ad un popolo più corrotto ancora. Si pensa più a condannare l'uomo che a giudicare il valore scientifico dello scrittore, che pur è riconosciuto come il primo pensatore politico del secolo.

Il Baumgarten comincia coll'attaccare il Ranke, quando afferma che il Principe scaturisce dalla situazione politica dell'Italia nel 1511, e ha di mira il disegno di formare uno Stato nuovo per Giuliano o Lorenzo dei Medici. Si rivolge poi contro di me e contro tutti quelli che sostengono la stessa opinione. Questa secondo lui è, almeno in parte, confutata dalla lettera del 10 dicembre 1513, nella quale il Machiavelli dice chiaro, che allora aveva già scritto il suo libro, e lo andava correggendo. È poi, egli aggiunge, una contradizione manifesta il supporre, che il libro abbia un carattere generale, e sia nello stesso tempo ispirato da un fatto particolare, che non perde di vista.

La disputa sulle date possiamo qui ritenerla superflua, tanto più che vi abbiamo altrove risposto. Ma che il Principe sia in relazione con i disegni fatti per Giuliano e Lorenzo, risulta così manifesto dalle lettere del Machiavelli e dal libro stesso, che è veramente difficile capire come mai l'acuta intelligenza del Baumgarten non volesse riconoscerlo. Nè v'è poi bisogno di dimostrare, che un libro può essere ispirato da un fatto particolare, ed avere ciò nonostante un carattere generale. È forse assolutamente necessario che esso sia o tutto teorico e generale o tutto pratico e speciale? Il concetto del Principe era già nella mente del Machiavelli, quando i disegni fatti per Giuliano e Lorenzo lo indussero a scriverlo. Scrivendolo, era assai naturale che un uomo come lui s'elevasse ad un'altezza scientifica. Quando l'ebbe finito, domandò a sè stesso ed agli amici, se era o no opportuno dedicarlo ai Medici.

Il Baumgarten però osserva: Quali erano i disegni fatti per Giuliano e per Lorenzo noi lo sappiamo. Si parlava di Parma e di Modena, di Ferrara, di Urbino; si mirava anche a Siena ed a Napoli. Per attuare uno qualunque di questi disegni, sopra tutto poi volendo anche riunire l'Italia, bisognava fare i conti con la Germania, con la Spagna, con la Francia, senza le quali non si poteva allora muovere un passo nella Penisola. Eppure il Machiavelli, che di ciò discorreva continuamente nelle sue lettere, non disse una sola parola nel Principe; non accennò neppure alla condotta che bisognava tenere verso Venezia e gli altri Stati italiani. La verità è che il libro non prese mai di mira una situazione politica determinata, e quindi non era necessario parlare di ciò che in casi determinati si sarebbe dovuto fare.

Ma i disegni discussi e proposti per Giuliano e per Lorenzo, come giustamente osserva lo stesso Baumgarten, erano molti, e variarono di continuo. La situazione politica dell'Italia e dell'Europa mutava anch'essa di giorno in giorno, d'ora in ora. Il Machiavelli poteva, doveva parlarne nelle lettere, le quali discutevano solo le questioni del momento che fuggiva; sarebbe stato superfluo, inopportuno parlarne in un libro, che, appena finito, avrebbe trovato già tutto mutato. Si fermò quindi in esso a discutere solamente di ciò che un Principe nuovo avrebbe, in ogni caso, dovuto fare: riunire, coordinare, formare lo Stato, armarlo di proprie armi. Dopo di ciò si sarebbe potuto pensare ad allargarlo, e sarebbero sorte le questioni internazionali, che non era possibile prevedere e determinare anticipatamente. Tutto ciò non esclude il doppio carattere del Principe, il quale certamente, pur dando precetti generali, mirava al caso speciale di Giuliano e di Lorenzo. Ed aveva ben ragione il Ranke quando disse, che se questo non si riconosce, non è possibile capirne più nulla.

Quello che poi al Baumgarten pare assurdo addirittura, è il carattere di Principe liberatore, che, senza ombra di ragione secondo lui, si è voluto attribuire al personaggio ideato dal Machiavelli. Che volgare visionario, egli esclama, avrebbe questi dovuto essere, per credere Leone X, Giuliano e Lorenzo capaci d'innalzarsi fino ad un così grande, eroico disegno! E con che mezzi si doveva attuare? Nel capitolo V del Principe è scritto, che, a voler sottomettere le città libere, bisogna distruggerle. Ma allora quale ecatombe di repubbliche non sarebbe stata necessaria in Italia, per unirla? Poteva il Machiavelli voler distruggere anche Firenze? Questa sarebbe una enormità cui non arrivò lo stesso Cesare Borgia, il quale se uccise i suoi mal fidi alleati, non distrusse mai le città. Armare di proprie armi il nuovo Stato? Ma non aveva lo stesso Machiavelli, il 10 agosto 1513, scritto al Vettori, che sarebbe stata cosa da ridere, perchè, dalle spagnuole in fuori, «non sono in Italia armi che vagliano un quattrino»?

Sfortunatamente il Baumgarten credette di poter esaminare il Principe, senza metterlo in relazione con le altre opere del Machiavelli, con le quali è così strettamente connesso, che senza di esse non è possibile farsene un concetto chiaro. Egli quindi non si ricordò neppure che tutta l'Arte della Guerra è fondata sulla convinzione profonda, che se avessero adottato gli ordini militari di Roma, gl'italiani avrebbero riacquistato l'antico valore, ed avuto una fortuna simile alla romana. Ed il 10 marzo 1526 non scriveva egli allo stesso Vettori, dimostrando una grande fiducia che Giovanni delle Bande Nere potesse allora armare e riunire gl'Italiani sotto la sua bandiera? E quando, poco dopo, Firenze s'apparecchiò a difendersi contro l'esercito imperiale, non ritornava egli a sperare nella sua Ordinanza? Nè è poi vero che egli dica proprio in modo assoluto, che a sottomettere le città libere, bisogna distruggerle. Nei Discorsi, ed anche nel capitolo V del Principe, citato dal Baumgarten, è scritto che bisogna: o distruggerle (e intende i cittadini potenti e liberi, non le città), o andarvi ad abitare, o porvi un governo di pochi. In ogni modo poi il Baumgarten ha avuto torto di non ricordarsi di ciò che assai giustamente osservò il Burckhardt, che cioè il difetto del Machiavelli non era un eccesso di logica e di coerenza, ma il lasciarsi troppo facilmente trascinare da una fantasia indomabile. Contradizioni in lui ve ne sono, e non bisogna pretendere di sopprimerle. Chi potrà mai supporre, osserva il Baumgarten, che il Machiavelli parlasse con tanto disprezzo, come fa nel Principe, degli Stati ecclesiastici, se il libro fosse stato davvero destinato ai Medici? Ma nelle Storie fiorentine, scritte per commissione di Clemente VII ed a lui dedicate, non dice egli ripetutamente, che i Papi furono la rovina d'Italia, avendole impedito sempre di riunirsi?

Dopo tutto ciò, non deve far nessuna maraviglia, se arrivato all'ultimo capitolo, in cui il concetto del Principe liberatore apparisce in modo da non poterlo più mettere in dubbio, il Baumgarten si trovi costretto a dire, che esso è una fantastica bizzarria, la quale apparisce improvvisamente, senza avere connessione alcuna col resto del libro. - Forse, egli aggiunge, questo è il solo capitolo destinato a Lorenzo, forse il Machiavelli lo scrisse sperando di potere con questa patetica esortazione guadagnarsene l'animo? - Eppure aveva detto poco prima, che sarebbe stato affatto puerile il supporre i Medici capaci di comprendere un così nobile ed eroico disegno, e commuoversi per esso. In conclusione tutto il male, secondo il Baumgarten, è venuto dall'aver voluto prendere sul serio la esortazione finale, e ciò s'è fatto perchè era il solo modo di redimere quanto v'ha di enorme, di crudele, d'immorale in tutto il libro. Una tale interpetrazione, che non ha nessun serio fondamento, è divenuta popolare dopo che l'Italia fu liberata per opera della Casa di Savoia, il che sembrò confermare il preteso sogno eroico del Machiavelli. Ma questi in realtà non sentì mai nessun bisogno di giustificare la sua politica con un grande scopo patriottico e morale. E quando lo avesse sentito, non avrebbe di certo nascosto il proprio pensiero in modo, che ci vollero tre secoli per scoprirlo.

Lasciando qui da parte che la interpetrazione patriottica del Principe è assai più antica, che non suppone il Baumgarten, che cosa dunque, secondo lui, voleva il Machiavelli, che scopo, che valore ha il Principe? La politica del Rinascimento era senza morale, senza scrupoli, fatta nell'interesse dei principi, non dei popoli. Questa relazione artificiale del sovrano coi sudditi, parve al Machiavelli normale, e volle ridurla a sistema. Ma egli rese la politica del suo tempo anche peggiore che non era, con esempi cavati dall'antichità. Sperava così di trovar favore appresso i Medici, veri rappresentanti di quella politica iniqua, che egli cercava perciò di giustificare. «Uno Stato che abbia un fondamento etico, non esisteva pel Machiavelli, il quale nella vita pubblica e nella privata, non riconosceva l'impero della morale.» [«Einen auf sittlichen Grundsätzen gestützten Staat gab es auch für seine Gedanken nicht, da dieselben weder im privaten noch iim öffentlichen Leben von sittlichen Geboten wussten» (p. 635)]. «Si è detto che egli seppellì il Medio Evo, ed iniziò la politica moderna. Può darsi, ma è una politica, la quale fa astrazione da tutto ciò che è fondamento necessario della società moderna, il Cristianesimo cioè e le relazioni internazionali.»

Il Baumgarten vide assai chiara la stretta relazione che passa fra il Machiavelli ed i suoi tempi; ma lo confuse troppo con essi, tanto che la personalità ed originalità sua ne svanisce quasi del tutto. Se infatti i tiranni di quel tempo, senza altra mira che il loro personale interesse, non ebbero nessuna grande importanza storica; se la politica d'allora fu solamente corrotta, senza nessun vero, reale valore; se il Machiavelli non fece altro che provarsi a giustificarla, per mero egoismo, senza nessun alto concetto scientifico, senza nessun principio di morale, di patriottismo, d'onore, quale può mai essere il significato, il merito d'una dottrina così priva d'ogni fondamento? A che si riduce il merito di questo grande pensatore politico, che lo stesso Baumgarten, a giusta ragione, chiama il primo del suo secolo? Perchè mai egli stesso ha creduto di doversi così a lungo occupare del Principe in una storia di Carlo V? Come mai questo libro ha potuto esercitare una così grande, continua azione nella politica e nella letteratura? L'enigma ricomparisce, senza trovare una risposta. Non ostante il suo ingegno e la sua dottrina, non ostante molte giuste osservazioni, il Baumgarten non è riuscito, come sembrò credere, a diminuire il valore delle osservazioni e dei giudizi del Ranke, nè ha dato, secondo noi, un passo innanzi nella critica del Machiavelli.

Noi possiamo ora concludere, che non v'è lato da cui il Machiavelli non sia stato, più o meno accuratamente, esaminato; ma le contradizioni non sono scomparse, nè siamo quindi arrivati ad un giudizio universalmente accolto come definitivo. La ragione principalissima di ciò è stata che gli scrittori, anche i più autorevoli, lo hanno troppo spesso esaminato da qualcuno solamente dei molti lati dai quali egli si presenta. Chi ha cercato la spiegazione dell'enigma nello studio dei tempi; chi nel carattere dell'uomo; chi, trascurando l'esame dell'uomo e della vita, s'è fermato invece alle opere, ed ha in esse voluto vedere o solo il repubblicano o solo il sostenitore del principato; chi non ha visto che la questione politica, e chi l'ha invece confusa colla questione morale. Ma sotto qualunque di questi aspetti esclusivi si guardi il Machiavelli, la sua fisonomia, ne vien sempre alterata, ed il suo vero carattere riman sempre inesplicabile. Solo un esame fatto da tutti i lati, sotto tutti gli aspetti, non dimenticando mai di distinguere ciò che è principale da ciò che è secondario; in altri termini solo una vera e propria biografia può sperare di avvicinarci finalmente alla soluzione del difficile problema. Tentativi di questo genere non mancarono di certo. Ma le prime biografie furono semplici compilazioni, senza ricerche originali, senza neppure cercare di trar profitto da quelle indagini precedenti, che avevano messo in nuova luce qualche parte del soggetto. Il signor Périès pose innanzi alla sua traduzione di tutte le opere del Machiavelli (1823-26) una sua Histoire de Machiavel, compilata semplicemente colle notizie raccolte nell'Elogio scritto dal Baldelli (1794), e nelle prefazioni alle edizioni delle Opere, venute alla luce nel 1782 e 1796 in Firenze, e nel 1813 colla data d'Italia. L'anno 1833 fu pubblicato a Parigi, in due grossi volumi, il lavoro da noi più volte citato del signor Artaud. Sebbene composto con grandissima perseveranza e pazienza, anch'esso è privo d'ogni originalità, così nelle ricerche storiche, come nei giudizi dati sulle opere. D'allora in poi, per lungo tempo, nessuno s'arrischiò più a scrivere una nuova biografia del Machiavelli, tale non potendosi dire neppure il libro del signor Mundt (1861), che ci dà piuttosto considerazioni sulle opere e sulle dottrine. Il centenario celebrato a Firenze l'anno 1869, ed un concorso bandito in quella occasione, dettero nuovo stimolo a moltissime pubblicazioni fatte in Italia sul Machiavelli, fra le quali vanno annoverate anche quattro nuove biografie. Ma di questi recentissimi lavori e specialmente delle biografie, scritte la più parte da amici o conoscenti, io non credo di dover qui fermarmi a parlare, per ragioni che il lettore intenderà facilmente.

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