CAPITOLO X.

Il Machiavelli provvede all'ordinamento della Milizia. - Sua gita a Siena. - Condizioni generali dell'Europa. - Massimiliano s'apparecchia a venire in Italia, per prendere la corona imperiale. - Legazione all'Imperatore. - Scritti sulla Germania e sulla Francia.

Il Machiavelli era adesso occupato in un gran numero di minute faccende. Gli anni 1506 e 1507 li passò di continuo organizzando la nuova Milizia, il cui peso cadde tutto sulle sue spalle, ed egli lo assunse con animo lieto e con grande ardore. Ogni giorno scriveva lettere ai Podestà, perchè formassero le liste degli uomini atti alle armi; ponessero le bandiere; provvedessero alle spese necessarie, per raccogliere ed istruire i fanti iscritti. Mandava le armi e le istruzioni; riceveva notizia dei più gravi disordini, e provvedeva, sia determinando il modo e la qualità della pena, sia inviando, nei casi più gravi, don Michele con la sua compagnia, perchè adoperasse la forza. Spesso la violenza brutale di don Michele era tale che, invece di spegnere, cresceva i disordini, e bisognava allora trovare altro rimedio. Tutto ciò il Machiavelli faceva in nome dei Nove, di cui era segretario; ma di fatto essi lasciavano a lui ogni responsabilità. Onde i capitani a lui si rivolgevano con lettere infinite, delle quali anche oggi troviamo grandissimo numero. Nè ciò bastava. Egli doveva di continuo girare pel territorio della Repubblica, a remuovere personalmente le mille difficoltà che nascevano, a fare egli stesso leve di fanti, a scegliere i capitani delle compagnie, di cui mandava le liste a Firenze, dove venivano senz'altro nominati, come eletti e riveduti dal Machiavelli. I primi esperimenti di queste fanterie si fecero inviandone qualche centinaio al campo di Pisa; ma quando appena esse acquistavano un po' di reputazione nell'armi, subito arrivavano agenti delle compagnie di ventura o degli Stati vicini, con larghe promesse per farle disertare. Quindi nuove cure, nuovi provvedimenti, per impedire che l'opera con tanto stento iniziata, andasse in fumo ad un tratto.

Nè questo indefesso lavoro impediva che di tanto in tanto gli venissero affidate dai Dieci o dalla Signoria nuove commissioni militari nel campo di Pisa; o anche commissioni diplomatiche, più o meno importanti, essendo il Soderini sempre disposto a riporre in lui tutta la sua fiducia. Nell'agosto del 1507 fu spedito a Siena, per vedere che séguito accompagnava e che accoglienza riceveva colà il legato Bernardino Carvaial, cardinale di Santa Croce, che il Papa mandava incontro a Massimiliano, nella supposizione che questi venisse davvero, come diceva, a prendere la corona imperiale. Egli doveva dar notizia di tutto, cercando ancora, se pur era possibile, d'indagare dai discorsi che si facevano qual fosse l'animo dell'Imperatore nelle gravi complicazioni politiche che si apparecchiavano. E noi vediamo il Segretario fiorentino occupato nell'assai umile officio di ragguagliare da Siena sopra i centodieci cavalli, i trenta o quaranta muli che menava seco il legato; le vitelle e i castroni scorticati, le coppie di polli, di paperi e di pippioni, i fiaschi di vino e i poponi, di cui gli facevano presente i Senesi. Aggiungeva d'aver sentito che Pandolfo Petrucci non era contento della venuta dell'Imperatore, perchè la credeva utile solo ai Pisani, ma pur fingeva il contrario; e che il legato aveva commissione di dissuadere l'Imperatore dal venire innanzi, e perciò appunto aveva con un altro cardinale tedesco avuto facoltà di coronarlo fuori d'Italia. Ma anche queste poche e magre notizie non erano che voci raccolte a caso da terze persone.

Il viaggio dell'Imperatore teneva in Italia sospesi tutti gli animi; a Firenze se ne parlava molto in vario senso, e per esso il Machiavelli dovè fra poco abbandonare l'Italia. Non solamente si sapeva che dovunque l'Imperatore passava, chiedeva grosse somme di danari; ma erano tali e tante le cause di complicazioni europee, che ogni più piccolo incidente poteva avere gravissime conseguenze, non prevedibili da nessuno. La morte della regina Isabella ed il sollevamento della Castiglia in favore dell'arciduca Filippo e di Giovanna sua moglie, figlia ed erede legittima della regina, avevano costretto Ferdinando d'Aragona a seguire una politica più cauta e meno aggressiva. Perciò aveva fatto tregua colla Francia, firmato con essa il trattato di Blois nell'ottobre del 1505, ed era venuto in Italia a vedere da vicino lo stato delle cose. La morte dell'arciduca, seguìta in questo mezzo; la pazzia di Giovanna, e la reggenza della Castiglia, in conseguenza di ciò, affidata a lui, lo rendevano più tranquillo; ma gli davano pure abbastanza da fare a casa, dove non mancavano cagioni di turbolenze, nè molti scontenti. Questi potevano facilmente far capo al gran Capitano Gonsalvo, che se ne viveva allora ritirato a casa, per essere quel re venuto in gelosìa e diffidenza di lui, a cagione della grandissima popolarità che aveva nell'esercito ed in tutta la Spagna, le cui armi s'erano sotto il suo comando ricoperte di gloria. Questo nuovo stato di cose faceva subito risorgere la fortuna e la potenza irrequieta della Francia, alle cui armi diede pronta occasione di tornare in reputazione la violenta ribellione di Genova, che Luigi XII, sottomise, con molto spargimento di sangue, alla testa del proprio esercito, nei primi del 1507.

E la fortuna delle armi francesi spingeva subito ad avanzarsi sulla scena Massimiliano I, altro rivale della Francia, il quale, si trovava a comandare un paese che non mancava di forza, ma era reso debolissimo dai disordini politici che lo travagliavano. Il Sacro Romano Impero, d'universale che era stato in passato, si trovava mutato in germanico, per la formazione delle nazionalità, già costituitesi in Stati indipendenti da esso. Poco o nulla poteva più l'Impero in Italia; nulla addirittura nella Spagna, nella Francia, in Inghilterra, divenute invece sue potenti rivali. I principi, i vescovi, le città libere che lo costituivano, erano anch'essi animati da uno spirito d'indipendenza tale che rendeva debolissima l'autorità di Massimiliano, il quale comandava davvero solamente nell'arciducato d'Austria e negli altri Stati suoi proprî, e come signore feudale anche nell'Alsazia, nella Svevia ed altrove; ma contava assai poco come re dei Romani o Imperatore. S'andava, è vero, anche in Germania formando adesso uno spirito di nazionalità, che tendeva a riunire le sparse membra sotto un'autorità centrale, e ciò poteva di certo favorire chi rappresentava appunto l'unità dell'Impero. Se non che Massimiliano mirava a ricostituirla nell'interesse degli Asburgo, per mezzo di un Consiglio da lui nominato, da lui dipendente, e i patriotti tedeschi volevano invece un'oligarchia, che desse nelle loro mani il potere, o facesse da loro dipendere l'Imperatore stesso. Così erano contemporaneamente in moto e spesso in conflitto gl'interessi della casa di Asburgo e quelli degli Stati su cui essa voleva comandare; il bisogno d'indipendenza locale; il sentimento crescente della nazionalità ed unità germanica; le tradizioni sempre potenti dell'Impero: tutto ciò costituiva un insieme di cose che non potevano nè armonizzarsi fra loro, nè separarsi.

A capo d'un paese in condizioni politiche tanto complicate e difficili, trovavasi Imperatore non ancora coronato, e però col titolo di Re dei Romani, Massimiliano, il cui carattere era pieno anch'esso delle più singolari contradizioni. Piacevole con tutti nei modi, non bello, ma proporzionato e forte della persona; prodigo del suo; esperto nelle guerre, massime nel comandare le artiglierie, e però amato dai soldati. Nella sua mente brulicavano i più strani e fantastici disegni, che non poteva mai condurre a termine, perchè, mentre era per eseguirne uno, veniva trascinato a iniziarne un altro. Pieno ancora delle idee medioevali, voleva rimettere il mondo sotto l'autorità dell'Impero; riconquistare l'Italia; andare a Costantinopoli contro i Turchi, e liberare il Sacro Sepolcro: qualche volta sognò addirittura di farsi papa, cosa che non sarebbe credibile, se alcune sue lettere non ne parlassero. Se non che, quest'uomo che voleva sottomettere l'Oriente e l'Occidente, vedeva ogni giorno posto in discussione il numero dei soldati e il danaro dovuto all'Impero dai principi e dalle città libere; nè riusciva sempre a farsi obbedire neppure dai sudditi degli Stati suoi proprî. Spesso non poteva pagare gli uomini che teneva sotto le armi, ed invano piativa e radunava Diete per aver danari. Si ridusse così ad impegnare le gioie della corona, e persino a pigliar servizio presso piccoli signori, stipendiato quasi come un capitano di ventura. Ma tutto ciò non gli faceva smettere i suoi vasti disegni, nei quali di volta in volta la Germania sembrava secondarlo, per poi abbandonarlo improvvisamente; il che nondimeno bastava, perchè egli ripetutamente vi s'ingolfasse, e ne concepisse sempre dei nuovi. Così egli ci apparisce come l'ultimo cavaliere d'un mondo destinato a perire, e, non ostante le sue buone e nobili qualità, si presenta spesso sotto un aspetto comico e grottesco.

Nella sua politica estera egli s'era sempre trovato in antagonismo colla Francia, la quale manteneva perciò segrete relazioni con molti principi dell'Impero, e cresceva di continuo difficoltà al suo avversario. Gl'interessi dei due Stati, se Stato può chiamarsi l'Impero, si trovavano in conflitto permanente così nei Paesi Bassi come in Italia; per il che Ferdinando ed Isabella di Spagna, volendo abbassare la Francia, avevano in quei luoghi secondato la Germania. Ma ora, dopo gli accordi di Blois, Luigi XII, sentendosi sicuro, prendeva animo, e Massimiliano, vedendo inevitabile la guerra, cercava raccogliere uomini e danari. A Carlo, nipote e poi successore nell'Impero, non fu dalla Francia mantenuta la promessa di dargli in moglie Claudia, figlia del Re; e Massimiliano negava alla Francia l'investitura del ducato di Milano, che voleva conquistare per sè. La sottomissione di Genova, che aveva cresciuto animo ai Francesi, lo indusse ad affrettare la sua calata in Italia, per prendervi la corona imperiale, farsi signore della Lombardia, ristabilire per tutto l'autorità dell'Impero. Giulio II seguiva con occhio inquieto questi movimenti, avendo egli sempre un solo e medesimo fine: riprendere le provincie che egli credeva usurpate alla Chiesa, specialmente quelle occupate da Venezia, contro la quale sembrava avere perciò un odio inestinguibile. E già stendeva, per mezzo d'accorti legati, le fila della sua futura politica. Ma finora i suoi disegni non riuscivano, perchè non era possibile riconciliare la Germania colla Francia, che s'avvicinava invece a Venezia. Massimiliano persisteva intanto nel pensiero di venire a prendere la corona, anche se per avanzarsi avesse dovuto combattere i Francesi ed i Veneziani. E questo era ciò che teneva ora sollevati tutti gli animi in Italia, nè meno degli altri quello del Papa, cui non piaceva che gli avvenimenti minacciassero di sfuggire affatto all'azione della sua tenace volontà. Certamente poi, se gli erano giunte, non potevano riuscirgli gradite le voci corse della strana idea che Massimiliano aveva di farsi papa, per quanto la cosa dovesse sembrare a tutti incredibile e puerile.

In ogni modo a Massimiliano occorrevano, per venire in Italia, uomini e danari, quello appunto che ora come sempre gli mancava. Poteva pei primi rivolgersi alla Svizzera, che, dopo la fiera ed eroica resistenza contro Carlo il Temerario duca di Borgogna (1476-77), era divenuta una ricca miniera di soldati. Ma ormai anch'essa faceva parte dell'Impero solo di nome, ed egli stesso aveva, dopo una lotta ostinata (1499), dovuto riconoscere la indipendenza della Confederazione elvetica. A questa, dopo essersi ben presto aggiunti Basilea e Sciaffusa, si unì più tardi anche Appenzel, e furono così tredici Cantoni, cui erano legate, con vincoli più o meno forti, altre piccole repubbliche, fra le altre quella dei tre cantoni retici, che erano allora chiamati in Italia la Lega Grigia, e che poi col nome di Grigioni fecero anch'essi parte integrante della Confederazione. Tutte queste repubbliche eran pronte a mandare le loro eccellenti fanterie in qualsiasi guerra, a difesa od offesa di qualsiasi Stato; ma ci volevano molti danari, che Luigi XII aveva, e Massimiliano cercava invano. Così anche sulle Alpi erano in conflitto la Germania e la Francia con vantaggio evidente di questa, in un paese che sino a pochi anni fa aveva riconosciuto la supremazia dell'Impero.

Nel 1507 Massimiliano chiese un esercito alla Dieta di Costanza, per andare a riconquistare il Milanese, prendere la corona, ristabilire l'autorità imperiale. E la Dieta si mostrò favorevole all'impresa; ma voleva che si facesse in suo nome, scegliendo essa anche i generali, e Massimiliano voleva dirigerla da sè in nome dell'Impero. Di qui le solite conseguenze, cioè provvedimenti temporanei ed insufficienti. Gli concessero 8000 cavalli e 22,000 fanti, ma per sei mesi solamente, cominciando dalla metà di ottobre, e 120,000 fiorini di Reno per le artiglierie e spese straordinarie. Con le incertezze e la prodigalità di Massimiliano, c'era da aspettarsi di vederlo in sei mesi da capo senza danari e senza soldati, prima anche di aver cominciato l'impresa. Tuttavia pareva che, accorgendosi d'essere, come dice il Guicciardini, «in galea con poco biscotto,» volesse questa volta operare con prontezza. Ordinò infatti, che l'esercito procedesse subito diviso in tre parti: una verso Besançon per minacciare la Borgogna; l'altra verso la Carintia per minacciare il Friuli; la terza verso Trento, dove s'avviò egli stesso, per minacciare Verona. E tutto ciò con grandissimo mistero, come soleva far sempre, tenendosi in disparte, ordinando agli ambasciatori presso di lui accreditati di non andare oltre Bolzano o Trento. Era sdegnatissimo contro Venezia, che non s'era voluta unire a lui, ed aveva fatto invece alleanza colla Francia, da cui gli erano stati guarentiti gli Stati di terraferma, ed a cui aveva in compenso guarentito il Milanese, promettendo d'opporsi colle armi al passaggio degl'imperiali. Luigi XII, messosi perciò in difesa dalla parte della Borgogna, mandava G. G. Trivulzio con 400 lance e 4000 fanti a rafforzare l'esercito dei Veneziani, i quali avevano mandato il conte di Pitigliano con 400 uomini d'arme verso Verona, e Bartolommeo d'Alviano con altri 800 uomini d'arme nel Friuli.

Tutto pareva dunque apparecchiato ad un grosso conflitto, che poteva avere gravissime conseguenze in Italia. Nessuna meraviglia perciò che gli animi fossero da per ogni dove agitati, massime in Firenze, a cui Massimiliano aveva in nome dell'Impero chiesto la somma di 500,000 ducati, come sussidio al suo viaggio per la incoronazione. I Fiorentini questa somma eccessiva non potevano in modo alcuno pagarla; ma quando anche fosse stata diminuita di molto, si sarebbero trovati sempre in gravi difficoltà. Temevano di negare ogni sussidio, perchè si sarebbero esposti allo sdegno di Massimiliano, quando fosse davvero venuto a Roma; ed erano certi che una concessione qualunque gli avrebbe esposti a perdere l'amicizia della Francia, per la quale tanti sacrifizî avevano fatti. I nemici del Soderini, sapendolo amico dichiarato dell'alleanza francese, avevano in questa incertezza buon gioco a combatterlo; ed erano istigati a ciò anche dall'ambasciatore imperiale, il quale sparlava del «governo tirannico del Gonfaloniere,» e prometteva che il suo signore vi avrebbe messo rimedio. Da ciò nacque un'animata discussione, che finì colla proposta di mandare un ambasciatore a Massimiliano, come facevano gli altri Stati d'Italia, ma prima spedire qualcuno che s'accertasse se egli davvero s'avanzava, non essendo altrimenti necessario venire con lui a nessuna conclusione. Il Soderini deliberò subito di mandarvi il Machiavelli, come suo fidatissimo, e lo aveva già fatto eleggere dai magistrati. Ma le proteste furono allora così vive contro questo che venne chiamato atto d'indebito favore, che dovette decidersi a mandare invece Francesco Vettori, senza che con ciò si riuscisse a calmare gli animi più irritati.

Ormai si cominciava a formare un partito avverso al Gonfaloniere, ed ogni pretesto era buono per combatterlo. Si diceva che Firenze non aveva la libertà che di nome, facendosi tutto ad arbitrio d'un solo, il quale cercava seguito nel popolo minuto e negli uomini da poco, per mettere da parte i cittadini più autorevoli, dei quali era geloso. S'aggiunse che appunto allora l'ufficiale preposto alla zecca, forse per adulazione, ebbe la strana idea di far coniare un nuovo fiorino, ponendovi da un lato, invece del giglio, il ritratto del Soderini, il quale disapprovò la cosa, e fece ritirar le monete; ma non evitò per questo rimproveri e scherni. Più tardi fu necessario licenziare don Michele, il bargello delle fanterie, perchè i suoi disonesti portamenti e la sua violenza mostrarono chiaro a che cosa menava il prendere dei ribaldi a servizio della Repubblica. E anche da ciò si prese occasione a sparlare, non per difender don Michele, ma «approvandosi più presto essere stato opportuno torli segretamente la vita, perchè con troppa nostra inimicizia si partiva.» Egli veramente potè fare poco altro male, perchè nel febbraio del seguente anno, uscendo una sera di casa lo Chaumont, fu ucciso da alcuni degli Spagnuoli, che erano colà; e così «perdè la vita, come già la aveva a molti tolta.» In ogni modo il Soderini era dagli avversarî accusato, perchè non lo aveva, segretamente e senza processo, fatto ammazzare. Tale era la morale del tempo.

Ma le più ardenti discussioni nascevano dalle lettere di Francesco Vettori, il quale scriveva che Massimiliano era per adesso contento di soli 50,000 ducati; li voleva però subito, altrimenti l'oratore fiorentino non gli venisse più innanzi. E questi aggiungeva, che il decidersi era necessario davvero, perchè le cose di Germania sbandavano di giorno in giorno riscaldando. Bisognava dunque o pagare e farsi nemica la Francia, o ricusare e farsi nemico l'Imperatore. E qui si riaccendeva la disputa in Firenze più viva che mai. Dopo lungo discorrere fu deciso nella Pratica di mandare nuovi ambasciatori, e gli Ottanta elessero Piero Guicciardini ed Alamanno Salviati. Ma nei Dieci e negli Ottanta si oppose all'ambasceria lo stesso Guicciardini, il quale ricusava l'ufficio, dicendo come il mandarli senza commissione di stringere l'alleanza era superfluo, ed andare a concluderla fra tante incertezze era pericoloso, perchè si perdeva l'amicizia della Francia senza esser sicuri dell'aiuto tedesco. Il 17 dicembre 1507 si discusse di nuovo lungamente nella Pratica in senso diverso, senza venire a nessuna conclusione. Fra tanti dispareri il Gonfaloniere credette rimediare a tutto portando l'affare nel Consiglio Grande, e lasciando a ciascuno facoltà di esprimere liberamente il proprio avviso. Era questo un procedimento allora così insolito, che parve una violazione della libertà, ed ognuno si tacque. L'uso voleva che il governo presentasse le sue proposte, e che i cittadini si raccogliessero poi a deliberare nelle pancate, ognuna delle quali eleggeva il suo rappresentante, il quale doveva o parlare per difendere la legge e votare in favore, o tacere, se voleva votar contro. Il dare ad ognuno assoluta libertà di parola, sembrò quindi, secondo la espressione del Parenti, un aver «perduto in facto la libertà, sotto dimostrazione di così largamente cederla.» Finalmente, come meglio si potè, fu deliberato di stabilire gli ultimi termini d'un accordo possibile, e mandarli per lettera al Vettori, non per concludere subito, ma solo per trattare e scriverne poi a Firenze. Ed allora il Gonfaloniere, pigliando la palla al balzo, riuscì a persuadere i Dieci, che non era prudente mandare per mezzo dei soliti corrieri istruzioni tanto gravi e gelose, potendo le lettere venire intercette; essere pertanto necessario spedire un uomo fidato, che, occorrendo, riferisse a bocca; e così gli riuscì d'inviare il Machiavelli, lasciandolo accanto al Vettori, come da molto tempo ardentemente desiderava. Si mormorò com'era naturale, e si disse che l'aveva mandato, perchè suo mannerino, e perchè gli faceva scrivere quel che voleva, «secondo il proposito dei loro fini e disegni.» E veramente il Gonfaloniere fidava più nel Machiavelli che nel Vettori, e non voleva da questo essere trascinato in una politica di pericolose avventure.

Nel dicembre del 1507 il Machiavelli adunque partiva, apportatore delle istruzioni, le quali erano: che a Massimiliano si offrissero 30,000 ducati, per arrivare, in caso di estrema necessità anche fino ai 50,000 da lui chiesti. Si sarebbe però cominciato a pagarli solo quando s'avesse la certezza che egli veniva in Italia, continuando secondo che si avanzasse. Ed il Machiavelli dovè per via stracciare le lettere, temendo che non gli fossero trovate addosso nella Lombardia, dove, come aveva preveduto, venne minutamente esaminato.

Questa legazione, di cui non si hanno che sedici lettere, tre delle quali firmate dal Machiavelli, le altre scritte da lui, ma firmate dal Vettori, che di rado v'aggiunse qualche parola di sua mano, non poteva avere grande importanza politica, trattandosi solo di portare in lungo Massimiliano, e, per ora almeno, non dargli nulla. Ha però un valore non piccolo, per le osservazioni che il Machiavelli ebbe occasione di fare sugli Svizzeri e sui Tedeschi, e per le notizie che dette in essa dei fatti allora seguìti nell'alta Italia. Il 25 dicembre era di passaggio a Ginevra, il dì 11 gennaio 1508 arrivò a Bolzano, e di là scrisse il 17 due lettere. Nella seconda, firmata Vettori, racconta come l'offerta di 30 mila ducati non era punto piaciuta a Massimiliano, onde erano subito saliti a 40,000, il che lo aveva reso assai più benigno, sebbene sospettasse sempre che fossero arti dei Fiorentini, per tenerlo a bada. Trovavasi a sette leghe da Trento, e già era in grandissime strettezze di danaro; sarebbe quindi stato assai facile contentarlo con una somma non molto grande, purchè data senza indugio. Ma questo era quello appunto, che nè il Vettori nè il Machiavelli potevano consentire.

La prima lettera, scritta lo stesso giorno, in nome proprio dal Machiavelli, dava un minuto ragguaglio del viaggio da lui fatto; e si vede subito con quanta attenzione, con quanta cura aveva osservato i paesi pei quali era così rapidamente passato. «Da Ginevra a Costanza,» egli scrive, «mi sono fermato quattro volte sulle terre degli Svizzeri, ed ho ricercato con la diligenza che ho potuto maggiore di loro essere e qualità. Ho inteso che il corpo principale degli Svizzeri è composto di dodici Cantoni, collegati insieme per modo, che quello è deliberato nelle loro Diete, viene da tutti osservato. Perciò s'inganna chi dice, che quattro sono con la Francia ed otto con l'Impero. Il vero è che la Francia ha tenuto nella Svizzera uomini che hanno con danari, in pubblico ed in privato, avvelenato tutto il paese. Se l'Imperatore avesse danari potrebbe avere anche gli Svizzeri, i quali non vogliono averlo nemico, ma neppure vogliono servirlo contro la Francia, che ha troppi danari. Oltre i dodici Cantoni, vi sono anche altri Svizzeri, come i Vallesi e la Lega Grigia, i quali confinano coll'Italia, e non sono per modo collegati coi primi, da non poter fare diversamente da ciò che deliberano le Diete di questi. Nondimeno s'intendono tutti fra loro a difesa della libertà. I dodici Cantoni danno, per difendere il paese, quattromila uomini ciascuno, di cui mille in mille cinquecento da mandar fuori. E questo perchè nel primo caso sono dalla legge forzati tutti a prendere le armi, nel secondo, cioè quando si tratta di andare a militare con altri, va solo chi vuole.» Non è certo da meravigliarsi che il Machiavelli si fermasse subito a studiare, con gran cura, una Repubblica fondata sulle armi proprie, quale egli avrebbe voluto che divenisse Firenze, dandone perciò minuto ragguaglio ai Dieci. E per concludere anche questa seconda lettera con qualche cosa relativa alla sua commissione, dice che a Costanza aveva con insistenza interrogato un oratore del duca di Savoia circa il procedere o no della impresa di Massimiliano, e gli era stato risposto: «Tu vuoi in due ore sapere quello che in molti mesi io non ho potuto intendere. L'Imperatore procede con un gran segreto, la Germania è grande assai, le genti arrivano in diversi luoghi, da provincie assai lontane; bisognerebbe avere troppe spie per tutto a sapere il certo.»

Seguono quattro lettere, due delle quali, del 25 e 31 gennaio, sono quasi del tutto in cifra, e contengono notizie insignificanti e poco intelligibili, o anche allusioni oscene. Queste erano state scritte solo col proposito di farle cadere in mano del nemico, a fin di potere più facilmente salvare le altre due, che davano notizie riservate sulle persone che erano presso Massimiliano, e sulle arti da esse adoperate. Il dì 8 febbraio il Machiavelli scriveva poi da Trento una lettera firmata Vettori, nella quale narrava come Massimiliano, arrivato colà, era il 4 del mese, colla spada sguainata, preceduto dagli araldi, andato nel duomo, dove il suo cancelliere Matteo Lang, vescovo di Gurk, arringando il popolo, aveva solennemente dichiarato che l'Imperatore scendeva in Italia. Ed è singolare che qui egli non si fermò punto a notare, che Massimiliano assunse allora il titolo d'Imperatore dei Romani eletto, facendo a meno della incoronazione in Roma, senza che Giulio II, il quale non lo voleva in Italia, protestasse. Il fatto era assai importante, perchè così l'Impero si rese indipendente dalla sanzione papale.

Continuava la medesima lettera dando notizie sul modo molto singolare, con cui la impresa era cominciata. Il marchese di Brandeburgo era con 5000 fanti e 2000 cavalli andato verso Roveredo, per tornarsene poi improvvisamente. L'Imperatore con 1500 cavalli e 4000 fanti era andato alla volta di Vicenza, ed aveva preso e devastato i Sette Comuni, che si reggevano liberi sotto la protezione di Venezia. Parlavasi ancora d'un castello da lui assediato, quando si seppe invece che anch'egli era tornato indietro per Trento, ed alloggiava a dieci miglia dalla città, nella via di Bolzano. «Ora io vorrei domandare al più savio uomo del mondo, che avesse la commissione che le Signorie Vostre mi dànno, quello che farebbe. Se le vostre lettere fossero arrivate tre giorni fa, io avrei subito pagato, credendo certa la venuta dell'Imperatore, e sarei stato approvato, per essere poi oggi, visto l'effetto, condannato. È difficile prevedere gli eventi. L'Imperatore ha molti e buoni soldati, ma non ha danari, nè si vede chi possa darglieli, ed è troppo liberale di quello che ha. Or, sebbene l'essere liberale sia una virtù nei principi, non basta soddisfare a mille, quando ve ne sono ventimila, e la liberalità non giova là dove non arriva. Egli è esperto nell'armi, duro alla fatica, ma è tanto credulo che molti dubitano della impresa; sicchè ci è da sperare e da temere. Quello che fa credere alla sua riuscita è che l'Italia è tutta esposta alle ribellioni e mutazioni, ed ha triste armi; onde ne sono seguiti i miracolosi acquisti e le miracolose perdite. Vi sono è vero i Francesi che hanno buone armi; ma essendo senza gli Svizzeri, coi quali furono consueti vincere, e tremando loro il terreno sotto i piedi, fanno anch'essi dubitare. Considerando adunque tutte queste cose, io resto sospeso, perchè a volere che la vostra commissione abbia effetto, bisogna che l'Imperatore assalti e che vinca.» Questa lettera era scritta come le altre dal Machiavelli, e firmata dal Vettori, il quale di sua mano v'aggiungeva pochi versi, dicendo che non giudicava, «per cosa al mondo, opportuno richiamare il Machiavelli: lo star suo è necessario fino a che le cose non sono composte.»

Tutta la legazione continua sullo stesso argomento. L'Imperatore insiste per aver danari subito, e i Fiorentini discutono per pigliar tempo e non dar nulla, profittando dello stato delle cose sempre più incerto e confuso. Un esercito di 400 cavalli e 5000 fanti entrò nel Cadore, che era devoto ai Veneziani, e raggiunto da Massimiliano con 6000 fanti percorse e devastò da quaranta miglia di paese nel Veneto. Ma ad un tratto l'Imperatore, trovandosi senza danari, tornò ad Innsbruck, per mettere in pegno le proprie gioie. Ivi lo seguirono i due oratori fiorentini, e seppero che, non avendo egli pagato gli Svizzeri, i Cantoni avevano permesso alla Francia d'assoldare fanti, e già essa ne aveva in Italia 5000, e 3000 ne avevano i Veneziani. Bartolommeo d'Alviano circondava intanto le genti restate nel Cadore, e dopo averne uccise mille, faceva prigioniero il resto, pigliando le fortezze che erano colà. Andò poi oltre, ritirandosi il nemico, e prese Pordenone, che ebbe in feudo, Gorizia, Trieste e Fiume. Un assalto tentato dai Tedeschi fra Trento ed il lago di Garda, ebbe dapprima per essi qualche buon successo, che poi andò presto in fumo. I due eserciti nemici restarono di fronte nella valle dell'Adige, ma poco dopo i 2000 Grigioni, essendo male pagati dall'Imperatore, si ritirarono e furono seguiti dagli altri: arrivati a Trento si sciolsero tutti. Massimiliano non aveva potuto aver dall'Impero mai più di 4000 fanti per volta, e sempre per sei mesi solamente; sicchè gli uni arrivavano, quando gli altri partivano; ond'egli, per mettere insieme un esercito grosso, avrebbe dovuto spendere danari che non aveva. Intimò una Dieta in Ulm, per chiedere nuovi aiuti, e corse in Germania; ma ad un tratto nessuno sapeva più dove fosse, perchè se ne stava nascosto a Colonia, dove gli giunse notizia che la Dieta s'era prorogata senza concludere nulla.

La lettera del 22 marzo 1508, scritta da Innsbruck, dopo aver dato alcune di queste notizie ai Dieci, concludeva: «Voi mi dite che paghi la somma fatta sperare, se credo, a quindici soldi per lira, che l'Imperatore passerà. Ma io credo a ventidue soldi per lira che passerà; non posso però prevedere se vincerà e se potrà continuare; giacchè finora di due eserciti, composti di sei o sette mila uomini ciascuno, l'uno è stato battuto, l'altro non ha concluso nulla. Da un altro lato la Germania è assai potente e, se vuole, può vincere. Ma vorrà?» Il Vettori poi aggiungeva che, stando poco bene, aveva deliberato mandare il Machiavelli presso la Dieta e l'Imperatore. Questa proposta venne subito accolta dai Dieci; ma non potè essere recata ad effetto, perchè coloro che erano vicini a Massimiliano e ne godevano la fiducia, fecero sapere che non conveniva nè andare, nè mandare. Onde i due oratori restarono a continuare la solita altalena, di che erano omai stanchi. «Vostre Signorie,» scrivevano essi il 30 maggio, «hanno filato questa tela sì sottile, che gli è impossibile tesserla. Se voi non cogliete l'Imperatore nella necessità, vorrà più che non gli offrite; e se lo cogliete nella necessità, allora non si può, come voi richiedete, prevedere la sua venuta a quindici soldi per lira. Bisogna decidersi; vedere dove è manco pericolo, e quivi entrare, fermando una volta l'animo in nome di Dio, perchè volendo queste cose grandi misurarle colle seste, gli uomini s'ingannano.»

Gli eventi provarono tuttavia, che la tela non era stata poi tessuta così male, come gli oratori dicevano. Il dì 8 giugno essi davano la notizia, che tra Massimiliano e Venezia s'era venuto ad accordi, per una tregua da durare tre anni (6 giugno 1508). Vi si comprendevano da un lato il Papa, l'Inghilterra, l'Ungheria e l'Impero; dall'altro i governi d'Italia, la Spagna e la Francia. Questa però, non essendo stata nè consultata, nè avvisata di nulla, si mostrò scontentissima, e più tardi ne pigliò pretesto alla sua iniqua condotta contro Venezia, lasciandosi indurre dal Papa alla lega di Cambray conclusa a sterminio di quella Repubblica. E intanto, fra tutti questi mutamenti, l'Imperatore non ricevè più nulla dai Fiorentini, che ottennero così il loro scopo. Il Vettori chiese congedo, dichiarando ormai inutile la sua dimora colà; e quanto al Machiavelli, che pareva minacciato dal mal della pietra, partì senz'altro. Il 10 giugno aveva lasciato Trento, il 14 era già a Bologna, donde scriveva le ultime notizie raccolte per via intorno alla tregua.

Egli era stato assente da Firenze 183 giorni. Partito il 17 dicembre 1507, trovavasi a Ginevra il 25, e di là, il giorno seguente, s'era mosso per Costanza, viaggio che durava allora sette giorni, e nel quale potè rapidamente traversare da un estremo all'altro quasi tutta la Svizzera, non perdendo nessuna occasione per osservarla e conoscerla. Il 17 gennaio 1508 scriveva da Bolzano, e fino al dì 8 giugno, quando, per tornare a Firenze, partì da Trento, era restato sempre fra questa città, Bolzano ed Innsbruck. Colà vide arrivare e partire continuamente Tedeschi di ogni grado e condizione: soldati, generali, principi, vescovi, diplomatici; e così ebbe opportunità di studiare quei popoli, e lasciarcene una breve descrizione. Gli oratori fiorentini non avevano, come i Veneti, l'obbligo di fare, in fine della loro ambasceria, una relazione generale sullo stato del paese in cui erano andati. Pure di tanto in tanto si fermavano nei loro dispacci a fare osservazioni e considerazioni acutissime. Questa era anzi la parte, in cui primeggiavano gli uomini come il Guicciardini ed il Machiavelli, i quali, senza esservi obbligati, usavano, sia per proprio diletto, sia per utilità dei magistrati, scrivere non di rado anch'essi qualche loro relazione.

Noi abbiamo inoltre una Istruzione scritta dal Machiavelli nel 1522, quando da più tempo era fuori d'ogni ufficio, all'amico Raffaello Girolami, che andava ambasciatore nella Spagna appresso all'Imperatore. Ed in essa, consigliandogli i modi che doveva tenere nella sua ambasceria, ci fa chiaramente vedere quale era il metodo che egli stesso aveva sempre seguito. «Voi dovete,» così scriveva, «attentamente osservare ogni cosa: il carattere del principe e di chi lo circonda, i nobili, il popolo, e dipoi darne una piena notizia.» Proseguiva dandogli norme su quello che più particolarmente doveva osservare nella Spagna, aggiungendo che un ambasciatore deve acquistarsi reputazione d'uomo da bene, il quale non pensi una cosa e ne dica un'altra. «Ne ho conosciuti molti, che per essere tenuti sagaci e doppî, hanno in modo perduta la fede col principe, che è poi stato loro impossibile il poter negoziare seco.» Concludeva con alcuni suggerimenti sui piccoli artifizi del mestiere, osservando che, quando si tratta di fare induzioni generali, e cercare d'indovinare i fini cui mirano gli uomini, o l'andamento più riposto delle cose, è assai odioso l'esprimere in nome proprio l'avviso che uno si è formato da sè, e però riesce invece opportuno, anche per dare maggior peso alle proprie parole, metterle in bocca di autorevoli personaggi, dicendo: «considerato adunque tutto quello che si è scritto, gli uomini prudenti che si trovano qua, giudicano che ne abbia a seguire il tale effetto e il tale.» Queste parole, infatti, noi le troviamo di continuo nelle sue legazioni, e possiamo ora comprenderne tutto il valore. Ma per quanto minute e pratiche fossero tali avvertenze al Girolami, il Machiavelli faceva anche più e meglio che non consigliava. E massime in questa legazione all'Imperatore, non avendo affari molto gravi da trattare, si dette per suo proprio conto ad uno studio attento e coscienzioso del paese nel quale si trovava.

Noi abbiamo già visto con quanta cura avesse osservato e descritto nelle sue lettere le condizioni generali della Svizzera, che così rapidamente aveva traversata. Tornato che fu a Firenze, si pose subito, il 27 giugno 1508, cioè il giorno dopo il suo arrivo, a scrivere il Rapporto di cose della Magna, in cui diede un ritratto fedelissimo dell'Imperatore, ed un quadro generale del paese. Questo quadro egli cominciò a riscriverlo più tardi, verso la fine del 1512, in una forma più letteraria, col titolo di Ritratti delle cose dell'Alemagna. Sembra che dopo la battaglia di Ravenna (1512), la quale è in essi rammentata, avesse intenzione di comporre sulla Germania un nuovo lavoro, riassumendo ciò che aveva già scritto, per continuare a fare altre osservazioni; ma lo lasciò poi interrotto, non avendone scritto che un brano. Nè ha importanza di sorta il Discorso sopra le cose di Alemagna e sopra l'Imperatore, scritto nel 1509, quando Giovanni Soderini e Piero Guicciardini furono inviati a Massimiliano, perchè è di sole due pagine, nelle quali non fa che rimettersi a quanto aveva già detto nel Rapporto. Questo, adunque, che in sostanza è una breve relazione fatta ai magistrati della Repubblica, è il solo lavoro veramente originale del Machiavelli sulla Germania, salvo qualche piccola osservazione aggiunta nel frammento dei Ritratti.

Il Rapporto è stato dai Tedeschi variamente giudicato. Il Gervinus afferma che esso e l'altro simile scritto, dettato poco più tardi, sulla Francia, provano quanto acutamente il Machiavelli «sapesse indagare il carattere proprio dei popoli, e con quanta profondità giudicasse le condizioni politiche, lo stato interno dei paesi stranieri, la natura delle nazioni e dei governi. Le sue notizie statistiche sulla Francia, egli dice, sono eccellenti, e sul carattere dell'Imperatore Massimiliano e del governo tedesco in genere non si è forse mai detto nulla di meglio.» E questa opinione è stata in Germania più volte ripetuta fino ai nostri giorni. Ma con essa non vanno punto d'accordo alcuni moderni, tra i quali il professor Mundt, il cui libro, sebbene venuto alla luce parecchi anni dopo, è pure assai inferiore a quello del Gervinus. Secondo lui, il giudizio del Machiavelli sui Tedeschi e sul loro paese è una fantasmagoria, ispirata in parte dalla Germania di Tacito, ma senza riscontro alcuno colla realtà delle cose nei primi del secolo XVI. Lo stato delle finanze quale egli lo descrive, la purità di costumi, la libertà e l'eguaglianza che egli vuol farci ammirare, non son altro che un idillio della sua fantasia, non vedendosi donde mai abbia potuto cavare il ritratto che ci presenta. Basta leggere le opere di Lutero, e gli scritti del contemporaneo Fischart, dice il Mundt, per esser subito persuasi che la virtuosa semplicità tedesca, al tempo in cui comincia la Riforma, è un sogno, che in alcune città il lusso era grande, e che la corruzione non mancava.

Noi abbiamo già osservato, e avremo più volte occasione d'osservarlo nuovamente, che quanto alla precisa esattezza nel determinare i fatti particolari, il Machiavelli è spesso poco esatto, e vien sempre superato dagli ambasciatori veneti, i quali lo vincono non di rado anche nel determinare il carattere vero dei personaggi, con cui trattano, dei quali sanno meglio indovinare le più riposte intenzioni. Ed anche ora, se esaminiamo la relazione sulla Germania, che dall'ambasciatore veneto Quirini fu letta ai Pregadi nel dicembre del 1507, troviamo una conoscenza assai più sicura del paese, che egli aveva lungamente percorso, attentamente esaminato, ed un numero assai maggiore di notizie, che sono anche più esatte. Il Machiavelli resta però senza rivali, quando si tratta di determinare l'indole ed il valore politico dei popoli o dei principi; l'azione che queste loro qualità esercitano sugli avvenimenti contemporanei; la natura propria delle istituzioni, e gli effetti che ne risultano. Se si deve indovinare che cosa faranno oggi o domani il re di Francia o l'Imperatore, che passioni o desiderî, in un dato momento, li muovono, il Segretario fiorentino può essere vinto dai Veneziani, ed anche da qualche Fiorentino assai pratico degli affari, come era per esempio il Guicciardini. Forse questa è anche una delle ragioni, per le quali il Machiavelli non riuscì mai ad avere il grado di ambasciatore. Ma se si tratta invece di determinare in che consista la forza politica della Francia o della Germania, del Re o dell'Imperatore, egli dimostra allora tutta la potenza del suo genio, e riesce superiore ad ogni altro. L'osservazione fedele, accurata dei fatti politici e sociali era antichissima in Italia, e ne abbiamo molti esempî così nei cronisti del secolo XIV, come negli eruditi ed ambasciatori del XV, i quali ci lasciarono nelle loro lettere ammirabili descrizioni dei paesi che visitarono e dei personaggi politici che conobbero. Ma il Machiavelli è il primo che veda i fatti sociali coordinarsi in una vera unità organica, e su di essa principalmente si fermi. Lo stesso Guicciardini, che nella sua legazione nella Spagna raccolse una moltitudine di preziose notizie, esponendole con una mirabile precisione e chiarezza, quando volle poi raccoglierle insieme, per darci un giudizio generale sul carattere, sulla forza politica di quel paese e dei suoi ordinamenti, riescì, come vedremo in altro luogo, quasi inferiore a sè stesso. Si direbbe, che l'immenso materiale d'osservazioni, che l'Italia aveva in più secoli raccolto, e continuava a raccogliere, s'andasse la prima volta ordinando nella mente del Machiavelli, il quale cominciava così a porre la base della scienza politica. Di tutto ciò si vedono i primi segni così nel suo Rapporto sulla Germania come nell'altro simile, che scrisse poco dopo sulla Francia. In essi, ma specialmente nel primo, si ritrova anche un'altra qualità, che pochi riconobbero in lui, ma senza la quale molti de' suoi scritti resterebbero inesplicabili affatto. Egli andava dietro a certi proprî ideali, i quali s'impadronivano della sua fantasia per modo, che li vedeva spesso anche là dove non erano, ed essi lo conducevano allora a dare un colorito personale ai fatti che descriveva ed agli avvenimenti che narrava.

Chi ricorda ciò che dicono della Germania il Bracciolini ed il Piccolomini, i quali, specialmente il secondo, dimorarono a lungo in quel paese, e minutamente lo descrissero, senza mai finir di lamentarne l'ignoranza, la rozzezza, la barbarie; chi legge il Viaggio in Alemagna di quello stesso Francesco Vettori, che era stato col Machiavelli nel Tirolo, e non trova in esso quasi altro che una raccolta di novelle oscene, si sente come in un mondo nuovo, quando legge le poche, ma eloquenti pagine del Machiavelli, nelle quali è una così grande ammirazione per quel medesimo paese. Non si può certo disconoscere l'acume col quale egli, ammirando la semplicità del vivere e l'educazione militare della Germania, ne pone in evidenza la forza reale, anche in mezzo all'anarchia ed alla impotenza politica presente, e spiega la debolezza di Massimiliano, nonostante le sue buone qualità, il suo valor militare, la molta popolarità, il vasto impero. E fin qui tutto conferma il giudizio dato dal Gervinus.

Bisogna però ricordarsi che il Machiavelli aveva assai rapidamente traversato la Svizzera, e s'era fermato nel Tirolo, arrivando fino ad Innsbruck, senza andare più oltre. Colà aveva, è vero, visto moltissimi Tedeschi, e ragionato con alcuni di essi, i quali parlavano il latino o l'italiano; ma il loro paese non lo aveva visitato, nè lo potè quindi conoscere per esperienza propria. E sebbene ne' suoi scritti egli distingua abbastanza la Svizzera dal Tirolo e dalla Germania, pure sembra che assai spesso li consideri più come parti d'un medesimo paese, che come regioni e popoli diversi. Già nella sua Commissione coll'Albizzi al campo di Pisa, notammo che egli, parlando degli Svizzeri, li chiamava quasi sempre Tedeschi. Ed in questo suo presente scritto si vede chiaro, non solo che, ragionando della Germania, v'include sempre la Svizzera ed il Tirolo; ma che anzi, essendo questi i soli paesi di parlare tedesco che aveva visitati, gli accade di attribuire a tutta la Germania i costumi e il vivere che in essi aveva osservati. Egli s'era esaltato alla vista di quelle popolazioni sobrie, armigere, fiere, e nella «libera libertà» delle repubbliche svizzere aveva ritrovato il suo ideale della nazione armata; quindi le presentava all'Italia come un esempio da imitarsi. L'arrivo di continue bande di Tedeschi, che partivano per dar luogo ad altre; la notizia da essi avuta delle molte repubbliche colà ancora fiorenti; il loro aspetto marziale, la loro reputazione militare colpirono la sua immaginazione per modo che vide nella Germania un paese tutto dedito alle armi, sobrio, amante della libertà, e così la descrisse, attribuendole, troppo spesso, i costumi degli Svizzeri e dei Tirolesi, coi quali essa aveva ed ha certamente molta somiglianza e parentela, ma con i quali non si può confondere. Tutto questo può spiegare le inesattezze osservate dal Mundt, il quale non si occupò di rintracciarne le cagioni, e non riuscì a formarsi un chiaro concetto del molto valore che, non ostante i difetti, ha lo scritto del Machiavelli.

«Non si può,» questi dice, «dubitare della potenza della Germania, che abbonda d'uomini, di ricchezza e d'armi. Spendono i Tedeschi poco in amministrazione e nulla in soldati, perchè esercitano nelle armi i propri sudditi. Invece di giuochi, nei giorni di festa la loro gioventù si occupa a maneggiare lo scoppietto, la picca, chi un'arme e chi un'altra. Sono parchi in tutto, perchè non edificano, non vestono con lusso, non hanno molte masserizie in casa. Basta loro lo abbondare di pane, di carne, ed avere una stufa dove rifuggire il freddo, e chi non ha dell'altre cose, fa senza esse, e non le cura. Quindi il loro paese vive di quello che produce, senza avere bisogno di comprar dagli altri; vendono le loro robe lavorate manualmente, di che condiscono quasi tutta Italia, ed il guadagno è tanto maggiore, in quanto nasce tutto dal lavoro con pochissimo capitale. Così si godono quella lor rozza vita e libertà, e per questa causa non vogliono ire alla guerra, se non soprappagati, nè ciò anche basterebbe, se non fossero comandati dalle loro comunità.» Qui par veramente di sentire come una rimembranza della Germania di Tacito. V'è quasi un accento di dolore, che rivela l'animo trafitto dal paragone, che il Machiavelli fa, senza esprimerlo, del paese che descrive con l'Italia. E par che, prorompendo, esclami ai Dieci: Ecco come dovreste voi ordinar la Repubblica, se veramente la volete libera e forte. Lo splendore delle arti, delle lettere, della ricchezza italiana, che aveva fatto velo al giudizio di tanti fra i nostri scrittori, i quali perciò disprezzavano gli stranieri, non offuscò mai quello del Machiavelli, il cui sguardo acutissimo andava diritto alla sorgente prima delle cose, e nella corruzione del suo paese vedeva la causa inevitabile delle future calamità.

C'è però un punto assai notevole e sostanziale su cui l'attenzione del Machiavelli sembra non essersi mai fermata. Egli, che pure aveva tante volte meditato sulla opportunità di riunire l'Italia, per costituire una forte nazione, non si fermò, nel traversare la Svizzera, sui vantaggi che essa ritraeva dalla Confederazione dei suoi Cantoni. Non si fece mai la domanda: perchè i Comuni italiani non si uniscono in Confederazione? E c'è un altro punto non meno sostanziale su cui non si fermò mai. Nella Svizzera, ed in parte anche nel Tirolo, le popolazioni rurali avevano una parte importantissima nella vita nazionale, e ne accrescevano grandemente la forza. Presso di noi invece erano state da essa affatto escluse, il che fu causa di debolezza dapprima, e più tardi anche della rapida decadenza dei nostri Comuni. Questi sono due punti sui quali i politici italiani non riuscirono mai a portare la loro attenzione.

Ed ora, continuando, il Machiavelli cerca avvicinarsi sempre meglio alla realtà delle cose, e descriverla anche più fedelmente. «La Germania è tutta divisa fra i comuni ed i principi, che sono nemici fra di loro, ed insieme nemici dell'Imperatore, cui non vogliono dar troppa forza, perchè non domi il paese loro come in Francia hanno fatto i re. E questo si capisce da tutti; ma pochi capiscono per qual ragione le città libere della Svizzera si dimostrino così avverse, non solo ai principi ed all'Imperatore, ma anche alle comunità della Germania, con le quali hanno pur comune l'amore della libertà, ed il bisogno di difendersi dai principi. La ragione vera è che gli Svizzeri non sono nemici dei principi e dell'Imperatore solamente, ma anche dei nobili che sono in Germania, non però del loro paese, dove si gode, senza distinzione alcuna d'uomini, fuori di quelli che seggono nei magistrati, una libera libertà. Così avviene che questi gentiluomini fanno ogni opera per tenere le loro comunità divise dalle svizzere. Da un altro lato l'Imperatore, il quale è avversato dai principi, aiuta contro di loro le comunità, che sono il nerbo della Germania; e così essi si trovano deboli, perchè doppiamente combattuti, e perchè i loro Stati si dividono nelle successioni. Se a ciò si aggiungono le guerre dei principi e dei comuni fra loro, di questi con quelli, degli uni e degli altri coll'Imperatore, si capirà come, sebbene sia assai grande la forza di quel paese, venga poi assai indebolita nel fatto.»

Tutte queste considerazioni trovansi, quasi con le stesse parole, così nei Ritratti, che poco altro contengono, come nella seconda metà del Rapporto. Esso però, che è, come vedemmo, quasi una relazione d'ufficio, incomincia col parlar delle condizioni presenti degli affari, e del carattere dell'Imperatore, di cui dice che, non ostante la sua apparente grandezza e potenza, trovavasi difatti poi debolissimo, perchè la Germania, divisa com'era e gelosa, non gli dava mai i danari necessari. «Dicono che i suoi Stati gli rendono 600,000 fiorini d'entrata netti, e che 100,000 gliene rende il suo ufficio imperiale. Ciò basterebbe a pagare molta gente; ma invece, per la sua grande liberalità, egli è sempre senza soldati e senza danari; nè si vede dove questi ne vadano. Prè Luca (il prete Luca dei Renaldi) che è sempre presso di lui, mi disse che l'Imperatore non chiede mai consiglio ad alcuno, ed è consigliato da tutti; vuole fare ogni cosa da sè, e nulla fa a suo modo, perchè quando, non ostante il misterioso segreto in cui sempre s'avvolge, l'andamento delle cose scopre i suoi disegni, egli è subito tirato da chi gli è vicino. Questa sua liberalità e questa facilità lo fanno lodare da molti, ma son poi la sua rovina, perchè tutti ne profittano, tutti lo ingannano. E uno che gli è vicino mi disse che, sebbene una volta avvistosene, non si lascia ingannare di nuovo; pure son tanti gli uomini e tante le cose, che gli potrebbe toccar d'essere per tutta la vita ingannato ogni dì, quando anche se n'avvedesse sempre. Se non avesse questi difetti, sarebbe un ottimo principe, perchè è virtuoso, giusto ed ancora perfetto capitano. La sua venuta in Italia è spaventosa a tutti, sapendosi che con la vittoria crescerebbero i suoi bisogni, quando non avesse addirittura mutato natura. E se le frondi degli alberi d'Italia gli fossero divenute ducati, non gli basterebbero. Notate poi che dagli spessi suoi disordini nascono gli spessi bisogni, dai bisogni le spesse domande, e da queste le spesse Diete, come dal suo poco giudizio le deboli risoluzioni e debolissime esecuzioni. Se però fosse venuto, voi non lo avreste potuto pagar di Diete.»

I Ritratti delle cose di Francia sono, più che altro, pensieri staccati, scritti dopo la sua ultima legazione in Francia nel 1510. In essi tuttavia egli nota subito la forza crescente di quel paese, in conseguenza del suo grande accentramento, che risulta dalla unione e sottomissione delle diverse provincie e dei baroni alla Corona. Di qui una forza politica nell'interno, una forza militare fuori, le quali sono maggiori della forza sociale e reale del paese: il contrario precisamente di quel che aveva notato in Germania. «La nobiltà è tutta data alla vita militare, e quindi gli uomini d'arme francesi sono fra i migliori d'Europa. Le fanterie invece sono cattive, perchè composte d'ignobili e genti di mestiere, sottomessi ai baroni, e tanto in ogni loro azione depressi, che sono vili. Bisogna eccettuarne però i Guasconi, che, vicini alla Spagna, hanno dello spagnuolo, e sono un poco migliori degli altri, sebbene da qualche tempo in qua si siano mostrati più ladri che valenti. Pure fanno buona prova nel difendere ed assaltare fortezze, ma cattiva in campagna aperta. Anche in ciò sono il contrario dei Tedeschi e degli Svizzeri, i quali alla campagna non hanno pari, ma per offendere o difendere luoghi fortificati valgono poco. Queste son le ragioni per le quali i re di Francia, non fidandosi delle proprie fanterie, assoldano Svizzeri e lanzichenecchi. In sostanza sono più fieri che gagliardi o destri, e se si resiste al loro primo impeto, diventano così timidi che paiono femmine, come notò anche Cesare, il quale disse appunto, che in principio sono più che uomini, in fine meno che femmine. E però chi vuole superarli, deve intrattenerli e guardarsi dai primi loro impeti. Non sopportano i lunghi disagi; ed è facile, trovandoli in disordine, sopraffarli, come se n'è avuto esperienza nell'ultima guerra cogli Spagnuoli sul Garigliano.»

«Il paese è ricchissimo di prodotti dell'agricoltura, ma povero di danari, ogni cosa andando nelle mani dei gentiluomini e dei vescovi, i quali ultimi ritraggono due terzi delle ricchezze di quel regno, ed hanno un grandissimo potere politico, essendo assai numerosi nel consigliar la Corona. Sono i popoli di Francia umili e ubbidientissimi, ed hanno in gran venerazione il loro re. Vivono con pochissima spesa, per l'abbondanza grande delle grasce, ed anche ognuno ha qualche cosa stabile per sè. Vestono grossamente e di panni di poca spesa; non usano seta di alcuna sorta, nè loro, nè le donne loro, perchè sarebbero notati dai gentiluomini.» Ed altrove in questi medesimi Ritratti, che procedono sempre a paragrafi staccati: «La natura dei Francesi è appetitosa di quello d'altri, di che insieme col suo e dell'altrui è poi prodiga. E però il Francese ruberìa con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male e goderselo con colui a chi lo ha rubato, natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai non ne vedi niente.»

Evidentemente il Machiavelli non aveva nessuna simpatia pei Francesi nè per la Francia, che conosceva assai meglio della Germania; e di essi veramente la Repubblica non aveva nessuna ragione d'esser contenta. Di questa sua antipatìa abbiamo una riprova anche in alcuni pochi e brevi pensieri staccati, che nelle sue Opere vengono intitolati: Della Natura dei Francesi. «Sono umilissimi nella cattiva fortuna, nella buona insolenti. Sono piuttosto taccagni che prudenti. Tessono bene i loro male orditi con la forza. Sono vani e leggieri. Degli Italiani non ha buon tempo in Corte, se non chi non ha più che perdere e naviga per perduto.»

Nei Ritratti delle cose di Francia egli passa inoltre a rapida rassegna anche i varî Stati che la circondano, per dimostrare come essa non abbia molto a temere da nessuno. Accenna alle gabelle; alle entrate del paese; all'ordine del governo, dell'esercito, delle Università, della Corte, dell'amministrazione, e sopra tutto all'arbitrio e potere regio, che è quasi illimitato. Sono notizie rapide, brevi, staccate, come appunti presi in viaggio. Ma quello che sopra tutto richiama la nostra attenzione, qui come negli scritti sulla Germania, è la continua, quasi involontaria, irresistibile tendenza dell'autore a coordinar sempre le notizie particolari che ha raccolte, intorno a pochi fatti generali, quali sono la natura del paese, il carattere del popolo, l'indole del governo. Questi fatti generali divengono poi il centro da cui partono ed a cui tornano le sue osservazioni più speciali e minute, e spiegano così le condizioni sociali e politiche del paese che egli esamina. In Francia il Machiavelli si ferma ad osservare che tutti gli uomini, tutte le attività nazionali sono raccolte, accentrate sotto l'unità di un solo comando, e ne vede nascere aumento di forza politica e militare; ma non gli sfugge, che tutto ciò può a lungo andare essere pericoloso, perchè ne rimane sacrificata la libertà individuale, e le moltitudini ne restano oppresse. Dopo trascorsi più secoli, dopo tanti casi diversi e clamorosi, dopo tante rivoluzioni, questo suo giudizio resta sempre verissimo. Anche oggi la Francia soffre del suo accentramento, assai più antico che non si crede, come dimostrò il Tocqueville, e come si vede qui nel Machiavelli; anche oggi dura tuttavia quella eccessiva potenza del clero che egli osservava allora. Perfino la grande estensione della piccola proprietà, su cui tanto s'è scritto, che tanti han dichiarato conseguenza esclusiva della Rivoluzione, e però affatto moderna, ha, come notò lo stesso Tocqueville, origini assai più antiche, e neppur essa, come abbiam visto, sfuggì all'attenzione del Machiavelli. A lui in fatti non sfuggiva mai nulla che avesse una vera importanza politica e generale; era nei particolari che s'ingannava spesso, e qualche volta non li osservava addirittura.

Nel descrivere la Germania egli era invece partito dalla grande varietà dei costumi, degl'interessi, delle passioni e delle libertà locali, che, se generavano confusione, se toglievano unità d'azione, e quindi forza al governo, non spegnevano però la forza vera del paese, la quale veniva, in mezzo al disordine, alimentata dalla indipendenza individuale, dalla educazione militare. Ed anche questo è rimasto per secoli il fatto, il carattere predominante nella storia della Germania, che pur oggi mantiene la forma federativa, e dopo i tanti trionfi, dopo le tante guerre per costituire la sua unità nazionale, sostiene ancora una lotta interna a cagione dei diversi elementi che la costituiscono. V'è però un fatto assai importante, che al Machiavelli sfuggì del tutto, del quale non dice una sola parola, ed è la grande agitazione religiosa che già apparecchiava la Riforma. Ma ciò si spiega se ricordiamo che egli non dimorò mai nell'interno della Germania propriamente detta, di cui non conosceva neppure la lingua, e se ricordiamo la sua profonda indifferenza per tutte le quistioni religiose, la poca o nessuna cognizione che di esse aveva, difetto dei resto che fu comune alla maggior parte degl'italiani del suo tempo.

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