CAPITOLO IX.

Il Secolo di Giulio II. - Le Belle Arti. - Leonardo. - Michelangelo. - Raffaello. - La nuova letteratura. - Lodovico Ariosto. - Gli scritti giovanili di Francesco Guicciardini.

Il decennio in cui Giulio II sedette sulla sedia di San Pietro (1503-1513), fu un periodo memorabile nella storia della politica, memorabilissimo in quella della cultura italiana. Con una volontà indomabile, con un impeto più che giovanile, guidato sempre dal pensiero di riconquistare alla Chiesa le provincie che, secondo lui, le erano state usurpate; d'ingrandirne, di renderne forte e temuto lo Stato, questo Papa, che aveva già sessanta anni, agitò il mondo. Egli tenne in mano le fila della politica in tutta l'Europa, ora a vantaggio ora a danno d'Italia, che divenne il campo aperto alle grandi battaglie, le quali finirono coll'esserle cagione d'irreparabili sventure. Le proporzioni gigantesche, che questi fatti presero quasi istantaneamente, dovevano lasciare una profonda impressione nell'animo degli uomini, per poco che guardassero e meditassero su ciò che intorno ad essi seguiva. Certo è che si vide allora un grande incremento nella cultura, e nuovo splendore ne ebbero le opere letterarie, massime di politica e di storia, nelle quali gl'Italiani, con insuperabile originalità, riuscirono maestri all'Europa. In verità, quando, in mezzo a quel sanguinoso cataclisma, che, incominciato colle battaglie d'Agnadello, di Ravenna, di Pavia, finì col sacco di Roma e l'assedio di Firenze, noi vediamo che si scrivono le opere del Machiavelli e del Guicciardini, possiamo riconoscere una relazione naturale fra di esse ed i grandi, sebbene dolorosi, tragici fatti, in mezzo ai quali furono composte. Ma quando vediamo che, nel medesimo tempo, si scrivono poemi come quello dell'Ariosto, commedie, novelle, satire, sonetti, poesie burlesche d'ogni sorta, allora chi può negare che tutto ciò abbia l'apparenza d'un singolare contrasto? Pure la verità è, che ora appunto il Rinascimento italiano si manifesta in tutta l'infinita varietà del suo splendore, il quale non solamente sfolgora nelle mille nuove forme della prosa e della poesia nazionale, ma ritrova la sua maggiore originalità nelle arti plastiche, che danno la propria impronta alla cultura di quel secolo, che travagliato da lotte feroci, fu pure essenzialmente artistico. Una nuova primavera intellettuale sembra ringiovanire la terra insanguinata, sulla quale spunta improvvisa una moltitudine di fiori non mai più visti, dalle cui foglie emana una misteriosa fragranza, che c'inebbria anche oggi: in essi è un'armonia di forme e di colori, che lascia estatico e rapito chiunque la contempla. Mentre le furie della rapina e della guerra si scatenano da un lato, si direbbe che dall'altro una musica divina annunzî che gli Dei discendono di nuovo a passeggiare fra i mortali.

I nomi di Leonardo, di Raffaello, di Michelangelo bastano certo alla gloria d'un popolo, alla grandezza d'un secolo. Con le loro mirabili opere l'Italia arriva, specialmente nella pittura, ad un'altezza cui nessun'altra nazione potè mai innalzarsi. È un'arte che, come quella della scultura greca, non nasce due volte nel mondo, perchè, divenuta immortale, non si ripete nè si riproduce. La culla e la scuola principale di questi artisti fu di certo Firenze; ma le loro opere più celebri vennero da essi compiute in Roma, e quindi il secolo, pigliando nome da un Papa, fu chiamato di Leone X. Sebbene però questo Papa fosse della famiglia dei Medici, cui tanto debbono le arti belle, e fosse anch'egli un gran mecenate, è certo che usurpò una gloria assai maggiore di quella che veramente gli spetti. Raffaello e Michelangelo ricevettero da Giulio II le grandi commissioni, e sotto il suo papato compierono quelle pitture, quelle sculture, che fecero di Roma un santuario dell'arte, al quale da ogni angolo della terra muovono, in continuo pellegrinaggio, i popoli civili. E Giulio II non solamente ordinò e pagò quelle opere immortali, ma le volle, le promosse con un ardore di cui egli solo era capace; e quindi, non senza ragione, alcuni moderni da lui e non da Leone X vollero nominare quel secolo.

Delle arti belle noi non abbiamo finora tenuto parola, perchè esse non ebbero sull'animo e sull'ingegno del Machiavelli un'azione visibile. In Roma egli non si fermò una sola volta a notare la grandezza dei monumenti antichi o contemporanei, che erano sotto i suoi occhi. Lo stesso silenzio serbò su quelli in mezzo ai quali visse in Firenze, dove non lo troviamo mai ricordato a proposito dei grandi avvenimenti artistici, che seguirono appunto nel primo decennio del secolo. Eppure essi erano dovuti in gran parte all'iniziativa del gonfaloniere Soderini, ed il suo governo, di cui il Machiavelli fu di certo non ultima parte, dette un nuovo impulso alle arti, proteggendole con ardore, dopo che, sotto Piero de' Medici ed al tempo del Savonarola, erano state invece neglette. E non solamente alle nuove opere artistiche che si vanno ora compiendo a Firenze, in un modo o l'altro, pigliano parte, insieme col Gonfaloniere, tutto il governo, tutta la cittadinanza; ma queste opere ebbero un valore così grande ed universale nella cultura italiana, contribuirono tanto a formare il carattere intellettuale del secolo, esercitarono una così grande azione sulla letteratura italiana, che, indirettamente almeno, dovettero pure esercitarne una non piccola anche sulla mente del Machiavelli. Lo spirito che le animava era nell'aria stessa che si respirava. E se nelle belle arti tutto ciò piglia una forma più concreta e plastica, quindi più visibile e intelligibile, lo studio di esse appunto perciò ci apre la via a meglio comprendere e giudicare il valore e l'indole della letteratura del secolo XVI, nella quale il Machiavelli occupa un così gran posto. Per queste ragioni dobbiamo ora fermarci un momento a parlare delle arti belle.

Nel Medio Evo esse si trovarono come riunite in una sola arte. La pittura e la scultura infatti sembravano essere un complemento dell'architettura, di cui, perdendo la propria personalità, divenivano quasi un necessario complemento nelle grandi cattedrali. In esse tutti gli artisti, che lavoravano insieme a costruirle ed ornarle, sembravano voler nascondere il proprio nome e sparire agli occhi dei posteri. Con Nicola Pisano, Giotto e Arnolfo la loro individualità apparisce finalmente chiara e ben definita; e le arti, affermando la propria indipendenza, cominciano il nuovo e glorioso cammino al tempo stesso che la nuova letteratura apparisce già formata nella Divina Commedia: la figura colossale di Dante giganteggia su tutto. I mezzi principali con cui più tardi, nel secolo XV, venne compiuta questa grande rivoluzione, furono lo studio del vero e dell'antichità, la quale rinacque allora fra noi potente così nelle arti come nelle lettere. Questa rivoluzione era stata già di lunga mano apparecchiata e resa inevitabile. Chi guarda infatti il duomo d'Arnolfo ed il campanile di Giotto, certo non ritrova ancora lo stile greco-romano del Rinascimento; ma non vede neppure quello stile gotico, che fiorì invece in Francia e sul Reno, ed apparisce fra di noi profondamente alterato. Si direbbe che in Italia si cercasse fin dal principio una più solida e simmetrica ossatura classica, la quale costringeva, trasformava sostanzialmente l'architettura medioevale. Infatti i molteplici ornati, rilievi e bassorilievi di scultura, che ne costituiscono uno dei caratteri fondamentali, si mutarono in quelle incrostazioni di marmo, che, secondo l'espressione d'un moderno, sono il nemico capitale del gotico. La linea orizzontale predomina, le foreste di sottili colonne si riuniscono in fasci, le fantastiche curve si semplificano, lo slancio irresistibile che sembra spingere il tempio e l'animo dei credenti verso il cielo, si arresta: anche qui lo sguardo dell'uomo è ben presto richiamato dal cielo alla terra. Da questa fusione di forme classiche e gotiche, cui s'aggiungono ancora forme orientali, il tutto mirabilmente riunito in un solo stile, in un solo pensiero artistico, nasce un'arte affatto nuova, alla quale non si può dare che il nome d'italiana. In essa ancora non è visibile, ma già si trova in germe quello che sarà il carattere proprio del Rinascimento. Chi infatti, ponendosi a contemplare il duomo di Firenze, lo vede a un tratto incoronato dalla celebre cupola del Brunelleschi, resta maravigliato, non tanto della grande diversità dei due stili, quanto del vedere come essi armonizzino mirabilmente fra di loro. Si direbbe che le forme pur tanto più romane e classiche della cupola, si svolgano naturalmente dal seno stesso del mirabile duomo medioevale, e che in esso si trovi sin dal principio nascosta un'altra arte, quella del Rinascimento, che prima o poi doveva di necessità venire alla luce.

È questa infatti che trionfa nel secolo XV, animata da uno spirito nuovo, che le dà una fisonomia, una forma che sembra contradire a quella delle precedenti scuole italiane; ma la contradizione è solo apparente. In realtà così nell'architettura come nella pittura e scultura un'arte si svolge, nasce dall'altra, seguendo sempre la stessa guida. Il principio che le costituisce ambedue è sempre lo studio del vero e dell'antico. È il fatto identico che notammo nella letteratura, quando anche nella Divina Commedia trovammo nascosto il primo germe della erudizione umanista. Ma in questa trasformazione le arti belle non ebbero, come la letteratura, un periodo di sosta, durante il quale il predominio eccessivo del latino parve che sospendesse lo svolgimento naturale dell'italiano. Esse mutarono indirizzo, seguendo sempre il loro cammino ascendente. La pittura specialmente, favorita più tardi anche dalla scoperta dei colori ad olio, venuti a noi dai Fiamminghi, acquistò ogni giorno forza, originalità, indipendenza sempre maggiori. Essa anzi prese fra le arti sorelle il primo posto, non solo per la moltiplicità e varietà infinita delle sue produzioni, non solo perchè il genio italiano riuscì in essa a manifestarsi più ampiamente e compiutamente; ma ancora perchè comunicò, quasi impose il suo proprio carattere alle altre arti, alla letteratura stessa.

L'architettura rinacque con le forme classiche, per opera del genio del Brunelleschi, che studiò a Roma i monumenti antichi, e per opera di Leon Battista Alberti, che fu anche un erudito. Le chiese però ed i palazzi che questi innalzarono, come tutti gli edifizî del Rinascimento italiano, anche quando più s'avvicinavano all'antico, non ne furono mai una materiale riproduzione. Linee e forme, in apparenza identiche alle greche e romane, assumevano un'espressione ed un significato affatto diversi. L'ornato, con carattere sempre vario, nuovo, originale, prese un posto eminente, preponderante, perchè il carattere dell'arte doveva allora essere, sempre ed in tutto, il pittoresco. La scultura fiorentina con Donatello, coi della Robbia, col Ghiberti avanzò del pari, studiando l'antico, ritraendo il vero. Un'espressione di nuova giovinezza, un'insolita energia, una freschezza vergine di movimenti e di forme si moltiplicavano per tutto. Se il Brunelleschi sembra avere nei suoi ardimenti e nella severa semplicità delle linee, che sdegnano ogni gotico frastagliamento, un'anima di ferro, Donatello riesce a dare alle sue statue una forza, un'originalità e semplicità d'espressione tali, che i due artisti si possono dire fratelli in ispirito. E in Donatello si vede già quello che apparisce più chiaro ancora nella gentile vaghezza di Luca della Robbia, nei suoi varî e variopinti ornati, il predominio costante del pittoresco. I bassorilievi delle porte del Ghiberti paiono dei quadri dipinti a chiaroscuro, quelli di Donatello s'abbassano qualche volta fino ad aver tutta l'apparenza di lavori disegnati a contorno. Alcuni ritratti scolpiti da Mino da Fiesole si direbbero dipinti dai Fiamminghi, i quali ebbero pur la loro parte nello svolgimento dell'arte italiana, molte essendo allora le relazioni commerciali fra i due popoli. Non di rado è assai visibile l'azione esercitata sugli artisti fiorentini dalle opere immortali dei fratelli van Eyck. La mescolanza di tanti e così diversi elementi, sebbene in modo mirabile riuniti e fusi dal genio nazionale, che predomina sempre su tutto, toglie all'arte italiana quella severa unità organica, che troviamo nella greca ed anche nella gotica; ma ne risulta invece una varietà infinita. E questo seguiva anche nelle lettere, e per le stesse ragioni, giacchè nel nostro spirito venivano come chiamati a raccolta tutti i più diversi sistemi di letteratura, di filosofia, di arte, di cultura, che in esso dovevano trovare unità nuova e più generale. Si direbbe che l'Italia avesse allora una forza assimilatrice, capace di armonizzare, sotto nuova forma, tutto ciò che l'Oriente e l'Occidente, il Paganesimo ed il Cristianesimo, erano stati capaci di produrre. Ma prima che, con così diversi elementi, si riuscisse a formare un vero organismo, animato da uno spirito nuovo, vi doveva essere, e vi fu, un periodo di preparazione, in cui essi rimanevano ancora assai visibili. A poco a poco s'avvicinarono, s'unirono, ed il primo legame che incominciò a fonderli insieme fu plastico, esteriore, essenzialmente artistico, descrittivo, pittorico. Sarà sempre un onore immortale per l'arte e la letteratura italiana in quel secolo, l'esser divenute l'espressione, la personificazione vivente e visibile d'un vero microcosmo intellettuale. L'armonia plastica, artistica era la manifestazione dell'armonia interiore già seguìta nello spirito, la quale, in mezzo a tante calamità, veniva ad illuminare il mondo di nuova luce, a confortare gli uomini, ad annunziare la fine ormai compiuta del Medio Evo, il principio di un'èra novella. Quest'arte tuttavia non potrà mai perdere del tutto la memoria della sua prima origine, dovrà anzi risentirne le inevitabili conseguenze. Infatti non appena la sua forza creatrice, col decadere della nazione, s'indebolisce, comincia subito a riapparire la diversità degli elementi che la costituiscono, ed il barocco, sempre più esagerato, è allora l'abisso in cui essa dovrà, prima o poi, inevitabilmente precipitare. Ad un tale destino sembrano sfuggire del pari l'arte greca e la gotica, le quali, più semplici, costituite da meno varî e molteplici elementi, morirono di morte naturale, per esaurimento di forze, senza aver mai avuto un periodo di tumultuosa anarchia, come l'avemmo noi nel secolo del barocco.

L'arte fiorentina, specialmente la pittura del secolo XV, ci mostra chiaro l'unione, l'armonia dei diversi elementi, e la grande, ricca, infinita varietà che ne risulta. Dalla profonda espressione religiosa che ammiriamo nel Trecento, dalla classica bellezza greca, dallo studio accurato del vero, che s'incontrano e si mescolano, nasce una nuova eleganza di forme ideali, che si direbbero più che umane, se il loro fondamento, la loro visibile sorgente non fosse sempre la natura. Questo non mai più veduto tipo di bellezza è il vero fiore della nuova arte, è la prova maggiore della sua potenza creatrice. Il primo che si presenti a noi, fra gli artisti del nuovo stile, è Masaccio (1401-28), giovane le cui opere resero subito immortale, la cui vita ci rimane però quasi del tutto ignota. Egli scomparisce ben presto dal mondo, dopo avere aperto una via per la quale tutti debbono seguirlo. Accanto a teste che sembrano fotografie dal vero, troviamo figure maestose, nobilmente avvolte in abiti, le cui larghe pieghe ricordano la toga o la clamide delle antiche statue. Il paese, l'architettura, la natura intera entrano nel quadro, e vengono a coordinarsi fra di loro, a costituire finalmente la nuova arte. Ma per un gran pezzo ancora i pittori fiorentini si danno, ciascuno, ad una parte diversa dell'arte loro, quasi a risolvere speciali problemi. Chi è inteso alla prospettiva; chi alla notomia; chi ritrae il vero con fedeltà fotografica; altri studia l'antico o cerca nuovi tipi e nuove espressioni; altri pone tutta la sua cura nel comporre architetture o paesaggi, che debbono servire come fondo de' suoi quadri. Ma tutti hanno una finezza, una gentilezza, un'eleganza che dimostrano chiaro quale è il genio artistico della nazione. Fu una straordinaria fioritura di opere d'arte, che, incominciata da Firenze, s'allargò e diffuse rapidamente in tutta Italia, rianimando di novella vita ogni cosa. E ben a ragione esclama il Gregorovius: se l'Italia del Rinascimento non avesse prodotto altro che la sua pittura, questa sola basterebbe a renderla immortale.

L'ardore, l'energia con cui è condotto questo grande lavoro nazionale, appariscono di giorno in giorno più evidenti. Gli artisti vanno acquistando una libertà, una potenza sempre maggiore di tutto esprimere; le loro idee, le loro creazioni si sollevano e li sollevano sempre più in alto. L'ora solenne in cui deve nascere quella che sarà veramente la grande arte del Cinquecento è vicina, e, come segue sempre nei momenti decisivi della storia, sono già pronti e impazienti i Titani, che saranno gli autori dell'opera immortale, che l'Italia deve compiere. Tutto ora annunzia il loro rapido avvicinarsi nel mondo dell'arte, nel quale si direbbe che essi sono presenti già prima che arrivino. E, per citare qualche esempio, noi certo non possiam dire che fra Bartolommeo della Porta (1475-1517) sia un uomo di vero genio. Egli non ha la forza d'ingegno e di fantasia, nè l'originalità necessaria a ciò; ma la larghezza del suo dipingere, l'armonia grandiosa e multiforme delle sue composizioni, la dolcezza delle espressioni sono già tali, che chi guarda i suoi quadri, sente, come nel proprio spirito, l'arrivo inevitabile, fatale di Raffaello. E la grande energia con cui, nel duomo d'Orvieto, Luca Signorelli disegnò; l'audacia con cui aggruppò, librandole in aria, alcune delle sue figure, fanno presentire la cappella Sistina di Michelangelo. Par che l'arte incominci essa l'opera del genio, prima che questo sia ancora comparso sulla scena. V'è realmente nella storia un lavoro quasi inconsapevole di molti, che apparecchiano, spianano la via al grande uomo, il quale finalmente arriva come un conquistatore, come un trionfatore, con tutta la piena consapevolezza della sua onnipotenza. Il tempio è finito, manca ancora il Dio che lo abiti e lo illumini; ma tutto ci dice che egli è vicino. Ben presto una luce improvvisa annunzierà la sua presenza.

Questa ultima, grande rivoluzione si compiè tra la fine del secolo XV ed il principio del XVI, per opera principalmente di tre sommi ingegni, che noi troviamo ora a Firenze, sotto il Gonfalonierato del Soderini, occupatissimi a trasformar l'arte di fiorentina in italiana. Fra poco, per opera dei Papi, il teatro delle loro maggiori imprese sarà Roma, che diverrà la capitale artistica dell'Italia. Il primo che si presenti come un vero genio, capace di dare unità organica, impronta propria ed originale al lavoro già apparecchiato dallo spirito nazionale, è Leonardo da Vinci (1452-1519). Il suo maestro, Andrea del Verrocchio, aveva una varietà maravigliosa di attitudini diverse: pittore, scultore, orefice valentissimo; amava la musica, i cavalli, la scienza, e fin dalla gioventù s'era occupato molto di geometria e di prospettiva. Nelle teste da lui dipinte s'ammira una grazia singolare ed uno studio d'espressione notevolissimo; ma appunto in ciò il suo discepolo, anche più di lui splendidamente dotato, lo lasciava subito di gran lunga indietro. È nota la storia dell'angelo che egli dipinse nel quadro del maestro, il quale ne restò scoraggiato. Leonardo, in vero, si presenta sin dal principio come uno di quegli uomini privilegiati dalla natura, che li manda nel mondo a compiere grandi cose. Le facoltà del suo spirito erano, come le membra del suo corpo, armonicamente, mirabilmente formate. Bello e forte della persona, vinceva tutti negli esercizi ginnastici, e la sua intelligenza universale riusciva con uguale eccellenza in ogni umana disciplina. Idraulico, naturalista, inventore di macchine, matematico, vero iniziatore del metodo sperimentale, osservatore e scopritore dei fenomeni della natura, scrittore di cose d'arte, artista valentissimo in tutto, ma nel dipingere sommo addirittura. La irrequietezza febbrile del suo genio gli faceva affrontar sempre nuovi e più difficili problemi d'arte o di scienza, dei quali proseguiva lo studio con ardore indefesso, finchè v'erano difficoltà da superare, per abbandonarli appena s'avvedeva di averle superate. Così ci lasciò un gran numero di lavori incompiuti o anche appena cominciati; e spesso bisogna cercar le più belle idee, le maggiori scoperte di Leonardo ne' suoi numerosi taccuini d'appunti, parecchi dei quali pervennero fino a noi. Tuttavia i pochi quadri che condusse a termine, e i suoi molti disegni bastano non solo a rendere eterna la sua fama, ma anche ad accertare la grandissima azione che egli esercitò sui più celebrati artisti del suo secolo. Nello studio dell'anatomia cercò la sicura intelligenza di tutti i movimenti del corpo umano, come nel moto delle ali studiò il volo degli uccelli; lavorò con indicibile costanza a scoprire, ad immaginare, a ritrarre le più varie espressioni, comiche, tragiche, severe, serene, dell'umana fisonomia. Per opera sua il disegno divenne nella scuola fiorentina, meglio che in ogni altra, il mezzo potente e indipendente d'esprimere i più elevati pensieri, le più riposte passioni dell'animo. Ed in quella sua finezza del disegnare e dipingere, nella verità dei ritratti, nella vivezza e novità delle espressioni, arrivò a tale e tanta perizia, che il respiro sembra uscire dalla bocca de' suoi personaggi. La ricerca principale di tutta la sua vita artistica fu quella d'un tipo ideale di bellezza sovrumana, la manifestazione d'un divino sorriso, che apparisce assai spesso nelle teste da lui dipinte, e si ammirava specialmente nella Gioconda, la moglie di Francesco del Giocondo. Pretendono che nel ritrarla facesse sonare allegra musica, per meglio promuovere in lei quel sentimento d'ideale felicità che egli andava ricercando. Nel guardarla, noi non sapevamo persuaderci che i suoi occhi non si movevano, che le sue labbra non cominciavano a parlare, tanta era la verità e la vita che l'artista era riuscito ad infonderle.

Chi esamina i taccuini di Leonardo, vi legge la storia della sua mente singolarissima. Accanto a teste ideali, che sorridono il loro ingenuo sorriso, che pur non è mai privo d'una certa ironica accortezza, si trovano le teste più comiche, più tragiche o più mostruose. Ma anche in questi fantastici e bizzarri capricci, le leggi della natura sono sempre rigorosamente rispettate. Dato il pensiero, data l'intenzione della prima linea, il resto segue come per logica conseguenza; il tipo più ideale o il più grottesco han sempre una mirabile unità e verità artistica. Ed accanto a siffatti lavori d'arte troviamo ora il disegno d'una macchina idraulica, ora le formole d'un problema matematico, ora uno studio anatomico, e massime filosofiche, spesso copiate dagli antichi, e nuove indagini sulle fortificazioni o sulle irrigazioni, e mirabili esperienze sulla caduta dei gravi, che fanno del grande artista il precursore di Galileo. Questo spirito di universale ricerca era in lui tale, che lo spingeva a concepire le più ardite, audaci imprese, come quella di sollevare, a forza di macchine il battistero di San Giovanni in Firenze, e l'altra di deviare il corso dell'Arno. Spesso finiva col non vedere più confini alla potenza dell'umana ragione e della scienza, di che è prova singolare la ben nota lettera a Lodovico il Moro. La sua irrequietezza gli fece ricercare anche nuove composizioni di colori, i quali egli, come gli antichi usavano sempre, apparecchiava colle proprie mani. La chimica però essendo allora nella sua infanzia, più d'una volta Leonardo fallì lo scopo, e i suoi quadri ne restarono col tempo annebbiati, anneriti, come si vede nella Cena, che ora pur troppo è sciupata addirittura. Essa conserva ancora, sebbene assai poco visibili, alcune tracce della sua inarrivabile bellezza; ma solo coll'aiuto delle stampe si può capire anche oggi, che è un'opera la quale basta alla gloria d'un uomo, ed incomincia un'epoca nuova nell'arte. L'effetto prodotto dalle parole di Cristo, - Uno di voi mi tradirà, - è tale nella espressione diversa di tutti i dodici Apostoli, che forma per sè solo un vero poema psicologico. La composizione, divisa in gruppi, due da ciascun lato del Cristo, che siede in mezzo, con una calma inalterabile, ha, è ben vero, qualche cosa di troppo ordinato, quasi di uniforme, che ricorda ancora i Quattrocentisti. Ma, come giustamente osserva un moderno, il divino di quest'opera sta appunto in ciò, che tutto quello che è studiato e calcolato, apparisce come spontaneo, necessario, inevitabile. Un genio potente rivela in essa i suoi inesauribili tesori; armonizza fra loro i contrasti d'espressione che ha creati, riuscendo a dare varietà anche all'apparente monotonia delle linee. E così un soggetto, che per sì lungo tempo era divenuto quasi convenzionale, riuscì a un tratto originale per lo spirito potente che lo animava. La nuova pittura è ormai con questo capolavoro iniziata; essa non ha bisogno d'altro che di qualche maggiore libertà e varietà nel movimento delle figure, nell'aggruppamento della composizione. A ciò Leonardo stesso si provò felicemente nell'Adorazione dei Magi, che trovasi a Firenze, e che egli lasciò incompiuta, forse quando s'avvide d'essere già riuscito a superare le difficoltà che s'era proposte.

Le medesime difficoltà affrontava, come fra poco vedremo, in un'altra sua celebre opera, che andò quasi affatto perduta, e che fu da lui intrapresa quando da Milano tornò a Firenze. Qui pareva allora che tutto fosse pronto per uno dei più grandi trionfi dell'arte. Raffaello d'Urbino era partito dal suo paese, per venire là dove Michelangelo Buonarroti (1475-1564) aveva già compiuto qualcuna delle sue opere più belle, le quali davano anch'esse all'arte nuova la sua vera e propria fisonomia. Dopo avere studiato pittura col Ghirlandaio, e scultura nel giardino dei Medici, presso San Marco, Michelangelo in età di 23 anni appena, rivelava tutta la forza del suo genio nel gruppo della Pietà, che si ammira in San Pietro a Roma. Compiuto negli anni stessi in cui Leonardo dipingeva la Cena, anch'esso ha qualche cosa che ricorda il Quattrocento, e rende visibile la parentela della nuova scuola con quella dei della Robbia, Donatello e Verrocchio, dalla quale infatti deriva. Nè ciò fu senza qualche vantaggio. L'unità della composizione, l'originalità del concetto, l'abbandono del Cristo morto, risplendono insieme colla nobile pietà della Madre, la cui espressione ha, nella sua severa mestizia, una delicatezza e gentilezza di forme, che Michelangelo non ritrovò mai più nelle sue opere posteriori, come non ritrovò la stessa finitezza e castigatezza di disegno. Quest'opera lo mise d'un tratto fra i primi artisti del secolo. La lettura di Dante, le prediche del Savonarola, lo studio dell'antico, l'incremento naturale dell'arte, la fantasia irrefrenabile, potente lo spinsero sempre più nella nuova via, nella quale col suo David, che i Fiorentini chiamarono il Gigante, egli decisamente entrava.

Tornato da Roma, dove aveva studiato assai l'arte antica, fu nel 1501 interrogato dagli Operai del duomo, se gli bastasse l'animo di cavare una statua da certo grosso blocco di marmo, che essi possedevano, e col quale parecchi altri artisti s'erano più volte provati, senza riuscire ad altro che a correre il rischio di sciuparlo sempre più. Lungo nove braccia, e molto stretto in proporzione della lunghezza, era come un pilastro, dentro cui non pareva che fosse possibile dar naturale movimento alla figura che se ne voleva cavare. Michelangelo, senza esitare, assunse volenteroso l'ardita impresa, che gli venne affidata dalla Repubblica nell'agosto di quell'anno, e nel gennaio del 1504 la statua, già compiuta, aveva bisogno solamente d'essere alquanto ritoccata sul posto in cui doveva andare. Dopo lungo disputare fra i primi artisti di Firenze, che erano allora i primi del secolo, intorno al luogo dove metterla, fu accettata l'idea dell'artista, che il David cioè dovesse star dinanzi al Palazzo della Signoria, là dove trovavasi allora il gruppo della Giuditta che ammazza Oloferne, opera di Donatello. I Fiorentini nel 1495, cacciati i Medici, l'avevano portata fuori della Corte del Palazzo, ponendola sulla ringhiera, con la iscrizione: Exemplum sal. pub. cives posuere mccccxcV, a simboleggiare la libertà che ammazza la tirannide. Nel 1504 la trasferirono sotto la Loggia dei Lanzi, dove si trova anch'oggi, e nel suo posto venne messo il David colla fionda, quasi a difesa del Palazzo e della Repubblica. Giuliano e Antonio da San Gallo trovarono un modo singolarmente ingegnoso per portarvelo. Infatti, anche ai nostri giorni, quando per riparare la statua dalle ingiurie crescenti del tempo, bisognò metterla altrove al coperto, le molte commissioni di scienziati e di artisti, che più e più volte si radunarono, dovettero finalmente decidersi, non ostante i nuovi trovati della meccanica, a ricercare e seguire il vecchio metodo dei San Gallo, che ricomparve quasi come una singolare e felice scoperta, a cui nessuno dei moderni aveva saputo pensare. Tenuto sospeso, in bilico, dentro un castello di legno, in modo da poter facilmente, nel muoverlo, ceder sempre, ondeggiando, alle scosse, il Gigante venne tirato sulle ruote, e senza difficoltà collocato sano e salvo al suo posto. Colà Michelangelo vi dette l'ultima mano, sotto gli occhi del Soderini, che spesso veniva ad ammirarlo, non senza presumere di dar consigli, che mettevano qualche volta a dura prova la pazienza dello scultore.

Il David posa fieramente in piedi, collo sguardo fisso al nemico che ha già colpito. È immobile ed in apparenza tranquillo; ma il respiro affannoso, ed il movimento convulso delle narici manifestano l'interna agitazione. La destra, che discende lungo il fianco, tiene ancora una pietra; la sinistra, col braccio piegato, s'innalza sulla spalla, stringendo la fionda, ed è pronta ad un secondo colpo, quando il primo non abbia raggiunto lo scopo. Così tutta la figura potè facilmente esser cavata dal lungo ed informe blocco. Affatto nudo sta dinanzi al nostro sguardo questo colossale giovanetto, che nella sua energica semplicità dà prova d'una potenza sino allora ignota nell'arte. Anche il San Giorgio di Donatello, chiuso nella sua armatura, guarda con una semplice fierezza, che fa paura. Ma esso riesce meschino accanto al Gigante, che bisogna contemplar lungamente prima che nelle sue forme grandiose, nel disegno già un po' troppo risentito, nella calma severa e maestosa, si riveli a noi tutta quanta la potenza del genio che lo ha creato. Con questa statua ogni tradizione medioevale è spezzata, ogni forma propria del Quattrocento è sorpassata. L'antichità rinasce trasformata sostanzialmente nella nuova e spontanea creazione dell'artista moderno. Il dì 8 settembre 1504 il David era esposto al pubblico, che l'acclamava più che non fece mai per alcun'altra opera d'arte. Tutto cooperava a dargli favore agli occhi del popolo: le proporzioni colossali, la nuova via che essa apriva nella scultura, e l'esser come posta a guardia del Palazzo, a difesa della libertà.

Guardando le opere posteriori di Michelangelo, si direbbe che da questo momento la figura colossale del David si ponga in moto. In esse egli studiò le nuove attitudini, i movimenti artistici di quel popolo di Titani, che, sotto mille forme diverse, sembrava volesse uscire impetuoso dalla sua agitata fantasia. Michelangelo cercò assai spesso il soprannaturale, ma non più nella sola espressione del volto, principalmente anzi nella sovrabbondanza della vita, della forza, dell'azione di tutte le membra. Fece per tutto ciò un lungo, continuo, paziente studio dell'anatomia. E trascurando ora le altre commissioni, pose mano ad un'opera, che doveva essere un secondo avvenimento nella sua vita e nella storia dell'arte. Il Soderini aveva dato a lui ed a Leonardo incarico di dipingere sulle due opposte pareti principali della sala del Consiglio Grande, due affreschi. Leonardo aveva già messo mano al suo cartone, su cui disegnò la battaglia d'Anghiari, seguita il 29 giugno 1440, nella quale i Fiorentini ruppero l'esercito del duca di Milano, comandato da Niccolò Piccinini, e la celebrarono poi ogni anno colle corse dei barberi. Michelangelo scelse invece un episodio della lunga guerra di Pisa. Di questi due lavori che, condotti a gara dai due grandi artisti, riuscirono di somma eccellenza, poco o nulla c'è rimasto. Di quello di Leonardo, forse anzi d'una parte sola di esso, abbiamo una copia poco fedele, fatta dal Rubens. Il cartone di Michelangelo, durante la rivoluzione dal 1512, fu messo in brani, che andarono anch'essi perduti; ci rimangono però antiche incisioni, abbastanza fedeli, della parte principale dell'opera grandiosa. In ogni modo, a giudicare così l'uno come l'altro lavoro, bisogna aiutarsi con le descrizioni e le opinioni tramandateci dai contemporanei.

Il Buonarroti immaginò l'allarme della battaglia, dato quando i Fiorentini si bagnano nel fiume Arno. Sono veramente maravigliose di movimento e bellezza le attitudini diverse con cui tutti escono in fretta, per vestirsi, mettersi l'elmo e la corazza, correre in aiuto dei compagni, che si vedono in lontananza avere già cominciato a combattere. Il Vasari dice, che gli artisti, ammirando quest'opera condotta dalle divine mani di Michelangelo, giudicarono «non essersi mai più veduto cosa che della divinità dell'arte, nessun altro ingegno possa arrivarla mai.» E bisogna crederlo, egli prosegue, perchè «tutti coloro che su quel cartone studiarono, e tal cosa disegnarono..., diventarono persone in tale arte eccellenti.» Il Cellini dice che questa fu la prima bella opera, in cui Michelangelo dimostrò tutte le maravigliose sue virtù, «con tanti bei gesti, che mai nè degli antichi nè d'altri moderni si vidde opera che arrivassi a così alto segno.» E la giudicava superiore perfino alla volta della cappella Sistina. Dell'altro cartone poi egli dice, che in esso «il mirabil Lionardo da Vinci aveva preso per elezione di mostrare una battaglia di cavalli, con certa presura di bandiere, tanto divinamente fatti, quanto dir si possa.» Anch'egli conclude che questi cartoni furono la scuola del mondo; e la tradizione conferma che su di essi studiarono moltissimi, fra cui Rodolfo Ghirlandaio, Andrea del Sarto, Francesco Granacci, Raffaello d'Urbino. In essi noi non vediamo più la calma solenne ammirata nella Pietà, nel David e nella Cena; si manifestano, invece, in tutta la loro tumultuosa energia, l'azione, il movimento e la vita. Nel cartone di Leonardo era tale il furor della mischia, che non solo i cavalieri, ma i cavalli stessi combattevano, mordendosi fra di loro. In quello di Michelangelo non v'era, come si può anche dalle incisioni vedere, una figura che non fosse un capolavoro di unità e d'azione. Il disegno era finalmente riuscito a ritrarre non solo la forma e l'espressione umana; ma il tumulto delle passioni e della vita, nella loro infinita varietà. Le figure per sì lungo tempo, da tante generazioni d'artisti, così faticosamente studiate, sembrano staccarsi dalla tela per muoversi liberamente nello spazio. L'arte e l'artista hanno ritrovato tutta la loro indipendenza; Prometeo ha rapito la scintilla al sole, ed ha animato la sua statua.

Superate che ebbe le maggiori difficoltà, Leonardo abbandonò il suo lavoro, e si dette, secondo il solito, alla soluzione di nuovi problemi artistici. Michelangelo, invece, che pure risentì l'azione del genio di lui, ed in alcuni de' proprî disegni fece studio diligente d'espressioni leonardesche, non ne imitava la irrequieta mutabilità. Per tutta la vita continuò, invece, nella strada iniziata col cartone, nel quale aveva trovato finalmente la sua piena libertà artistica, non temendo d'incontrare più ostacoli nella forma di cui era divenuto padrone, nella materia che dominava, o nei sempre più difficili soggetti che imprendeva a trattare. Tutto sembrava uscire adesso spontaneamente dalla sua immaginazione, che obbediva solo alle leggi dell'arte, unica dominatrice del suo pensiero. Non mancavano certo anche a lui ogni giorno difficoltà nuove; ma egli era costantemente pronto a muovere assalto vittorioso contro di esse, e nella lotta trovava concepimenti e creazioni sempre più originali. Questa tumultuosa esuberanza di vita non gli fece mai raggiungere la calma olimpica della pittura di Leonardo, nè gli permise d'arrivar mai alla serena armonia della scultura greca. Anzi il germe della futura corruzione e decadenza dell'arte italiana trovasi già nelle sue opere più audaci, e divenne visibile negl'inesperti suoi imitatori.

Intanto era assai progredita l'educazione di Raffaello Sanzio d'Urbino (1483-1520), discepolo del Perugino, il principale rappresentante della scuola umbra. Promossa dai lavori di Giotto e de' suoi seguaci nel santuario di Assisi, non ostante le eminenti qualità proprie, essa è una derivazione dalla fiorentina, da cui ricevè continuo alimento. Ed anche Raffaello, sebbene restasse sino al finire del secolo XV in Perugia, venne subito in qualche comunicazione indiretta col mondo artistico di Firenze, in conseguenza delle gite e della dimora che vi fece più volte il suo maestro. Fin dai primi suoi lavori, Raffaello apparve poco disposto ai vincoli convenzionali del maestro, e con una delicatezza, una originalità sua propria, dimostrò di saper condurre la pittura a nuovi e non sperati destini. Quando venne a Firenze (1504-6), e vide che gran cammino l'arte aveva già fatto, sentì subito direttamente gli effetti del nuovo ambiente. Lo studio che allora intraprese di Masaccio, lo avvicinò al fare di Fra Bartolommeo della Porta che lo spinse d'un tratto fuori del Quattrocento. Questi, che fu il primo a comunicargli alcuni pregi della maniera di Leonardo, sapeva armonizzare maestrevolmente larghe masse d'ombra e di luce; superava già tutti, come più sopra osservammo, nell'architettonico aggruppamento delle figure, e nell'unità della composizione; aveva una grande larghezza di dipingere, specie nelle pieghe; una singolare dolcezza d'espressione, che l'esempio di Leonardo aveva resa anco più soave. Migliorò più tardi il suo colorito, in conseguenza d'una gita che fece a Venezia, verso il 1508.

Gli effetti della dimora di Raffaello in Firenze si videro subito nelle sue Madonne, di cui dipinse allora un grandissimo numero, cercando in esse quell'espressione divina ed umana ad un tempo, che è uno dei pregi più belli, e dei caratteri più proprî della sua pittura. Chi lo guarda non solo nei dipinti, ma anche nei disegni, che sono più numerosi e spesso non meno belli, nè meno originali, vede come a poco a poco la Madonna del Quattrocento, che adora il divino bambino, si umanizzi e trasformi nella madre beata di contemplare il proprio figlio: esse costituiscono un vero ciclo dell'amore materno. Guardandole si vede, si sente la vicinanza di fra Bartolommeo e di Leonardo, la cui maniera apparisce anche più chiara in alcuni ritratti, che furono con le Madonne la principale occupazione di Raffaello a Firenze: la sua Maddalena Doni ricorda la Gioconda. Quando manca davvero ogni reminiscenza di Leonardo, i ritratti che Raffaello dipinse in questo primo periodo, riescono più deboli ed incerti. Se Michelangelo s'apparecchiò alle sue grandi opere romane collo studio dell'anatomia, dell'azione e dei movimenti più arditi, Raffaello cominciò invece con quello dell'espressione e della grazia, e continuando poi collo studio dei due celebri cartoni, dei dipinti di fra Bartolommeo, spinto sopra tutto dal proprio genio, si diè finalmente in Roma anch'egli alle grandi composizioni.

Certo è però che Leonardo, seguìto poi subito da fra Bartolommeo, era stato il primo ad aprire la nuova via, nella quale gli altri due grandi genî rivali entrarono, percorrendola in trionfo. Egli riprendeva adesso la via dell'alta Italia; Raffaello e Michelangelo venivano invece chiamati da Giulio II a Roma. Qui s'incontrano ora e si fondono insieme la cultura antica e la nuova, il Cristianesimo ed il Paganesimo, tutte le forme diverse delle arti belle e delle lettere. Fu un momento solenne, in cui lo spirito dell'uomo sentì la piena coscienza di sè stesso nella varietà infinita della vita intellettuale, nella derivazione del presente dal passato, nell'armonia del mondo antico e moderno. Nell'arte soprattutto si manifestò un'esuberanza crescente di grandiose creazioni, quali il mondo non aveva mai viste. Apparivano di continuo nuove forme, nuove immagini, nuovi caratteri, nei quali la mitologia greca ed il sentimento cristiano, l'erudizione e l'ispirazione, il reale e l'ideale si univano a formare quelle opere immortali, nelle quali si rivelava tutta l'anima di un popolo. L'Italia diveniva come il microcosmo della civiltà umana, il foco donde s'irradiava una luce che illuminava il mondo, illuminava l'avvenire. Nè è da maravigliarsi se in mezzo ai grandi, solenni monumenti di Roma, dinanzi alla sua Campagna, maestosa e misteriosa come il mare, che rendono meschina e intollerabile ogni cosa la quale non abbia vera grandezza, gli artisti venuti da Firenze divennero superiori a loro stessi, e manifestarono finalmente tutta quanta la loro potenza.

Raffaello era in Roma nel settembre del 1508. Egli aveva fatto le prime sue armi in alcune grandi composizioni; ma qui la fiamma già accesa del proprio genio, mandò a un tratto tutto il più vivo splendore. Il suo fu uno spirito felice e quasi inconsapevole di sè, pieno d'una spontanea armonia, che si esplicò senza lotte, senza dolori, senza incertezze o ostacoli di sorta. Tutti lo amavano, tutti obbedivano al fascino della sua indole gentile. Prodigiosa era in lui la forza creatrice, ma non minore quella assimilatrice: tutto ciò che la pittura italiana aveva nelle sue varie scuole fino allora prodotto, si riuniva in lui formando un'arte che egli rivestiva d'una grazia e delicatezza inarrivabili. La sua vita non fu mai una battaglia, ma una continua e tranquilla evoluzione intellettuale. La sua pittura non apparisce mai come il prodotto di uno sforzo; sembra invece emanare da un'armonia interiore, che leva in alto lo spirito dell'artista e di chi lo ammira. Noi non possiamo qui fermarci a parlar lungamente dei più celebri dipinti di Raffaello; ma le migliori opere che da lui furono in questo decennio compiute, sono assai note, nè la sua pittura ha bisogno di commenti: basta contemplarla per comprenderla. Dal 1508 al 1511 venne condotta a termine la prima delle Stanze vaticane, quella che fu detta della Segnatura. Ivi è su tutte le mura dipinto un grandioso poema: la Scuola d'Atene, la Disputa del Sacramento, il Parnaso, la rappresentazione del Diritto canonico e civile. E gli accessori, in ogni parte della Stanza, rispondono al grandioso e sintetico concetto: la Teologia, la Filosofia, la Poesia e la Giurisprudenza sono dipinte sulla volta. Riesce difficile supporre che il pensiero filosofico d'una sì grande opera sia stato trovato, meditato solo da Raffaello, che allora sempre giovanissimo e tutto dato all'arte, non aveva potuto acquistar le cognizioni necessarie a determinarlo e svolgerlo così mirabilmente. Forse vi contribuì lo stesso Giulio II, che dette la commissione, ed è ritratto in uno degli affreschi; certo anche eruditi del tempo vi presero parte; ma un vero inventore non è facile trovarlo, perchè in sostanza era il pensiero del secolo, divenuto creazione pittorica nella mente dell'artista. In ciò sta anzi la vera originalità e individualità dell'opera, della quale nessun altro sarebbe stato capace. I sostenitori della fede che disputano intorno al Sacramento sulla presenza reale di Dio; i filosofi della Grecia che disputano sui sommi veri della scienza; Apollo e le Muse; Giustiniano, Triboniano e papa Gregorio IX si trovano riuniti in quella Stanza da un solo concetto dominatore. Essi non si presentano a noi come personalità storiche o poetiche del passato, fedelmente riprodotte; risorgono, invece, rinascono come esseri viventi e reali, al pari degli uomini in mezzo a cui ritornano. Possiam dire veramente che tutto ciò che della Grecia vive e vivrà nel mondo, dopo essere stato nascosto e dimenticato fra gli oscuri sofismi della scolastica, ricomparisce nella sua immortale giovinezza, illuminato dai raggi del sole italiano, il quale, spazzando le nebbie medioevali, scopre di nuovo agli occhi dei mortali le cime dell'Olimpo, che risplendono nell'azzurro del nostro cielo. E se la potenza creatrice del genio di Raffaello dà a questo mondo, che egli evoca dai secoli trascorsi, e alle Divinità che richiama sulla terra, un colore proprio del suo tempo, quasi una nazionalità nuova, ciò li avvicina sempre più a noi. Così l'arte italiana, riunendo, meglio ancora che non seppe fare la letteratura, il passato al presente, e rendendone visibile l'armonia, ci scopre negli eroi e negli Dei dell'antichità ciò che essi hanno di veramente umano, e ci fa in essi trovare una parte di noi medesimi. In ciò sta appunto l'indole propria di quest'arte, ciò che ne determina la fisonomia ed il valore artistico.

Impossibile sarebbe descrivere colla penna tutte le opere di Raffaello, che specialmente ora si seguono con una rapidità vertiginosa. Egli è al culmine della sua altezza; si trova nel massimo vigore delle sue forze. La grandiosità delle composizioni, la nobiltà dei concetti, la naturale e facile larghezza del dipingere, la varietà dei tipi, la perizia nel disegno, la grazia, l'armonia dei colori gareggiano fra loro con una rapidità, cui a fatica tien dietro l'immaginazione.

Alla Stanza della Segnatura seguirono quelle di Eliodoro, dell'Incendio di Borgo, di Costantino. E intanto nelle Logge annesse nuove composizioni, rapidamente disegnate dal maestro, furono dipinte sulle võlte dagli scolari; e sulle mura rabeschi fantastici, ispirati dagli antichi, vennero da essi riprodotti sotto forme sempre varie, nelle quali lo spirito del Rinascimento manifestava un altro de' suoi mille aspetti. E quando l'artista riposava dal faticoso lavorare a fresco, era solo per dipingere ad olio sulla tavola o sulla tela altri gioielli insuperabili. Chi può dire qual sorgente feconda d'ideale felicità sono state e saranno in eterno la Madonna della Seggiola e quella di San Sisto? In esse il tipo primitivo con tanta cura studiato, ingentilito da Raffaello a Firenze, senza nulla perdere della sua inenarrabile grazia, è divenuto più grandioso nella composizione, più largo nell'esecuzione.

Nel 1509 il banchiere Chigi, consigliere per le finanze di Giulio II, faceva da Baldassarre Peruzzi costruire la sua villa in Roma, e poco di poi (1514) venne Raffaello a dipingervi la Galatea, a disegnarvi la storia della Psiche, che i suoi discepoli colorirono. E la piccola villa, che oggi porta il nome di Farnesina, divenne un nuovo tempio dell'arte. Chi potè una volta rimanere lunghe ore estatico in presenza di quelle pitture, se ne allontana con un desiderio inestinguibile di rivederle, ed il solo rievocarle nella memoria sembra aver la misteriosa potenza di ristabilire in noi la turbata armonia dello spirito.

Raffaello non riposò mai finchè visse; il suo genio sembrava trovar nell'indefesso lavoro energia sempre maggiore. Ma ben si esaurirono le forze del corpo, ed a trentasette anni egli moriva lavorando alla Trasfigurazione, la quale, sebbene poi condotta a termine da Giulio Romano, è pur sempre giudicata la sua opera maggiore, per la forza del disegno, l'ardire michelangiolesco delle figure, il loro vario e mirabile aggruppamento. A lungo andare egli subì l'azione prepotente del genio rivale, che spingeva l'arte ad imprese sempre più audaci, a più pericolose altezze, dalle quali essa doveva ben presto precipitare, quando mancò la forza di coloro che avevano saputo contenerla nei suoi necessarî confini.

A formarsi una giusta idea della inesauribile produttività artistica del genio italiano nei primi decenni del secolo XVI, basta ricordarsi che nel tempo stesso in cui Raffaello dipingeva le Stanze e le Logge vaticane, Michelangelo lavorava alla vôlta della Cappella Sistina. Questi aveva già prima avuto da Giulio II la commissione di fargli un monumento sepolcrale di gigantesche proporzioni, e concepì uno dei più colossali disegni che siano mai venuti nella mente umana. Doveva essere un'epopea scolpita; rappresentare lo spirito, la potenza del Papa, in tali proporzioni da oltrepassare i limiti di ogni cosa mortale. Circa quaranta statue in marmo o in bronzo sarebbero sorte sugli scalini dell'immensa mole, in cima della quale le statue del cielo e della terra avrebbero sostenuto il sarcofago, dentro cui doveva esser posta a giacer l'immagine scolpita del Papa addormentato. E tanto l'animo di Giulio II era invasato da questa grandiosa idea, che per avere un tempio adatto a contenere il monumento, egli deliberò di ricostruir dalle fondamenta San Pietro, in modo da farne la chiesa più vasta di tutta la Cristianità. Il 18 aprile 1506, vecchio com'era, discese, non senza pericolo, per una scala a pioli, ad una grande profondità, e pose la pietra fondamentale dell'immenso edifizio, pochi avendo osato accompagnarlo. L'invidia degli emuli, la stranezza e la impazienza del Papa, che gli commetteva sempre altri lavori, costrinsero il povero Michelangelo ad interrompere di continuo la grande opera, e lo tormentarono per modo, che nelle sue lettere egli esclamava: «Sarebbe stato meglio che mi fossi messo a fare zolfanelli...; sono ogni dì lapidato come se avessi crocifisso Cristo...; mi truovo avere perduta tutta la mia gioventù legato a questa sepoltura.» Ma il peggio di tutto fu, che la grande opera non venne mai condotta a compimento, e non ce ne restano che le statue di due prigionieri legati ed il Mosè, nel quale però vive in eterno tutta l'anima dell'artista. Seduto, con una mano poggiata sulle tavole della legge, e l'altra fra la barba, che discende lunghissima, in larghi avvolgimenti, questo terribile domatore di popoli sembra guardare sdegnoso gli adoratori del vitello d'oro. La fronte bassa colle due corna simboliche, lo sguardo minaccioso, le forme colossali, tutta la figura son tali da persuadere, che se egli si leva solamente in piedi, la moltitudine spaventata si darà a fuga precipitosa: nessuno potrà resistere al suo irrefrenabile sdegno.

Invece di poter condurre a termine questo monumento, Michelangelo fu costretto dal Papa a dipingere la volta della cappella Sistina, e la stessa statua del Mosè solo più tardi fu finita. Egli pose mano alla volta nel 1508, e stimolato ogni giorno dalla impazienza di Giulio II, che minacciava perfino di gettarlo giù dal palco, se non s'affrettava, verso la fine del 1509 ne scopriva una parte non piccola, e nel 1512 tutto era finito. Nulla di simile s'era mai visto al mondo: nei movimenti, nelle forme grandiose e più che umane, nel motivo artistico di ciascuna figura v'è un tale rilievo, una tale energia, che la võlta sembra sfondarsi per dar modo ai personaggi di muoversi liberamente. Alcuni s'avanzano, avvicinandosi a noi, altri invece si levano ancora più in alto. La cappella sembra a poco a poco ingrandirsi, trasformarsi nello spazio infinito: noi non siamo più in presenza d'un dipinto; Michelangelo ha qui evocato un popolo di giganti, vivo e vero dinanzi ai nostri occhi. I personaggi della Bibbia e della storia, dell'allegorìa e della tradizione sacra e pagana, rinacquero nella sua fantasia, formando quasi una nuova mitologia, un nuovo Olimpo, che, creato da un uomo, par creato da un popolo, e resta perciò immortale nel regno dell'arte.

Chi getta uno sguardo a tutto l'insieme delle varie scuole, cui abbiamo rapidamente accennato, s'accorge che, mentre esse sembrano obbedir solo alla libera e quasi capricciosa ispirazione degli artisti, si succedono invece con una logica e fatale relazione fra di loro. Tutte le forme che ciascuna di esse produsse, tutto quello a cui ciascuna aspirava, si riunì finalmente e si coordinò nella mente dei tre grandi, di cui abbiamo parlato; penetrò anche nello spirito di tutto il popolo italiano e del Papa stesso, il quale dava le grandi commissioni, animato dal comune pensiero, pigliando in quelle opere una parte vivissima, promovendole con ardore febbrile, con animo pieno di vera grandezza romana. Egli era sempre sul palco della Sistina, ed aveva fatto costruire un passaggio, che lo conduceva dal Vaticano allo studio di Michelangelo, dove si recava di continuo: pareva che fosse sua la grande responsabilità di condurre l'arte italiana a toccare la mèta altissima. Ed in verità gli uomini ed i mezzi opportuni al grande scopo sembravano sorgere allora spontanei da ogni parte. A Raffaello e Michelangelo s'aggiungeva in Roma Bramante, che, sebbene non si fosse in architettura allontanato ancora dalla scuola del Quattrocento, pur la portò alla sua maggiore perfezione. A lui fu da Giulio II affidata la costruzione delle Logge vaticane e del Museo, nel quale questi mandò dal proprio palazzo, presso la chiesa dei SS. Apostoli, prima l'Apollo di Belvedere e poi il Laocoonte, trovato l'anno 1506 in una vigna, fra le rovine delle Terme di Tito. Più tardi ancora si scoprirono il torso di Belvedere e l'Arianna dormente. Pareva che la terra stessa s'aprisse per far rinascere l'antichità. Al Sansovino Giulio II ordinò in S. Maria del Popolo quelli che riuscirono i due più celebri monumenti sepolcrali di Roma, l'uno pel cardinal Girolamo Basso, l'altro pel cardinal Ascanio Sforza. Qual mecenate riuscì mai a fare altrettanto per l'arte, o può anche da lontano paragonarsi a lui?

Ammirando la maravigliosa bellezza che risplende nelle opere di tanti e così grandi artisti, si presenta continua, insistente la domanda: come mai questa potenza di elevare e purificare lo spirito umano, fu concessa ad uomini nati, educati in mezzo a tanta decadenza e corruzione morale? Noi potremmo innanzi tutto osservare come le relazioni che passano tra lo svolgimento intellettuale e morale dei popoli siano ancora troppo poco conosciute perchè riesca possibile dare una risposta soddisfacente. Ricorderemo in ogni modo d'avere già notato, che la corruzione, molto esagerata, ma pur grande ed innegabile, del Rinascimento italiano, s'era diffusa principalmente negli ordini superiori e più culti della società, massime negli uomini politici, ed anche in quelli di lettere; ma era penetrata assai meno che non credono gli scrittori moderni, negli ordini inferiori. E ciò spiega perchè la storia, così prodiga narratrice delle colpe di quel secolo, assai di rado possa ricordare fatti ingiuriosi davvero al carattere morale di coloro che arrivarono ad esser sommi nell'arte, i quali furon quasi tutti d'origine più o meno popolare. Michelangelo, che pur discendeva da antica famiglia, nacque assai povero. Come figlio, come fratello, come cittadino, ebbe molte rare e nobili qualità, di cui fan fede le sue lettere, i suoi versi, la vita intera. Le sue amicizie sono così fervide, che paiono innamoramenti. E chi può non ammirarlo quando lo vede abbandonar lo scalpello, per assistere il suo servo moribondo, che egli pianse poi amaramente, consigliandone, consultandone i parenti, che lo chiamarono secondo loro padre? Fra Bartolommeo figlio d'un mulattiere, ebbe un carattere pieno di dolcezza e di benevolenza, fido e devoto ammiratore del Savonarola, animato da sincero zelo religioso. Di Leonardo, che fu figlio naturale d'un notaio; di Raffaello, che fu figlio di un pittore non molto noto, la storia, salvo, in quest'ultimo, qualche amore troppo libero e non troppo ben conosciuto, può dir solo che li trova occupati sempre nella ricerca del bello e del vero, nella contemplazione dei più nobili ed elevati pensieri, il che certo non poteva recar danno al loro carattere morale, che ci apparisce gentile, equanime, sereno. Corruzione vi fu senza dubbio anche fra gli artisti; dissipatissimi erano i loro costumi, infinite le loro stranezze, e le loro invidiose gelosie spesso assai meschine. Certo nessuno vorrebbe prendere a modello di condotta morale Benvenuto Cellini. Pure se noi guardiamo alla generalità degli artisti, è certo che essi ritraggono dal popolo, il quale è assai meno corrotto dei letterati e dei politici; hanno minori relazioni con la vita pubblica, che fra noi era più guasta di tutto.

Che poi la vera grandezza d'animo non fosse allora spenta fra di noi, basterebbe a provarlo Cristoforo Colombo, che nel 1504 appunto, vecchio di sessantaquattro anni, dopo aver traversato tante volte l'ignoto Oceano, sostenendo una serie di spaventose tempeste, animato da spirito religioso non meno che da passione di avventure, tornava dal suo ultimo viaggio, per chiudere gli occhi il 20 maggio del 1506. Ciò che v'ha di più grande nella sua vita, nel suo carattere veramente eroico, non è solo il coraggio che egli ebbe nell'affrontare i pericoli; la fermezza con cui seppe resistere alle derisioni, alle persecuzioni, alle calunnie, alla più nera ingratitudine. Non meno ammirabile fu certamente la sua fede inconcussa nelle induzioni della scienza; essa gl'infuse quello spirito d'osservazione, pel quale, in mezzo alle tempeste della natura, ed alle rivolte d'infidi compagni, continuava a registrare, con calma serena, con attenzione non mai interrotta, i nuovi fenomeni che gli si presentavano; esso alimentò quella forza che lo spinse con animo sicuro a navigar nell'ignoto. E questo era lo spirito vero del Rinascimento italiano, senza del quale un tale uomo non sarebbe stato possibile. L'averlo potuto allora l'Italia produrre, dimostra che, nonostante la corruzione, essa avrebbe nella propria grandezza intellettuale saputo trovar la base naturale a ricostruire un nuovo mondo morale, se le invasioni straniere non l'avessero colpita nel momento stesso della sua trasformazione, spezzando a un tratto il corso naturale degli eventi.

Certo è però che, comunque si spieghi, questo contrasto fra il progresso intellettuale e la decadenza morale, si presenta continuo, costante nei secoli XV e XVI, e noi dobbiamo esaminarlo anche nella storia della letteratura, ora che di classica ed erudita, essa diviene nazionale e moderna. Ciò seguiva per opera specialmente del ferrarese Ariosto, il quale componeva in questi anni il suo Orlando Furioso, e più di tutti contribuì, secondo l'espressione del Capponi, a rendere «universale alla nazione la lingua toscana.» Abbiamo già veduto come i romanzi cavallereschi del ciclo carolingio, divenuti, durante il secolo XV, popolarissimi in Toscana, ricevessero nel Morgante del Pulci la loro forma letteraria. Insieme con essi, e più di essi, i romanzi del ciclo brettone, gli eroi della Tavola rotonda divennero popolari fra i castelli della valle del Po, dove una volta s'era scritto e cantato in provenzale, più tardi si scrissero poesie in una forma ibrida di francese italianizzato o d'italiano infranciosato che voglia dirsi, la quale fu però ben presto eliminata dal rapido prevalere dell'italiano e del latino. Più tardi ancora gli eruditi fecero di Ferrara il gran centro da cui la cultura classica s'irradiò nell'Italia superiore. Contribuirono a ciò gli Este, l'Università, sopratutto Guarino Veronese colla sua febbrile attività, coi suoi molti alunni, che diffusero largamente lo studio del greco e del latino. Da questa doppia corrente, quasi mescolanza di classico e di romanzesco, come a Firenze era sorto il Morgante del Pulci, così a Ferrara sorse l'Orlando Innamorato del Boiardo. Dotto nelle due lingue classiche; grande ammiratore dei romanzi cavallereschi; singolarmente, quasi stranamente fiducioso nel risorgimento della cavalleria, egli compose il suo poema, innestando il ciclo brettone sul carolingio, con vera fantasia ed originalità poetica. Tali furono gli antecedenti dell'Ariosto in Ferrara, divenuta emula di Firenze, nuova culla della poesia e cortesia cavalleresca.

Le vie, le case della città, specialmente il castello ducale, non eran però solo un tranquillo ricetto di pacifici studî, ma scene ancora di atroci delitti. Alfonso I, proclamato signore nel 1505, era un capitano esperto, che fondeva le migliori artiglierie d'Europa; protettore degli artisti e dei poeti, ma di un'indole cupa e feroce. Aveva menato in moglie Lucrezia Borgia, la quale, per paura o prudenza o per le mutate condizioni, sembrava divenuta adesso un'altra donna. Frequentava le chiese; donava ai poveri; promoveva pie fondazioni; viveva in mezzo ai letterati, che ne lodavano la bellezza, la castità, la santità e la dottrina. Ma, quasi fosse destino fatale del suo nome e del sangue che le scorreva nella vene, anche allora seguirono intorno a lei strane, orrende tragedie. Una sua damigella, Angiola Borgia, che ella aveva condotta da Roma, era corteggiata da due fratelli del Duca, l'uno il bastardo don Giulio, l'altro il cardinale Ippolito. Questi, che a sette anni era vescovo, a quattordici cardinale, invece della chiesa amava la caccia, la guerra, le donne ed il lauto banchettare, a segno tale che in età di quarantun'anno morì per avere, secondo si narra, mangiato troppi gamberi, e bevuto troppa vernaccia, vino che teneva sempre in fresco nella sua cantina. Era tanto impetuoso, che fece prendere a bastonate un messo il quale gli avea portato un monitorio di Giulio II. Quando l'Angiola Borgia disse ad un tale uomo, di non saper resistere al fascino che avevano gli occhi del rivale fratello, egli lo aspettò, fra quattro sgherri, a Belriguardo, al ritorno dalla caccia, e colà, dopo averlo in sua presenza fatto stramazzar dal cavallo, gli fece cavar gli occhi. Il Duca andò in furore; ma ben presto si calmò, perdonando facilmente il delitto del fratello, essendo egli inesorabile solo coi parenti che aspiravano a levargli il potere, cosa impossibile ad un cardinale. Il bastardo don Giulio ardeva però del desiderio della vendetta. Aveva ricuperato un occhio che gli sgherri non erano del tutto riusciti a staccare dall'orbita; e si unì coll'altro fratello Ferrante, che aspirava alla signoria della città, accordandosi con lui per ammazzare il Cardinale ed il Duca (1506). La congiura però venne scoperta; don Giulio fuggì subito a Mantova, ma don Ferrante ebbe l'ingenuità di gettarsi ai piedi del Duca, che fu questa volta inesorabile. Con una bacchetta che aveva in mano, gli cavò subito un occhio, dicendo di volerlo render simile al complice fratello. Poi lo mise in carcere, dove morì, e dove più tardi fu messo anche don Giulio, che solo nel 1559 venne liberato da Alfonso II. Tre dei confidenti furono squartati; i brani dei loro corpi vennero attaccati alle porte del castello; le teste conficcate su tre lance, ed esposte al pubblico. Il prete Gianni, anch'egli della congiura, non fu ucciso, perchè prete, ma venne chiuso in una gabbia di ferro sospesa alla torre, e così abbandonato al disprezzo universale. Dopo sette giorni il Duca lo fece strozzare, sperando di far credere che si fosse invece suicidato. Il cadavere, dopo essere stato straziato, trascinato per le vie, venne appiccato per un piede ad un palo, e vi rimase fino al suo totale disfacimento.

E questa Corte era il ricovero, il richiamo di letterati, che in versi elegantissimi lodavano la magnanimità del Duca, la castità del cardinale, la mite pietà e la purità di Lucrezia! Vi primeggiava allora il Bembo, che più tardi fu anch'egli cardinale; ed era allora giovane, bello, elegante corteggiator di donne, grande ammiratore di Lucrezia. Dotto in greco, forbitissimo poeta e prosatore latino, fu nello stesso tempo uno di quelli che contribuirono efficacemente a rimettere in credito lo scrivere italiano. Ma il più gentile, amabile cavalier di Ferrara, da tutti cercato, a tutti carissimo, era il poeta Ercole Strozzi. Molto venivano pregiati i suoi versi latini, alcuni dei quali indirizzati a madonna Lucrezia, celebravano le gesta sanguinose del Valentino. Incoraggiato dal Bembo, ispirato dall'amore per la Barbara Torello, egli scrisse anche alcuni pochi sonetti italiani. Ma in sull'alba del 6 giugno 1508, fu trovato cadavere sulla pubblica via, presso la chiesa di S. Francesco, con la gola segata, e ventidue ferite: ciocche de' suoi capelli, che aveva lunghissimi, inanellati, erano strappate dal cranio e sparse per terra, intorno a lui. Tutti lo piansero, ma nessuno trovò parole di vero dolore come la sua donna, che solo tredici giorni prima egli aveva sposata. - Perchè non posso, essa scriveva, entrar teco nella fossa?

Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio

Intorpidire, e rimpastar col pianto

La polve, e ravvivarla a nuova vita;

E vorrei poscia, baldanzosa e ardita,

Mostrarlo a lui che ruppe il caro laccio,

E dirgli: amor, mostro crudel, può tanto.

In mezzo all'eterno cicalare dei Petrarchisti, alle interminabili freddure degli eruditi, l'affetto disperato di questa donna, che, senza nominarlo, sembra, come dice il Carducci, accennare col dito il potente assassino del marito, si fa sentire come una voce della natura, una ispirazione vera della poesia che ritorna italiana. Si disse che Lucrezia Borgia era stata gelosa della Barbara; ma tutto fa credere che fosse invece gelosia del Duca, il quale vendicava nell'infelice e giovane poeta le ripulse avute dall'amante, poi moglie di lui.

E se tale era la società in cui visse l'Ariosto, che fu segretario del fiero e dissoluto cardinal d'Este, neppure in casa sua egli aveva avuto buoni esempi. Non poteva certo ignorare che suo padre Niccolò era stato mandato a Mantova dal duca Ercole I, per avvelenare Niccolò d'Este, che con le armi gli aveva contrastata la signoria di Ferrara. L'assassinio era sul punto di riuscire, il veleno già pronto, quando fu invece scoperta la congiura. Il padre dell'Ariosto allora si salvò fuggendo; i suoi complici furono invece impiccati. Avidissimo di danaro, aveva ancora guadagnato rubando sul vitto dei poveri soldati a Reggio d'Emilia, dov'era capitano della cittadella, e dove suo figlio nacque nel 1474. Chiamato a Ferrara nel 1480, il popolo era quasi per insorgergli contro, ed uscirono poesie che ferocemente lo mordevano, dandogli di ladro, manigoldo, traditore. In una di esse la sua donna si duole di non potere uscir di casa, per non sentirsi chiamare la moglie del ladro, al che egli cinicamente risponde:

Io rubo e ruberò, che in fra le genti

Chi è senza roba matto dir si suole.

A Lugo perdette nel 1496 l'ufficio di commissario, avendo ingiustamente torturato un gentiluomo. Per fortuna, suo figlio era così astratto, così assorto ne' suoi pensieri, che non s'avvedeva di quel che seguiva intorno a lui. Quando il padre lo rimproverava aspramente, perchè non studiava le leggi, egli lo ascoltava tranquillissimo, ma solo per rappresentarlo poi nella Cassaria, commedia che appunto allora scriveva. Il poeta Strozzi ce lo descrive alla caccia, che sguinzaglia i cani, pensando alle sue elegie. Un giorno, senza accorgersene, andò da Ferrara a Carpi in pianelle. Tutto immerso nell'arte sua, non lo toccavano neppure i più grandi avvenimenti del tempo. Quando Carlo VIII s'apparecchiava nel 1496 a tornare in Italia, egli scriveva un'ode latina, nella quale imitava Orazio: Me nulla tangat cura. Che m'importa di Carlo e de suoi eserciti? Io me ne starò all'ombra, ascoltando il dolce mormorio delle acque, guardando i contadini che mietono. E tu, o Filiroe, stenderai la bianca mano tra i fiori smaglianti, e mi tesserai corone, soavemente cantando.» La morte del poeta Michele Marullo gli pareva sventura maggiore che l'invasione straniera. Che importa l'essere sotto un re francese o latino, quando l'oppressione è la stessa?

Barbarico ne esse est peius sub nomine quam sub Moribus?

Dal 1495 al 1503 studiò con indicibile ardore i classici, e scrisse versi latini pieni di movimento, di calore, affinando il suo gusto, ripulendo e fortificando il suo stile, che in italiano gli riusciva ancora incerto e scolorito. Poco o punto conobbe il greco. Venuto a' servigi del cardinal d'Este, ne lodò in versi la bontà e la castità! Narrò il fatto atroce dell'accecamento di don Giulio, che chiama invido, ingordo, adultero, scolpando il suo padrone assassino, di cui non vuol riconoscere la parentela con la vittima. Ben la riconobbe più tardi quando si trattava d'esaltare la magnanimità di Alfonso, che non aveva ucciso, ma solo imprigionato i suoi fratelli, rei di cospirazione contro il proprio sangue. Anche di Lucrezia Borgia lodò la castità e l'opere sante! Ma tutto ciò era il linguaggio convenzionale della Corte, qualche volta anche una semplice imitazione d'Orazio. Quando però l'Ariosto apre davvero l'animo suo, come nella satira al fratello Galasso, allora sembra un altro uomo, ed esprime sentimenti che paion quasi di Tacito. Pieno di sdegno, descrive la vita ambiziosa e licenziosa dei prelati, che voglion salire sempre più in alto, avidi solo di temporale dominio. «Che sarà mai se uno di costoro sederà sulla cattedra di San Pietro? Subito vorrà levare i figli e i nepoti dalla civil vita privata. Nè, per la manìa di dar loro regni, s'occuperà punto di muover guerra agl'infedeli, il che sarebbe assai più degno del suo ufficio.»

Ma spezzar la Colonna e spegner l'Orso,

Per torgli Palestina e Tagliacozzo,

E dargli a' suoi, sarà il primo discorso.

E qual strozzato, e qual col capo mozzo

Nella Marca lasciando ed in Romagna,

Trionferà del cristian sangue sozzo.

Darà l'Italia in preda a Francia e Spagna,

Che sozzopra voltandola, una parte

Al suo bastardo sangue ne rimanga.

Ma se così scriveva, l'Ariosto di certo non perdeva per tutto ciò il sonno. La sua vita era solo con le Muse, e da ogni cosa egli cavava argomento di poesia: scriveva e riscriveva i suoi versi, nè mai si fermava fino a che non gli aveva portati alla desiderata perfezione. Non si esaltava troppo contro la corruzione; ma se da essa non lasciavasi turbare, neppure lasciavasi da essa corrompere. Quando il cardinal d'Este insisteva per menarlo in Ungheria, rispose che non voleva di poeta farsi cavallaro, ed abbandonò la Corte per tornare con più ardore che mai agli studî, serbando la sua libertà. Nè ciò gli costava sacrifizio veruno, perchè era così modesto e semplice nel vivere, da scriver egli stesso, che meritava d'esser nato quando gli uomini si cibavan di ghiande. «Piuttosto che arricchire io voglio quiete, per continuare quegli studî che danno cultura all'animo, e fanno sì che non m'incresca la povertà, nè per fuggirla voglio fuggire la libertà. Se il mio signore chiama qualcuno invece di me, io non ne ho invidia. Vado solo e a piedi quando mi occorre, e quando cavalco, lego di mia mano le bisacce alla schiena del cavallo.» E così avvenne che, se ne' suoi scritti cedette spesso ai tempi, non per questo si lasciò mai da essi contaminare; onde non si può di lui citare un'azione disonesta, sebbene si debba desiderare che alcuni versi non fossero mai usciti dalla sua penna. Coi parenti fu sempre affettuoso, negli amori incostante fino a che l'Alessandra Benucci non lo legò per sempre a lei. Pare che la sposasse occultamente, per non perder alcuni beneficî di famiglia. Non era mai così felice come quando poteva passare la vita tra il suo studio ed il suo giardino. In questo, così scrive suo figlio Virginio, «teneva il modo medesimo che nel far de' versi, perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse, più di tre mesi in un loco; e se piantava anime di persiche o semente di alcuna sorta, andava tante volte a vedere se germogliava, che finalmente rompeva il germoglio.,.. I' mi ricordo che, avendo seminato dei capperi, ogni giorno andava a vederli, e stava con allegrezza grande di così bella nascione. Finalmente trovò ch'eran sambuchi, e che dei capperi non n'eran nati alcuni.» Ad un tale uomo dovette pure riuscire di qualche utilità la dimora nella Corte, perchè l'obbligava ad uscir dalla solitudine, a venire in contatto col mondo. Egli ebbe infatti diverse commissioni diplomatiche a Roma ed altrove; andò governatore nella Garfagnana, dove trovò molte noie e molte faccende; seguì il Cardinale non solamente alla caccia e nei viaggi, ma anche nella guerra: si vuole anzi che l'anno 1510 riuscisse, nel fatto d'arme della Polesella, a prender sul Po una nave veneziana, contribuendo così alla vittoria del Duca. Certo tutto questo dovette giovare al poeta, che fu poi un così mirabile descrittore della natura e degli uomini.

Sino al 1503 aveva continuato a scrivere versi latini; ma allora finalmente pose mano al poema dell'Orlando Furioso, e si cominciarono subito a vedere i maravigliosi effetti del lungo studio. Aveva acquistato un'eleganza, una sobrietà e dignità, un vigore singolarissimi, senza nulla perdere di naturalezza e spontaneità, cose tutte che mancavano prima ne' suoi scritti italiani. Il genio dell'Ariosto si manifestò, si formò a forza di perseveranza e di studio indefesso, correggendo e ricorreggendo mille volte i propri versi, cosa tanto più singolare in uno scrittore, il cui pregio principale è la spontanea semplicità ed eleganza. A questo egli giunse, infondendo vigoroso sangue latino nella poesia italiana del suo tempo, che così potè ringiovanire. L'innesto dei due elementi, l'antico ed il moderno, riuscì nella poesia dell'Ariosto così perfetto ed armonioso, com'era riuscito a Raffaello negli affreschi della Galatea, della Scuola d'Atene e del Parnaso.

La materia epica dell'Orlando Furioso non è altro che la continuazione, lo svolgimento di quella dell'Orlando Innamorato del Boiardo. Ma il modo con cui s'andò formando il poema, le sue diverse sorgenti, i caratteri, l'ironia o non ironia di esso, sulla quale tanto s'è disputato, tutto ciò, se ha un gran valore per la storia e la critica letteraria, non è quello su cui possiamo o dobbiamo fermarci ora. A noi qui importa notar solo, che l'originalità dell'Ariosto sta principalmente nella nuova forma di poesia che egli ha creata. Apriamo a caso il volume, che non ha bisogno d'esser letto di seguito, ma piuttosto gustato con intensità, a brani staccati. Ascoltiamo, per esempio, le avventure di Cloridano e di Medoro nel campo nemico. Noi subito ammiriamo la loro amicizia, la loro fedeltà; il coraggio con cui Medoro difende il cadavere del suo re:

Come orsa che l'alpestre cacciatore

Nella pietrosa tana assalita abbia,

Sta sopra i figli con incerto core,

E freme in suono di pietà e di rabbia: ecc.

Medoro era già prigionero, e Zerbino, adirato pei colpi che i suoi ricevevano dal non veduto Cloridano,

Stese la mano in quella chioma d'oro

E trascinollo a sè con violenza;

Ma come gli occhi a quel bel volto mise,

Gli ne venne pietade e non l'uccise.

Prima però che troppo ci commoviamo, il poeta ci trasporta altrove sul cavallo alato della sua fantasia, e troviamo il semivivo Medoro nelle braccia voluttuose della bella Angelica. Passiamo così sempre d'avventura in avventura, di descrizione in descrizione, ed anche gli oggetti da noi già mille volte veduti, riappariscono pieni di vita e di giovanezza, come se il mondo uscisse ora novamente sotto i nostri occhi dal nulla. La rosa, di cui tanto parlarono i poeti e tante descrizioni ci lasciarono, par che sbocci la prima volta dal suolo, rorida, fresca, piena di nuove bellezze e d'immortale poesia,

L'aura soave e l'alba rugiadosa,

L'aria, la terra al suo favor s'inchina.

Cavalli, cavalieri e dame, tempeste, foreste, paesi incantati, avvenimenti d'ogni sorta, personaggi possibili ed impossibili passano, come se fossero la realtà e la verità stessa, sotto i nostri occhi estatici. Leggendo questo poema ci pare qualche volta d'essere nella Farnesina o nelle Logge vaticane, dinanzi agli affreschi di Raffaello. La Galatea, la Psiche, i filosofi della Scuola d'Atene e gli abitatori del Parnaso si staccano dalle mura, muovon intorno a noi; respirano, ci sorridono come antiche conoscenze. Questa poesia infatti è uno specchio, in cui si riflette tutta la vita esteriore ed interiore, morale, estetica del secolo, con tutti i suoi splendori. Essa lo rende a noi visibile, intelligibile, sempre più chiaro; ne disegna, ne colorisce la fisonomia, ne fa rivivere lo spirito. Ma il poema cavalleresco, dopo avere nell'Orlando Furioso manifestato la sua potenza, la sua infinita varietà e ricchezza d'immagini, sembra che abbia ad un tratto esaurito le proprie forze; esso comincia infatti d'ora in poi a decadere, nè sa far altro che vivere della sua vita passata.

È singolare davvero il vedere come nei due primi decenni del secolo XVI vennero alla luce quasi tutti i più grandi lavori dell'ingegno italiano, così nelle lettere come nelle arti, o si formarono e giunsero a maturità la mente e la cultura di coloro che ne furono gli autori. In questo tempo vennero scritte tutte le principali opere del Machiavelli, e non poche del Guicciardini, il quale, perchè occupatissimo allora negli affari, pose mano solamente più tardi alla sua grande Storia d'Italia. Ma anch'egli aveva già nei primi del secolo scritto alcune delle sue Legazioni, la Storia Fiorentina e la più parte di quelle Opere inedite, che basterebbero sole a renderne immortale la fama, e ci fanno assai bene conoscere il carattere ed il valore d'un uomo, che certo è fra quelli che meglio ritraggono l'immagine vera del Rinascimento italiano. Più volte noi lo incontreremo in questa nostra storia, e quindi non sarà inutile, ora che egli incomincia a comparir sulla scena, fermarsi un momento a dirne qualche cosa coll'aiuto de' suoi Ricordi autobiografici e di famiglia. Sfortunatamente essi restarono ben presto interrotti, e ci danno perciò notizie dei suoi primi anni solamente.

Il Guicciardini discendeva da un'assai antica famiglia fiorentina. La più parte de' suoi antenati furono uomini operosi e d'ingegno, ma dati quasi tutti ai piaceri della vita, ambiziosi del potere, amanti del proprio interesse. Egli stesso ci racconta che messer Luigi fratello di suo avo, più volte gonfaloniere della Repubblica, ebbe quattro mogli, ed era tanto amante delle donne, che perfino nella vecchiaia correva dietro alle serve, fermandole per via. Tra i figli legittimi non ebbe nessun maschio; una schiava però gli dette un figlio naturale, cui lasciò la propria fortuna, e che divenne poi vescovo di Cortona. Costui fu come il padre, lussurioso sino alla vecchiaia, e «nella gola seguitò l'uso degli altri preti, che si stanno in Firenze a poltroneggiare, che il pensare a mangiare è una delle maggiori faccende che abbino.» L'avo del Guicciardini poi, messer Iacopo, dato anch'egli alla gola ed alle donne, era uomo senza lettere, ma assai accorto ed ardito, partigiano dichiarato de' Medici: ottenne tutti i principali ufficî ed onori della Repubblica. Fu lui che, essendo gonfaloniere, compilò, per secondare le voglie di Lorenzo de' Medici, quella legge sui testamenti, che pur sapeva ingiusta e pericolosa, dalla quale venne poi provocata la terribile congiura dei Pazzi nel 1478; fu ancora quegli che tenne il popolo tranquillo, quando Lorenzo dovette andare a Napoli, per liberarsi dalla guerra mossagli in conseguenza della congiura. Piero suo figlio, e padre dello storico, ebbe una discreta cultura letteraria; conobbe il greco, il latino, la filosofia; tenne con onore diverse ambascerie ed altri ufficî politici; fu ammiratore del Savonarola, di cui ascoltava, compendiava le prediche, e ciò non ostante era avverso al Soderini, e fautore dei Medici, come tutti i Guicciardini, senza però mai lasciarsi trasportare dallo spirito di parte; fu anche onesto, amorevole ai poveri, mite nei consigli e nelle azioni. Il figlio, Francesco, fra molte lodi, gli rimprovera solo d'essere stato poco vivace e troppo riservato.

Questo figlio, che nacque nel 1482, accoppiò la prudenza del padre all'energia dell'avo, di gran lunga superando l'uno e l'altro nell'ingegno e negli studî. Temperato nei costumi, dignitoso nei modi, molto ambizioso del potere, egoista, era assai avido del danaro, non però mai a segno da appropriarselo indebitamente; che anzi egli e tutti i Guicciardini godevano in ciò reputazione d'aver sempre avuto le mani nette. Si diede subito con ardore agli studî; apprese assai bene il latino, e quelli che erano allora i primi rudimenti di matematica; studiò anche il greco, che però, secondo egli stesso ci dice, dimenticò affatto. Così i più grandi scrittori di quel secolo erudito, l'Ariosto, cioè, il Machiavelli ed il Guicciardini, o non conobbero punto il greco, o lo conobbero in modo da averlo ben presto affatto dimenticato. Nel 1498, quando fu bruciato il Savonarola, il Guicciardini aveva sedici anni, e cominciò a studiare diritto romano e civile, prima a Firenze nello Studio, poi dal 1500 al 1505, a Ferrara ed a Padova, aggiungendovi anche il diritto canonico. In questi anni, essendo molto turbate le cose di Firenze, il padre pensò di mandargli a Ferrara la somma allora grossissima di 2000 scudi, acciò la tenesse in salvo; ed egli, che era assai giovane, rese scrupoloso conto di tutto. Ciò dimostra la sua prudenza, e la grande fiducia che il padre aveva in lui. Nel medesimo tempo gli s'ammalò gravemente lo zio vescovo di Cortona, che poco dopo morì (1503). Ed egli ci racconta che pensò subito di lasciare gli studî, per farsi prete, chiedendo allo zio, che forse si sarebbe lasciato indurre, la immediata concessione dei benefici che godeva. «Nè ciò, egli aggiunge, per alcuna inclinazione che avessi alla vita religiosa, e neppure per poltronaggine, come allora solevano quelli che vestivano l'abito ecclesiastico; ma solo per farmi strada nel mondo, e riuscire un giorno ad essere cardinale.» Questi fatti dimostrano chiaro quali erano, fin da principio, le buone e le cattive qualità del giovane, quale doveva poi essere l'indole dell'uomo. Fortunatamente allora per lui, Piero Guicciardini, sebbene avesse cinque figli, rinunziò ad ogni idea di aver benefizî ecclesiastici nella famiglia, perchè non voleva che alcuno de' suoi divenisse prete, essendo la Chiesa, così egli diceva, «troppo trascorsa nel male.» Infatti erano i tempi d'Alessandro Borgia.

Finito il tirocinio universitario, Francesco Guicciardini venne a Firenze, dove fu chiamato ad insegnare il diritto: ivi si addottorò, e fu subito uno dei primi professori dello Studio. Questo però fu chiuso nel 1506, ed egli si diede allora ad esercitar con fortuna l'avvocatura. Avendo sempre gran voglia di far rapido cammino nel mondo, pensò ad un matrimonio conveniente e sposò nel 1508 Maria Salviati. Il padre di lui era stato contrario a questo matrimonio, non solo perchè avrebbe preferito e sperato pel figlio una maggior dote, ma ancora perchè non vedeva di buon occhio l'imparentarsi coi Salviati, troppo amanti del lusso, troppo avversi al gonfaloniere Soderini, e troppo partigiani. «Ma io,» così scrive il figlio, «pensavo che 500 scudi di più o di meno facevano poca differenza, e volli imparentarmi coi Salviati, appunto perchè, oltre ad esser ricchi, avanzavano tutti di aderenze e potenza, ed io ero vòlto a queste cose assai.» Nè i suoi disegni andarono falliti, avendo subito avuto incarichi, ufficî onorevoli e lucrosi.

In quel medesimo anno pose mano ai suoi primi lavori, avendo il dì 13 d'aprile 1508 cominciato a scrivere i Ricordi e circa il medesimo tempo, la Storia fiorentina, che nel febbraio del 1509 era giunta più che a metà. Di questi due scritti, il primo non ha gran valore letterario, perchè, composto più che altro d'appunti e frammenti staccati, rimase ben presto interrotto. Pure già vi si scorge quel mirabile spirito d'osservazione, e quella precisione d'indagine psicologica, che dovevano poi essere il pregio dominante dello scrittore divenuto più maturo. Vi si trova ancora quella forma semplice, schietta e spontanea che risplende in tutte le sue Opere inedite, ma che nella Storia d'Italia divenne più tardi essai artificiosa. C'è anche un sentimento, un bisogno della verità e della realtà, spinto qualche volta fino al cinismo, notando egli, come abbiam visto, di sè stesso e de' suoi antenati fatti poco lodevoli, con una calma e indifferenza singolarissime, quasi si trattasse di personaggi storici a lui affatto estranei.

La Storia fiorentina, invece, è già lavoro d'un gran merito letterario. Incominciando da Cosimo de' Medici, di cui parla brevemente, per venir subito a Lorenzo, finisce colla battaglia della Ghiara d'Adda, vinta dai Francesi contro i Veneziani il 14 maggio 1509; sicchè può dirsi una storia di fatti contemporanei o poco lontani dall'autore. In essa vediamo chiaramente il passaggio dalla cronica alla storia moderna, che qui apparisce la prima volta già formata. L'autore, è vero, procede ancora con la forma annalistica, cioè notando sempre il principio di ciascun anno, come se dovesse essere il principio di un nuovo periodo storico o di nuovi avvenimenti; ma lo fa in modo così fugace, che il lettore se ne avvede appena. La materia invece è divisa in capitoli, secondo la natura del soggetto e dei fatti narrati, i quali vengono svolti ed esposti con un ordine maraviglioso. V'è una chiarezza, una eleganza, ma sopra tutto una penetrazione nel giudicare i fatti, ed una esperienza degli uomini singolari davvero in chi aveva solo ventisette anni, e non era stato ancora nelle pubbliche faccende. L'acume nel determinare i caratteri, nel descrivere l'avvicendarsi dei partiti, nello scoprire le cagioni personali, le passioni che producono e conducono gli avvenimenti, la sua imparzialità verso i Medici, l'entusiasmo con cui rende giustizia al Savonarola; in una parola, la sua obiettiva fedeltà e precisione storica sono superiori ad ogni elogio.

Egli non solo aveva visto ciò che narrava, o lo aveva appreso da testimonî oculari; ma è certo che ricercò anche i documenti originali, con l'aiuto dei quali espose le leggi, le riforme, le ambascerie della Repubblica, riportando qualche volta quasi le parole testuali dei documenti stessi. Ancora non si spingeva, come fece poi nella Storia d'Italia, in un campo più vasto di avvenimenti molteplici; e non di rado, come del resto in quel secolo seguiva quasi a tutti, gli sfuggiva la concatenazione impersonale degli avvenimenti, che egli voleva sempre e solo spiegare con le passioni, con la volontà individuale, con gl'intrighi diplomatici e politici. Certo, in questo suo lavoro giovanile, il Guicciardini ci ha lasciato non solo il primo esempio della storia civile moderna; ma anche uno dei primi e più splendidi modelli della nuova prosa italiana, semplice, chiara, elegante e spontanea, senza mai cadere nella volgarità, dignitosa e corretta, senza mai cadere nelle circonlocuzioni latine. Nè si lascia mai, come segue spesso al Machiavelli, trascinare dalla propria fantasia; non ama la poesia, non scrive Commedie o Decennali, non cerca teorie, non ha ideali che lo trasportino lungi dalla realtà. E perciò la sua precisione nel descrivere e narrare i fatti supera, come avremo più volte occasione di notare, quella del Machiavelli, al quale sotto altri aspetti riesce assai inferiore. Difficilmente si troverebbe nella letteratura di altri popoli, certo non in quel secolo, un quadro storico così lucido, preciso, elegante, con una cognizione così sicura, profonda degli uomini e degli avvenimenti, quale abbiamo in questa Storia fiorentina. Essa, non ostante le sue divergenze, ha nella sostanza e più ancora nella forma, tale e tanta parentela con gli scritti del Machiavelli, da mostrar chiaramente che le opere di questi due grandi scrittori, pur essendo la creazione personale di due uomini di genio, sono anche un prodotto necessario di quel tempo, una manifestazione del pensiero nazionale.

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