CAPITOLO I.

Gli Scrittori politici nel Medio Evo. - Scuola guelfa e scuola ghibellina. - San Tommaso d'Aquino ed Egidio Colonna. - Dante Alighieri e Marsilio da Padova. - Il secolo XV. - Il Savonarola e il suo libro sul governo di Firenze. - Gli eruditi ed i loro scritti politici. - Gli ambasciatori italiani e le loro legazioni. - Francesco Guicciardini. - Sua legazione nella Spagna, suoi discorsi politici, suo trattato Del Reggimento di Firenze.

Prima di cominciare a prendere in esame le opere del Machiavelli, quelle specialmente che iniziarono, com'è noto, un nuovo periodo nella storia della scienza politica, e furono soggetto di tante e così prolungate controversie, dobbiamo gettare uno sguardo, sia pure rapidissimo, alle condizioni in cui questa scienza era stata nel Medio Evo, ed a quelle in cui si trovava nei secoli XV e XVI. Così risulterà chiaro il profondo mutamento che era già seguìto nelle idee e nei principi politici, quando il Machiavelli comparve sulla scena, e potremo assai meglio determinare le originalità ed il valore delle sue dottrine.

Il Medio Evo aveva avuto due grandi scuole di politici, la scuola guelfa e la scuola ghibellina, i sostenitori della Chiesa ed i sostenitori dell'Impero. Fra i primi risuonano più chiari i nomi di San Tommaso d'Aquino e di Egidio Colonna, fra i secondi quelli di Dante Alighieri e di Marsilio da Padova, che vennero dopo. E come allora la scienza, esposta in lingua latina ed in forma scolastica, non aveva divisioni nazionali, così tutta l'Europa fu per lungo tempo dominata dalle medesime dottrine, e prima da quelle di San Tommaso, nel suo libro De Regimine principum, poi da quelle del suo discepolo Egidio Colonna, nel libro De Ecclesiastica potestate. Essi sostennero che tutto deve essere sottoposto alla Chiesa ed ai suoi sacerdoti, ai quali debbono obbedire, e dai quali debbono dipendere l'autorità e la società laica. Ciò che si fa dall'uomo su questa terra non ha valore alcuno, se non in quanto apparecchia alla vita futura, di cui il segreto ed il mistero sono confidati alla Chiesa. La Città terrena deve essere sottoposta, sacrificata alla Città di Dio. La storia come la natura è opera di Dio, la cui mano guida, conduce i popoli al trionfo o alla rovina, senza che la volontà umana possa in nulla fermare o deviare il corso predestinato degli avvenimenti. Ciò che il corpo è verso l'anima, ciò che la materia è verso lo spirito, il potere temporale è di fronte allo spirituale. In sostanza le due spade, che simboleggiavano allora i due diversi poteri, dovevano essere impugnate dal vicario di Cristo, la cui autorità veniva direttamente da Dio, ed a cui doveva obbedire anche l'Imperatore, che era il rappresentante del diritto, della legge, della forza puramente umana e terrena. Questi somiglia, essi dicevano, alla luna, che non ha luce propria, ma la riceve dal sole, a cui invece può essere paragonato il Papa. Ed in tutti gli scrittori del Medio Evo troviamo ripetuto questo singolar paragone, cui s'attribuiva quasi la forza d'un valido argomento, di una rigorosa dimostrazione.

In questa dottrina politica la morale ha di necessità un luogo principalissimo, e tutte le virtù sono esaltate e raccomandate, giacchè tutto deve mirare al trionfo della religione. Manca però ogni metodo, ogni carattere scientifico, nè è possibile introdurvelo. Lo scrittore sa già fin dalla prima pagina, il termine cui vuole arrivare; i suoi ragionamenti son sempre astratti, a priori, metafisici; le sue conclusioni non derivano mai da un esame dei fatti sociali e storici, dei quali egli fa poco o nessun conto. Ed è naturale, perchè qui ogni elemento umano è come soppresso. In Dio solo, nell'arcano della sua mente e della sua volontà bisogna cercare la causa di tutti gli avvenimenti storici, di tutte le trasformazioni sociali. Or quale è mai il metodo scientifico, con cui noi possiamo sottomettere ad analisi diretta la volontà divina? Il filosofo politico si trovava quindi nelle condizioni stesse di un naturatista, il quale, riconoscendo che Dio è l'autore del mondo, volesse cercare le leggi della natura, non già studiandone i fenomeni, ma solo contemplando e scrutando la mente divina. Questa scuola è poi logicamente costretta ad avere un profondo disprezzo, non solo per la società laica, ma ancora per tutta quanta la storia dell'antichità pagana, nelle cui religioni non sa, non può vedere altro che una moltitudine di favole, di errori da combattere.

Non è dunque da maravigliarsi, se contro di essa vediamo sorgere più tardi una anzi diverse scuole che la combattono. L'Impero si andava decomponendo, le nazionalità cominciavano a formarsi ed a staccarsene. Se ne era separata la Francia, il cui re, Filippo il Bello, lo avversava, dimostrando una sconfinata ambizione. Pareva che volesse estendere la propria autorità oltre i confini francesi, in una parte della Germania, dell'Italia, perfino nello Stato della Chiesa. Era perciò venuto in fierissima lotta con Bonifazio VIII, non meno ambizioso, audace. Intorno a lui s'era formata una scuola di scrittori politici, difensori della società laica e del potere regio contro il Papa e contro l'Imperatore. Guglielmo di Nogaret, Pietro Dubois, Giovanni da Parigi, anche parecchi scrittori di opere anonime, secondavano l'ambizione del Re, proponendo in suo favore disegni che spesso erano fantastici. L'autorità laica, essi dicevano, esisteva prima ancora che sorgesse quella del Papa. Alcuni di questi combattevano l'unità dell'Impero, difendevano i diritti diversi delle diverse nazionalità, altri, ora che esso era vacante, suggerivano che il Re, come successore di Carlo Magno vi aspirasse, si facesse eleggere imperatore. In sostanza, più che veri uomini di Stato o di scienza politica, erano opportunisti, che secondavano l'ambizione della Francia e del suo sovrano. Dante Alighieri si presenta invece, col De Monarchia, come autore di un'opera veramente scientifica, come rappresentante della scuola ghibellina, opposta alla guelfa. Avverso alle ambiziose pretese della Francia, conscio dei pericoli cui l'Italia si trovava perciò esposta, ci dà un trattato organico e logico sull'Impero, nella cui utilità, necessità e permanente durata ha piena fede. Egli non è un opportunista; scrive con sincera, profonda convinzione. Un'autorità suprema, universale, che mantenga nel mondo la concordia, e sostenga la giustizia è, secondo lui, necessaria. Questa autorità è quella dell'Imperatore, erede di Roma, dove è la sua sede naturale.

Con vera e grande originalità egli pone il fondamento della società umana nel diritto, cui dà un valore proprio, indipendente, divino anch'esso, perchè la giustizia è voluta da Dio, è suo attributo. Così da Dio deriva anche il potere dell'Imperatore, indipendente affatto da quello del Papa, che deve pensar solo alla religione, e solo nelle cose spirituali può comandare. Il carattere, l'autorità, la forza dell'Impero, che rappresenta l'indipendenza della società laica, son dimostrati chiaramente da tutta quanta la storia dell'antica Roma, che, invece di sprezzarla, come faceva la scuola teologica, Dante ammirava con entusiamo. Egli, anzi la dichiara un miracolo perenne, operato da Dio per far trionfare sulla terra una specie di nuovo popolo eletto. In tutto ciò si vede già da lontano il prossimo trionfo dell'erudizione classica, e la trasformazione che essa dovrà inevitabilmente portare nelle idee del Medio Evo. Se non che questi nuovi concetti, quantunque originali ed arditi, assai spesso si fondano ancora sopra argomenti affatto scolastici. - Non si può paragonare il Papa al sole, e l'Imperatore alla luna, dice Dante, perchè l'Impero e la Chiesa sono due fatti accidentali del genere umano, di cui perciò suppongono l'esistenza. Or siccome il sole e la luna furono creati nel quarto giorno, e l'uomo invece fu creato nel sesto, così, secondo quel paragone, Dio avrebbe nella creazione seguito un ordine illogico, contrario alla natura delle cose, provvedendo prima all'accidentale e poi al sostanziale. Ciò sarebbe assurdo. - Simile a questo sono molti degli altri argomenti, di cui l'autore si vale per combattere i suoi avversarî. Anzi assai spesso egli non fa che ripigliare uno ad uno tutti i loro sillogismi o sofismi scolastici, per ritorcerli con lo stesso metodo contro di loro, senza accorgersi che se i medesimi ragionamenti possono sostenere del pari il pro ed il contra, questo dimostra che non hanno alcun valore.

Ma oltre di ciò, quello che Dante vagheggia è sempre l'Impero universale del Medio Evo. L'Imperatore, secondo lui, rappresenta l'unità del genere umano, il diritto e la giustizia universale; deve essere padrone del mondo intero, perchè così, non potendo più nulla desiderare o ambire sulla terra, non avrà nè ragione nè tentazione alcuna d'allontanarsi mai dalla giustizia verso tutti. Come fu osservato da un moderno, il De Monarchia che voleva essere una profezia dell'Impero, ne fu invece l'epitaffio. Infatti ciò che di più notevole la posterità potè trovare in essa furono appunto quei nuovi principî e quelle nuove tendenze, che, con la emancipazione della società laica, promuovevano, senza che l'autore se ne rendesse conto, la distruzione dell'Impero universale, la formazione dello Stato nazionale moderno. Arrigo VII, in cui favore egli scriveva, e nel quale tanto sperava, può dirsi veramente l'ultimo degl'Imperatori medioevali.

Assai al disopra della stessa Monarchia dell'Alighieri s'innalza l'ardito spirito di Marsilio da Padova col suo Defensor Pacis, seguendo la medesima via, ma andando assai più oltre. Sembra quasi impossibile che un libro, scritto da un ecclesiastico, e già compiuto nel 1327, potesse contenere idee tanto ardite, che solo molti secoli dopo riuscirono ad essere intese ed attuate. Fattosi difensore di Lodovico il Bavaro, Marsilio entrò nella lotta con un ardore qualche volta eccessivo. A lui non basta assicurare l'indipendenza dell'Impero di fronte alla Chiesa, ma vuole addirittura sottomettere questa a quello. L'Imperatore deve, secondo lui, avere il diritto di radunare il Concilio, di deporre vescovi e papi, che da lui debbono giuridicamente dipendere. Tutto questo si potrebbe, fino ad un certo segno, supporre che fosse conseguenza dello spirito di parte, piuttosto che di profonde convinzioni scientifiche. Ma quando Marsilio, cominciando dall'esaminare i vari ordini dell'attività umana, cerca di determinare le diverse funzioni degli organi sociali; quando distingue chiaramente il potere legislativo dall'esecutivo, allontanandosi non poco dalle idee di Aristotele, che pure gli sta sempre dinanzi, e tenta d'innalzarsi fino quasi ad un concetto organico della società e dello Stato, la sua originalità risplende allora in modo incontrastabile. Inoltre il potere legislativo risiede per lui unicamente nel popolo; giacchè, se a formulare le leggi occorre la sapienza dei pochi, l'opera di questi deve essere sanzionata dal suffragio universale, che è la base vera così dell'Impero come della Chiesa. La Monarchia di Marsilio non è in sostanza che una repubblica, quasi rappresentativa, con presidente eletto dal popolo, che può anche deporlo. L'autorità suprema della Chiesa risiede nella universalità dei credenti e nelle Sacre Scritture; ed ogni potere coercitivo, non solo verso i rappresentanti dello Stato, ma anche verso gli eretici, le è assolutamente negato. A questi essa può, con giusta autorità, dir solo, che saranno nell'altra vita dannati alle pene eterne dell'Inferno, se professano dottrine erronee. È ufficio del Monarca, o sia della suprema autorità laica, il punirli, quando riescano dannosi alla società.

Nè solo per queste idee ardite, ma anche per la chiarezza, l'ordine e la precisione del suo pensiero, egli s'innalza assai al di sopra di tutti i contemporanei, non escluso lo stesso Alighieri. Il suo linguaggio è ancora confuso e medioevale; ma i sillogismi ed i sofismi scolastici già cominciano per lui a perder valore; il paragone col sole e con la luna, e gli altri simili, quando non sono affatto scomparsi dalle sue pagine, non riescono a confondere la sua intelligenza, nè ad alterare l'ordine logico del suo ragionamento. In lui si vede già chiaro il passaggio dalla Scolastica ad una scienza politica indipendente, promossa da una visibile tendenza umanistica del suo spirito. Più di una volta egli ci apparisce come colui, il quale apre la via che conduce dalla scienza politica del Medio Evo a quella del Machiavelli.

Nonostante tutto ciò, noi non possiamo nelle lodi arrivare al segno cui son giunti alcuni critici tedeschi, del resto autorevolissimi. A loro non è bastato di dichiarare che Marsilio da Padova, per le sue idee intorno alla Chiesa, fu un precursore della Riforma; pel suo concetto, che ripone la sorgente prima di ogni potere nel popolo, fu un precursore del secolo XVIII; e per l'assoluto predominio che volle dare allo Stato sulla Chiesa, fu il precursore di principii, pei quali combatte ancora la società moderna. Si volle ancora trovare nel suo Defensor Pacis chiaramente espresso il concetto dello Stato moderno, non più universale, ma nazionale. È ben vero che egli domanda a sè stesso se la Monarchia deve essere universale o debbono esservi invece Stati diversi, secondo le varie condizioni geografiche ed etnografiche dei popoli. Ed in ciò si può ritenere che Marsilio abbia già una chiara visione del problema che si pone. Ma il fatto è che egli risponde semplicemente, che questa disputa è estranea al soggetto del suo libro. Ora non si può, a noi pare, in una reticenza trovare la scoperta di un nuovo principio. Nè bisogna dimenticare, che il libro fu scritto per sostenere le pretese di Lodovico il Bavaro, che veniva in Italia a far l'ultimo tentativo di ricostituire l'Impero medioevale.

In sostanza, sebbene Marsilio sia stato a giusta ragione chiamato profeta dei diritti del nuovo Stato, non credo si possa dire che egli abbia rotto ogni legame col Medio Evo. Non solo la lotta a cui piglia parte col suo libro è ancora medioevale, ma il suo metodo è sempre quello di un idealismo astratto, arido e metafisico. Le cognizioni che egli ha della storia non sono mai superiori, spesso sono anzi inferiori a quelle del suo tempo. A lui manca affatto il senso storico, il concetto della evoluzione naturale delle istituzioni, che nel suo libro sembrano messe fuori dello spazio e del tempo. La fonte principale della sua sapienza è Aristotele, coll'aiuto del quale e di altri greci o latini cerca di emanciparsi dalla Scolastica. Più che ricorrere alla storia, egli cerca di mettere in armonia Aristotele con le Sacre Carte, che sono le due autorità su cui anche la Scolastica si fondava. Le repubbliche italiane, già divenute piccoli Stati indipendenti dall'Impero, la cultura cui esse dettero origine, ebbero una gran parte nella formazione del suo pensiero. Ma tutto questo non bastò a fargli trovare un nuovo metodo scientifico, nè a condurlo ad un esame storico dei fatti. La sua è una Monarchia buona, necessaria in tutti i tempi, in tutti i luoghi; è, quasi direi, il trionfo astratto del diritto e della giustizia universale. Sebbene essa trovi la propria base nella coscienza popolare, nel che è di certo il pensiero originale dell'autore, pur tuttavia il popolo ed il monarca di Marsilio sono ancora due astrazioni. Non si sa mai se il popolo di cui ragiona, è quello di una città, di uno Stato o dell'Impero universale.

Per la scuola guelfa lo Stato è sottoposto alla Chiesa, per Marsilio invece la Chiesa divien quasi una funzione dello Stato, che riman sempre universale ed astratto, non ostante le sue reticenze. E così anche la scuola ghibellina, con tutta l'audacia e l'originalità dei propri sostenitori, andò sempre alla ricerca d'un governo ideale, metafisico; non si occupò mai di studiare nessuna società in particolare, per vedere ciò che nel caso concreto fosse preferibile e pratico.

Questo è appunto quello, a cui incominciarono a pensare gli scrittori politici italiani nel secolo XV. È singolare vedere come allora fosse sostanzialmente scomparsa quasi tutta quanta la scienza politica del Medio Evo, e ne fosse sorta un'altra, nella forma e nella sostanza, affatto diversa. Pure non c'è molto da maravigliarsi se si considera che erano mutate non solamente le idee degli uomini, ma la società stessa. Alla Scolastica era successa la erudizione; l'autorità politica d'una Chiesa e di un Impero universali sembrava divenuta appena una memoria del passato; le repubbliche italiane, per opera dei capi di parte, si andavano rapidamente alterando. Formate in origine da molte associazioni mal collegate fra di loro, esse che erano state sotto la dipendenza della Chiesa o dell'Impero, a poco a poco s'andavano, in tutta la penisola, rendendo indipendenti. Più tardi sorsero i signori o tiranni, che, commettendo delitti d'ogni sorta, vi spensero la libertà. Ed in ciò si vedeva pur troppo assai chiaramente la mano dell'uomo, l'effetto dell'astuzia, dell'inganno e dell'audacia. Questi tiranni crearono anche il primo modello degli Stati moderni, che si vennero poi formando in Europa, cui l'Italia insegnò così la nuova politica, divenuta un fatto reale prima assai che la scienza riuscisse a formularla. Nello stesso tempo lo studio degli antichi poneva dinanzi alla mente degli uomini l'immagine dello Stato pagano, che, massime a Roma, sottoponeva a sè l'individuo, la religione, ogni cosa. E così l'esempio dell'antichità risorta aiutava a meglio comprendere ed attuare il concetto che dalla realtà delle cose naturalmente sorgeva, manifestandosi come una necessità storica e sociale.

Ciò nonostante la vecchia scienza medioevale non scomparve tutta ad un tratto; essa restò ancora lungamente nascosta nei chiostri, ed alcune delle sue idee si vedevano di tanto in tanto filtrare anche nelle opere più recenti. Così, ad esempio, troviamo quasi per tutto sopravvivere l'idea dell'ottimo principe, la quale, appoggiata all'autorità degli antichi e degli scolastici, arrivò, più o meno trasformata, quasi fino a noi. - Il governo di un solo, quando è buono, è l'ottimo dei governi, com'è il pessimo, quando è cattivo. - Questo, nel secolo XV, pareva ancora a molti un assioma incontrastabile. La perfezione sta nell'unità, aveva detto la Scolastica, e lo stesso ripeteva anche con maggiore enfasi il neo-platonismo del Ficino. Come vi è un Dio unico nel mondo, un sole unico nel sistema planetario, una testa sola nell'organismo umano ed animale, così la società ha bisogno di unità, e ritrova la sua perfezione nell'ottimo monarca, che è quasi l'immagine di Dio, e solo può darle l'ottimo governo.

Chi volesse mettere a contrasto queste idee, nella loro pura forma medioevale, con le altre che, accanto ad esse, sorgevano allora per tutto, e s'imponevano a tutti, dovrebbe leggere il trattato Del Reggimento del Governo della città di Firenze, che scrisse il Savonarola, quando dirigeva la formazione della nuova repubblica. Egli espone il concetto dell'ottimo principe con tutte quante le forme scolastiche, e descrive la felicità umana sotto il suo governo. Passa poi a descrivere questo governo quando il principe è cattivo, e fa un eloquentissimo ritratto del tiranno; cerca di renderlo odioso quanto può, seguendo Aristotele e San Tommaso. Ma poi osserva a un tratto, che a Firenze, per essere gl'ingegni sottili, il tiranno sarebbe peggiore che altrove, e quindi solo la repubblica può essere adatta alla natura di quel popolo, e dar buoni frutti: essa è perciò voluta da Dio. Dinanzi ad una tal questione di pratica opportunità, svanisce la forza d'ogni teoria, d'ogni astratto ragionamento, e lo scrittore passa senz'altro a parlare del modo come fondare in Firenze la repubblica col Gonfaloniere, con la Signoria, con un Consiglio degli Ottanta, e soprattutto con un Consiglio Grande, simile a quello di Venezia, dove aveva dato così buoni frutti. Qui noi vediamo dunque una politica pratica, che risulta solo dall'esame delle condizioni reali in cui trovavasi la Città, e dall'indole del suo popolo; la vediamo messa accanto, quasi a contrasto colla politica astratta del Medio Evo, dalla quale resta affatto indipendente, anzi è in contradizione con essa. Questo avveniva però nel Savonarola, che era frate, e nel quale si trovavano in continua lotta il Medio Evo ed il Rinascimento. I suoi contemporanei procedevano invece più spediti nella nuova via, cercando quello che poteva praticamente effettuarsi, senza occuparsi d'altro.

Chi voglia davvero esaminare il passaggio naturale dall'una all'altra scuola, viene perciò necessariamente condotto a studiare gli scritti politici degli eruditi; ma è subito costretto a giudicarli inferiori così a quelli degli scolastici, da cui furono preceduti, come a quelli dei cinquecentisti, da cui furono seguiti. Di certo la letteratura degli umanisti formò, coll'esempio degli antichi, una nuova educazione intellettuale, e condusse di necessità ad esaminare i fatti sociali come puramente umani e naturali. Nelle loro lettere, nei loro viaggi noi troviamo spesso mirabilmente descritti i costumi dei popoli e le loro istituzioni, come vi troviamo preziose osservazioni sulle cause della loro decadenza e del loro risorgimento. Non s'incontra più la eterna spiegazione della mano di Dio, che conduce i popoli come un abile cocchiere guida focosi cavalli, perchè lo scrittore cerca invece e trova la spiegazione dei fatti che osserva, nell'indole degli uomini, nei loro vizî e nelle loro virtù. Questa nuova tendenza del loro spirito può anzi dirsi il solo lato veramente originale degli eruditi, come scrittori politici. Se infatti noi leggiamo i pochi trattati che essi ci lasciarono in tale disciplina, sembrano piuttosto florilegi di classiche frasi intorno alle virtù ed ai vizî degli uomini in generale, e dei principi in particolare, che veri e proprî trattati scientifici. Tali sono alcuni lavori del Panormita, del Platina e di molti altri.

Gioviano Pontano era non solo un grande erudito ed un grande scrittore di versi latini; ma anche un politico ed un diplomatico accortissimo, uno dei principali ministri nella corte napoletana di Ferdinando d'Aragona, e s'era perciò trovato lungamente a condurre grandi affari. Eppure che cosa ci dice nel suo libro De Principe? Che il principe deve amar la giustizia e rispettare gli Dei: essere liberale, affabile, clemente, nemico degli adulatori, osservatore della fede, forte, prudente; esercitarsi alla caccia, alle armi; soprattutto poi essere amico e protettore dei letterati. E chi non s'avvede che si tratta proprio d'esercizio rettorico, quando egli ci racconta sul serio, che papa Calisto III, minacciato da Iacopo Piccinini, disse che non aveva nulla a temere, perchè v'erano in Roma da tremila letterati, con i consigli e la prudenza dei quali poteva respingere qualunque più poderoso esercito? Che cosa ci insegna Poggio Bracciolini nel suo dialogo De infelicitate Principum? Che il potere e tutte le condizioni esteriori non possono dare all'uomo la vera felicità, la quale invece viene solamente dalla virtù; e però bisogna cercar questa, non la ricchezza nè la potenza. Egli percorre la storia, cercando esempî a provare come i più grandi monarchi non poterono evitare d'essere infelici. Se un principe è cattivo, non può certo esser felice; se è buono, deve essere infelice per la grande responsabilità, le cure, i fastidî infiniti che l'opprimono. La felicità adunque trovasi solo nelle case dei privati cittadini, che sanno avere il culto della vera filosofia. Chi vorrà supporre che tutto questo sia scienza politica? Eppure nei viaggi del Bracciolini appunto noi troviamo mirabili osservazioni sui costumi, le istituzioni inglesi e tedesche, e molte se ne trovano anche negli scritti del Piccolomini e di moltissimi altri eruditi. Nelle lettere diplomatiche del Pontano poi ognuno può riconoscere un gran senno pratico, una vera sapienza politica. Non si direbbe che siano scritte dall'autore del trattato.

Tale è nondimeno la via per la quale s'andò formando la nuova scienza politica. L'erudizione dette solo l'educazione intellettuale, necessaria a crearla; ma essa comparve davvero la prima volta nelle lettere e nelle relazioni degli ambasciatori e dei diplomatici, i quali negli ultimi decenni del secolo XV e nei primi del XVI s'andarono moltiplicando in modo veramente singolare. Nei dispacci di Ferdinando d'Aragona, che portano la firma del Pontano; in quelli degli ambasciatori fiorentini al tempo della venuta di Carlo VIII; in quelli dei Veneziani e nelle loro celebri relazioni, come più o meno in tutti gli scritti diplomatici dei governi e degli ambasciatori italiani, noi ci troviamo addirittura in un mondo nuovo. Hanno abbandonato la lingua latina; non sanno più che cosa sia la Scolastica; osservano, studiano gli uomini, le istituzioni politiche con un acume meraviglioso, con la più consumata esperienza; indagano le cagioni degli avvenimenti e della condotta degli uomini di Stato con un vero metodo induttivo, sperimentale, che a un tratto si riscontra in tutti, senza che possa dirsi chi lo abbia primo inventato, perchè fu in realtà trovato da tutta la nazione. Di tanto in tanto incontriamo alcune considerazioni generali, che sono sempre d'una mirabile evidenza e penetrazione; ma si torna subito alla narrazione dei fatti presenti, alla discussione delle notizie più riposte, e tutto ciò forma costantemente il pensiero dominante di tali scritti. In sostanza può dirsi veramente che in queste legazioni già si trovi non solo la forma, ma anche il metodo della nuova scienza, sebbene tutto ciò apparisca a brani staccati, che sembrano invocare chi venga finalmente a riunirli. Era quindi impossibile che non si cominciassero a fare tentativi per raccogliere le fronde sparse d'una dottrina, la quale, nata già in mezzo agli affari ed alla realtà della vita, come conseguenza inevitabile delle nuove condizioni sociali, del nuovo modo di osservare e di conoscere il mondo, aspettava solo, per apparir visibile ad ognuno, e manifestar tutto quanto il suo valore, di essere scientificamente ordinata ed esposta. Così sembrò che sorgesse ad un tratto, già formata, e come Minerva uscita inaspettatamente dalla testa di Giove, quando invece s'era andata lungamente e laboriosamente preparando.

Chi voglia con precisione conoscere questa scuola e le sue dottrine, deve attentamente studiare le opere politiche di Francesco Guicciardini. In esse la vediamo meglio ancora che in quelle del Machiavelli, perchè questi, con la originalità creatrice del suo genio, v'introduce un elemento personale, le dà una propria impronta, quando invece la originalità, pure grandissima, del Guicciardini, si manifesta nel dare una forma singolarmente limpida e precisa alle dottrine prevalenti al suo tempo, le quali egli svolge, ordina, arricchisce coi resultati della sua prodigiosa esperienza, con la sua grande conoscenza degli uomini e degli affari, con una esattezza nell'osservare, ricordare e ritrarre i fatti, alla quale non giunse neppure lo stesso Machiavelli, troppo occupato nella ricerca delle sue teorie, nel correr dietro ai suoi ideali.

Il Guicciardini, che era contemporaneo, ma più giovane del Machiavelli, cominciò, al pari di questo, i suoi scritti politici con le legazioni, e prima fu quella di Spagna, dove s'iniziò veramente alla pratica dei pubblici affari, e dove compose qualche altro brevissimo lavoro. Ivi andò nel 1511, quando ancora non aveva trent'anni; ma aveva già fatto buoni e lunghi studi, dato prova del suo mirabile ingegno nella Storia fiorentina, che fu pubblicata solo ai nostri giorni. La sua legazione ebbe poca importanza, perchè, come vedemmo, egli fu mandato solo a dissipare i sospetti del Re con proteste d'amicizia, nè potè fare altro che osservare, raccogliere e riferire notizie. A ciò s'aggiungeva che egli, accorto com'era, già presentiva i mutamenti che poco dopo seguirono in Firenze, e non voleva in nessun modo esporsi a qualche rischio, e perciò cercava di restar sempre sulle generali. Annunziò sin dal principio che Ferdinando il Cattolico era deciso a non operar nulla contro il Papa; descrisse i disegni iniziati e poi abbandonati di rimandare in Italia il Gran Capitano, quando le cose parevano disperate per la Spagna; narrò le venuta degl'inglesi e il loro scontento, quando il Re s'impadronì, a tradimento e per conto proprio, della Navarra; dette sul paese e sul governo molte notizie utili, chiare, precise, che dimostrarono subito qual maraviglioso osservatore egli fosse. Queste notizie restano però quasi sempre slegate, perchè raccolte alla rinfusa, di tempo in tempo, secondo l'occasione, senza che mai egli si sforzi di coordinarle per modo da dare un concetto generale e chiaro sull'insieme delle cose, sul carattere del popolo e del principe, il che era invece quello a cui il Machiavelli mirava costantemente nelle sue legazioni. E ciò fa subito distinguere l'indole dei due scrittori.

Il Guicciardini scrisse allora per proprio conto anche una Relazione di Spagna, nella quale volle riunire le principali osservazioni, che gli era occorso di fare nella sua dimora colà, seguendo però sempre il suo metodo analitico. Trova il paese poco popolato, senza terre, borghi o castelli fra una città grossa e l'altra, ma solo campagne deserte. Ha un'assai cattiva opinione degli Spagnuoli, che dice superbi di loro nazione, avidi del danaro, avari, poco amanti del lavoro, senza industria, senza cultura letteraria, e soprattutto astuti e falsi. «Sono,» egli dice, «per essere astuti, buoni ladri.... È proprio di questa nazione la simulazione,... e da questa simulazione nascono le cerimonie e ipocrisia grande.» Singolare deve certo parere una così acerba accusa di astuzia e simulazione, fatta da un politico italiano del secolo dei Borgia, il quale confessa d'essersi in tutta la vita, sopra ogni altra cosa, occupato del suo particolare, e che più tardi fu dai suoi concittadini accusato d'aver tradito la patria. Egli riconosce le grandi qualità militari degli Spagnuoli, che trova agilissimi e fieri; non ha grande opinione dei loro uomini d'arme, ma loda i loro cavalli leggieri, e dice eccellentissimi i fanti, che di fatto poi nella battaglia di Ravenna provarono d'essere uguali agli Svizzeri, giudicati sino allora i primi del mondo. Ma questo grande valore militare della Spagna non desta in lui verun entusiasmo, e non lo induce neppure a trarne conclusioni generali sullo stato presente e sull'avvenire probabile di quella nazione, sulla sua forza, sul suo inevitabile destino nel mondo. Un giorno egli interrogò re Ferdinando: - Come mai un popolo così armigero era stato sempre conquistato in tutto o in parte «dai Galli, dai Romani, dai Cartaginesi, dai Vandali, dai Mori?» - La nazione, rispose il Re, è assai atta alle armi, ma disordinata, laonde può farne gran cosa solo chi sappia tenerla unita ed in ordine. - E questo è infatti, osserva giustamente il Guicciardini, ciò che fecero Ferdinando ed Isabella: abbassarono i grandi, spensero le rivoluzioni, s'impadronirono dello straordinario potere che avevano colà i tre Ordini dei cavalieri, e così poterono spingere la Spagna alle grandi imprese militari. In esse Ferdinando ebbe la singolare fortuna di cominciar la guerra sempre con apparenza di giustizia, fatta solo eccezione della iniqua ripartizione del reame di Napoli, alla quale non vi fu mai scusa o pretesto di sorta.

Qui è chiaro che si fa strada, come da sè stesso, un concetto generale sulla forza reale che aveva allora la Spagna, e sul valore della politica nazionale di Ferdinando ed Isabella. Ma il Guicciardini non vi si ferma; anzi dopo avere mirabilmente osservato i fatti speciali, attribuisce i grandi successi ottenuti dal Re più alla fortuna che alla sua prudenza ed alle qualità militari del suo popolo. Così anche qui tutto riman diviso in osservazioni slegate, al che contribuisce la forma stessa della Relazione, che è composta di paragrafi staccati. Qualche volta troviamo confinate nei Ricordi, che sono addirittura pensieri staccati, alcune considerazioni generali che, se fossero nella Relazione, avrebbero potuto darle maggiore unità, facendo veder chiaro come il governo di Ferdinando d'Aragona ebbe non solo fortuna, ma ancora prudenza grande. Infatti il Guicciardini qui nota, che il Re, quando voleva intraprendere una guerra, la faceva prima desiderare da tutto il suo popolo, in modo da parer come forzato a farla, e così persuadeva poi ognuno, che egli era mosso unicamente dal pubblico bene, anche quando operava per interesse suo personale, per sola ambizione di principe. Ma questa e simili osservazioni, restando isolate e quasi abbandonate a sè stesse, perdono gran parte del valore scientifico e più generale che potrebbero avere. Così ad ogni passo noi abbiamo occasione di riconoscere la grande differenza che corre fra l'ingegno del Guicciardini e quello del Machiavelli, i quali pur sotto alcuni aspetti si somigliano tanto. Questi è un osservatore meno paziente, meno preciso, meno sicuro; ma ha il dono singolarissimo di ritrovare subito, tra mille fatti che gli cadono sotto gli occhi, quello che è veramente principale, e su di esso si ferma. Abbiamo già visto come, appena che si trovò fra gli Svizzeri, la loro «libera libertà» e il popolo armato e i costumi semplici furono subito il suo punto di partenza per misurare la forza e predire la fortuna di quelle piccole repubbliche. E quando ci parlò della Francia e della Germania, lo abbiamo veduto del pari cercar sempre nell'esame dei fatti principali, quasi diremmo, il peso specifico, così politico come militare, delle due nazioni, e nello studio del presente indagar le probabilità dell'avvenire. A queste ricerche, a queste predizioni il Guicciardini non si sentiva punto inclinato; le reputava anzi poco meno che oziose.

Il problema che egli proponeva costantemente a sè stesso, nella vita pubblica e nella privata, era l'utile immediato e la pratica soluzione delle difficoltà che via via gli si presentavano, senza punto occuparsi d'un prima o d'un poi troppo lontani. I precetti, le massime lungamente meditate della sua scienza e della sua esperienza, li aveva cercati, e li metteva in pratica sopra tutto per ottenere i suoi fini personali. Nella Spagna seguiva da lontano con occhio vigile gli avvenimenti d'Italia, massime di Firenze, donde i parenti e gli amici con lettere lo ragguagliavano d'ogni cosa. Quando poi mutò il governo in Firenze, e coloro che avevano abbattuto la Repubblica, che egli era stato mandato colà a difendere, gli confermarono la legazione, egli con lieto animo accettò subito il nuovo incarico, e cercò dal padre e dal fratello di conoscere il nome dei nuovi potenti, per guadagnarsi il loro favore, come fece scrivendo a tutti i Medici, e più specialmente a Leone X, non appena questi fu eletto papa. Maestro singolare nell'arte di accomodarsi ai tempi, egli ci reca non poca maraviglia, quando lo vediamo, finito che ebbe il trentesimo anno, rivolgere a sè stesso, nelle sue Memorie (che non voleva fossero pubblicate) una specie di religioso sermone, col quale s'incitava a migliorare i propri costumi; a far buon uso dei doni ricevuti dalla Provvidenza, e degli alti uffici avuti da' suoi concittadini; a condursi nelle cose spirituali in modo, «che Dio per sua benignità ti abbi a dare quella parte in Paradiso, che tu medesimo desideri nel mondo.» In sostanza il problema che egli costantemente si propone, è di condursi in modo e con tanta prudenza, da riuscire a godersi questa vita e l'altra, senza mai nulla sacrificare de' suoi interessi e de' suoi comodi.

Della sua facile mutabilità abbiamo una prova in due dei vari Discorsi, che scrisse nella Spagna. In uno di essi, che fu composto poco innanzi alla battaglia di Ravenna, egli discute il modo di riordinare e rafforzare il governo popolare in Firenze; nell'altro, che scrisse subito dopo la battaglia, quando sapeva già tornati i Medici, consiglia invece i modi di rafforzare ed assicurare il loro potere. Incomincia nel primo dall'osservare, che l'indole ed il vivere corrotto dei Fiorentini eran poco adatti ad una buona repubblica; e che a ridurli quale avrebbero dovuti essere, «bisognerebbe fare un cumulo d'ogni cosa, dando loro una forma affatto nuova, come si fa quando si lavorano cose da mangiare di pasta.» Nondimeno, date le cose quali sono, egli cerca i provvedimenti più adatti. Vuole prima di tutto aver buona milizia, migliorando quell'Ordinanza che, dopo molte opposizioni, era stata deliberata e veniva universalmente lodata, ma sulla quale egli non ebbe mai le grandi illusioni del Machiavelli. «Il governo,» secondo lui, «è fondato sulla forza, e volerne uno senza armi, sarebbe come volere un esercizio senza il suo proprio strumento; giacchè non è altro lo Stato e lo imperio, che una violenza sopra i sudditi, palliata in alcuni con qualche titulo di onestà.» La libertà non è altro che «un prevalere delle leggi e degli ordini pubblici sullo appetito degli uomini particolari;» e però deve esserne base il Consiglio Grande, in cui i cittadini riuniti approvino le leggi, ed eleggano agli uffici. Questa era allora per i politici italiani la vera ed unica salvaguardia d'ogni libero governo. Tutto si riduceva per essi a fare in modo che le elezioni dei magistrati fossero garantite a vantaggio del pubblico contro ogni possibile corruzione; che gli uffici politici girassero di continuo, affinchè il lungo esercizio del potere non facesse nascer la voglia e l'opportunità di farsi tiranno. E quindi si studiavano mille congegni, più o meno artificiosi, per ottenere l'intento. Il Guicciardini proponeva, che s'ammettessero nel Consiglio anche alcuni di coloro ai quali, per l'età o per altra ragione, era dalle leggi vietato di occupare gli ufficî. Non potendo essi patteggiare per conto proprio, sarebbero stati, egli diceva, più disinteressati, e avrebbero votato, imparzialmente.

Un altro principale fondamento della libertà si credeva allora che fosse la uguaglianza di tutti i cittadini nel pigliar parte al governo. Anche perciò, osservava il Guicciardini e con lui tutti i politici italiani del tempo, è necessario che gli uffici girino sempre e, salvo qualche rara eccezione, non siano mai perpetui. Varie essendo poi le faccende e varie le ambizioni, cui bisogna soddisfare, se si vuole che la Città resti tranquilla, vari ancora debbono essere gli uffici, la loro durata e la loro autorità. E prima di tutto egli vuole a capo del governo un Gonfaloniere a vita; «giacchè si vede anche nelle cose naturali, che il numero di uno ha perfezione.» Qui noi abbiamo, è vero, un accenno alle vecchie teorie filosofiche ed astratte; ma il Guicciardini ne rifugge poi subito. Egli non conosce la scolastica; non ama la filosofia; è stato educato con la giurisprudenza, della quale però non parla mai nelle sue opere politiche, tornando invece di continuo alla questione pratica. Il momento che passa, l'ora che fugge, quello che è possibile, son le cose cui la sua attenzione è sempre rivolta. Vuole che il Gonfaloniere perpetuo abbia un freno nella Signoria, cui dà molta autorità, e nel Senato, che compone di 160 o 180 cittadini, parte a vita, parte a tempo: i primi perchè acquistino lunga esperienza, i secondi per impedire ogni eccesso di potere, e per far girare in molti anche la dignità di Senatore. E qui aggiunge una proposta, che s'innalza al di sopra dei pregiudizi e delle tradizioni più inveterate del suo tempo. È noto che nei Consigli della repubblica fiorentina era severamente proibito il parlare contro le proposte di leggi, che venivan sempre fatte dalla Signoria. Si poteva votar contro, si poteva parlare e votare in favore; ma il parlar contro una legge era allora vietato persino colle pene d'esilio o di prigionia. Il Guicciardini invece afferma saviamente, che se era pericoloso ammettere una libera discussione nel Consiglio Grande, dove la moltitudine avrebbe potuto portar confusione; essa era necessaria non che utile nel Senato, e l'averla vietata in Firenze fu tirannia, non libertà. La discussione farebbe più maturamente deliberare, farebbe conoscere gli uomini esperti, e darebbe loro una meritata autorità. «E che cosa,» egli esclamava, abbandonandosi finalmente una volta all'entusiasmo, «che cosa può un animo generoso desiderare di meglio, che trovarsi a capo d'una città libera, portatovi solo dall'essere riconosciuto prudente e amatore della patria? Felici le repubbliche, che sono piene di queste ambizioni, perchè è necessario che in esse fioriscano quelle arti, che conducono a questi gradi, cioè la virtù e le opere buone.»

In sostanza questo governo del Guicciardini non è altro che un meccanismo, col quale si cerca di fare in modo che tutte le ambizioni si bilancino, e i pregi della monarchia, dell'aristocrazia e della democrazia si contemperino a vicenda, mediante il Gonfaloniere, il Senato ed il Consiglio Grande. È il concetto del governo misto, che troviamo in tutti gli scrittori politici italiani, tramandato ad essi dall'antichità, massime coi frammenti del sesto libro di Polibio, allora già tradotti e molto diffusi tra noi. Questi scrittori però, specialmente in Firenze, s'ingegnavano di modificare un tale concetto, per adattarlo alle condizioni speciali della loro repubblica. Sebbene essi cercassero sempre nell'antichità un sostegno autorevole a tutte le loro teorie politiche, anche a quelle suggerite dalla propria esperienza, era nondimeno divenuta una convinzione assai generale, che il governo dovesse adattarsi alla natura del popolo, cui si voleva dare. Ancora però non si vedeva che esso deve nascere spontaneo dalla storia e dalla coscienza popolare; che non basta averlo prima armonicamente formato nella testa dei pensatori, per presumere poi d'imporlo alla società. E neppure si capiva che era un concetto assai errato il ritenere la vita politica d'una nazione ed il suo governo, come un semplice gioco di passioni e d'interessi personali da frenare o soddisfare. Donato Giannotti, uno dei più intemerati patriotti fiorentini, uno degli ultimi rappresentanti di quella scuola, passò tutta la sua vita studiando il governo veneziano, per migliorare con tale esempio quello di Firenze, dandoci dell'uno e dell'altro una descrizione minutissima. Ma il suo costante criterio nello scegliere e nel correggere è sempre lo stesso: formare, ordinare le istituzioni in modo che soddisfino tutte le ambizioni, tutte le passioni dei cittadini, le quali sono per lui sempre e solo politiche. Alcuni, egli dice, vogliono primeggiare; altri, in maggior numero, sono contenti d'aver qualche parte al governo, per potere anch'essi comandare; i più vogliono uguaglianza, libertà e giustizia. Quindi il bisogno di temperare la democrazia con l'aristocrazia e con la monarchia, il che lo portava sempre a proporre un Gonfaloniere con la Signoria, il Senato ed il Consiglio Grande. E questi erano i ragionamenti che di continuo si ripetevano allora da tutti in Firenze.

Ma il Guicciardini aveva una vista assai più lunga, una mente assai più larga del Giannotti e di molti altri; e però non poteva sfuggirgli del tutto il lato debole di queste teorie, la insufficienza di questo metodo artificioso. Di tanto in tanto egli rompeva perciò l'involucro della scuola; ed abbiamo allora idee più elevate ed ardite, che sono lampi di luce inaspettata. Se non che, la sua indifferenza, il suo disgusto e quasi disprezzo per tutte le teorie, lo fanno sempre tornar nella via da lui sin dai primi anni battuta, che di rado assai egli abbandona, raccogliendo però sempre per via osservazioni vere e profonde sugli uomini e sulle istituzioni. Alla fine del suo Discorso egli ricorda di nuovo, che in sostanza tutto dipende dalla natura, dal carattere del popolo, e che perciò in Firenze ogni riforma riuscirà vana, se non sarà possibile migliorar prima radicalmente il popolo. Con i provvedimenti che propone, si farà, egli dice, una repubblica appena tollerabile; «a volerla far buona davvero, ci vorrebbe, il coltello di Licurgo, che estirpasse dalla radice la nostra mollezza, la nostra avidità di guadagno, la nostra vanagloria, come egli fece a Sparta. Ma questa è cosa che possiamo ammirare o desiderare, non mai sperare fra noi.» E torna di nuovo ai piccoli temperamenti, concludendo col proporre una legge contro il lusso delle donne, ed un'altra che diminuisca le doti, leggi tante volte e tanto inutilmente proposte e sanzionate nella repubblica fiorentina.

Il secondo Discorso, da lui scritto nell'ottobre del 1512, ragiona sulle condizioni dei partiti in Firenze, e sul modo d'assicurare il governo dei Medici, che già avevano trionfato. Questi, egli osserva, non possono ormai sperare di farsi amico il popolo, da lungo tempo affezionato alla libertà; debbono quindi pensar solo a formarsi un circolo ristretto d'amici sicuri e fidati, fra i quali dividere i principali uffici, favorendoli in ogni modo, per renderne la sorte inseparabile da quella del nuovo governo. Il Soderini era caduto, perchè aveva voluto condurre una repubblica coi mezzi e modi che sono contrari alla libertà, restringendo cioè il governo nelle mani di pochi amici; lo stesso seguirebbe ai Medici, quando s'ostinassero a voler governare coi modi proprî della libertà, cioè allargando il governo nelle mani di molti, sperando così di trovar favore e sostegno nella universalità dei cittadini.

Nel leggere e paragonare questi due Discorsi vien fatto di chiedere: il Guicciardini era dunque repubblicano o amico dei Medici, fautore della libertà o della tirannide? Ma questa sarebbe stata per lui una domanda oziosa. La sua politica consisteva principalmente nel saper risolvere, secondo i proprî interessi, il problema che di giorno in giorno si presentava, qualunque esso fosse. Egli mirava a farsi strada sotto qualsivoglia governo, a trovare il modo più rapido e sicuro di salire in alto, e lo dice di continuo, senza ambagi. Di certo quando, chiuso nel suo studio, con la penna in mano, scriveva per sola soddisfazione del suo animo, allora, levandosi assai più in alto, dichiarava aperto, che la libertà era di gran lunga preferibile al dispotismo, e naturalmente desiderata dagli uomini. In Firenze, egli lo riconosceva, non era possibile, senza violenza, altro che una repubblica popolare; ma appunto perciò egli diceva ai Medici che, se volevano assicurarsi del potere, era loro necessario ricorrere alla forza. Per indole sua propria, per inclinazione e per educazione della sua mente, non aveva nessuna fiducia nel popolo: anche alla repubblica voleva perciò dare una forma ristretta, ponendola in mano di pochi ottimati. Ed è questo un altro punto, nel quale si allontanava assai dal Machiavelli, che era invece fautore del popolo.

Queste medesime tendenze del suo spirito si trovano nel suo trattato Del Reggimento di Firenze, che è d'indole assai più generale. Ma il titolo del libro non deve farci supporre, che l'autore voglia in esso svolgere una teoria scientifica di governo; egli dà solo una maggiore ampiezza, un ordine più logico a tutto ciò che abbiamo trovato nel primo dei Discorsi già menzionati. È un dialogo, che sebbene composto molto più tardi, si suppone tenuto nell'anno 1494, dopo la cacciata dei Medici, fra Bernardo del Nero loro ardente partigiano, Piero Guicciardini padre dello scrittore, Paolo Antonio Soderini e Piero Capponi. Nella prefazione l'autore comincia con lo scusarsi di scrivere in favore del governo libero, dopo aver servito Leone X e Clemente VII, dai quali era stato beneficato. Ma le volontà e i desiderî degli uomini sono, egli dice, diversi dalle considerazioni sulla natura delle cose; la verità sta per sè stessa, e gli obblighi verso la patria sono in ogni caso maggiori di quelli verso i privati. Anche quest'opera è una di quelle che restarono inedite sino ai nostri giorni. Ed è singolare davvero il vedere come in un uomo interessato ed ambizioso, quale era il Guicciardini, l'amor delle lettere potesse essere così vivo e disinteressato da fargli comporre tante opere, senza altro scopo che il proprio soddisfacimento. E questo dà ad esse un maggior valore, e fa conoscere con maggiore sicurezza le opinioni e convinzioni vere dello scrittore.

Il dialogo, adunque, incomincia col dire che il miglior governo è quello d'un solo, quando il principe è buono; ma poi si allontana subito da questa teoria, osservando qualcuno degl'interlocutori, che a Firenze non ci sarebbero che i Medici, nei quali non si poteva riporre speranza di bene, perchè essi si erano impadroniti del governo con l'inganno e la forza, contro la volontà popolare. A tal punto Bernardo del Nero, lo stesso che nel 1497 fu condannato a morte, per aver cospirato in loro favore, piglia le difese di essi e del principato in genere. Dice che a lui non importa sapere nè disputare di quale specie sia un governo; ma vuol sapere piuttosto che effetti porta là dove è introdotto, perchè i giovani sono destinati al bene dei cittadini, non a soddisfare le ambizioni di chi comanda o vuol comandare. Le città furono istituite a comune utilità, ed il maggior vincolo sta nella mutua benevolenza dei cittadini, il cui primo e principale bisogno è la giustizia. Gli uomini sono per natura portati al bene, quando l'interesse non li faccia deviare, e se alcuni vanno al male senza ragione, meritano d'essere chiamati più presto bestie che uomini. Ora il governo popolare, continua Bernardo del Nero, non può essere il meglio adatto al sopra indicato fine, perchè è sempre debole, incerto e mutabile; il principato invece è più forte, più pronto, più segreto nel condurre i suoi affari, e anche più intelligente, trovandosi la prudenza nei pochi, non già nei molti. Altri interlocutori lo combattono, dicendo che così si riduce il governo al solo utile ed interesse privato; la giustizia, essi aggiungono, non basta, bisogna cercare anche l'onore e la gloria.

Ma su di ciò e sopra altri argomenti teorici si fermano poco, per ritornare invece a biasimare la condotta dei Medici, i molti mali che essi fecero a Firenze, e i maggiori che farebbero, quando vi tornassero dopo esserne stati cacciati. Ed in tale questione di opportunità la sola in cui veramente si riscaldino, vengono finalmente tutti d'accordo. Bernardo del Nero, infatti, conchiude dicendo: «Ormai i Medici sono cacciati, e non si può desiderarli, perchè se furono buoni, tornerebbero tristi. Si cerchi adunque la miglior forma di governo libero, il solo che sia ora opportuno e possibile in Firenze.» Dopo di che incomincia ad esporre e sostenere, con qualche lieve modificazione, la stessa forma di repubblica che vedemmo proposta nel primo dei Discorsi da noi esaminati. Ciò che principalmente bisogna aver di mira, egli dice, sono tre cose: giustizia per tutti, difesa della libertà, matura deliberazione nelle cose più importanti. E però un Consiglio Grande, che elegga ai principali ufficî, è quello che sopra tutto si richiede. E ad evitare poi che i più ambiziosi cerchino, con ogni mezzo onesto o disonesto, il favore del popolo, non si lasci al Consiglio la elezione del Gonfaloniere; ma solo il diritto di proporre una terna al Senato, che farà la scelta definitiva. Questo sarà composto di 150 senatori savî e prudenti, i quali discuteranno con ogni libertà e maturamente tutte le deliberazioni. E così continua la esposizione, che noi non riferiamo, per non ripetere il già detto.

Seguono alcuni ragionamenti sulla storia di Roma e delle sue guerre civili, dai quali apparisce che il Guicciardini aveva lungamente e acutamente meditato l'arduo soggetto. In fine del dialogo troviamo di nuovo considerazioni, le quali tornano a farci vedere, ed anche più chiaramente, come nel fondo del suo animo restassero sempre gravi dubbî sulla base stessa su cui tutta la sua dottrina politica riposava, e come su questi dubbî egli non volesse fermarsi punto, perchè non vedeva nessuna pratica utilità nel discuterli, non sapendo scientificamente trovarvi un'uscita. Bernardo del Nero, entrando infatti a parlare con Piero Capponi della guerra di Pisa, osserva che ai Fiorentini non riuscirà mai di farsi amici i Pisani, e però dovrebbero, per indebolirli, uccidere tutti i prigionieri, o almeno tenerli in carcere sino a guerra finita, non spaventandosi punto se, per rappresaglia, la medesima sorte toccasse ai loro soldati. Questo consiglio, egli dice, può sembrare crudele e senza coscienza, anzi tale è veramente. Ma «chi vuole tenere oggidì i domìnî e gli Stati, debbe, dove si può, usare la pietà e la bontà; e dove non si può, fare altrimenti, è necessario che usi la crudeltà e la poca coscienza. E però scrisse Gino tuo bisavolo in quegli suoi ultimi Ricordi: che bisognava fare dei Dieci della guerra persone che amassero più la patria che la anima, perchè è impossibile regolare i governi e gli Stati, volendo tenerli nel modo che si tengono oggi, secondo i precetti della legge cristiana.» Certo, egli continua, non si può allegare qualche buona ragione «perchè nell'uno caso si abbia a osservare la coscienza, nell'altro non si abbia a tenerne conto. Il che io ho voluto dire, non per dare sentenza in queste difficultà, che sono grandissime, poichè chi vuol vivere totalmente secondo Dio, può mal fare di non si allontanare dal vivere del mondo, e male si può vivere secondo il mondo, senza offendere Dio; ma per parlare secondo che ricerca la natura delle cose in verità, poichè la occasione ci ha tirati in questo ragionamento, il quale si può comportare tra noi, ma non sarebbe però da usarlo con altri, nè dove fussino più persone.»

Noi dunque siamo partiti dal Medio Evo, in cui tutto era in teoria sottomesso alla morale, alla giustizia ed alla religione; ma si restava nell'astratto, senza tener conto nè dei fatti reali, nè della storia, nè della natura dell'uomo e della società; e siamo arrivati ad un altro tempo, in cui la scienza politica si fonda invece sull'esame razionale dei fatti, ma si trova in contradizione colla religione e colla morale, lasciando un profondo dissidio nell'animo dell'uomo, il quale ha una coscienza e non può averne due. Questo dissidio, cominciato nel secolo XV, è continuato fino a' nostri giorni, nè siamo oggi riusciti a sopprimerlo del tutto nella pratica e neppure nella teorìa. Il Medio Evo aveva risoluto il problema, sacrificando la patria terrena alla celeste; ma la sua dottrina era un'astrazione, che non ebbe mai nessuna pratica efficacia a guidare la condotta degli uomini e dei governi, i quali restavano infatti feroci e crudeli, quando i libri predicavano la mansuetudine ed il misticismo teologico. Il secolo XV volle invece seguire l'esperienza, e lasciarsi guidare dalla ragione, la quale allora pareva rappresentata dalla filosofia antica. Ma così il dissidio tra la politica ed il Cristianesimo diveniva sempre maggiore. L'antichità presentava l'idea dello Stato laico; esaltava la patria e la libertà; lodava lo sterminio, anche feroce, dei nemici di quella, e l'uccisione dei tiranni. Il Vangelo insegnava invece una religione universale; non parlava nè di Stato, nè di patria; inculcava una morale di carità, di modestia, di abnegazione, che nessuno seguiva nella vita pubblica, e che anzi, secondo la natura delle cose, così almeno diceva il Guicciardini, sarebbe riuscita pericolosissima alla patria ed a chi avesse voluto scrupolosamente adottarla nel governo degli Stati. Questo conflitto era sorto da lungo tempo, ed in mille modi si manifestò, non solo nella letteratura e nella scienza, ma anche nella vita. L'abbiamo visto in Girolamo Olgiati, quando eccitato dalla lettura dei classici all'odio contro l'oppressore di Milano, chiedeva perdono a Sant'Ambrogio, se fra poco avrebbe macchiato di sangue il suo altare, e lo pregava che non lasciasse fallire il colpo che doveva spegnere l'iniquità. Condotto a morte, egli invocava la Madonna, ed esaltava in distici latini gli uccisori dei tiranni. Lo abbiam visto in Pietro Paolo Boscoli, che si dichiarava pronto ad affrontare coraggiosamente la morte per amore della libertà, se s'ispirava ai filosofi greci e romani; ma incapace di morire per essa da buon cristiano. Sulle rovine del Medio Evo s'andava ricostituendo l'idea dello Stato e della patria coi frammenti dell'antichità risorta, e quest'idea pareva allora inevitabilmente destinata a mettersi in opposizione colla morale cristiana.

Il Guicciardini, trovando il conflitto, lo notava come un fatto, senza pretendere di spiegarlo, anzi dicendo che era meglio parlarne tra pochi ed a bassa voce. E però i suoi consigli, le sue massime politiche, per quanto accorte e pratiche, si riducevano a semplici osservazioni staccate, a temperamenti, a ripieghi per condurre innanzi le cose più o meno destramente, senza poter mai arrivare a proporre una radicale riforma, senza poter creare un nuovo sistema di scienza politica, molto meno poi aprire la via a formare un nuovo Stato o un nuovo popolo. Ma egli non mirava così alto. I sistemi non li cercava, le ardite ipotesi non gli piacevano: raccoglieva il frutto della esperienza quotidiana sua e degli altri, registrando di volta in volta le proprie idee, non cercando mai di coordinarle in unità organica, sotto qualche principio o anche massima più generale. Tutto ciò, se da un lato era un difetto, gli dava dall'altro il grandissimo vantaggio di poter esporre agli altri le sue osservazioni nella loro forma originale, genuina e pratica, colla stessa spontaneità con cui si presentavano a lui, senza portarvi alcuna alterazione, per coordinarle sistematicamente. E però nei Ricordi politici e civili, le qualità del suo ingegno risplendono con una invidiabile ed inarrivabile chiarezza. Difficilmente infatti si troverebbe nelle letterature moderne un'altra serie di massime e sentenze, che rivelino con uguale precisione il pensiero politico e morale di un uomo, di un secolo intero.

In questi suoi Ricordi l'autore ripete di continuo, che è un grande errore «il voler parlare delle cose del mondo in termini generali e per regole; giacchè quasi tutte le regole hanno eccezioni, le quali si possono scrivere solo nel libro della discrezione. La teoria è assai diversa dalla pratica, e molti che intendono quella non sanno poi metterla in atto. Nè giova il discorrere per esempi, perchè ogni piccola varietà nel caso particolare, porta grandissima variazione nell'effetto. S'ingannano quindi assai coloro (e qui evidentemente allude al Machiavelli) che allegano sempre i Romani. Bisognerebbe avere una città condizionata com'era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio.» Ma altrove afferma, senza pensare che imita appunto una di quelle sentenze generali, da lui tanto rimproverate al Machiavelli: «Che le cose passate fanno lume alle future, perchè il mondo fu sempre di una medesima sorte, e tutto quello che è e sarà, è stato in altro tempo, e le cose medesime ritornano, ma sotto diversi nomi e colori; però ognuno non le ricognosce, ma solo chi è savio le osserva e considera diligentemente.» E ripete un'altra sentenza del Machiavelli quando, discorrendo del potere che ha la fortuna sulle cose umane, conclude che ognuno deve desiderare di «abbattersi in tempi nei quali le proprie qualità riescano opportune ed utili, siano intese e tenute in pregio universalmente. Chi potesse variare la sua natura secondo i tempi, il che è molto difficile, se non impossibile, sarebbe assai meno dominato dalla fortuna.» Ma su queste osservazioni, suggerite in parte dagli antichi, in parte dall'esperienza propria, il Machiavelli si ferma e cerca una legge e costruisce norme generali, che servono di base ad una scienza nuova, il Guicciardini invece nota e passa oltre.

Anche in questi Ricordi egli ripete che «non si possono tenere gli Stati secondo coscienza, perchè, salvo le repubbliche nella patria loro (o sia nella città dominante), sono tutti violenti, non escluso l'Imperatore, e più ancora i preti, la violenza dei quali è doppia, perchè ci sforzano con le armi temporali e con le spirituali.» I sudditi d'una repubblica poi, cioè quelli che non sono cittadini della dominante, stanno peggio che quelli d'un principe, «perchè la repubblica non fa parte alcuna della sua grandezza, se non a' suoi cittadini, opprimendo gli altri; il principe è più comune a tutti, e ha ugualmente per suddito l'uno come l'altro; però ognuno può sperare d'essere beneficato e adoperato da lui.» Qui noi abbiamo un'osservazione che è assai notevole, perchè ci scopre la debolezza delle repubbliche medioevali, la causa della loro inevitabile decadenza, e pone in chiaro la ragione per la quale non si poteva riescire a fondare lo Stato moderno, senza che prima esse fossero distrutte dal dispotismo. Ma l'autore, senza punto fermarsi ad esaminare, senza quasi accorgersi di tutto il valore di ciò che dice, passa subito ad altro argomento. Egli torna assai spesso a manifestare la sua poca, anzi nessuna simpatia per il popolo: «Chi disse popolo, disse veramente uno pazzo, perchè è uno mostro pieno di confusione e di errori, e le sue vane opinioni sono tanto lontane dalla verità, quanto è, secondo Tolomeo, la Spagna dalla India.» Ma ciò non gl'impedisce punto di dir male del dispotismo, di cui fu poi coi fatti più volte sostenitore. «La calcina con cui si murano gli Stati dei tiranni, è il sangue de' cittadini; però dovrebbe sforzarsi ognuno che nella città sua non s'avessero a murare tali palazzi.»

Nè si creda per questo di coglierlo in contradizione. Il Guicciardini non pretende di fare altro che descrivere la società, sotto i mille e mutabili aspetti, in cui gli si presenta; i suoi studî sono principalmente diretti a conoscere la varia natura dell'uomo ed a trovare l'arte di dominarlo. Ma in sostanza qual'è quest'uomo che egli studia tanto, com'è, come dovrebbe, secondo lui, esser fatto? Il Guicciardini lo vuole virtuoso, perchè la virtù è bella, dà gloria, e tutti vi sono per natura inclinati, fino a che (bene inteso) non entra in gioco l'interesse personale, a cui ognuno necessariamente cede. «Piace ed è lodata la schiettezza, è biasimata e odiata la simulazione; la prima giova però più agli altri che a sè, e quindi io loderei chi ordinariamente avesse il traino del suo vivere libero e schietto, usando la simulazione solamente in alcune cose molto importanti, il che riesce tanto meglio, quanto più uno s'è saputo acquistare la reputazione di buono.» Raccomanda il sentimento dell'amor proprio e dell'onore, che dice d'aver sempre vivamente sentito, dichiarando «morte le azioni che non hanno quello stimolo.» Ma con la stessa calma osserva poi, che il vendicarsi è qualche volta raccomandabile, anche se non si ha rancore; «perchè con l'esempio gli altri imparino a non ti offendere; e sta molto bene questo, che uno si vendichi, e tanto non abbia rancore di animo contro colui di cui fa vendetta.» Consiglia anche di «negare con persistenza quello che non si vuole far sapere, ed affermare quello che si vuole far credere, perchè si finisce quasi sempre col riuscire, nonostante ogni prova in contrario.» La sua è quindi una virtù di tornaconto, che serve solo a meglio nascondere il profondo egoismo. Nè il Guicciardini usa arte veruna per ingannare il lettore: anzi è difficile trovare chi ne' suoi scritti parli più chiaro di lui, o come lui si mostri davvero nella sua più schietta nudità: «Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de' preti.... Nondimeno il grado che ho sempre avuto con più Pontefici, m'ha necessitato a amare per il particolare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, avrei amato Martino Lutero quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana, come è interpetrata e intesa comunemente; ma per vedere ridurre questa caterva di scellerati ai termini debiti, cioè a restare o senza vizî o senza autorità.» Lo stesso pensiero ed altri simili egli ripete più e più volte con uguale franchezza.

Che cosa dunque si poteva fare con questo, che il De Sanctis chiamò giustamente l'uomo del Guicciardini, che era anche l'uomo del Rinascimento italiano, e pigliava per centro dell'universo il suo particolare?

Quale società, quale Stato si può con esso formare? Solamente una società, in cui gl'interessi individuali s'equilibrino fra di loro, limitandosi a vicenda, e le varie ambizioni vengano, nel miglior modo possibile e con giusta moderazione, soddisfatte. Da ciò lo studio di meccanismi e congegni sempre più complicati, ed occorrendo, sostenuti anche con l'inganno o con la forza. Il concetto di un alto scopo sociale, di un vivente organismo dello Stato, non è possibile, come non è possibile quello di una vera virtù pubblica. Ma, ciò che è peggio, tutto questo doveva reagire e reagiva anche nella vita privata, e gli effetti già da un pezzo se ne vedevano nella coscienza, nei costumi, nella letteratura italiana, e c'era da prevedere d'andar per questo verso di male in peggio. A ricostruire sopra più solida base il mondo politico ed il mondo morale, sarebbe stato necessario innanzi tutto poter migliorare gli uomini, dando loro altra natura, altro carattere, «a uso di chi fa cose da mangiare di pasta, che dà ad esse quella forma che vuole.» Ma a ciò sarebbe stato necessario «il coltello di Licurgo che estirpasse la nostra mollizie, avidità e vanagloria.» Questo coltello di Licurgo per redimere stabilmente la patria, non poteva, secondo il Guicciardini, essere allora altro che un vano sogno, e fu invece la speranza continua, costante del Machiavelli, quella a cui, come ora vedremo, egli dedicò le sue più profonde meditazioni, gli studî migliori, tutta la sua vita letteraria.

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