CAPITOLO XVI.

Governo dei Medici in Firenze. - Strettezze del Machiavelli. Sua corrispondenza epistolare con Francesco Vettori.

La fortuna dei Medici aumentava con una maravigliosa rapidità non solo in Firenze, ma in tutta Italia. Già da ogni parte accorrevano gli uomini di lettere a Roma, per circondare il novello Papa, da cui speravano il ritorno del secol d'oro. Fra di essi egli scelse subito a suoi segretari il Bembo ed il Sadoleto, letterati allora celebratissimi. I suoi primi atti annunziavano tolleranza e pace. A Firenze, come abbiam visto, furono per sua volontà assoluti i sospetti d'aver partecipato alla congiura. Il matrimonio patteggiato coi Soderini tra la figlia di Gian Vittorio e Lorenzo dei Medici, non si potè mandare ad effetto, per l'opposizione assai viva che fece l'Alfonsina, madre di questo. Il Papa credette però d'avere aggiustato la cosa, facendo sì che la fanciulla Soderini sposasse invece Luigi Bidolfi, suo nipote per parte di sorella. Con ciò egli non riuscì nel suo intento pacifico, come pur troppo si vide più tardi; ma per allora nulla fu turbato, ed in apparenza tutti furono contenti. L'ex-gonfaloniere potè tornare in Italia, prender casa in Roma, ed anche i suoi parenti tornarono dal confine. I cardinali di San Malò, Santa Croce, San Severino furono reintegrati. Da Firenze, oltre i due oratori Iacopo Salviati e Francesco Vettori, già residenti in Roma, partiva un'ambascieria solenne di dodici cittadini per rallegrarsi della nuova elezione. Si moltiplicava poi ogni giorno il numero dei cittadini, che per conto loro andavano a rallegrarsi ed a chiedere favori, tanto che Leone X ebbe ad esclamare, che in così gran moltitudine ne aveva trovato due soli, uno dei quali, il Soderini, sommamente savio, l'altro, un tal Carafulla, sommamente pazzo, che gli avevano raccomandato la Città e non i loro personali interessi.

Fra gli accorsi, com'è ben da credere, non mancarono i parenti del Papa. Giulio de' Medici, che arrivò tra i primi, fu fatto arcivescovo di Firenze, essendo morto Cosimo de' Pazzi, e più tardi, sebbene da tutti ritenuto figlio illegittimo, fu cardinale. Giuliano venne eletto capitano e gonfaloniere di Santa Chiesa; feste grandi e solenni si fecero a Roma in suo onore; sposò poi Filiberta di Savoia, e fu così duca di Nemours, il che lo alienò sempre più dal governo di Firenze, al quale non parve mai molto inclinato. Dato oltre misura ai piaceri dei sensi, che lo avevano fisicamente indebolito, aveva un'indole fantastica, che gli faceva perdere gran tempo nella investigazione del futuro: non mancavano però in lui vaghe, qualche volta anche grandi ambizioni, e neppure impulsi generosi. Di questi s'ebbe una prova quando il Papa voleva dargli il ducato d'Urbino, levandolo colla forza a Francesco Maria della Rovere. Giuliano ricusò l'offerta, perchè nell'avversa fortuna era stato colà ospitato, più tardi anche beneficato dal Della Rovere, e non voleva pagarlo ora d'ingratitudine. A Lorenzo invece piaceva il governare Firenze; ma avrebbe voluto farla da padrone assoluto, il che non era possibile, onde anch'egli ben presto se ne stancò. Era stato qualche tempo a Roma, in compagnia di Iacopo Salviati suo parente, mandato colà ambasciatore per allontanarlo da Firenze, dove era tenuto troppo amico degli ordini liberi. Tuttavia non si osò contraddirgli, quando decisamente non volle più restare lontano, e così tornossene ora insieme con Lorenzo. A questo il Papa credette opportuno dare alcune istruzioni, scritte di propria mano, sul modo di governare la Città con prudenza. «Tu devi,» gli diceva in esse, «introdurre in tutte le principali magistrature, quanto più potrai, uomini tuoi. Cerca di essere bene informato come vanno fra loro d'accordo i Signori, al che sarà buono strumento Niccolò Michelozzi.» Questi, che era il successore del Machiavelli, doveva dunque far quasi da confidente e da spia. «Quando ti sia necessario, per cedere alle raccomandazioni, adoperare persone di cui tu non ti creda sicuro, fa' che almeno non sieno nè di molto animo, nè di molto ingegno. Sopra tutto poi devi assicurarti degli Otto e della Balìa, ed avere fra essi, come facevo io, chi ti riferisca ogni cosa minutamente.» Infatti agli Otto erano deferite le cause di Stato, e la Balìa era adesso come in passato lo strumento fidato e principalissimo con cui i Medici avevano potuto governar da padroni la Repubblica. «Bisogna,» così concludeva il Papa, «disarmare la Città; aver cura delle spie; soddisfare coi minori uffici le ambizioni di coloro che non possono essere dei Signori; usare molta giustizia ai poveri ed ai contadini; non impacciarsi d'alcuna causa civile di dare e avere. Importa molto eleggere negli uffici del Monte uomini sottili, segreti e fidati, che sieno tuoi, perchè esso è il cuore della Città.» Più volte i Medici avevano nei casi di bisogno, senza scrupolo alcuno, messo le mani nel pubblico danaro, e quindi Leone X indicava e raccomandava il modo d'assicurarsi del Monte, in queste istruzioni che compendiano mirabilmente la politica tradizionale della famiglia.

La conseguenza ultima degli accorti consigli era sempre la stessa. Lorenzo doveva cercar di rimettere le cose come stavano prima del 1494, cioè con tutte le apparenze d'una forma repubblicana efimera, ma con una Balìa che gli desse modo di fare entrar nei magistrati chi egli voleva. Per ora lo squittinio generale degli eleggibili era già fatto e non occorreva rinnovarlo. Venne ricostituito il Consiglio dei Settanta, già ordinato nel 1482 da Lorenzo il Magnifico, come pure il vecchio Consiglio dei Cento, che si rinnovava di sei in sei mesi, e nel quale si deliberavano imposte, provvisioni di denaro ed altre leggi più gravi, cose tutte che dovevano prima essere approvate dai Settanta. Per dare poi esca a tutte le ambizioni, si trassero di tanto in tanto dalle borse anche coloro che dovevano formare i Consigli del Popolo e del Comune, ai quali venivano portate le petizioni dei privati cittadini, sempre però dopo che le avevano discusse i Settanta. E finalmente, per sempre più tornare in tutto alla forma anteriore al 1494, si sostituirono gli Otto di Pratica ai Dieci della guerra. In sostanza però tutte queste non erano adesso, come seguì sempre sotto i Medici, altro che semplici lustre. Di fatto governarono la Balìa ed i Settanta.

Bisognava però navigare di continuo fra scogli infidi, ed essere molto cauti, massime perchè, dopo che fu eletto Papa il cardinal Giovanni, nessuno dei Medici restati in Firenze aveva l'autorità personale necessaria a mantenersi sicuro in condizioni così difficili ed incerte; e neppure avevano la voglia di darsi gran pena per riuscirvi. L'arcivescovo Giulio pensava ormai a grandezza ecclesiastica, e sognava anch'egli il papato, cui più tardi arrivò; Giuliano fantasticava grandi e nuovi disegni, ed i suoi cortigiani discorrevano persino di volerlo vedere, nelle prossime complicazioni politiche, re di Napoli. Lorenzo, assai giovane, era di natura ambizioso e prepotente; ma da una parte il Papa gl'imponeva prudenza, e dall'altra, quando appena mostrò qualche voglia di farla da vero padrone, fu subito da diverse parti, specialmente da Iacopo Salviati, avvertito che stesse attento, perchè quella non era via da potere, a lungo andare, riuscire in Firenze. Tutto ciò gli faceva preferire il tornarsene a fare il nipote del Papa, piuttosto che avere la sola apparenza del comando, con l'obbligo di usare a tutti ed in tutto mille rispetti, quando in Roma non «ne aveva uno al mondo.» Leone X però voleva, che il dominio della Toscana rimanesse in mano de' suoi, perchè così cresceva di molto la sua autorità appresso i principi italiani e stranieri. Quindi le cose continuarono in Firenze a dondolarsi un pezzo fra la repubblica e il dispotismo.

Questo era uno stato di cose attissimo a solleticare le speranze del Machiavelli, ed a porre in moto la sua fantasia. Una volta che i Medici, di buona o di mala voglia, accettavano il potere sotto forma d'un alto protettorato della Repubblica, e che ciò soddisfaceva il desiderio universale della Città, a lui pareva facile cosa escogitar combinazioni nuove, con le quali, contentando l'ambizione dei padroni, si potesse anche salvare la libertà per l'avvenire. Anzi, la maravigliosa fortuna del Papa poteva dar modo d'aggiustare una volta per sempre le cose d'Italia. E si sentiva quindi disposto a dar mille consigli opportuni; quasi anzi gli pareva strano che non si fosse già pensato di ricorrere a lui, il quale aveva a tempo del Soderini dimostrato quanto poteva e sapeva essere utile agli altri, quanta fede si poteva in lui riporre. Non vedeva come, appunto per essere egli l'uomo del caduto governo, non era facile che lo cercassero e lo accettassero coloro che quel governo avevano abbattuto. Se coi Soderini, ricchi e potenti, che avevano fra loro un cardinale, si doveva desiderare accordo, non c'era nessuna ragione da temere di un segretario ed usargli riguardo alcuno. Infatti il vuoto si faceva ora rapidamente intorno a lui, ed egli, a suo grande sconforto, si trovava abbandonato, costretto a marcire nell'ozio e nella miseria. Povero addirittura non possiam dire che fosse; ma il modesto patrimonio avito, che nel 1511 era, per accordo col fratello Totto, venuto a lui, non gli fu dato certo senza compenso, nè, come vedemmo, era libero da debiti. Nell'ottobre 1513 troviamo infatti la quietanza d'un pagamento, fatto in più rate, per la grossa somma di fiorini mille, data in nome suo e di Totto. In sostanza egli rimaneva appena col necessario alle primissime necessità d'una famiglia ormai non piccola, avendo allora moglie, una figlia e tre figli maschi: un altro ne ebbe nel settembre del 1514. «Povero e carico di figlioli,» lo dice anche suo nipote Giuliano de' Ricci.

Usato a spendere piuttosto con larghezza, la improvvisa mancanza dello stipendio, ed il grosso pagamento che, come vedemmo, aveva quasi nello stesso tempo dovuto fare, lo costringevano a misurare ogni soldo, a molte privazioni, mancando qualche volta addirittura del necessario. Ciò gli era insopportabile; ma anche più duro riusciva a lui, uomo attivissimo, la forzata inerzia cui si vedeva condannato. Non aveva mai fatto la professione e la vita d'uomo di lettere; non aveva tutta quella dignitosa energia e morale fierezza di carattere, che fa quasi con gioia affrontare le avversità immeritate della fortuna. Quale speranza poteva avere per l'avvenire? Il suo stato era davvero infelice. Egli si dibatteva angosciosamente contro la sventura, e cercava invano un ufficio che gli desse guadagno ed occupazione. Ritiratosi nella sua villa a S. Casciano, sentiva da lontano le nuove dei grandi avvenimenti che seguivano in Italia, e la sua mente si esaltava febbrilmente a formulare audaci, profonde, strane meditazioni su quello che si faceva, che si sarebbe dovuto e potuto fare da veri uomini di Stato. Ma essendo tutto ciò un vano speculare, egli ricadeva poi subito nel suo abbandono desolato. S'immergeva allora nelle passioni dei sensi; rideva di tutto e di tutti; invocava il suo pungente, mordace spirito satirico, per attutire il dolore della sua umiliazione; scriveva versi che manifestavano un freddo, ironico cinismo; immaginava commedie oscene. A un tratto ricorreva invece ai poeti, agli storici antichi; passeggiava leggendo, meditando sul passato e sul presente, nel solitario bosco della sua villa. Poi si chiudeva nello studio, dimenticava la sua miseria, e scriveva alcune di quelle pagine di scienza politica, che resero per tutti i secoli immortale il suo nome. Ma di nuovo il rumore degli avvenimenti esterni richiamava la sua attenzione; di nuovo si ridestavano inutilmente il desiderio e la speranza di migliore fortuna, di pratica attività. E così la sua vita si consumava sempre fra le stesse alternative.

In questo momento il Machiavelli ebbe la sorte di trovare un amico, o per meglio dire un confidente, cui aprire tutto l'animo suo; e noi abbiamo nelle sue lettere un'esatta, fedele, eloquentissima descrizione dello stato morale in cui si trovava. Esse sono davvero un monumento di grande importanza nella letteratura del secolo XVI; giacchè vi troviamo il primo esempio di un'analisi psicologica, intima, minuta, quasi una confessione ed un esame di coscienza che i due amici fanno l'uno all'altro. Il corrispondente del Machiavelli è dall'esempio trascinato per modo ad imitarlo, che qualche volta le lettere dell'uno si confonderebbero con quelle dell'altro. Nelle lettere del Guicciardini e di molti altri contemporanei, lo spirito dello scrittore ci apparisce ancora come circondato da un denso velo; essi esaminano e descrivono solo quello che fanno, non mai quello che sentono. Il Machiavelli dimostra invece una piena coscienza di sè, un più vivo bisogno di aprire tutto l'animo suo; e quindi in lui, che pur tanto di rado nelle sue opere parlò di sè stesso, troviamo la prima veramente chiara manifestazione dello spirito moderno. Tanto più strano apparisce perciò il vedere come, in queste sue espansioni, non s'incontri mai una sola parola sulla moglie e sui figli. È questo un vincolo che lo lega ancora ai suoi tempi, nei quali gli scrittori sembravano non ammetter giammai il lettore a guardare nella più profonda intimità della loro coscienza.

Il confidente del Machiavelli era, com'è noto, l'ambasciatore Francesco Vettori, che, sebbene per la partenza del Salviati fosse restato solo a Roma, pure aveva ben poco da fare, volendo il Papa dirigere egli il governo di Firenze. Scriveva di tanto in tanto lettere alla Signoria ed agli Otto di Pratica, cercava guadagnarsi la protezione dei Medici per sè ed anche per gli amici, fra cui era il Machiavelli; ma senza affaticarsi troppo, senza mai mettere a rischio il suo interesse personale. Uomo colto e d'ingegno, di costumi assai liberi, passava ora il suo tempo in parte leggendo i classici, in parte dandosi ai piaceri dei sensi, quantunque non fosse più giovane ed avesse moglie e figlie da marito. Nè la dignità del suo ufficio lo tratteneva dal parlare e scrivere liberamente d'ogni oscenità, anzi pareva che in ciò trovasse speciale diletto. Quello che più di tutto lo legava al Machiavelli, oltre l'antica consuetudine, era la stima che faceva dell'ingegno di lui, e un ardente bisogno che aveva perciò di sentirlo ragionare sui grandi avvenimenti che seguivano alla giornata, o che si prevedevano vicini, per aver poi occasione di parlarne col Papa. Ed il Machiavelli, che assai volentieri discorreva di politica, gli rispondeva lungamente, sia per ammazzare il tempo, sia per guadagnarsi sempre più l'animo e la stima dell'ambasciatore, sperandone favore presso i potenti.

Così ebbe origine questa corrispondenza, che continuò non interrotta, specialmente negli anni 1513 e 14. Gli argomenti principali su cui essa versa, sono innanzi tutto la politica del giorno; di tanto in tanto il desiderio espresso dal Machiavelli d'avere un qualche ufficio, e le pratiche, non mai troppo calde, del Vettori per secondarlo; finalmente il racconto dei loro amori. Questo racconto, in verità, è spesso, troppo spesso, così volgarmente osceno da promuovere sdegnoso disgusto. Bisogna tuttavia ricordarsi, che i tempi erano specialmente in ciò assai diversi dai nostri. In fatto di costumi, oggi si fanno molte cose che non si dicono, ed allora se ne dicevano anche di quelle che non si facevano. Il fermarsi a parlare o scrivere d'ogni oscenità più scandalosa, massime da parte di coloro che, come il Vettori ed il Machiavelli, avevano passata la gioventù e ricevuta l'educazione fra gli eruditi, era poco meno che un lodevole esercizio letterario, un imitare gli antichi, un secondare la natura stessa. Giuliano de' Ricci, uomo timorato e vissuto più tardi, alla cui diligenza dobbiamo molte di queste lettere, dopo averle copiate, aggiungeva d'essersi con tal fatica voluto dimostrare «grato alle ossa di questi due uomini dabbene miei parenti.»

Leggendole con moltissima attenzione, e paragonando quelle del Machiavelli con le edite e le inedite del Vettori, ci siamo persuasi che in questi suoi discorsi, il secondo è molto preciso e determinato, narrando fatti a lui veramente seguìti, con una cinica franchezza che non lascia dubbio di sorta. Il Machiavelli, invece, sia per capriccio di fantasia, sia per imitare l'amico, esagera assai fatti che solo in parte son veri. Ogni volta che abbiamo potuto, con qualche sicurezza, seguire lo svolgimento delle sue pretese avventure amorose, le abbiamo vedute ridursi in proporzioni sempre minori e quasi sfumare, riuscendo in fine molto più innocenti che non parevano in sul principio. Ciò non toglie che vi resti un fondo di verità; giacchè egli non fu, nè pretese mai essere di costumi incorrotti. In quei giorni, all'Italia così infausti, pare che molti anche dei più autorevoli, cercassero, ubbriacandosi nei piaceri dei sensi, soffocare il dolore delle perdute speranze, delle illusioni svanite e delle maggiori calamità che prevedevano. Pur troppo il Machiavelli era fra questi, e cercò più d'una volta sollievo in una vita che lo degradava ai suoi, e lo degrada ai nostri occhi.

La corrispondenza incomincia il 13 marzo 1513, con la lettera in cui egli annunzia al Vettori la sua liberazione, e subito dopo, avendo ancora i segni della fune patita, aggiunge: «Tenetemi, se è possibile, nella memoria di Nostro Signore, che, se possibil fosse, mi cominciasse a adoperare o lui o i suoi a qualche cosa, perchè io crederei fare onore a voi e utile a me.»

E dopo cinque giorni, ringraziato l'amico della buona disposizione mostrata in occasione della sua prigionia, e detto che doveva la propria salvezza al magnifico Giuliano ed a Paolo Vettori, si raccomanda, di nuovo, perchè, «questi miei padroni non mi lascino in terra. E quando così non paia, io mi vivrò come ci venni, che nacqui povero ed imparai prima a stentare che a godere.» Intanto egli se la passa cogli amici da una ad un'altra donna, «e così andiamo temporeggiando in su queste universali felicità, godendoci questo resto della vita che me la pare sognare.» Ed il Vettori in risposta, senza dargli mai troppo a sperare, lo invitava a casa sua, in Roma, «dove vedremo di poter tanto ciurmare che ci riesca qualcosa; altrimenti non mancherà una fanciulla che ho vicino a casa, per passar tempo con essa.» Ma per quanto il Machiavelli cercasse di farsi animo, e si sforzasse di ridere con l'amico, non poteva nascondere il suo sgomento. La notizia ricevuta allora, che le pratiche tentate non riuscivano, lo aveva «sbigottito più che la fune.» Pure, egli aggiungeva, «se non si può rotolare, voltolisi, che io non ne piglierò passione alcuna.» Ma non è appena il magnifico Giuliano arrivato a Roma, che egli si raccomanda di nuovo al Vettori, perchè o direttamente o per mezzo del Cardinal Soderini s'adoperi a suo favore. «L'occasione è ottima, e se la cosa vien condotta con destrezza, non è possibile che non si riesca a farmi adoperare, se non in Firenze, almeno per conto di Roma e del pontificato, nel qual caso io dovrei esser meno sospetto.» E nella stessa lettera dà ragguaglio della poco onesta brigata in mezzo a cui vive, la quale radunasi nella bottega di Donato del Corno, di cui parla in modo da far credere che tenesse un ridotto d'ogni vizio. Ad un tratto egli non sa più frenarsi, e come disperato esclama:

Però se alcuna volta io rido o canto,

Facciol, perchè non ho se non quest'una

Via da sfogare il mio angoscioso pianto.

E di nuovo muta discorso.

Qui noi dobbiamo notare, che ci deve essere grande esagerazione anche nel modo in cui parla di questo Donato del Corno e della sua bottega. Il Ricci dice semplicemente, che era «uomo piacevole e facoltoso, e nella sua bottega si riducevano molte persone, e particolarmente Niccolò Machiavelli, di cui egli era amicissimo.» Doveva infatti essere ricco ed ambizioso, giacchè potè fare un prestito di 500 ducati allo stesso Giuliano de' Medici, quando venne in Firenze; e più tardi faceva, per mezzo del Machiavelli, sapere al Vettori, che avrebbe dato 100 ducati a chi lo avesse fatto eleggere dei Signori. Il Vettori non riuscì a nulla, ma il del Corno fu nel 1522 eletto, «forse,» osserva il Ricci, «con minor procaccio e spesa.» Ora se tutto ciò prova che egli era anche un intrigante, è chiaro che, per riuscire ad essere dei Signori, doveva goder di qualche reputazione, e non poteva nella sua bottega tenere un ridotto dei più bassi vizî.

Dall'aprile sin quasi alla fine dell'anno, le lettere del Machiavelli sono assai più serie e gravi, perchè, salvo poche eccezioni, versano principalmente sulla politica. Egli s'era allora tutto immerso nello studio; scriveva, come vedremo, il Principe; lavorava anche ai Discorsi, e però non dava più ascolto al Vettori, che lo chiamava e lo spronava sempre agli osceni e burleschi racconti. Il 23 di novembre l'ambasciatore, narrandogli la vita che faceva in Roma, lo invitava da capo ad andare colà. «Ho fatto una raccolta di storici, Livio, Floro, Tacito, Svetonio ed altri molti, coi quali mi passo tempo. Considero che imperatori ha sopportato questa misera Roma, che già fece tremare il mondo, e non mi fa più maraviglia che abbia sopportato due pontefici come sono stati i passati. Ho qui nove servitori, e vedo pochissima gente; scrivo qualche lettera ai Dieci, più per parere che altro, non essendovi affari. Ho vissuto nella state molto sobrio, temendo della febbre; ma ho pur sempre avuto d'intorno alcune donne. A questa vita adunque io v'invito. Voi non avreste altra faccenda che girare e vedere, tornare a casa e darvi bel tempo.» Il Machiavelli pare che non gli desse molta retta; ma il Vettori tornava alla carica, ed il 24 dicembre gli fece una lunga storia de' suoi amorazzi, delle tresche, delle scene seguìte in casa sua, che a lui parevan comiche, sebbene facesse le viste di vergognarsene, come sconvenienti al suo grado, alla sua età, e volesse aver l'aria di chiedere consiglio al Machiavelli. Questi finalmente, dopo essere stato in tanti modi stuzzicato, s'abbandonò, e in due lettere del 5 gennaio e del 4 febbraio 1514, sciolse ogni freno alla lingua. Noi non possiam certo qui ripetere le sue parole. Egli ritorna sulle scene descritte dal Vettori; le vede dinanzi a sè; fa muovere, gestire e parlare tutti i personaggi con una vivacità veramente comica, degna proprio del Boccaccio, che qualche volta riesce a superare. Poi conchiude: «E poichè chiedete il mio avviso, come colui che attendo a femmine, e ho sofferto dalle frecce d'amore, io vi consiglio di levargli ogni freno, ed abbandonarvi a lui senza pensare a quel che dicono, come ho fatto io, che l'ho seguitato per valli, boschi, balze e campagne, ed ho trovato che mi ha fatto più vezzi, che se io lo avessi stranato.» E così continuarono ancora.

Ma le strettezze economiche in cui il Machiavelli si trovava, gli fecero di nuovo passare la voglia di ridere. «Io ho a capitare sotto gli uffiziali del Monte,» scriveva egli il 16 aprile 1514, «con nove fiorini di decima e quattro e mezzo d'arbitrio. M'arrabatto il meglio che posso, e se voi potete scrivere una lettera, che faccia fede della impossibilità mia, me ne rimetto a voi.» Ed il Vettori scrisse in favore dell'amico, affermando che esso era «povero e buono, e dica chi vuole altrimenti, chè in fatto è così, ed io ne posso far fede. Lui ed io abbiamo fatto in modo che ci siamo aggirati assai, senza metter mai un soldo in avanzo. Trovasi con grande gravezza, con poca entrata e senza un quattrino e carico di famiglia.» E queste condizioni non migliorarono punto, giacchè il 10 giugno dello stesso anno il Machiavelli scriveva disperato al Vettori: «Starommi dunque così tra i miei cenci, senza trovare uomo che della mia servitù si ricordi, o che creda che io possa essere buono a nulla. Ma egli è impossibile che io possa star molto così, perchè io mi logoro, e veggo che sarò costretto, se Dio non mi aiuta, a pormi per ripetitore, o ficcarmi in qualche terra deserta a insegnare a leggere ai fanciulli, lasciando la mia brigata come se fossi morto, perchè essa starà meglio senza di me, che le sono d'aggravio, essendo avvezzo a spendere e non potendo far senza spendere. Spero che non vi scriverò più di questa materia, come odiosa quanto ella può.» Pure vi tornò ancora, e tornò anche a parlare di qualche altro suo amore. Ma ora lasciamo l'ingrato tema per venire a quello che è il soggetto principale di queste lettere, cioè alle considerazioni e discussioni sugli avvenimenti politici del giorno.

Ferdinando il Cattolico, dopo la morte d'Isabella, non era restato senza inquietudini nella Spagna, dove egli manteneva l'ordine colla forza e coll'occupare di continuo i sudditi in imprese esterne. Recentemente aveva fatto uno de' suoi soliti colpi astuti ed arditi. Profittando dell'arrivo di 10,000 Inglesi, venuti per combattere insieme con lui la Francia, egli chiese il passaggio per la Navarra, col temporaneo possesso delle fortezze; e non essendo stata favorevolmente accolta una così strana domanda, s'impadronì addirittura del paese. Gl'Inglesi allora si ritirarono sdegnati; i Francesi volevano vendicare lo spodestato principe, ma poi finirono col ritirarsi anch'essi. Nell'aprile del 1513 questi conclusero colla Spagna una tregua, che doveva durare un anno, nei paesi al di là delle Alpi. Di siffatta tregua nessuno sembrava allora capire lo scopo, e nessuno era contento. Con essa Luigi XII abbandonava la Navarra, e lasciava a Ferdinando il tempo per consolidarne la conquista; ma nello stesso tempo restava libero a continuare la guerra in Italia, senza pericolo d'essere assalito alle spalle. E però gli alleati si dicevano traditi dalla Spagna; ed i loro malumori crebbero a dismisura quando, poco dopo l'elezione di Leone X, si seppe che la Francia s'era accordata con Venezia (21 marzo) per ricominciare la guerra in Lombardia. I Veneziani, i quali volevano ripigliare le terre che loro erano state tolte colà, misero l'esercito sotto il comando di Bartolommeo d'Alviano, liberato allora dalla sua prigionia in Francia, e questa che voleva riprendere la Lombardia, mandò un esercito sotto il comando del La Trémoille e del Trivulzio. Il Papa, scontentissimo della Spagna, era anche più scontento della Francia, che aveva fatto alleanza con Venezia, senza prima interrogar lui, che delle cose d'Italia voleva essere tenuto Signore. L'esercito francese passò subito le Alpi, e rapidamente s'impadronì del ducato di Milano; ma nello stesso tempo scendevano gli Svizzeri che, col favore del Papa, erano stati assoldati pel Duca dal suo accorto segretario Girolamo Morone. A Novara (6 giugno), con maraviglia universale, essi dettero una solenne disfatta ai Francesi, che, fuggendo, si ritirarono dall'Italia. E così gli Svizzeri, che erano venuti a difesa del Duca, di fatto si trovarono ora come padroni di Milano. La Spagna, l'Imperatore ed il Papa furono allora addosso a Venezia, di cui disfecero l'esercito, arrivando fino a Mestre; e la Francia fu, nello stesso tempo, assalita nel suo proprio territorio da Tedeschi, Inglesi e Svizzeri, che la ridussero a mal partito. Finalmente Luigi XII, trovandosi costretto a più miti consigli, accettò la pace che gli fu offerta dal Papa, disdisse il Conciliabolo, e si sottomise al Concilio laterano.

Questo fu il momento, in cui Leone X entrò a capofitto nei garbugli politici, e cominciò a far conoscere davvero il suo falso carattere. Eletto papa in età di 37 anni appena, aveva pei suoi modi cortesi, per la fama con molta accortezza guadagnata di bontà e d'ingegno, destato in tutti le più liete speranze. Quando però si vide che incominciava anch'egli, senza scrupoli, anzi in modo veramente scandaloso, a crear nuovi cardinali (ne creò allora quattro, fra i quali due suoi parenti ed il Bibbiena; più tardi, trentuno in una sola volta); che seguiva con tutti una politica d'altalena e di malafede; che non solo voleva ingrandire il territorio e l'autorità della Chiesa, ma anche formare in qualche parte d'Italia uno Stato nuovo per Giuliano, ed un altro per Lorenzo, allora l'opinione che di lui s'era formata, andò rapidamente mutando. E quando lo videro trattar contemporaneamente con Francesi, Svizzeri, Spagnuoli e Tedeschi, pronto sempre ad ingannar tutti, ed allearsi con uno Stato nel tempo stesso che cercava d'allearsi con altri contro di esso, cominciò a manifestarsi una generale diffidenza. «Vedendosi,» così osserva il Vettori, «che il Papa rompeva i giuramenti, e faceva oggi una costituzione e domani vi derogava, cominciò a perdere il nome di buono; e benchè facesse molte orazioni e digiunasse spesso, non gli credevano più. E certo è gran fatica volere essere signore temporale e uomo di religione, perchè chi considera bene la legge evangelica, vedrà che i pontefici, pure tenendo il nome di vicari di Cristo, hanno indotto una nuova religione, che di Cristo ha solo il nome; perchè egli comandò la povertà e loro vogliono le ricchezze, comandò la umiltà e loro seguitano la superbia, comandò la ubbidienza e loro vogliono comandare a ciascuno.» Si può bene immaginare che cosa dovessero pensare gli altri, se questo era il linguaggio dell'ambasciator fiorentino a Roma, dell'amico, del fautore dei Medici, che con tanta premura consultava il Machiavelli, sulle condizioni politiche dell'Europa, per poter poi, valendosi delle considerazioni che egli faceva, entrare sempre più in grazia di Leone X.

Gli avvenimenti ai quali abbiamo qui sopra accennato, erano tali veramente da far girare ogni più fermo cervello. Il Vettori ed il Machiavelli li seguivano nelle loro lettere di passo in passo, e ne ragionavano minutamente. Il primo cominciava col dire di non volere più discorrere di politica, vedendo come tutto era ornai guidato dal caso e non dalla ragione. Ma il Machiavelli rispondevagli il 9 aprile 1513: «Lo stesso è avvenuto a me; pure se vi potessi parlare, non farei altro che empirvi la testa di castellucci, perchè la fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare dell'arte della seta, nè dell'arte della lana, nè de' guadagni, nè delle perdite, e' mi conviene o star cheto o ragionare dello Stato.» Fu sopra tutto la notizia della tregua inaspettata fra la Spagna e la Francia, quella che faceva almanaccare il Vettori, il quale scriveva d'essere una mattina restato a letto due ore più del solito, cercando e non trovando le ragioni che potevano avere indotto la Spagna a concluderla. Esponeva poi al Machiavelli i propri dubbi, chiedendo il giudizio di lui, «perchè a dirvi il vero, senza adulazione, l'ho trovato in queste cose più saldo che di altro uomo col quale abbia parlato. Se la tregua è vera, bisogna dire che il re di Spagna non è quel savio che si predica, o che gatta ci cova, o che vogliono dividersi fra loro questa povera Italia. Più io entro in questa girandola, e meno posso assettarmela in testa. Vorrei proprio che potessimo andare insieme dal Ponte Vecchio per la via dei Bardi insino a Castello, e discorrere che fantasia sia quella di Spagna. Ora appunto che ha avuto vantaggio sopra i Francesi, li lascia liberi di far la guerra in Italia, donde vorrebbe cacciarli. Se si sentiva troppo debole, era meglio cedere loro addirittura Milano, piuttosto che metterli in grado di prendersela colle proprie armi.»

Il Machiavelli era di diverso avviso, sebbene la lettera del Vettori gli fosse tanto piaciuta, da fargli, come egli scriveva, dimenticare le sue infelici condizioni. «Parmi esser tornato in quelli maneggi, dove ho invano tante fatiche durato e speso tanto tempo. Io penso che il re di Spagna sia stato sempre più astuto e fortunato che prudente. E come non voglio senza ragione lasciarmi muovere da nessuna autorità, e non bevo paesi, così non credo che nella tregua ci sia altro che quello ci si vede, e penso che la Spagna potrebbe avere errato, intesala male e conclusala peggio. Ma nel caso presente la tregua si spiega anche ritenendo che il Re sia stato savio. Egli ha fatto l'accordo, perchè vide assai deboli in suo aiuto gli alleati, perchè il suo paese è stracco ed esausto, e i suoi migliori soldati si trovano in Italia. Se cedeva Milano, avrebbe reso potentissima la Francia sempre sua nemica, e irritato assai più gli alleati. Con la tregua, invece, apre loro gli occhi, si leva la guerra di casa, e mette in disputa ed in garbuglio le cose d'Italia, dove egli vede materia da disfare e osso da rodere; e spera che il mangiare insegni bere ad ognuno. I confederati, costretti alla guerra, basteranno di certo, se non ad impedire la conquista di Milano, a fermare la Francia. E secondo me, il fine che il re di Spagna s'è proposto, è stato appunto di costringere con la tregua l'Inghilterra e l'Imperatore a far guerra davvero, o almeno ad aiutarlo efficacemente. Egli ha sempre comandato Stati nuovi e sudditi altrui. Ora uno dei mezzi coi quali questi Stati si tengono, e gli animi dubbi di questi sudditi si guadagnano o si lasciano almeno sospesi, è appunto il dare grande aspettazione di sè circa il fine cui mirano le nuove imprese. Così fece il Re nelle imprese di Granata, di Africa e di Napoli; giacchè il suo vero scopo non fu mai questa o quella vittoria, ma il darsi reputazione appresso ai popoli, e tenerli sospesi nella moltiplicità delle faccende. E però è animoso datore di principii, a' quali dà poi quel fine che gli mette innanzi la sorte, e che la necessità gl'insegna; e finora non s'è potuto dolere nè della sorte nè dell'animo.»

Gli eventi dimostrarono che il Machiavelli aveva avuto ragione, e inteso mirabilmente quale scopo re Ferdinando s'era proposto colla tregua. Il Vettori stesso lo riconobbe ben presto, scrivendogli che la lettera gli era molto piaciuta nel riceverla; ma assai più quando essa aveva dai fatti ricevuto sicura conferma. Non ostante ciò, egli non era anche tranquillo, nè vedeva chiaro a quale cammino andassero le cose. «Vinca pure chi vuole, o Francesi o Svizzeri, e se non basta questo, venga il Turco con tutta l'Asia, e colminsi a un tratto le profezie, che, a dirvi il vero, io vorrei che quello ha a essere fosse presto, e oltre a quello che ho visto vedrei volentieri più là. Nè mi maraviglierei se tra un anno il Turco avesse dato a questa Italia una gran bastonata, e facesse uscire di passo questi preti, sopra di che non voglio dir altro per ora.»

Il 12 luglio egli tornava da capo alla politica generale. «Vorrei proprio essere con voi, per vedere se potessimo nella nostra fantasia assettare questo mondo, il che mi pare assai difficile. Il Papa vuol mantenere la Chiesa e non diminuire lo Stato suo, salvo il caso di dar grandezza ai nipoti. E ciò si conferma osservando quanto poco essi pensino a Firenze, il che è segno che mirano a Stati che siano più fermi, e dove non abbino a pensare continuo a dondolare uomini. L'Imperatore non ha mai dimostrato molta forza; ma è pur sempre tanto stimato dai principi, che mi converrebbe dare il cervello a pigione per giudicare di lui come fanno gli altri. Egli muta di guerra in guerra, d'accordo in accordo, per arrivare al suo fine, che è di posseder Roma e tutto il territorio della Chiesa, come vero e legittimo Imperatore. Questo lo giudico dalle parole sue, le quali egli disse in mia presenza e di altri. La Spagna vuol tenere Castiglia e Napoli; l'Inghilterra è gelosa della Francia; gli Svizzeri che io stimo più di tutti i re, vogliono avere Milano a posta loro. Stando così le cose, vorrei che voi mi assestassi colla penna una pace, dicendo chi e come dovrebbe cedere parte de' suoi desideri; giacchè ora la maggior faccenda che io abbia è lo starmi, essendomi venuto a noia anche il leggere.»

Noi non abbiamo la risposta del Machiavelli a questa lettera; ma il 20 giugno egli aveva già scritto quale era il suo avviso sul quesito che ora gli veniva fatto. Se fossi il Papa, egli diceva, avrei stretto accordo con Francia, Spagna e Venezia, dando alla prima il reame di Napoli, alla seconda il ducato di Milano, ed alla terza Vicenza, Verona, Padova e Treviso. «Così si leverebbe da Milano un duca posticcio, e resterebbero scontenti solo l'Imperatore e gli Svizzeri; ma questa comune paura dei Tedeschi sarebbe la mastice che terrebbe uniti gli alleati.» Il Vettori voleva invece lasciare lo Sforza a Milano, per non far troppo potente la Francia, di cui era meno fautore che non fosse il Machiavelli, e restituire ai Veneziani le loro terre. Così, egli diceva, l'Italia sarebbe tutta unita contro gli Svizzeri, dei quali non temeva poi troppo la potenza, perchè non credeva come lui che volessero, a similitudine degli antichi Romani, far colonie e conquistare: «a loro basta dare una rastrellata, toccar danari e ritornarsi a casa. Se la Francia lascia la Lombardia, io veggo l'Italia in pace, ed alla morte del re Cattolico il reame andare ad un figlio del re Federigo, e tutto tornare nei termini antichi. Altrimenti c'è il caso che per la discordia dei Cristiani ci venga addosso il Turco per terra e per mare, e faccia uscire questi preti di lezî, e gli altri uomini di delizie: e quanto più presto fosse, tanto meglio, che non potresti credere quanto mal volentieri mi accomodo alla sazievolezza di questi preti, non dico del Papa, il quale, se non fosse prete, sarebbe un gran principe.»

Il Vettori aveva l'ubbìa del Turco, come il Machiavelli aveva quella degli Svizzeri, oltre di che questi non credeva punto che, allontanandosi la Francia, gl'Italiani s'unirebbero mai fra di loro. «Quanto all'unione degl'Italiani,» egli scriveva, «voi mi fate ridere, primo perchè non ci fia mai unione veruna a fare bene veruno; e sebbene fossino uniti i capi, non sono per bastare, sì per non ci essere armi che vagliano un quattrino, dalle spagnuole in fuori, e quelle per esser poche non possono essere bastanti; secondo, per non essere le code unite coi capi.... Quanto al bastare agli Svizzeri dare rastrellata e andar via, vi dico che voi non vi riposiate, nè confortiate altri che si riposi in simili opinioni.» «Agli uomini, massime nelle repubbliche, basta prima difendersi; poi si sale all'offendere ed al voler dominare gli altri. Così agli Svizzeri bastò prima difendersi da chi voleva opprimerli; poi andarono agli stipendi, il che ha messo loro nell'animo uno spirito ambizioso di dominare per proprio conto. Ora sono entrati in Lombardia sotto colore di rimettervi il Duca, ed in fatto sono loro il Duca. Alla prima occasione saranno in sulle picche e faranno da padroni, e poi scorreranno l'Italia. Io so bene che gli uomini vogliono vivere dì per dì, e non credono che possa seguire quello che non è mai stato, e vogliono sempre far conto di uno a un modo. Pure, compare mio, questo fiume tedesco è sì grosso che ha bisogno di un argine grosso a tenerlo. Bisogna provvedere prima che s'abbarbichino, e comincino a gustare la dolcezza del dominare, che allora tutta Italia sarà spacciata.»

Il Vettori gli rispondeva il 20 agosto, facendogli un quadro generale dello stato delle cose, per tornare a sostenere di nuovo la sua tesi: «L'Imperatore va, come suole, di guerra in guerra, e di pratica in pratica; il duca di Milano si lascia portare da quella sua fortuna a balzelloni, ed è come i re delle nostre feste, che pensano di dover la sera tornare quel che erano poco prima. Quanto alla Francia, io ne fui pel passato seguace, credendola utile all'Italia ed a Firenze, che amo sopra ogni altra cosa al mondo: ne amo le case, le mura, le leggi, i costumi, tutto. I fatti poi mi hanno persuaso che il suo trionfo era a nostro danno, e quindi ho mutato opinione. Non credo che gl'Italiani siano da mettere addirittura, come voi fate, per ferri rotti, nè che gli Svizzeri possano mai divenire come i Romani, perchè se voi leggete bene la Politica, e considerate le repubbliche che sono state in passato, non troverete mai che una repubblica divulsa come quella degli Svizzeri possa fare progresso.»

Ma su questo punto il Machiavelli non voleva cedere. Pieno com'era del suo entusiasmo per le repubbliche armate, convinto sempre che l'alleanza francese fosse anche ora necessaria all'Italia, non si lasciava certo imporre dall'autorità di Aristotele. «Noi abbiamo,» egli scriveva il 26 agosto, «un Papa savio, e questo grave e rispettato; un Imperatore instabile e vario, un re di Francia sdegnoso e pauroso; un re di Spagna taccagno e avaro; un re d'Inghilterra ricco, feroce e cupido di gloria; gli Svizzeri bestiali, vittoriosi e insolenti; noi altri d'Italia poveri, ambiziosi e vili: per gli altri re io non li conosco. In modo che, considerate queste qualità, con le cose che di presente covano, io credo al frate che diceva pax, pax, et non erit pax, e vedovi che ogni pace è difficile così la vostra come la mia....» Ma io dubito che «facciate questo re di Francia troppo presto un nulla, e questo re d'Inghilterra una gran cosa. E non posso assettarmi nel capo come questo Imperatore sia sì poco considerato, il resto della Magna così trascurato, che possan patire che gli Svizzeri vengano in tanta reputazione. E quando io veggo che gli è in fatto, io tremo a giudicare una cosa, perchè questo interviene contro ogni giudizio che può fare un uomo.» Se però dubito, egli continuava, del vostro giudizio sulla Francia, son certo che v'ingannate nel giudicare gli Svizzeri. «Nè so quello che si dica Aristotele delle repubbliche divulse; ma io penso bene quello che ragionevolmente potrebbe essere, quello che è, e quello che è stato; e mi ricordo aver letto che i Lucomoni tennero tutta Italia insino all'Alpi, e insino che furono cacciati di Lombardia da' Galli.» «Nè vi fidate che gl'Italiani possano fare qualche cosa, perchè avrebbero sempre più capi e fra loro disuniti. Molto meno poi possono di fronte agli Svizzeri, perchè avete a intendere questo, che i migliori eserciti son quelli delle popolazioni armate, nè ad essi possono tener testa se non eserciti simili a loro. Io non credo già che gli Svizzeri possano fare un impero come i Romani, ma credo che possano diventare arbitri d'Italia, e perchè questo mi spaventa, ci vorrei rimediare.» «E se Francia non basta, io non ci veggo altro rimedio, e voglio cominciare ora a piangere con voi la rovina e servitù nostra, la quale se non sarà oggi nè domani, sarà a' nostri dì; e l'Italia avrà quest'obbligo con papa Giulio, e con quelli che non ci rimediano, se ora ci si può rimediare.»

Queste considerazioni del Machiavelli piacquero tanto al Vettori che, sebbene fosse di diverso avviso, pure il 3 dicembre 1514 gli espose alcuni quesiti sulla politica contemporanea, facendo chiaramente capire, che sperava riuscirgli utile, ponendo le risposte sotto gli occhi del Papa o di chi gli era più vicino. «Supponete,» egli diceva, «che la Francia voglia riprendere Milano, e s'unisca perciò, come nello scorso anno, coi Veneziani; che dall'altro lato s'uniscano Imperatore, Spagna e Svizzeri. Che cosa dovrebbe, secondo voi, fare il Papa? Discorrete e giudicate i varî partiti e le loro conseguenze. Io vi conosco di tale ingegno che, sebbene sien corsi due anni che vi levaste da bottega, non credo abbiate dimenticato l'arte.» La risposta del Machiavelli, che nelle stampe è senza data, fu quale si può facilmente immaginare dalle lettere precedenti. «Nello stato presente delle cose,» egli diceva, «io credo che la Francia può vincere, anzi vincerà dicerto, se ad essa s'unisce il Papa, il quale avrebbe tutto da perdere, nulla da guadagnare, quando preferisse accordarsi colla Spagna e cogli Svizzeri. Se questi vincessero, egli resterebbe a discrezione di loro, che vogliono dominare l'Italia, e lo terrebbero schiavo: avrebbe dall'altro lato gli Spagnuoli in Napoli. Se poi, invece, perdessero, dovrebbe andare o in Svizzera a morirsi di fame, o in Alemagna a essere deriso, o in Spagna a essere espilato. Se finalmente il Papa si unisse alla Francia, e questa vincesse, io non credo che lo taglieggerebbe, perchè essa dovrebbe pensare a Svizzeri e Inglesi, sempre vivi e sempre nemici. E quando pure i Francesi perdessero, il Papa se ne potrebbe andare nel loro paese, dove ha sempre uno Stato, nel quale furono già molti de' suoi predecessori. Lo star neutrale sarebbe in ogni caso il peggior partito, perchè lo porrebbe a disposizione d'ognuno che vincesse.» A questa lettera il Machiavelli ne aggiunge un'altra il 20 dicembre, dilucidando meglio qualche punto, e poi, quasi in forma di poscritti, una terza, lo stesso giorno, ricordando che questo era momento opportuno a tentare di farlo adoperare dal Papa in Firenze o fuori. Le prime due furono dal Vettori messe sotto gli occhi di Leone X, dei cardinali Medici e Bibbiena, i quali le ammirarono; ma altro non se ne cavò.

Tutto questo non valse a togliere il Machiavelli d'ogni speranza, anzi egli tornò di nuovo a chiedere, ma per allora sempre invano. Nei primi del 1515 la sua corrispondenza epistolare col Vettori sembra affatto sospesa, non restandoci che pochissime lettere degli anni posteriori. Si dovette forse stancare delle promesse d'un amico, che per lui aveva sempre avuto più parole che fatti. E da un altro lato le opere letterarie, cui nell'ozio forzato s'era finalmente dato, lo tenevano ormai molto occupato. Noi dobbiamo perciò chiudere adesso la prima parte di questa biografia per cominciare nella seconda a prendere in esame le dottrine e gli scritti del nostro autore. In essi è d'ora in poi quasi esclusivamente circoscritta la sua vita. Dopo avere conosciuto l'uomo d'azione, ci resta a conoscere più da vicino il pensatore e lo scrittore, che nei precedenti capitoli abbiam visto quasi di sfuggita e da lontano.

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