CAPITOLO XV.

Ritorno dei Medici in Firenze. - Nuova forma di governo. - Persecuzioni. - Scritti del Machiavelli ai Medici. - È deposto da tutti gli ufficî. - Morte di Giulio II. - Elezione di Leone X. - Congiura e morte di Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi. - Il Machiavelli è accusato d'aver preso parte alla congiura. - Messo in carcere dove riceve alcuni tratti di fune, è poi liberato. - Suoi sonetti.

La famiglia dei Medici si trovava adesso rappresentata dal cardinale Giovanni (1475-1521), che n'era capo ed anima, notissimo più tardi col nome di papa Leone X, e da Giuliano (1479-1516), fratelli di Piero affogato nel Garigliano, e figli di Lorenzo il Magnifico. Questi soleva dire che aveva tre figli, di cui il primo (Piero) era pazzo; il secondo (Giovanni) savio, ed il terzo (Giuliano) buono. Abbiamo infatti veduto quanto era stato vano, puerile ed ambizioso Piero; quanto il Cardinale era accorto ed esperto negli affari, intelligente e fedele seguace della vecchia politica de' Medici; come finalmente Giuliano fosse fantastico, ambizioso e mite nello stesso tempo. Era poi un altro assai autorevole membro della famiglia, Giulio (1478-1534) cavaliere di Rodi, priore di Capua, più tardi vescovo, cardinale, e papa Clemente VII, figlio naturale di quel Giuliano, che fu fratello minore di Lorenzo il Magnifico, e restò nel 1478 vittima della congiura de' Pazzi. Seguivano ancora due giovanetti: un figlio di Piero per nome Lorenzo (1492-1519), che fu poi duca d'Urbino; un figlio naturale di Giuliano, per nome Ippolito (1511-1535), che fu poi cardinale. E con questi ultimi s'estinse il ramo principale dei Medici. Per ora si trovano in prima linea, sulla scena politica, il cardinal Giovanni, suo fratello Giuliano ed il cugino bastardo Giulio.

Francesco degli Albizzi andò a Prato, ed il primo di settembre condusse Giuliano nella sua casa in Firenze, dove senza indugio vennero a trovarlo i più fidi amici, fra i quali erano anche i figli di Piero Guicciardini, fratelli dello storico, che allora si trovava nella Spagna, ambasciatore della ormai caduta Repubblica. Subito una gran folla fu per le vie, al grido di palle! palle! correndo a casa Medici. Bernardo da Bibbiena, segretario del Cardinale, era in quel medesimo giorno partito in fretta da Prato per recarsi a Firenze, e non sapendo che Giuliano era andato a casa Albizzi, lo cercò con altri nell'antico palazzo dei Medici, in via Larga. Ivi, così racconta egli stesso, appena che fu arrivato, si trovò da tutti circondato, abbracciato, baciato, e non cessavano mai d'interrogarlo. Giuliano, dimostrando subito in Firenze «animo civilissimo,» secondo l'espressione del Pitti, uscì per le vie in lucco senza alcun famiglio, come privato cittadino, e per secondare sempre più il gusto dei Fiorentini si rase anche la barba.

Arrivava poi subito il Vicerè, che fu da Paolo Vettori menato in Consiglio e fatto sedere nel luogo del Gonfaloniere, donde parlò e raccomandò i Medici. Dopo di che fu raccolta una Pratica, in cui venne chiamato anche Giuliano, per decidere sul modo di riformare il governo, e si fecero proposte per quei momenti abbastanza temperate, alle quali egli subito consentì. Erano queste: il nuovo Gonfaloniere verrebbe eletto per un anno, verrebbe aumentato il numero degli Ottanta, si darebbe più largo stipendio ai magistrati; e quanto al resto pareva che restassero le antiche forme repubblicane. Intanto, perchè s'arrivasse al termine della Signoria già in ufficio, fu sino a tutto ottobre eletto Gonfaloniere Giovan Battista Ridolfi. Questi era parente dei Medici, e da molti tenuto capo degli Ottimati; pure si dimostrò non solo savio ed animoso, ma ancora non punto nemico della libertà, che anzi pareva volesse salvare. In Firenze non poteva di certo essere a un tratto spento ogni amore per la Repubblica, nè scomparsa del tutto l'avversione ai Medici, che lo sapevano, e perciò volevano e dovevano procedere molto cauti. Ma essi avevano ora in mano la forza, e gli eventi piegavano sempre più in loro favore; la paura faceva sottomettere ognuno, sicchè non era a lungo andare possibile, anche volendo, il fermarsi sulla china, di che s'avvide ben presto lo stesso Ridolfi. Soldati e condottieri spadroneggiavano minacciosi per le vie; si sentivano ogni giorno discorsi di nuovi mutamenti di governo, proposti dal Cardinale e dagli Spagnuoli. Di ciò alcuni cittadini andarono allora ad interrogare il nuovo Gonfaloniere, il quale rispose: «Che volete che facciamo? Non vedete che i nemici ci hanno messi in una botte rifondata, e agevolmente ci possono offendere pel cocchiume?»

Il disordine cresceva d'ora in ora, ed in piazza si vendevano le spoglie sanguinose dei Pratesi, il che aumentava lo sgomento di coloro che ancora amavano la libertà. Il 14 del mese entrava finalmente il Cardinale con 400 lance; seguivano con 1000 fanti Ranieri della Sassetta, Ramazzotto ed altri ben noti capi di bande, stati sempre fedeli ai Medici. Ed il Cardinale venne accolto con così gran festa che, scrivendone a Pietro da Bibbiena in Venezia, gli diceva: «In questa parte la nostra opinione fuit re ipsa longe superata Subito gli furono intorno i più decisi Palleschi, e si lamentarono che la troppa bontà di Giuliano facesse passare il tempo opportuno a un radicale mutamento, lasciando le cose a mezzo. Nè era appena entrato in Palazzo, dove Giuliano sedeva a consiglio con gli amici, che subito irruppe una moltitudine di cittadini e di soldati, i quali, saccheggiando gli argenti, al solito grido di palle! palle! chiesero che si radunasse il Parlamento, stato sempre mezzo sicuro per ottenere, sotto apparenza di libertà, tutto quello che si voleva con la forza.

Il 16, infatti, esso fu convocato in Piazza, dove vennero insieme col popolo i soldati ed i capitani così dei Medici come della Repubblica, essendo questi ultimi già quasi tutti passati ai nuovi padroni, per le grandi promesse avute. Fu creata una Balìa di 45 persone, portate poi a 65, e designate tutte dal Cardinale, alla quale venne dato l'incarico, con l'autorità stessa del popolo, di riformare il governo. E la riforma doveva consistere nel rimettere le cose allo stato medesimo in cui erano prima del 1494, restaurando cioè l'apparenza degli antichi ordini repubblicani; ma restringendo il governo effettivo e reale nelle mani della Balìa, che doveva dipendere dai Medici. Questo era stato il modo tenuto da Cosimo il Vecchio e da Lorenzo il Magnifico, quando, sotto nome di privati cittadini, s'erano fatti padroni della Repubblica; questa era la via che si voleva seguire adesso. La Balìa infatti, nonostante tutte le altre riforme che si fecero, e le vecchie istituzioni repubblicane che si finse di lasciare in vita, fu anche ora quella che veramente governò sino al 1527. «In tal modo,» è lo stesso Guicciardini che lo dice, «fu oppressa con le armi la libertà dei Fiorentini.» E Francesco Vettori, che non era meno ardente partigiano dei Medici, scriveva: «Si ridusse la Città che non si facea se non quanto volea il cardinal de' Medici. È chiamato questo modo di vera tirannide.»

Piero Soderini fu subito confinato per cinque anni in Ragusa, e il suo ritratto venne tolto dalla SS. Annunziata; Giovan Vittorio fu confinato per tre anni a Perugia; tutti gli altri Soderini, ad eccezione del Cardinale, vennero per due anni confinati a Napoli, a Roma, a Milano. Non fu perdonato neppure a Francesco Vettori l'avere accompagnato l'ex-gonfaloniere, e contribuito così a salvargli la vita. Sebbene si fosse tanto adoperato pei Medici, sebbene suo fratello Paolo fosse stato uno dei più audaci promotori del tumulto che li richiamò, pure fu ritenuto qualche tempo in carcere, ed ebbe parecchi tratti di corda. Egli se ne stette ritirato alcuni giorni fuori di Firenze, esclamando: «Or questo per amor s'acquista!» Ma ben presto tornò in grazia dei nuovi padroni. Anche un Antonio Segni, che il cardinal Soderini aveva mandato in gran fretta a raggiungere per via il fratello Piero, ad avvertirlo che correva pericolo della vita, se capitava nelle mani del Papa, ebbe in Roma la fune, e tanta che ne morì. Vennero licenziati e mutati alcuni ufficiali delle cancellerie, con altri ancora, che avevano avuto parte nel governo; l'Ordinanza fu sciolta, ristabilendone più tardi una vana e ridicola apparenza; s'impose ai cittadini un prestito di 80,000 ducati per pagare gli Spagnuoli. Intanto il Vicerè, riscosse le prime paghe, e sicuro omai del resto, aveva già fin dal 18 settembre lasciato Firenze e Prato. E qui finisce il primo periodo della rivoluzione fiorentina.

Se si riflette che era stato distrutto un governo per costituirne un altro; che i Medici erano tornati dopo l'esilio, la confisca e le persecuzioni di 18 anni, con l'aiuto delle armi straniere, deve convenirsi che, fatta eccezione del crudele ed iniquo saccheggio di Prato, opera dell'esercito spagnuolo, essi furono d'una grande mitezza. Sapevano che non si sarebbero potuti mantenere a lungo in Firenze con le vendette e col sangue; cominciarono perciò subito a cercare di farsi amici coi favori, di guadagnarsi il popolo colle feste. Ed a questo fine istituirono due compagnie, una delle quali chiamarono del Diamante, insegna di Giuliano, che ne fu il capo, e l'altra del Broncone, insegna di Piero de' Medici, il padre del giovane Lorenzo, futuro duca d'Urbino, che fu capo della seconda compagnia. Così l'una come l'altra si posero subito all'opera, e cominciarono nel carnevale a rappresentar vari trionfi, fra cui quello del Secol d'oro. I versi che in questa occasione vennero cantati per le vie, si leggono nei Canti Carnascialeschi, e li compose Iacopo Nardi. Il che merita di essere ricordato, perchè questi fu anche nei tempi più difficili e pericolosi, un costante, schietto, immutabile repubblicano; uno dei pochi allora sul cui carattere politico non cadde mai dubbio di sorta. E però il suo prender parte alle feste iniziate dai Medici nei primi mesi del loro ritorno, dimostra che questo ritorno fu accettato con maggior favore e assai più universalmente che non si crederebbe. I Medici erano adesso potenti in Italia, e si aspettava di vederli potentissimi, per la probabile elezione del Cardinale a papa, elezione che di fatto seguì dopo pochi mesi. Non si poteva negare che essi amavano Firenze, la quale cominciava perciò ad essere orgogliosa della loro crescente fortuna. Si sperava che un'ombra più o meno visibile di repubblica restasse, che i più autorevoli cittadini fossero chiamati a partecipare al governo, che tornassero i tempi di Lorenzo il Magnifico. Ed è un fatto che, partiti gli Spagnuoli, il nuovo governo non incontrò difficoltà di sorta a reggersi, non facendogli aperta opposizione neppure coloro che più erano stati amici del Soderini. Non vi furono che pochi giovani inesperti ed entusiasti, i quali, illusi nella speranza di trovar seguito, cospirarono e furon lasciati soli, abbandonati da tutti. Che più? Lo stesso ex-gonfaloniere Soderini venne, come vedremo fra poco, a patti co' Medici, con i quali si trattò anche d'imparentarsi, e potè poi tornare a Roma, dove visse tranquillo fino alla morte.

Ma che cosa pensava, e che cosa faceva il Machiavelli in questi difficili momenti? Restato sino all'ultimo fedele al Soderini, egli lo difendeva ancora; però, a dirlo subito in brevi parole, desiderava e sperava anche conservare il proprio ufficio. Il suo posto di Segretario nella Cancelleria non era certo politico; ma tale lo avevano reso l'incarico avuto presso i Nove della Milizia, le commissioni diplomatiche, la parte grandissima da lui presa nel costituire l'Ordinanza e nell'indirizzo dato al governo. Nondimeno, al pari di quasi tutti gli altri che quel governo avevano sostenuto, egli era rassegnato e disposto ad accomodarsi ai nuovi tempi coi nuovi padroni; pensava che si potesse escogitare una qualche forma di repubblica popolare sotto la protezione dei Medici, ed era pronto a servirli fedelmente, come dichiarò apertamente sin dal principio. Abbiamo infatti la copia d'una sua lettera senza data, ma che fu scritta certo poco dopo il 16 settembre, indirizzata ad una signora, di cui resta ignoto il nome, amica però, se non addirittura parente dei Medici. Secondo alcuni è la stessa Alfonsina Orsini, vedova di Piero, secondo altri, invece, la figlia Clarice, moglie di Filippo Strozzi. Ma non se ne sa nulla di sicuro, e potrebbe anche essere la minuta d'una lettera non mai spedita al suo indirizzo.

In essa il Machiavelli comincia col dire che narrerà tutto quello che è seguito recentemente, per rispondere alla domanda che gli venne fatta, e perchè gli eventi hanno «onorato gli amici di Vostra Signoria Illustrissima e padroni miei, le quali due cagioni cancellano tutti gli altri dispiaceri avuti, che sono infiniti.» E qui accenna brevemente l'avanzarsi degli Spagnuoli, l'incertezze delle trattative e la condotta del Gonfaloniere, di cui parla con deferenza. Quando gli Spagnuoli mandarono a proporgli che si dimettesse, rispose, «che non era venuto a quel segno nè con inganno nè con forza, ma che vi era stato messo dal popolo; e però se tutti i re del mondo accozzati insieme gli comandassero che lo deponesse, mai lo deporrebbe. Se però il popolo voleva, avrebbe subito deposto il suo ufficio. Partito infatti che fu l'ambasciatore, egli radunò il Consiglio per consultarlo, e ciascuno s'offerse allora pronto a mettere la vita per difenderlo.» Accenna poi alla presa ed al sacco di Prato, che non si ferma a descrivere, per «non le dare questa molestia di animo.» Dice che vi morirono più di 4000 persone, «non perdonando nè alle vergini, nè ai luoghi sacri, che gli Spagnuoli empirono di sacrilegi e di stragi. E neppure allora il Gonfaloniere si sbigottì, ma si mostrò disposto ad ogni accordo cogli Spagnuoli, salvo l'entrata dei Medici, che quelli dissero di volere in ogni modo. Allora tutto andò a rovina, e si cominciò a temere del sacco anche in Firenze, per la viltà che si era veduta in Prato ne' soldati nostri,» parole queste ultime che molto dovette costare al Machiavelli di pronunziare, dopo che aveva riposto in essi tante speranze. Prosegue, narrando brevemente e senza molta precisione i fatti, sino al Parlamento, che reintegrò i Medici in tutti quanti gli averi e gradi dei loro antenati. «E questa Città,» egli conclude, «resta quietissima, e spera non vivere meno onorata con l'aiuto loro, che si vivesse nei tempi passati, quando la felicissima memoria di Lorenzo loro padre governava.»

Bisogna, nel leggere questa lettera, ricordarsi bene quale era il linguaggio tenuto allora coi potenti in genere, e quale fu il linguaggio tenuto da quasi tutti i repubblicani fiorentini, che ebbero in quei giorni occasione di scrivere ai Medici, o anche solo ragionar di loro. Se però tutto questo ci persuaderà che la lettera del Machiavelli non aveva pei tempi che correvano nulla di strano o d'insolito, riman sempre da essa, come anche da altri documenti, provato, che egli voleva salvare il suo ufficio, ed era pronto a servirli. Ma di ciò nessuno allora gli fece nè poteva far carico, quando lo stesso ex-gonfaloniere s'accomodava con essi. Nulla infatti perdè nella stima dei cittadini Marcello Virgilio, che teneva nella cancelleria un ufficio superiore a quello del Machiavelli, e non lo lasciò, restando anzi in buonissimi termini coi nuovi padroni.

È certo però che, per la parte avuta, se non altro, nella difesa della Città, il Machiavelli sapeva bene di trovarsi in assai più difficili condizioni, e quindi s'adoperava a scongiurar la tempesta, che non senza ragione temeva. In questi medesimi giorni egli scrisse anche al cardinal de' Medici una lettera, di cui ci resta solamente un brano. «Pensando,» egli dice, «che la presunzione sia escusata dall'affezione, oserò darle un consiglio. Già sono stati nominati gli uffiziali per ritrovare le possessioni dei Medici, e restituirle ad essi. Questi beni sono ora in mano di chi li ha comperati e legittimamente li possiede; il riprenderli partorirà un odio inestinguibile, perchè gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che d'un fratello o padre che fosse loro morto, ognuno sapendo che per la mutazione d'uno Stato un fratello non può risuscitare, ma che e' può bene riavere il podere. Molto meglio sarebbe perciò farsi votar dalla Balìa, per qualche tempo, un sussidio annuo a risarcimento dei danni patiti. Io ricordo tutto con fede,» così conchiude la lettera, «la S.V.R. secondo la sua prudenza ne deliberi.» Ed anche un altro scritto si crede che egli indirizzasse in questi medesimi giorni ai Medici, o piuttosto ai loro fautori, dando consigli di un'indole più generale, e indirettamente pigliando di nuovo le difese del Soderini. Coloro che erano stati gelosi di lui per non averli egli chiamati a parte del governo, e avevano perciò cospirato a favore dei Medici, ora lo accusavano e calunniavano in mille modi. Il Machiavelli faceva quindi osservare, che quelle erano arti maligne, per acquistar grazia appresso i nuovi padroni ed il popolo, al quale volevano far credere d'essere stati indotti a mutare il governo solo per odio al Soderini, che dicevano perciò autore d'ogni male seguito alla Città. «Così cercano, acquistando il favore del popolo, rendersi necessari ai nuovi governanti, cui potrebbero, ad un momento dato, fare uno rimbocco addosso di tutto questo universale. Il Soderini ormai è fuori d'Italia, e non può quindi fare nè bene nè male; restano di fronte il nuovo ed il passato governo, irreconciliabili fra di loro. Quelli che si sono messi ad adulare il popolo ed i Medici, non potrebbero vivere col Soderini, di cui sono naturali nemici; ma possono bene accomodarsi così con l'uno come con l'altro governo, pur d'essere potenti. Perciò s'adoperano, facendosi forti col popolo, a divenir come protettori dei Medici, i quali dovrebbero invece cercare di separarli dal popolo, perchè si gettassero, senz'altra speranza di salute, a servirli.»

Quali occasioni il Machiavelli avesse veramente a comporre questi tre suoi scritti, noi non sappiamo. Non ci è possibile dire se fu davvero invitato, come egli afferma nel primo di essi, o se, profittando dell'ufficio che ancora teneva, mettesse le mani avanti per non perderlo, o finalmente se li componesse, come allora usava assai spesso, a sfogo del proprio animo, e come una specie d'esercizio retorico, pel caso che si presentasse l'occasione di valersene. Quest'ultima ipotesi acquista un maggior grado di credibilità pel fatto, che del primo di tali scritti abbiamo solo una copia senza data, senza indirizzo e senza firma; del secondo e del terzo abbiamo gli autografi, ma sono più che altro abbozzi o frammenti. Comunque sia di ciò, lo scopo di così premurosi consigli, in qualunque modo li desse o cercasse darli, resta assai chiaro, com'è chiaro che la via da lui scelta era di molto difficile riuscita. Il Machiavelli ebbe sempre, come provano molte delle sue opere, tutta la sua vita, una gran fede nel popolo, grande diffidenza e antipatìa contro l'aristocrazia e contro ogni governo retto da un piccolo numero di potenti. E questi sentimenti manifestò anche quando trionfavano i Medici, i quali egli avrebbe voluto vedere appoggiarsi al popolo, e non cadere in balìa dei nemici del Soderini. Ma gli eventi erano, per ora almeno, in mano di chi li aveva apparecchiati, e i Medici non potevano affidarsi al popolo che non li voleva, allontanandosi da coloro che li avevano richiamati. Or questi erano appunto i nemici del Soderini, non meno che a lui avversi al Machiavelli, cui non potevano in nessun modo permettere che restasse in ufficio. Il combatterli adunque poteva riuscir solo a farseli sempre più nemici.

I Nove della Milizia, presso i quali il Machiavelli aveva avuto così gran parte, erano stati subito soppressi, licenziando tutti i conestabili dell'Ordinanza fin dal 19 settembre. Restavano ancora i Dieci e la Signoria con la loro cancelleria, nella quale egli si trovava cogli altri alla dipendenza di Marcello Virgilio. Ma questi, sebbene fosse il primo segretario, non si era mai personalmente impacciato di politica, e nessuno pensò quindi a rimuoverlo d'ufficio. Il Machiavelli invece, intimo del Soderini, anima per qualche tempo della Repubblica, venne, con deliberazione presa alla unanimità dai Signori, il 7 novembre 1512, privato di ogni ufficio: cassaverunt, privaverunt et totaliter amoverunt. Il suo amico Buonaccorsi subì nel medesimo giorno la stessa sorte. Nè ciò bastava. Infatti una nuova deliberazione confinava il Machiavelli per un anno nel territorio della Repubblica, senza che ne potesse uscire, con l'obbligo ancora di dare, come sicurtà d'obbedienza alla condanna, fideiussori per la somma di mille lire. Il 17 novembre veniva inoltre a lui ed al Buonaccorsi proibito di mettere per un anno piede in Palazzo, ordine però che, quanto al Machiavelli, fu più volte temporaneamente revocato, dovendo egli rendere i conti della sua amministrazione, dare tutti i necessarî schiarimenti. E questo potè fare con tale e tanta regolarità da non lasciare pretesto alcuno a muovergli accusa di sorte. In suo luogo venne eletto segretario Niccolò Michelozzi, noto partigiano dei Medici, il quale, non essendovi ora più i Nove nè l'Ordinanza, ebbe solo l'incarico di scriver lettere d'ufficio per la cancelleria.

Ed ora le pretese riforme (chè così le chiamavano) vennero bruscamente sospese da avvenimenti esterni ed interni, i quali ultimi peggiorarono anche più le già tristi condizioni del Machiavelli. Per la ritirata dei Francesi, Parma, Piacenza, Modena e Reggio s'erano date al Papa; Brescia era venuta nelle mani del Vicerè; Peschiera e Legnago s'erano arrese al Lang, vescovo di Gurk, che era una specie di alter ego dell'Imperatore in Italia. Di tutto ciò molti, al solito, restarono allora scontenti e gli alleati sarebbero venuti fra di loro a contesa, se il Papa, facendo al Lang le più benevole accoglienze, e dandogli anche il cappello cardinalizio, non lo avesse guadagnato a sè. Questo portò subito ad una nuova alleanza, proclamata nel novembre in Santa Maria del Popolo, fra il Papa e l'Imperatore, che con la solita sua volubilità aderiva ora al Concilio vaticano. E così Massimiliano Sforza fu condotto a prender possesso del ducato di Milano, che era molto impiccolito, avendone più d'uno dei confederati preso qualche brano. Gli Spagnuoli aderirono ai nuovi accordi; vi si opponevano invece i Veneziani, perchè fieramente avversi alla cessione di Vicenza e Verona all'Imperatore; ma ciò valse a rendere ancora più salda l'alleanza di questo col Papa, il quale si poteva chiamar finalmente contento. Non aveva certo liberato dai barbari l'Italia, che invece, per opera sua, era occupata, calpestata da Tedeschi, Spagnuoli e Svizzeri; pure aveva cacciato i Francesi, sventato il Conciliabolo, radunato il Concilio lateranense, esteso e rafforzato il dominio temporale della Chiesa, data reputazione alle sue armi, fatto di Roma il centro principale degli affari d'Italia e del mondo. Ma allora appunto egli si ammalava, ed il 20 di febbraio 1513 moriva. Degno di molta gloria lo dice il Guicciardini, se invece di Papa fosse stato un principe secolare. Certo fu uomo di gran forza d'animo, di grande volontà, di grandi disegni pei quali mise a soqquadro l'Italia e il mondo. Tutti perciò erano stanchi adesso, e desideravano tempi più tranquilli.

Con questi intendimenti s'adunava il Conclave, nel quale il 6 marzo arrivò in lettiga il cardinal de' Medici, ammalato d'una fistola incurabile, che rendeva assai penoso lo stargli accanto. Avverso ai Francesi, stati la rovina di sua casa, levato a grande altezza dal Papa defunto, egli era largo del suo fino alla prodigalità, abilissimo nel rendersi accetto a tutti, educato alle buone lettere, grande ammiratore delle arti belle, un vero mecenate di artisti e letterati; e sebbene all'occorrenza fosse pronto anche ad atti violenti, si dimostrava, nei casi ordinari, sempre e con tutti temperato e gentile nei modi, in ogni occasione prudentissimo. Queste qualità lo indicavano come l'uomo adatto ora al papato, salvo la sua età, non essendo egli ancora giunto ai quarant'anni. V'era però nel Conclave un partito di giovani cardinali, che molto lo favorivano. Avversario deciso si dimostrava invece il Cardinal Soderini; ma fu ben presto guadagnato il suo voto con la promessa di far tornare dall'esilio l'ex-gonfaloniere, di liberare dal confine gli altri della famiglia, e di dare la figlia di Giovan Vittorio Soderini in moglie a Lorenzo de' Medici. Stipulati questi accordi, il cardinal Giovanni riuscì con grande maggioranza di voti eletto il giorno 11 marzo. Non essendo egli ancora prete, ma semplice diacono, bisognò ordinarlo prima, per consacrarlo poi. Il 15 ebbe gli ordini sacri, il 17 fu papa col nome di Leone X, il 19 venne coronato. La cerimonia e le feste superarono quanto s'era mai visto di splendore e di lusso, in un secolo tanto celebre pel suo splendore e pel suo lusso: si spesero in un sol giorno 100,000 ducati. Vi furono archi, iscrizioni, processioni, statue di Deità pagane, profusione di danaro ovunque, in ogni modo: parevano tornati i tempi di Roma imperiale.

A Firenze questa elezione venne salutata con gioia universale, perchè dal nuovo Papa mecenate e fiorentino, tutti s'aspettavano grandi favori. Nessuno pensava che così i Medici mettevano in Italia sempre più profonde radici, divenivano più potenti e prepotenti, ed il cacciarli di Firenze sarebbe stato sempre più difficile. La Città pareva invece orgogliosa di quello che seguiva. Ma un Genovese che si trovava presente a questa grande allegria dei Fiorentini, disse loro un giorno: «Voi vi rallegrate d'avere un papa fiorentino; prima però che ne abbiate quanti ne ebbe Genova, imparerete a vostre spese quello che può fare la grandezza dei papi nelle città libere.» E non solo i fatti che seguirono più tardi gli dettero ragione; ma la gioia era stata già turbata da ciò che era avvenuto in quei giorni medesimi.

Poco prima che arrivasse a Firenze la nuova della infermità di Giulio II, un tal Bernardino Coccio, senese, trovò in casa dei Lenzi, parenti dei Soderini, un foglio caduto di tasca ad un giovane per nome Pietro Paolo Boscoli, notissimo avversario de' Medici. Raccoltolo e visto che v'erano scritti 18 o 20 nomi, fra cui quello di Niccolò Machiavelli, lo portò subito agli Otto, i quali, sospettando di congiura, imprigionarono il Boscoli insieme col suo intimo compagno Agostino di Luca Capponi. Sottoposti alla tortura, essi dichiararono francamente d'avere avuto in animo di rivendicare la patria in libertà; ma di non aver fatto congiura, nè comunicato ad altri i loro disegni: i nomi scritti sul foglio eran solo di persone nelle quali speravano di trovar favore, supponendole amiche del libero reggimento. La più parte di esse vennero nonostante, insieme con altre, condotte in prigione: e sebbene apparisse chiaro che la cosa non aveva avuto molta gravità, perchè senza seguito alcuno nei cittadini, pure il Boscoli ed il Capponi, dopo essere stati in carcere dal 18 al 22 febbraio, furono la sera decapitati. Il cardinal de' Medici era partito il giorno innanzi, non prima però d'essersi assicurato dell'esito finale. Questo caso fu molto pietoso, perchè il Boscoli ed il Capponi erano giovani inesperti ed entusiasti, ma culti e di nobili sentimenti. Ambedue affrontarono la morte con gran coraggio, il Capponi quasi con sdegnosa indifferenza, pur dichiarandosi innocente; il Boscoli di 32 anni, biondo, bello e di gentile aspetto, sebbene ugualmente intrepido, pareva nondimeno agitato da pensieri diversi. Un suo amico, Luca della Robbia, della famiglia stessa del grande scultore di cui portava il nome, venne ad assisterlo nelle ultime ore, e trascrisse, parola per parola, il colloquio avuto con lui. Noi già altra volta v'accennammo; ma dobbiamo ora riparlarne, perchè si tratta d'un documento singolarissimo, che è assai importante a conoscere le condizioni dello spirito italiano in quel tempo.

Quando, verso sera, arrivò la notizia della prossima esecuzione, il Boscoli fu assai agitato. Prese il Vangelo e lo leggeva, invocando lo spirito del Savonarola per interpetrarlo; chiese poi un confessore del convento di San Marco. Al Capponi che, quasi rimproverandolo, gli diceva: - O Pietro Paolo, voi dunque non morite contento! - non fece neppure attenzione. Egli non temeva la morte; ma gli pareva di trovar la forza di morire solamente nello stoicismo e nelle reminiscenze degli eroi pagani, che esaltavano le congiure ed ispiravano l'odio alla tirannide: non si sentiva perciò la coscienza tranquilla. Volgendosi al suo consolatore della Robbia, esclamò a un tratto: - Deh! Luca, cavatemi dalla testa Bruto, acciò che io faccia questo passo da buon cristiano. - E si disperava in un'angoscia tormentosa. Arrivato il confessore, il della Robbia, che aveva ancor egli i suoi scrupoli, gli andò subito incontro, chiedendo in segreto: - È proprio vero che San Tommaso condanna le congiure? - Ed alla risposta affermativa del frate, soggiunse: - Ebbene, diteglielo acciò non muoia in inganno. - Il confessore, vedendo la grande agitazione del misero giovane, si provò a fargli coraggio, perchè affrontasse la morte con animo risoluto; ma il Boscoli gli rispose subito con vivacità: - Padre, non perdete tempo, che a ciò mi bastano i filosofi. Aiutatemi piuttosto a morire per amor di Cristo. - Quando fu condotto al luogo del supplizio, il carnefice, con singolare e toscana cortesia, gli chiese scusa nel bendarlo, e si offerse di pregare Dio per lui, - Fai pure il tuo ufficio, - disse il Boscoli; - messo però che m'avrai sul ceppo, lasciami stare un poco, e poi mi spaccia. Accetto che tu preghi Dio per me. - Voleva in quell'ultima ora fare l'estremo sforzo per unirsi a Dio. Il confessore restò ammirato del Boscoli, ed avendo più tardi incontrato a Prato il della Robbia, gli andò subito incontro, dicendo d'aver pianto otto giorni continui, tanto s'era affezionato all'animoso giovane. - Io lo credo un beato e martire, andato diritto in Paradiso senza fermarsi in Purgatorio. Quanto poi alle congiure, di cui tu mi chiedesti, debbo dirti che ho riscontrato San Tommaso, e trovo che fa una distinzione. Se i tiranni sono eletti dal popolo, non è lecito congiurar contro di essi; ma se invece s'impongono con la forza, il congiurare è anzi un merito. Non ripetere però le mie parole a nessuno, altrimenti diranno: questi frati tiran sempre le cose secondo gli affetti loro. - Il della Robbia aggiunge che, tornato a casa, riscontrò anch'egli le opere di San Tommaso, e vi trovò quello che aveva detto il frate.

Da questa narrazione si vede chiaro come le idee cristiane e le pagane venissero allora assai spesso in conflitto. Ed in vero, quanto alla vita privata ed alla morale individuale, il Cristianesimo, massime dopo l'opera del Ficino, del Pico e del nuovo Platonismo, poteva più facilmente mettersi d'accordo colla risorta filosofia pagana. Ma la vita pubblica costituiva un mondo a parte, le cui leggi, in continua opposizione con la morale evangelica, sembravano trovare il loro ideale solamente nell'antichità greca e romana. Certo i cospiratori, i patriotti, i politici, i capitani italiani del Rinascimento s'ispiravano a Bruto, a Cesare, a Licurgo, a Solone, ad Epaminonda, non mai al Vangelo. E ciò faceva nascere nel loro spirito un contrasto, di cui moltissimi sono gli esempi; ma nessuno forse così evidente, come è la confessione del Boscoli.

La condanna di quei due giovani, ed il trovarsi nella congiura mescolato il nome del Machiavelli, fecero dare ad essa un'importanza politica che veramente non ebbe, come si vede dalle lettere di Giuliano de' Medici. In fatti il 19 febbraio, cioè il giorno che seguì alle prime carcerazioni, egli scriveva a Pietro Dovizi da Bibbiena, in Venezia, dicendogli, che s'era scoperta «una congiura di far violenza a me ed a qualche cosa nostra; ma non s'è trovato che una mala intenzione senza fondamento o seguito.» Aggiungeva poi una lista di 12 cittadini più o meno caduti in sospetto, fra i quali si legge anche il nome del Machiavelli. Un qualche spavento vi fu però di certo in quei primi momenti, perchè, oltre le condanne già menzionate, venne pubblicato un bando, col quale si ordinava a tutti i cittadini di consegnare le armi. Ed essi non solamente le consegnarono; ma s'affrettarono a correre alla casa di Giuliano, per dargli testimonianza della loro fedeltà, andandovi perfino alcuni parenti degli accusati a chiedere che si facesse giustizia. Il 7 di marzo, quando i due giovani congiurati erano già morti, e gli altri processi condotti a termine, Giuliano scriveva di nuovo al Bibbiena, dicendogli che la Città s'era mostrata affezionatissima ai Medici, ed aggiungeva: «Il Boscoli ed il Capponi giovani di buone famiglie, ma senza seguito, sono stati i capi della congiura. Volevano levarci la terra; avevano deputato il luogo e fatto una lista di persone in cui credevano incontrar favore; avevano parlato e trovato ascolto in Niccolò Valori e Giovanni Folchi. Per questa ragione i primi sono stati condannati a morte, i secondi chiusi per due anni nel forte di Volterra. Alcuni furono confinati nel contado, per avere avuto qualche partecipazione nella congiura; tutti gli altri accusati ed imprigionati sono stati messi in libertà come innocenti, dopo aver dato buon sodamento.» E in tutto ciò neppure una parola del Machiavelli.

Questi sembra che, scoppiata la tempesta, avesse cercato di mettersi in salvo. Troviamo infatti un bando degli Otto di Guardia e Balìa, i quali, il giorno 19 febbraio, ordinavano che chiunque «sapessi o havessi o sapessi chi havessi o tenessi Nicolò di messer Bernardo Machiavelli,» dovesse fra un'ora denunziarlo, «sotto pena di bando di rubello et confiscatione.» Certo è che egli venne subito imprigionato e messo alla tortura insieme cogli altri, per vedere se poteva cavarsene qualche cosa. Il suo nome s'era trovato nella lista portata agli Otto; il suo passato lo rendeva sospetto. Poco avevano a lui giovato le proteste d'ossequio ai Medici, e molto avevano invece nociuto le cose dette e scritte contro gli accusatori e calunniatori del Soderini. Certo se si fosse in lui scoperta vera colpa, non lo avrebbero risparmiato; ma dopo alcuni tratti di corda, e dopo le confessioni degli altri accusati, essendosi convinti che non v'era da cavarne nulla, lo lasciarono libero. S'aggiunse che il Papa, essendo state già fatte le prime vendette, aveva subito dopo la sua elezione, dimostrato di volere che si usasse indulgenza; e però con deliberazione del 4 aprile, la Balìa fece grazia non solo a tutti coloro che eran sospetti d'aver preso parte nella congiura, senza che si fosse potuto provarlo; ma liberò dal confine anche i Soderini, compreso lo stesso ex-gonfaloniere. È facile però capire, che il sospetto, la prigionia e la tortura affliggessero molto il Machiavelli, levandogli, per ora almeno, ogni speranza di conciliazione coi Medici. Il 13 marzo infatti egli scriveva a Francesco Vettori, ambasciatore in Roma, ed annunziandogli la sua liberazione, aggiungeva che tutto in questa occasione aveva cospirato a suo danno. Sperava però di non capitarci di nuovo, «sì perchè sarò più cauto, sì perchè i tempi saranno più liberali e non tanto sospettosi.» Avendo poi il Vettori risposto con proteste d'amicizia, facendogli coraggio, il Machiavelli gli aggiungeva d'aver saputo volgere il viso alla fortuna, portando la sua sventura con tanta fermezza, «che io stesso me ne voglio bene, e parmi d'essere da più che io non credetti.» Ed anche allora, con le mani ancor dolenti per la fune patita, esprimeva il desiderio d'essere adoperato dai Medici. Ma su di ciò torneremo più oltre.

Dinanzi alla realtà di questi fatti, scompariscono tutte le fantastiche considerazioni intorno all'avere il Machiavelli cospirato allora a favore della libertà, contro la vita di Giuliano de' Medici, e perciò sopportato la carcere e la tortura. Solo giovani inesperti potevano pensare ad una congiura, quando tutta la Città si mostrava così favorevole ai nuovi padroni, ed era orgogliosa di vedere uno di essi eletto papa. Il Machiavelli perciò pensava invece a mettersi in salvo, ed al suo solito andava escogitando disegni complicati, coi quali ottenere il proprio intento, che era sempre di guadagnarsi il favore dei Medici. Ma che cosa dobbiamo noi pensare dei tre sonetti, che furono da lui scritti appunto in questi giorni, e, come parrebbe, indirizzati anche a Giuliano de' Medici? Due di essi sarebbero anzi stati composti nella prigione stessa, per chieder grazia. Il primo ci descrive la Musa, che viene a trovare il poeta, e non lo riconosce, vedendolo trasfigurato in modo, che lo piglia per pazzo; ond'egli si raccomanda a Giuliano che faccia fede della sua identità. dell'altro descrive la carcere in cui si trova, dopo aver ricevuto sei tratti di corda. Il puzzo è orrendo, le pareti «menano pidocchi»

Grossi e paffuti che paion farfalle.

Si sente un rumore d'inferno. Uno è incatenato, un altro è sciolto, un terzo grida che è tenuto alla corda troppo alto da terra.

Quel che mi fe' più guerra

Fu che, dormendo, presso all'aurora,

Cantando sentii dire: Per voi s'ôra.

Or vadano in malora,

Purchè vostra pietà ver' me si voglia,

Buon padre, e questi rei lacciuol ne scioglia

È possibile che il Machiavelli abbia dalla carcere scritto questi versi a Giuliano? Che egli fosse capace di spingere il sarcasmo e la satira fino al cinismo, ridendo di cose e di persone che per lui stesso erano sacre, noi lo sappiamo. È noto l' epigramma da lui scritto più tardi sulla morte di Pier Soderini, che pure aveva sempre amato, ed a cui rimase sino all'ultimo fidato amico,

La notte che morì Pier Soderini,

L'alma n'andò dell'Inferno alla bocca;

E Pluto le gridò: Anima sciocca,

Che Inferno! va' nel Limbo dei bambini.

È ben vero che si volle dubitare dell'autore di questo epigramma; esso però non solo si trova da lungo tempo pubblicato ed attribuito al Machiavelli; ma anche il nipote Giuliano de' Ricci, nel Priorista più volte citato, lo attribuisce a lui senza punto dubitarne, scusandolo col dire che lo scrisse da poeta, avendo sempre avuto grande stima pel Soderini. In sostanza però qui si tratta d'uno scherzo di cattivo genere, se si vuole; ma v'è pure un fondo di verità, avendo egli sempre biasimato la troppa mitezza del Gonfaloniere, accusandolo d'avere anche nell'ora del pericolo fidato nelle vie di mezzo, senza mai osare di por mano alla forza, per assicurarsi dei nemici suoi e della Repubblica.

Ben diverso è il caso dei due sonetti. Che cosa mai bisognerebbe pensare del Machiavelli, se veramente avesse scritto a Giuliano, che egli, nel sentire le ultime preghiere che accompagnavano al patibolo gli amici della libertà, aveva esclamato: «Vadano pure in malora, purchè Vostra Magnificenza mi faccia grazia»? Sarebbe stato cinismo così basso da disgustare lo stesso Giuliano, che nelle sue lettere al Bibbiena discorreva con dignitoso riserbo de' due giovani condannati a morte. Nè è presumibile che i molti nemici del Machiavelli, i quali tante accuse false inventarono per calunniarlo, avessero poi serbato silenzio così generale sopra un fatto che sarebbe stato di certo assai poco onorevole. E se veramente fosse andato tant'oltre, egli non lo avrebbe taciuto affatto nelle sue lettere a Francesco Vettori, cui narrò tutto quello che fece e che disse in quei giorni, ed al quale si raccomandava per aver favore dai Medici. Da queste lettere invece si cava che egli allora nulla chiese, che sopportò con coraggio la tortura, e che non aveva con Giuliano relazioni tali da osare d'indirizzargli versi burleschi per ottenerne favore. A lui ed a Paolo Vettori egli dovette d'esser presto liberato dal carcere. E se veramente fosse disceso tanto basso da deridere i compagni che subivano l'estremo supplizio, chi crederà mai che avrebbe appunto allora avuto l'impudenza di scrivere ad un amico de' Medici, e suo, d'essersi condotto con tanta fermezza da acquistare maggiore stima di sè stesso!

È poi molto singolare che i due sonetti restarono ignoti affatto sino al principio del secolo XIX. Il Ricci che con tanta diligenza copiò e raccolse notizie d'ogni genere, onorevoli e biasimevoli, intorno agli scritti dello zio, non ne fa cenno. Essi compariscono a un tratto, in un romanzo del Rosini, l'anno 1828, e poco dipoi in una biografia del Machiavelli pubblicata a Parigi l'anno 1833 dal francese Artaud. Ambedue dicono che n'ebbero solo una copia dal signor Aiazzi di Firenze, che li trovò autografi su due fogli messi come segno in un libro, nel quale furono dimenticati per secoli. L'Aiazzi, che pur si fece più volte editore di cose antiche, non li illustrò, non li dette alla luce; ma ne ritenne copia per gli amici. Gli originali, così almeno si dice, sarebbero stati venduti ad un Inglese. La cosa par molto strana davvero, tanto che farebbe quasi dubitare dell'autenticità dei sonetti. Essi però non solo son dati come autentici dal Rosini e dall'Artaud, ma nelle Carte del Machiavelli si trovano copiati con una dichiarazione di Tommaso Gelli, già bibliotecario della Magliabechiana, il quale dice di averne veduto gli autografi. Anche la lingua e lo stile furono da tutti giudicati, ed appaion veramente proprî del Machiavelli. Si può, volendo, sofisticare su qualche verso; ma prove intrinseche e sicure per mettere in dubbio l'autore dei sonetti non ve ne sono. La conclusione, adunque, cui bisogna, secondo noi, venire, è che essi non sono una vera domanda di grazia, nè furono mandati a Giuliano; ma sono invece uno scherzo, uno sfogo capriccioso, ironico, cinico, se si vuole, che il Machiavelli gettò sulla carta in un momento di cattivo umore, ridendo, esagerando, facendosi peggiore che non era; e poi li dimenticò, non pensando che, dopo molti secoli, sarebbero stati ritrovati, ed egli chiamato a render conto di parole usate, senza troppo riflettere, forse qualche volta solo per obbedire alla rima. Che i due sonetti siano poi da tenersi veramente per uno scherzo e non altro, ce lo farebbe credere anche un terzo, che fu trovato più tardi, e venne pubblicato dal Trucchi nel 1847. Con esso il Machiavelli manda a Giuliano un dono di tordi, pregandolo che li dia a mordere ai suoi nemici, onde non lo addentino più, come fanno, ferocemente. - Che se son magri, dirò che magro sono anch'io,

E spiccan pur di me de' buon bocconi.

Ora nessuno vorrà credere che il Machiavelli mandasse veramente un dono di tordi a Giuliano de' Medici. In un momento d'ira e di mal umore, adunque, egli che non aveva preso parte alla congiura, nè era così inesperto da sperarne allora nulla di bene, sfogò in segreto la sua bile contro l'avversità del fato, e contro chi lo aveva leggermente messo a così duro cimento. Nel ciò fare passò i limiti, ed il suo sarcasmo arrivò fino al cinismo; nè questo fu un caso unico nella sua vita, i suoi scritti dandocene pur troppo altri esempi; ma non giustificherebbe in modo alcuno il sospetto d'assai bassa viltà, in un momento nel quale il Machiavelli dette invece prova di coraggio.

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