CAPITOLO II.

Il Principe e i Discorsi. - La Riforma religiosa ed il nuovo Stato. - Paganesimo del Machiavelli. - Sua fede repubblicana. - Il Machiavelli ed Aristotele. - Lo Stato secondo il Machiavelli. - Suo metodo. - La Scienza politica in Grecia e nel Rinascimento. - I Discorsi.

L'anno 1513 il Machiavelli, per evitare sospetti e noie, di rado assai scendeva dalla sua villa in Città. Stanco della solitudine, dell'ozio forzato cui era condannato, del vano aspettare un ufficio che mai non veniva, si diede ben presto con grandissimo ardore allo studio. Questo fu infatti l'anno, in cui pose mano alle due opere sulle quali principalmente riposa la sua fama di scrittore politico: Il Principe, e i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. La prima era anzi già condotta a termine nel dicembre, quando lavorava a darvi l'ultima mano. Ai Discorsi invece attese per molto tempo ancora, e poi li lasciò incompiuti. Tuttavia, anche nello stato in cui sono, formano un trattato generale di politica, diviso in tre libri. E si può dire, che unendoli al Principe, farebbero con esso come un'opera sola, in questo discorrendosi del principato, in quelli delle repubbliche. L'averle volute alcuni critici credere due opere senza relazione fra di loro, scritte anzi con intendimenti non solo diversi, ma anche opposti, fu causa di molti errori nel giudicarle. Ma basta un'attenta lettura per venire subito ad assai diversa conclusione. Infatti, non solamente esse rimandano più volte l'una all'altra; ma il loro concetto fondamentale è siffattamente identico, che se il Principe si fosse perduto, e se ne conoscessero solo il soggetto, lo scopo ed i limiti, sarebbe assai facile ricostruirlo quasi per intero, dando maggiore svolgimento ad alcune massime, che nei Discorsi sono appena accennate, ed in esso vengono invece largamente esposte.

Noi cominceremo dai Discorsi, sebbene il Principe fosse finito assai prima, perchè questo, come dicemmo, si trova in germe già contenuto in quelli, dove si presenta come parte di tutto il sistema politico dell'autore. Del sistema, o per dir meglio, dei concetti fondamentali e dell'indirizzo generale che il Machiavelli segue, dobbiamo ora dir qualche cosa. Fin dalle prime pagine dei Discorsi si vede chiarissimo, che egli entra in una via assai diversa da quella che seguirono il Guicciardini, il Giannotti e gli altri. Infatti non domanda a sè stesso: Qual'è la forma di governo più adatta a Firenze? Che attribuzioni debbono avere, come debbono essere eletti il Gonfaloniere, i Signori, i Dieci? Come debbono essere composti il Senato ed il Consiglio Grande; come si debbono queste istituzioni equilibrare in modo da soddisfare a tutte le ambizioni irrequiete dei Fiorentini? Il Machiavelli vuole invece sapere per quali ragioni sorgono e prosperano, per quali si corrompono e decadono le nazioni, come si debbono governare, e soprattutto come si fonda uno Stato forte e duraturo. Perfino nel linguaggio che adopera, vediamo chiarissima la grande distanza che lo separa dal Guicciardini. Negli scritti del Machiavelli noi incontriamo di continuo le parole: e debbesi questo avere per una regola generale; il Guicciardini, invece, come abbiam visto, ripete con altrettanta insistenza, che nelle umane faccende non vi sono regole generali che valgano; che esse son buone a scriversi nei libri, ma nella pratica giovano solo la lunga esperienza e la buona discrezione. Il Machiavelli mirava a creare una scienza nuova, ed aveva la fede necessaria a tentare l'ardua impresa, la quale era suggerita, quasi resa necessaria dalle condizioni in cui si trovavano allora lo spirito umano e la società. Il Guicciardini invece osservava mirabilmente, registrando le sue osservazioni senza occuparsi d'altro, e quanto a sè, pensava soprattutto a profittare degli eventi, a farsi strada nel mondo.

L'uomo del Rinascimento italiano, dominato com'era da un profondo egoismo, senza la guida morale d'un interesse generale, fra lo sfasciarsi di tutte le istituzioni medioevali, occupato sempre e solo del suo particolare, avrebbe ricondotto ogni cosa all'anarchia ed alla rovina, se il suo ingegno, la grande cultura, l'amore dell'arte e della scienza, lo studio obiettivo della realtà non lo avessero, in parte almeno, salvato insieme con la società di cui faceva parte. Ma un tale stato di cose non poteva durare a lungo, se non si trovava un'uscita. Ed allora appunto due grandi avvenimenti seguirono nella storia del mondo: la Riforma religiosa da un lato, la costituzione degli Stati moderni e delle nazionalità dall'altro. Questi due avvenimenti, a prima vista, sembrano non avere fra di loro relazione di sorta; ma in verità partivano ambedue da un concetto comune, che l'individuo cioè sia di sua natura impotente al bene; movevano ambedue dal bisogno di ricostituire il mondo morale, che minacciava rovina, e cercavano riuscirvi richiamando in vita interessi più generali, fini più ideali. La Riforma, iniziata da Martino Lutero in Germania, fece sentire il suo benefico effetto anche sul Cattolicesimo, trionfante nei paesi latini, obbligandolo a correggersi. Essa, ritenendo che l'uomo, senza un aiuto soprannaturale, sia atto solo al male, riponeva in Dio l'unica speranza di salute. Questa si ottiene dal credente solo in virtù della fede, infusa per grazia divina, non per merito alcuno di buone opere, delle quali l'uomo è per sè medesimo affatto incapace, essendo esse conseguenza necessaria, esclusiva della grazia e della fede. L'altro grande avvenimento, del quale lungamente s'occupò il Machiavelli, che alle questioni religiose non pensò mai, era la formazione dello Stato moderno. Esso, cominciato assai prima, veniva a ricostituire l'unità sociale, per far trionfare il pubblico bene al disopra del privato egoismo. Credevano allora molti, che questa unità sociale potesse, a cagione dell'umana malvagità, essere attuata solamente con la forza. Non pareva che si potesse svolgere dalle antiche istituzioni, che essa veniva invece a distruggere; non dalla coscienza individuale, corrotta dall'egoismo; nè dalla coscienza nazionale, la quale esisteva allora appena in germe, e doveva invece dal nuovo Stato essere formata. Questa unità sociale, questo Stato apparivano quindi come l'opera personale del sovrano, del tiranno, il quale, credendo di non far trionfare altro che il suo privato interesse, vi riesciva solo facendo trionfare anche il pubblico. Fu una rivoluzione che, iniziata dai Signori e tiranni italiani, venne compiuta in Francia da Luigi XI e da' suoi successori; nella Spagna da Ferdinando ed Isabella; altrove da altri, i quali tutti, calpestando senza scrupoli interessi locali e personali, fondarono colla loro potenza, quella delle nazioni cui dettero unità e forza.

Ora, sebbene il concetto dello Stato nazionale venisse in realtà prodotto da cause che non eran senza relazione con quelle che promovevano la Riforma, e sebbene non fosse ne' suoi effetti in contradizione con essa, giacchè l'uno veniva a scomporre l'unità universale dell'Impero, l'altra, l'unità universale della Chiesa, pure sembrava sorgere in opposizione col pensiero religioso del secolo. Esso era infatti comparso nella letteratura degli eruditi sotto molte forme diverse, ma sempre, fin dai tempi del Petrarca, come il rinascimento d'una idea pagana, l'idea di Roma antica, che si trovava in tutti gli scrittori latini, e si ripresentava risorta, vivente nella sua solenne maestà di Repubblica o d'Impero, ispiratrice perenne di gloria e di libertà politica, sopra tutto d'amore alla patria. E ne seguiva che, mentre la Riforma ridestava lo spirito religioso, di esso i nostri politici a mala pena parlavano di sfuggita; sembravano anzi affatto pagani, risguardando il Cristianesimo qual guida della sola morale privata, via di salute all'individuo nell'altro mondo, non in questo, del quale unicamente s'occupavano; indifferente verso la patria, che essi tenevano, come è di fatto, superiore ad ogni privato interesse.

E se i contemporanei del Machiavelli erano in politica pagani, egli era paganissimo, come trasparisce con grande evidenza in ogni pagina delle sue opere. Ne son prova la sua sconfinata ammirazione per l'antichità; la sua indifferenza religiosa; l'odio al Papato; il modo con cui discorre del Cristianesimo, specialmente quando lo paragona al Paganesimo; il bisogno ch'egli sente continuo di fondare ogni sua dottrina sull'autorità di qualche antico scrittore, su qualche esempio cavato dalla storia greca o romana, e finalmente un linguaggio nel quale si trova come scolpito questo suo proprio modo di sentire. Per citare un solo esempio, la parola virtù significa per lui quasi sempre coraggio, energia, abilmente adoperata così nel bene come nel male ad un fine determinato. Alla virtù cristiana, nel più comune significato, dà piuttosto il nome di bontà, ed ha per essa un'ammirazione assai minore che per la virtù pagana, la quale è sempre apportatrice di gloria, e questa, secondo lui, gli uomini pregiano sopra ogni altra cosa al mondo, perchè essa sola li rende immortali e simili agli Dei. Preferiscono, egli dice, l'infamia all'oblìo, pur che il loro nome venga tramandato ai posteri. A lui era molto piaciuta, e ripeteva con entusiasmo quella frase, con cui Gino Capponi aveva lodato coloro i quali amano «più la patria, che la salute dell'anima,» parole che ebbero allora in Italia grande fortuna. Questo modo di sentire e di esprimersi, cominciato cogli eruditi del secolo XV, fra i quali il Machiavelli era stato educato, doveva molto modificarsi nel secolo XVI, e lo troviamo già in parte modificato nel Guicciardini, sempre più temperato e prudente. Nel Machiavelli invece sopravvive e conserva tutto il suo primo vigore, che apparisce anche maggiore pel singolare contrasto in cui si trova con idee le quali sono un portato della società e cultura cristiana, con alcuni concetti politici suoi propri e più moderni, con la forma stessa del suo scrivere italiano. Quei sentimenti, infatti, ci appariscono assai più tollerabili nella lingua latina degli antichi o anche degli eruditi, che si sforzavano, scrivendo, di ricondursi alla società romana, allontanandosi da quella in mezzo a cui vivevano, alla quale invece il Machiavelli dedicava i suoi continui pensieri, per essa operando e scrivendo.

Nè bisogna dimenticare, se si voglion conoscere tutte le più generali tendenze e qualità del suo spirito, che essendo egli stato per quindici anni segretario della repubblica fiorentina, da lui servita con grandissimo zelo e costanza, era rimasto sempre più fermo in quella fede repubblicana, che la grande ammirazione per gli scrittori greci e romani, gli aveva sin dall'infanzia ispirato. Anche nelle lettere che scriveva al Vettori, per essere adoperato dal Papa o dai Medici, noi lo abbiam visto, quando appena s'accennava per caso agli Svizzeri, non potere nè volere contenere il suo grande entusiasmo per quel popolo armato, che nella purità e modestia de' suoi costumi, si godeva una sicura libertà. Il suo primo e supremo ideale era sempre Roma repubblicana, al di sopra della quale nulla sapeva immaginare di più grande, di più glorioso. In che modo tutte queste idee, tendenze e sentimenti diversi si coordinassero nel suo spirito, nelle sue opere; fino a che punto riuscissero a formare un sol corpo di dottrine, è quello che dovremo vedere in appresso. Ci resta però ancora un'altra grave questione preliminare da prendere in esame.

Vi furono scrittori, i quali vollero nei Discorsi del Machiavelli, ma più specialmente nel Principe, vedere una imitazione della Politica di Aristotele. I tentativi fatti per dimostrare la verità di questa asserzione, riuscirono di certo, come era del resto naturale, a provare che molte idee, molte espressioni erano da Aristotele e da altri autori greci o romani trapassate nelle opere del Machiavelli. L'antichità era allora nell'aria stessa che si respirava. Non solamente tutti leggevano i classici latini, molte e molto diffuse erano le traduzioni degli scrittori greci, molte le compilazioni in cui si trovavano raccolti brani degli uni e degli altri; ma spesso le epistole, le orazioni degli eruditi non erano altro che centoni d'antichi storici, filosofi o poeti sopra un soggetto determinato. Facile assai riusciva quindi il ripetere idee o frasi di classici, che non s'erano neppur letti, o solo a brani. Ma non bisogna dimenticare che, coi rottami dell'antichità, il Rinascimento italiano costruiva un mondo nuovo. E però, anche quando troviamo tracce dell'antico in ogni pietra dell'edifizio che noi andiamo esaminando, esso può essere affatto moderno, animato cioè da un concetto, da uno spirito, che ha la sua vera sorgente non in Grecia nè in Roma, ma nell'Italia dei secoli XV e XVI. Fu perciò assai giustamente osservato dal Ranke, che se importa ricercar nelle opere del Machiavelli le tracce dell'antichità classica, importa molto più il ricercare quello che v'ha in esse di nuovo ed originale. Continuamente infatti egli, per dare autorità ad una osservazione sua propria, ispirata da avvenimenti contemporanei, la poggia sopra citazioni di antichi autori o sopra esempi cavati dalla storia greca e romana. Spesso ancora piglia un'antica dottrina, e senza quasi avvedersene, la trasforma in una affatto nuova. E ciò spiega come sia avvenuto che su questo argomento le opinioni dei critici differiscano a segno tale, che mentre alcuni vorrebbero nel Principe trovar quasi una continua imitazione della Politica d'Aristotele, altri invece sostengono che egli allora non poteva averla neppur letta. Ma su di ciò noi avremo occasione di tornare. Per ora importa sopra tutto osservare che, guardando alla sostanza delle cose, dobbiamo subito accorgerci che il concetto dello Stato, quale lo troviamo nell'opere del Machiavelli, è evidentemente ispirato dai bisogni del suo tempo e dalla storia romana, non dalla greca, nè da Aristotele.

Per i Greci lo Stato abbracciava la società intera, tutta quanta l'attività individuale, e la Politica di Aristotele, che è certo uno dei più grandi monumenti della sapienza umana, tanto grande infatti che da essa bisogna arrivare sino al Machiavelli, per poter dare un altro passo innanzi, ci parla non solo di governi, ma d'istruzione, di educazione, di musica, ginnastica, poesia, religione, arte militare, economia politica, di tutta quanta l'umana attività. L'individuo secondo lui esisteva pel governo; ma questo doveva renderlo migliore in tutto, e quindi circondarlo da ogni lato. I Romani, invece, sebbene nella scienza politica ripetessero le idee dei Greci, determinando poi nella pratica il concetto del diritto, che distinsero dalla morale, resero lo Stato anche più forte di fronte all'individuo, ma ne limitarono e circoscrissero i confini. Esso aumentò così la sua forza, divenendo sempre più rigorosamente giuridico e politico. E chi da Aristotele passa al Machiavelli, si trova subito costretto a notare una differenza enorme e sostanziale in questo appunto, che cioè pel secondo non sembra esistere altro che l'idea politica. Egli sacrifica, come gli antichi, l'individuo allo Stato; ma lo Stato è per lui indifferente ad ogni altra attività che non sia politica o militare, ed è occupato solo a mantener sicura la propria esistenza, a crescere la propria forza. Perfino nelle sue Storie, gli uomini del Machiavelli sembrano incapaci d'ogni altra ambizione o passione che non sia politica: di lettere, di arti, di cultura, di religione quasi non si parla. Tutto ciò è in opposizione coll'idea più vasta, più varia, più filosofica della cultura greca, la quale però, in questa sua maggiore larghezza, non riuscì mai a determinare con sicuro criterio i limiti del diritto e dello Stato. Gli eroi del Machiavelli sono quindi sul Campidoglio, la sua patria ideale è sempre Roma.

Sotto un altro aspetto ancora si è tentato collegarlo con Aristotele: il metodo dell'uno e dell'altro, si è detto, è lo stesso. Ed in vero anche qui il genio di Aristotele si dimostra gigante. Egli è senza dubbio il fondatore del metodo induttivo nelle scienze naturali, e del metodo storico nelle scienze politiche. Secondo lui, ciò che i fenomeni della natura sono per le prime, i fatti storici e sociali sono per le seconde. Questo fu anzi uno dei più grandi avvenimenti nella storia del pensiero umano, e forma una delle glorie maggiori, non solo di Aristotele, ma del genio immortale della Grecia. Ma quando si giunge fino a dire, che quella che parve l'opera propria del Rinascimento italiano, era stata già compiuta molti secoli prima dai Greci, allora si cade in manifesto errore. L'osservazione della natura ed il metodo induttivo erano stati trovati da Aristotele; ma questo metodo, risorto e assai più largamente diffuso nel Rinascimento, fu tra di noi, da Leonardo da Vinci a Galileo, sostanzialmente trasformato, e divenne il metodo sperimentale, causa vera dei grandi progressi delle scienze naturali, nelle quali operò una profonda rivoluzione. Esso è affatto moderno, e non si restringe all'osservazione della natura, alla induzione e deduzione, che ne sono invece il punto di partenza e la base, già nota agli antichi. Il suo nuovo e vero carattere sta in ciò, che i resultati dell'osservazione e della induzione sono accertati, riscontrandoli con la natura, la quale viene costretta a rispondere; ed essa, come diceva Aristotele, non mentisce mai. Nè basta. Il fenomeno studiato e spiegato è spesso artificialmente riprodotto, ed anche questa è una riprova affatto ignota agli antichi.

Naturalmente tutto ciò non era possibile nelle scienze politiche, nelle quali si dovette quindi ricorrere al metodo storico. Ma anche qui la differenza tra Aristotele ed il Machiavelli è immensa. Il problema che Aristotele si propone nella Politica è sempre, in sostanza, la ricerca dell'ottimo governo. Egli fa uno studio maraviglioso di tutti i governi della Grecia, per trovarvi come le sparse membra dell'ideale di cui va in traccia, e che vuol ricostruire. Lo Stato deve fondarsi sul diritto e sulla giustizia. Una repubblica, una monarchia realmente esistite, non hanno, secondo lui, un valore diverso da quello di altre, che siano state solo immaginate dai filosofi. Critica infatti nello stesso modo la repubblica di Platone e quella di Sparta. Tutta la differenza sta sempre e solo nell'avvicinarsi o allontanarsi più o meno dal suo ideale. Il valersi della storia per ritrovare e determinare questo ideale, è già un gran passo; ma lo scopo del Machiavelli è un altro. Per lui i governi immaginati dai filosofi non hanno valore alcuno. Se il sovrano riesce con l'inganno ad impadronirsi del potere, ed a spegnere la libertà, questo per Aristotele non è che un fatto; pel Machiavelli diviene invece un precetto a fondare la tirannide. Aristotele cerca in sostanza quali gli uomini ed i governi dovrebbero essere; il Machiavelli dichiara inutile questa ricerca, e vuole indagar solamente quali essi sono e quali in realtà possono essere. La storia antica e la storia contemporanea non sono per lui un semplice sussidio, ma la base unica, quasi la sostanza stessa della sua scienza, che indaga non quello che si dovrebbe fare, ma quello che si fa o che si può fare.

C'è però un aspetto secondo cui il paragone con Aristotele è possibile, senza molto allontanarsi dal vero. Lo Stato greco era in origine immedesimato con la religione, e quindi anche l'esistenza di esso era sacra e divina. Aristotele fu il primo ad esaminarlo come un fatto naturale, dichiarando che l'uomo è un essere essenzialmente politico. In ciò egli si trova pienamente d'accordo col Machiavelli e col Rinascimento italiano, il quale, svincolandosi dalla scuola teologica, cominciò anch'esso a considerare la storia e la società come fatti puramente umani e naturali. Se non che questa rivoluzione ebbe allora a lottare contro difficoltà ignote al mondo antico, in cui lo Stato non trovò contro di sè la forte costituzione della Chiesa universale. Ridurre la religione ad un puro strumento di governo, come assai spesso aveva fatto l'antichità greca e romana, non era facile, quando s'aveva di fronte una Chiesa di cui era forza riconoscere l'indipendenza: in questo caso le conseguenze dovevano di necessità essere assai diverse. Ma anche lasciando da parte un tale aspetto della questione, è certo che la emancipazione della società laica e della ragione fu raggiunta nel Rinascimento italiano, con l'aiuto di tutta quanta l'antichità, e non del solo Aristotele. Egli anzi dovè prima essere combattuto, perchè era stato nel Medio Evo mal compreso, alterato e ridotto a docile strumento della teologia. Quello infatti che venne chiamato il vero Aristotele, restò lungamente assai poco conosciuto; e la Politica, che Palla Strozzi fece venire da Costantinopoli, che Francesco Filelfo dalla medesima città portò in Italia l'anno 1427, cominciò ad esser letta e largamente diffusa nella sua forma genuina, molto più tardi. Infatti la prima traduzione fedele e chiara fu compiuta da Leonardo Bruni d'Arezzo nel 1437, ma venne stampata solo nella seconda metà del secolo. Due edizioni se ne videro tra il 1470 e il 1480, dopo del quale anno molte altre ne vennero alla luce. Allora solamente gl'Italiani si trovarono apparecchiati a comprenderne tutto l'immenso valore, e la lessero perciò con una straordinaria avidità. Nondimeno il concetto politico del Rinascimento era assai diverso, ed aveva un'altra origine.

Ma torniamo ora ai Discorsi. Essi sono divisi in tre libri, il primo dei quali ragiona dei modi con cui si fondano gli Stati, e dell'interno loro ordinamento; il secondo dei modi d'ingrandirli e delle conquiste; il terzo espone considerazioni generali sul loro crescere e decadere, sul modo di trasformarli, sulle congiure, ecc. La distribuzione delle materie nei diversi libri non è sempre fatta con rigore scientifico, anzi di continuo avviene che uno tratti il soggetto proprio d'un altro. Noi invece esamineremo tutta l'opera, seguendo l'ordine logico dei varî argomenti in essa trattati. Lasceremo solo da parte ciò che l'autore dice, specialmente nel secondo libro, sul modo di fare la guerra, perchè questa è materia che egli espone assai più largamente in un trattato speciale, di cui dovremo a suo luogo occuparci.

I Discorsi sono dedicati a Zanobi Buondelmonti ed a Cosimo Rucellai, dei quali il Machiavelli fu intimo, e da essi venne, come vedremo, anche beneficato. «Io vi mando,» egli dice, «il dono che posso farvi maggiore, perchè qui ho raccolto quello che ho imparato da una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo.» E nel proemio, che vien dopo questa lettera, egli aggiunge che sa bene d'esporsi a molte critiche, per la grande novità dell'impresa cui si accinge; nondimeno, mosso dal desiderio che ha sempre avuto di rendersi utile agli altri, entra senza esitare «nella via da nessun altro percorsa.» Quale è dunque questa via? «In ogni cosa noi vogliamo imitare gli antichi. I nostri giureconsulti imparano a giudicare collo studio delle antiche leggi, altro infatti non essendo la giurisprudenza; e così la medicina non è altro che esperienza fatta dagli antichi, sulla quale i moderni si fondano e la continuano. Pure, nell'ordinare e mantenere le repubbliche, i regni, gli eserciti; nell'arte di accrescere gl'imperi e governare i sudditi, nessuno ricorre all'esempio degli antichi. E questo nasce da mancanza di vera conoscenza della storia, la quale tutti leggono pel solo piacere di udire la varietà dei casi in essa narrati, e non che pensare d'imitarli, credono impossibile ogni imitazione, quasi che il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini non fossero sempre gli stessi. E però questi Discorsi sono scritti a dimostrare principalmente l'utilità che si può nell'arte dello Stato cavare dalla storia.» Adunque, sin dal principio, apparisce assai chiaro che si tratta di fondare una nuova scienza politica sulla esperienza delle cose umane e sulla storia.

Il Machiavelli entra subito in materia colla scorta di Tito Livio, e dopo aver parlato dei vari modi di fondare le città, viene a ragionare delle origini e delle forme diverse dei governi. «Gli uomini incominciarono prima a vivere come bruti; pensarono poi a scegliersi un capo per meglio difendersi, ed elessero il più forte. Così sorsero le prime società; cominciò a nascere il sentimento del giusto e dell'onesto; si fecero le prime leggi, e s'imposero pene ai colpevoli. Allora non si scelse il più forte, ma il più savio e prudente, per affidargli il comando, che esso trasmise agli eredi, e si ebbe così la monarchia, che fu la prima forma di governo. Se non che, per la innata inclinazione degli uomini ad abusare di tutto, appena il monarca fu sicuro del potere, si trasformò prima o poi in tiranno. Allora sorsero a difesa propria e del popolo, di cui si fecero capi, gli ottimati, e ne seguì il governo aristocratico, che a sua volta, eccedendo, si trasformò in oligarchico. Si levò finalmente il popolo, e fondò il governo democratico, che, anch'esso, per le medesime ragioni, eccedendo, cadde nella demagogia. Questa rese di nuovo necessario il principato, e l'umana società ripercorse allora da capo la medesima via, rigirandosi in essa all'infinito, quando, come pure avviene, non fu a mezzo del cammino fermata, divenendo preda degli Stati vicini. Ad evitare i pericoli di queste continue mutazioni e rivoluzioni, i prudenti trovarono il governo misto, che partecipa di tutte e tre le forme ad un tempo, giudicandolo più fermo e sicuro, perchè, essendo riuniti il principato, gli ottimati ed il governo popolare, l'uno sta a guardia dell'altro. È ciò che Licurgo fece a Sparta con resultato eccellente. Romolo, invece, fondò una monarchia; ma quello che a Roma non volle fare il legislatore, seguì per forza naturale delle cose e per buona fortuna. L'insolenza dei re fece sorgere il governo dei Consoli e degli ottimati, l'insolenza di questi ultimi fece sorgere il popolo, che, senza abbattere nè i Consoli nè gli ottimati, ebbe parte al potere. E così si formò naturalmente un governo misto, nel quale la forma monarchica, per mezzo dei Consoli, si contemperò con l'aristocrazia e col popolo.»

Questa teoria della successione dei governi e dei loro ricorsi ricorda quella esposta più tardi dal Vico, e potrebbe dar luogo a molte considerazioni, se una sola non dovesse qui prevalere su tutte le altre. Il brano di cui abbiamo dato un sunto, salvo qualche nuovo ma fugace accenno alla storia di Roma, non è altro che una imitazione, e più spesso anche traduzione d'un frammento ben noto del sesto libro delle Storie di Polibio, sebbene il Machiavelli, che così spesso cita tanti altri, non faccia alcuna menzione di questo scrittore, di cui pur tanto si giovò. Noi esponemmo altrove le ragioni, per le quali egli potè conoscerlo solo in qualche versione latina; ma che nel luogo qui sopra citato, più che imitare lo copiasse addirittura, non vi può esser dubbio di sorta. Tutto il secondo capitolo dei Discorsi è infatti uno di quei brani dell'antichità, dei quali egli si valse nel costruire il suo sistema politico. Nè ci fermeremo più oltre su di ciò, perchè la legge storica, che è qui da lui esposta, e par quasi un tentativo di filosofia della storia, può avere qualche originalità solamente nelle applicazioni che ne fa altrove. E quanto all'idea del governo misto, abbiamo già veduto che anch'essa s'era da lungo tempo molto diffusa in Italia, per mezzo dell'antichità, specialmente di Polibio.

Il Machiavelli continua le sue considerazioni sopra Roma. «Di certo,» egli dice, «se i Romani avessero mirato solo ad assicurare la loro interna tranquillità, avrebbero potuto fondare un'aristocrazia, escludendo il popolo dal governo. Ma, oltre al pericolo di sopra accennato, di cadere cioè nell'anarchia, avrebbero reso impossibili le loro conquiste, per le quali era necessario dare le armi al popolo, il quale, una volta armato, non si può escludere. Così essi arrivarono al governo misto, passando attraverso le guerre civili. Appena infatti che furono morti i Tarquinî, i nobili cominciarono a sputare veleno contro il popolo, e sarebbero andati più oltre, se non li fermavano la violenza dei tumulti e le nuove leggi, perchè gli uomini non fanno mai nulla bene, se non per necessità. E però si dice che la fame e la povertà li rendono industriosi, e le leggi li rendono buoni. Dove infatti una cosa opera bene per sè, non occorre la legge, la quale invece è necessaria dove manca la buona consuetudine.

La triste natura degli uomini rende ad un tempo necessaria e difficile, ma appunto perciò più degna di gloria, l'impresa di colui che si accinge a fondare uno Stato, istituzione trovata per rendere migliori gli uomini. Questa è l'opera del genio politico, del savio ordinatore e datore di leggi, il quale deve aver per fine il bene generale, non il suo proprio, e quindi, senza alcuno scrupolo o pietà, rimuovere ogni ostacolo che incontri per via. «Molti giudicheranno di pessimo esempio, che il fondatore d'un vivere civile quale fu Romolo, ammazzasse prima il proprio fratello e poi consentisse alla morte di Tito Tazio Sabino, che si era scelto a compagno.» «La quale opinione sarebbe vera, quando non si considerasse qual fine l'avesse indotto a fare tale omicidio.» «E debbesi pigliare per una regola generale, che a fondare e riordinare uno Stato bisogna esser solo; tutto deve esser l'opera e la creazione d'una mente ordinatrice, senza di che non si avrà mai vera unità, nè si fonderà nulla di stabile. Però un prudente ordinatore, che voglia giovare non a sè o alla sua successione, ma alla patria ed al bene comune, deve ingegnarsi di aver esso solo l'autorità; nè sarà mai dai savi ripreso d'alcuna azione straordinaria, fatta per ordinare un regno o fondare una repubblica.» «Converrà bene che, accusandolo il fatto, l'effetto lo scusi, e quando sia buono come quello di Romolo, sempre lo scuserà; perchè colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere.» «Fondato poi che sarà lo Stato, bisogna affidarlo alla cura ed alla guardia di molti, per mantenerlo lungamente in vita; giacchè se un solo è necessario a fondarlo, occorrono gl'interessi e le volontà riunite di molti a conservarlo. E questo fece Romolo, il quale lo affidò alle cure del Senato, dimostrando così col fatto, che non era stato mosso da ambizione di potere. E veramente se in sul principio egli non fosse stato solo, gli sarebbe seguìto come ad Agide, che, volendo ricondurre gli Spartani alle leggi di Licurgo, fu invece ammazzato dagli Efori. Più accorto di lui fu Cleomene, il quale, avendo capito che bisognava esser solo, presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, dopo di che potè rimettere in vigore le leggi di Licurgo; e sarebbe riuscito a mantenerle, se non era la potenza dei Macedoni, e la debolezza delle altre repubbliche greche.»

Qui noi vediamo già apparire la ben nota immagine del Principe. E sebbene la sua fisonomia sia in verità tutta propria del Rinascimento, pure esso incomincia a farsi strada, direi quasi violentemente, attraverso le prime considerazioni sulle origini di Roma. Si vede perciò quanto è falsa l'opinione di coloro, i quali sostennero che solo nel libro delPrincipe si trovino esposte e difese certe massime contrarie ad ogni umanità, ad ogni principio di morale cristiana, e che di ciò non vi sia traccia nei Discorsi. È chiaro invece, che sin dai primi capitoli di essi, l'autore non solo assolve, ma loda Romolo d'avere, per più sicuramente fondare lo Stato, ucciso il proprio fratello, e lasciato uccidere il compagno di sua elezione; loda Cleomene d'avere, pigliando conveniente occasione, fatto ammazzare gli Efori. Avrebbe anzi biasimato l'uno e l'altro, se così non avessero operato. E proclama altamente e chiaramente anche l'altra dottrina, tanto combattuta come propria del Principe, che cioè il fine giustifica i mezzi. I savi, egli dice, scuseranno Romolo d'ogni più malvagia azione, pel fine che ebbe e per l'effetto che ottenne. E perchè Romolo rassomigli in tutto al suo Principe, il Machiavelli ci fa osservare che, dopo essersi crudelmente insanguinato, per fondare lo Stato, egli in fine si redime, affidandone la cura al Senato, che seppe assicurarne la prosperità.

Ma, a proposito di storia romana, dobbiamo osservare, una volta per sempre, che il Machiavelli la prende quale la trova in Livio, senza nessuna critica sua personale, senza nessun nuovo esame dei fatti che ivi sono narrati. Accetta anzi, e senza far tra di essi distinzione di sorta, così i fatti storici come le tradizioni leggendarie, massime intorno alle origini di Roma. Sulla lotta dei partiti, sulle cause di alcune riforme politiche espone di certo osservazioni profonde ed originali; ma non è men vero, nè sarebbe stato allora possibile fare altrimenti, che spesso ancora fonda le sue teorie sopra presunti fatti di storia romana o greca, che mai non avvennero, o avvennero in modo assai diverso da quel che egli poteva allora supporre. Questo però non toglie (come potrebbe sembrare) a quelle sue teorie il loro fondamento, perchè esse, massime le più importanti, non sono fondate sopra un solo fatto; ma, più volte e in diversi modi esposte, vengono dimostrate con molti esempi tratti così della storia antica come della moderna, spesso anche dalla esperienza sua personale. Qualche volta piglia addirittura le favole mitologiche, come quella, per esempio, di Achille educato dal centauro Chirone, per dare autorità ad una sua propria sentenza, giacchè nella favola, egli dice, noi troviamo ciò che vollero significare quelli che la inventarono. E se un fondamento di verità si trova per lui nella favola, non potrà certo esservene meno nelle primitive tradizioni dei popoli. Quanto poi alla sua teoria prediletta, che abbiamo visto già fondata sulla vita di Romolo, di cui tanto poco sappiamo di certo, è una di quelle appunto che trovansi più spesso ripetute dal Machiavelli, che la poggia sopra tradizioni e sopra fatti storici diversissimi.

Nè solamente i fondatori dei regni o delle repubbliche; ma, per le medesime ragioni, debbono, egli dice, essere soli anche i fondatori delle religioni, che sono destinate del pari a frenare le malvage passioni degli uomini, a mantenere in vigore le buone leggi. «Il popolo romano fu assai fortunato nell'avere avuto, dopo un re legislatore e guerriero come Romolo, un re come Numa, il quale fondò la religione, necessaria sempre a tener salda una società, massime in un popolo feroce come erano allora i Romani. E per guadagnare maggiore autorità, egli simulò d'avere congresso con una ninfa, mezzo a cui Romolo non dovette ricorrere, ma del quale hanno fatto uso altri datori di leggi, e molto più i fondatori delle religioni, per essere meglio creduti dal popolo. La religione dei Romani fu causa precipua della loro grandezza, perchè fece osservare le leggi e mantenere i buoni costumi. Il savio politico rispetterà sempre la religione, quando anche non vi creda, perchè più volte s'è visto che inculcandola, sia pure con astuzia, se n'è ottenuto valorosa difesa della patria. Il console Papirio, volendo attaccare la giornata coi Sanniti, ordinò gli auspicî, ed il capo dei Pollarî, vedendo l'esercito pronto alla zuffa, disse che i polli avevano beccato, sebbene ciò non fosse vero, come poi si seppe. Nondimeno il Console attaccò la giornata, dicendo che se v'era bugìa, sarebbe stata punita dagli Dei, e fece intanto mettere i Pollarî nella fronte dell'esercito. Così, quando il loro capo fu ferito e morto, egli esclamò subito, che tutto andava bene, perchè la punizione era venuta. Sempre i Romani, o con fede o con astuzia, fecero rispettar la religione, e se ne trovarono bene.» Ed anche questo concetto della religione, adoperata come mezzo di governo, assai diffuso nel secolo XV, e parte integrante nella dottrina del Machiavelli, trova un singolare riscontro nei Frammenti del VI libro di Polibio.

Invece sono affatto sue proprie le osservazioni che fa sul Cristianesimo e sulla Chiesa romana. «Se la religione cristiana si fosse mantenuta quale venne istituita dal suo fondatore, le cose sarebbero procedute altrimenti, e più felici assai sarebbero stati gli uomini. Ma quanto essa siasi invece alterata e corrotta può vedersi da questo, che i popoli i quali si trovano più vicini a Roma, sono quelli appunto che meno ci credono. E chi considerasse che uso fa della religione la Chiesa romana, e quali sono i suoi costumi, dovrebbe giudicare vicina la rovina ed il flagello. Tuttavia perchè vi sono alcuni, i quali credono che il benessere d'Italia dipenda dalla Chiesa di Roma, voglio addurre contro di essa due ragioni principalissime.» «La prima è che per gli esempî rei di quella Corte, questa provincia ha perduto ogni divozione ed ogni religione.... Abbiamo, dunque, con la Chiesa e coi preti, noi Italiani questo primo obbligo d'esser diventati senza religione e cattivi; ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra provincia divisa. E veramente alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una repubblica o d'un principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna.» «Solo la Chiesa ha impedito siffatta unione in Italia, perchè avendoci abitato e tenuto il potere temporale, non è stata abbastanza forte per occuparla tutta, nè abbastanza debole da non potere, per paura di perdere il dominio temporale, chiamare in Italia un nuovo potente che la difendesse contro chi minacciava occuparla. Così essa è stata la vera cagione, per la quale l'Italia non si è mai potuta riunire sotto un capo, ma è restata sotto più principi e signori, dal che ne è nata tanta debolezza, che si è condotta ad essere preda del primo che l'assalta. E di ciò noi Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri. Chi volesse poi vedere di che cosa essa è veramente capace, dovrebbe portarla fra gli Svizzeri, i soli che vivono ancora come gli antichi; e vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine i costumi tristi di quella Corte, che ogni altro accidente che potesse seguire.»

Che negli scritti del Machiavelli si veda per la prima volta chiarissima la necessità di riunire l'Italia, e sia con una profondità maravigliosa d'osservazione da lui notato il grande ostacolo, che la Chiesa ed il suo potere temporale vi avevano sempre posto e vi ponevano, è stato già da molti riconosciuto. La sua acrimonia contro i Papi fu sempre grandissima, appunto perchè, occupato com'era sopra ogni cosa del pensiero di costituire l'unità dello Stato, scopo supremo della politica e della società al suo tempo, egli avrebbe voluto distruggere o remuovere tutto ciò che vi si opponeva. E però sentiva un grandissimo disprezzo per quelle istituzioni medievali, che avevano rotto o impedito l'unità sociale, massime quando al suo tempo ritenevano ancora forza sufficiente per resistere. Infatti non si fermò mai dal biasimare le compagnie di ventura, e ciò non solo perchè avevano corrotto l'arte della guerra, impedendo la formazione degli eserciti nazionali; ma anche perchè formavano come un potere indipendente dentro lo Stato o di fronte ad esso. Voleva estirpare il feudalismo, perchè rendeva impossibile la civile uguaglianza, secondo lui e secondo le tradizioni fiorentine, necessaria alle repubbliche, e perchè nella monarchia s'opponeva alla forza ed alla unità del potere regio. Delle associazioni di arti e mestieri, che avevano diviso e suddiviso la società medievale, taceva come se non esistessero, avendo esse al suo tempo perduto l'antico vigore. Più grande che mai doveva essere ed era la sua avversione alla Chiesa, che col suo potere temporale aveva formato uno Stato, il quale a lui pareva contrario ad ogni principio di buon governo; ed aiutata dall'autorità religiosa, seminava disordine e confusione per tutto, impediva in Italia, e rendeva assai difficile in Europa la costituzione delle nazionalità.

A ciò s'aggiungeva quello che può veramente chiamarsi lo spirito pagano del Machiavelli, che lo rendeva poco ammiratore, se non addirittura avverso alla religione cristiana, non per sè medesima, ma per tutto ciò che si riferisce all'azione politica e sociale di essa. Indagando, infatti, come mai nell'antichità vi fosse stato un così gran numero di popoli liberi, tanta maggiore libertà che ai suoi tempi, egli credeva di trovarne la causa nella diversità che corre fra la religione pagana e la cristiana. «Questa ci fa poco stimare l'amore del mondo, e ci rende perciò più miti. Gli antichi invece ponevano in esso il sommo bene, ed erano nelle loro azioni e nei loro sacrifizi più feroci. La religione antica beatificava solo gli uomini pieni di mondana gloria, come capitani di eserciti, fondatori di repubbliche; la nostra invece ha glorificato sempre più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Essa ha posto il sommo bene nella umiltà e nell'abiezione, nel disprezzo delle cose mondane, quando l'altra lo poneva nella grandezza d'animo, nella forza del corpo, ed in ciò che rende audaci gli uomini. La nostra li vuol forti nel patire più che nel fare una cosa forte. Così il mondo è venuto in preda agli scellerati, che han trovato gli uomini disposti, per andare in Paradiso, più a sopportare le battiture che a vendicarle. Ma,» e qui egli cerca temperare alquanto il suo giudizio troppo assoluto, «se così si è effeminato il mondo e disarmato il cielo, ciò dipende più dalla viltà di coloro che hanno interpetrato la religione, che da essa, la quale in sostanza vuole la difesa della patria, il che porterebbe a rendersi capaci di difenderla.» In generale però il difetto del Machiavelli non era mai quello di temperare e raddolcir troppo i suoi giudizî, che anzi soleva andar sempre diritto, inesorabile al fine propostosi. Nella lotta fra la Chiesa e lo Stato, egli si schierò senza punto esitare in favore di questo. E quando alla sua mente si presentava il conflitto tra le necessità politiche e la morale privata e cristiana, egli non diceva come il Guicciardini, che bisognava parlarne a bassa voce e fra amici, per non scandalizzare; ma scriveva invece parole come queste: «Dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione nè di giusto, nè d'ingiusto, nè di pietoso, nè di crudele, nè di laudabile, nè d'ignominioso; anzi posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che gli salvi la vita e mantengale la libertà.»

Supporre che il Machiavelli sia nemico o indifferente alla virtù, alla libertà, lo abbiamo già notato, è un errore grandissimo. Nessuno anzi le esalta con più ardore di lui; ma al di sopra di tutto egli pone la virtù pubblica, la sola di cui si occupi di continuo; ad essa sottomette ed, occorrendo, sacrifica la privata. Più e più volte ripete che vanno lodati prima i fondatori di religioni, poi quelli di regni o di repubbliche, poi i capitani, finalmente gli scrittori. Diverso anche in ciò da tutti gli eruditi, e più di loro fedele non solo all'antichità, ma alla verità, pone sempre l'operare al di sopra del pensare e del dire. «Sono invece,» egli prosegue, «infami e detestabili i distruttori di religioni, di regni, di repubbliche; i nemici delle virtù, delle lettere e di ciò che reca utile a tutti. Nè vi sarà mai alcuno che, postagli la scelta delle due qualità di uomini, non lodi i primi e non biasimi i secondi. Pure molti preferiscono nel fatto essere tiranni, piuttosto che legislatori e fondatori di repubbliche o di regni, ingannati da false apparenze e da male intesa avidità di comando. Altrimenti capirebbero che gli Agesilai ed i Timoleoni non ebbero meno potere dei Dionisî e dei Falaridi, ma furono più grandi ed onorati. Nè vi sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendolo lodare dagli scrittori che non potevano biasimarlo; legga invece come essi esaltano Bruto. Pongasi innanzi i tempi di Tito, Nerva, Traiano, e conferiscali con quelli in cui governavano imperatori tristi. Da una parte vedrà sicuri i cittadini, autorevoli i magistrati; la pace, la giustizia, la virtù esaltate; ogni rancore, licenza e corruzione spenti; vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione che vuole. E se considera dall'altro lato i tempi governati dagl'imperatori tristi, li vedrà crudeli, discordi e sediziosi.» «Vedrà Roma arsa, il Campidoglio dai suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii; vedrà il mare pieno di esilî, gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi, e la nobiltà, le ricchezze, gli onori e sopra tutto la virtù essere imputata a peccato capitale.... E senza dubbio, se e' sarà nato d'uomo, si sbigottirà d'ogni imitazione de' tempi cattivi, e accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo.» - Quel Romolo che aveva fatto bene ad ammazzare il fratello Remo, ed a lasciare ammazzare il suo compagno Tizio Tazio Sabino!

Il Machiavelli, procedendo per la sua via si trova qui costretto ad entrare in un nuovo ordine d'idee. Finora ha ragionato, egli dice, supponendo sempre uomini che non sieno interamente corrotti. Quando però la corruzione diviene generale, come era allora in Italia, le difficoltà da superare sono assai maggiori, occorrendo esaminare la infinita varietà delle condizioni, in cui i popoli e gli Stati si possono in questi casi trovare, e le diverse norme da seguire nel volerli guidare e governare. Ma a risolvere siffatto problema, sembrava opporsi un concetto, assai diffuso ai tempi del Machiavelli e comune anche all'antichità, del quale egli fece una teorìa fondamentale, che non abbandonò mai, anzi prese addirittura come punto di partenza per le sue ricerche. Gli uomini, esso dice, sono in sostanza sempre gli stessi, e i medesimi accidenti si ripetono perciò di continuo. Questa è la ragione per la quale è possibile, con l'esame della storia, trovare nel passato la guida o la norma per il presente e per l'avvenire. Ciò egli afferma nei Discorsi; ripete nel Principe, nelle commedie, nelle poesie, in tutti i suoi scritti. Ma come dunque si spiega allora la continua varietà delle vicende nella storia e nelle società umane? Non vediamo noi, che gli uomini lodan sempre il passato al disopra del presente, il che prova dicerto che essi vedono tra l'uno e l'altro grande differenza? Veramente, risponde il Machiavelli, assai spesso si loda il passato, perchè non desta invidia, ed anche perchè lo troviamo esaltato dai grandi scrittori dell'antichità. «È certo però che le cose umane sono in continuo moto, e che o le salgono o le scendono; onde chi vive quando discendono, ha ben ragione di lodare il passato. Io credo che il mondo sia stato sempre ad un modo, e che abbia sempre avuto tanto di buono, quanto di tristo, ma distribuito diversamente secondo i tempi. La virtù passò dall'Assiria nella Media, di qui andò a Roma, e dopo la caduta dell'Impero non è rimasta più concentrata in un sol paese, ma si è diffusa in varî: nei Franchi, nei Turchi, oggi nella Magna, e prima in quella setta saracina che fece sì gran cose, e distrusse l'Impero orientale. Onde ne segue, che chi è nato in Grecia o in Italia deve lodare il passato e biasimare i tempi presenti, nei quali non è cosa alcuna che li ricomperi d'ogni estrema miseria, infamia e vituperio; dove non è osservanza di religione, non di leggi, non di milizia. La cosa è più chiara che il sole; e io dirò manifestamente quello che ne intendo, acciocchè gli animi dei giovani possano fuggire questi tempi, e prepararsi ad imitare gli antichi, perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene che, per la malignità de' tempi e della fortuna, tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri.» E così egli spiega la immutabilità dell'umana natura, il continuo ripetersi della storia, e la continua mutazione delle umane vicende.

Di qui poi nasce la necessità, che vedemmo osservata anche dal Guicciardini, di adattare ai tempi in cui si vive, i mezzi e l'ingegno proprio, altrimenti si va incontro a sicura rovina. «Manlio Capitolino, che pure aveva tanti meriti verso la patria, appena che si lasciò tirare dall'ambizione, ebbe tutti contro di sè, e dovette rovinare, perchè non s'avvide che i tempi erano per la libertà, essendo buoni i costumi e la repubblica bene costituita. E però Tito Livio dice: Hunc exitum habuit vir, nisi in libera civitate natus esset, memorabilis. Egli sarebbe stato di certo non solo un uomo fortunato, ma raro e memorabile, se fosse nato in una città corrotta, come era Roma ai tempi di Mario e di Silla; e questi invece sarebbero rovinati subito, se fossero nati al suo tempo. Il sapersi, adunque, adattare alle condizioni diverse dei tempi e dei luoghi è necessario, perchè un uomo solo non riuscirà mai a mutare la natura di un popolo. Siccome però egli non può neppure aver la forza di mutare sè stesso, così ne segue che la fortuna ha un grandissimo potere nelle cose umane, facendoti nascere in tempi adatti o contrarî alle tue qualità. Fabio Massimo, per natura temporeggiatore, fu fortunato nel trovarsi a comandare quando i Romani erano esausti, e quindi incapaci di risoluzioni ardite e pronte. Invece egli si oppose a torto, quando più tardi Scipione voleva andare in Africa, perchè allora erano mutati i tempi, non la sua indole; laonde se fosse dipeso da lui, Annibale starebbe ancora in Italia. Ma gli uomini sono così fatti che quando riuscirono per una certa via nei loro fini, non sanno persuadersi che, mutati i tempi, si possa riuscire, mutando i modi, e che le antiche vie non giovano più. Certo se sapessero adattarsi, variando a tempo, potrebbero anche riuscir sempre nelle loro imprese; ma non sapendo, o non volendo, ne aumenta sempre più il potere inevitabile della fortuna. E contro questo suo potere è inutile ribellarsi, perchè tutte le istorie provano chiaro che gli uomini possono secondarla, ma non opporsi ad essa; possono tessere gli orditi suoi, ma non romperli. Debbono tuttavia non abbandonarsi mai, perchè, non conoscendosi il suo fine, e percorrendo essa vie traverse ed ignote, hanno sempre da sperare in qualunque travaglio si trovino.»

Queste idee portano finalmente il Machiavelli ad esaminare quale deve essere la condotta dell'uomo di Stato, quali mezzi deve adoperare, quando si trovi a governare un popolo universalmente corrotto, e massime se si tratti di mutare sostanzialmente la forma di governo, dalla tirannide passando alla libertà o viceversa. I mezzi da adoperare in simili casi debbono di necessità essere violenti. «Un popolo uso a vivere sotto la tirannide, con difficoltà grandissima si riduce a vivere in libertà, perchè esso è come un animale bruto e feroce, nutrito sempre in carcere; e il nuovo governo libero avrà nemici tutti i partigiani della tirannide.» «Non ci è allora più potente rimedio, nè più valido, nè più sano, nè più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto.» Per queste medesime ragioni «un principe che prenda nelle sue mani il governo, deve fondarsi sul popolo, senza il favore del quale non si potrà mai reggere a lungo. Quanto però agli ambiziosi che voglion comandare, egli deve o subito contentarli o spegnerli, come fece Clearco tiranno di Eraclea, il quale, messo tra il malumore del popolo e quello dei grandi odiati dal popolo, ammazzando questi, contentò quello. Ed è una regola generale, che chi piglia la tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno Stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo, come avvenne a Piero Soderini che rovinò, perchè credette colla pazienza vincere i figli di Bruto. Ma, anche ammazzati che sieno i figli di Bruto, un popolo usato a vivere in servitù non diviene per questo libero, se già non vi sia un uomo che lo mantenga tale, il che durerà solo finchè egli è vivo. Dove la materia non è corrotta, non nuocciono i tumulti; dove è corrotta, non giovano le buone leggi, se non sorge uno che con forza estrema le faccia osservare tanto, che gli uomini diventino buoni, il che non so se sia mai intervenuto, e se è possibile che intervenga.»

«Discorrere questi casi poco probabili,» dice il Machiavelli, «può parere superfluo; pure, dovendosi d'ogni cosa ragionare, presupporrò una città corrottissima, donde verrò ad accrescere più tali difficoltà, perchè non si trovano nè leggi nè ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Infatti, come i buoni costumi per mantenersi hanno bisogno delle leggi, così queste per essere osservate hanno bisogno di quelli. E se le leggi si possono mutare con facilità, non così gli ordini politici, e molto meno i costumi e l'ordinamento sociale di un popolo. La libertà suppone sempre uguaglianza, ed il principato, invece, disuguaglianza. Come dunque si potrebbe, per esempio, fondare la libertà in Milano o Napoli, dove manca ogni uguaglianza di cittadini; chi potrebbe sperar mai di mutar facilmente con le leggi un tale ordine di cose? A fare una lenta mutazione occorrerebbe un savio, che vedesse le cose assai di lontano; ma questi son sempre pochi, e non trovano quasi mai favore nella moltitudine. Per mutar le cose ad un tratto, bisognerebbe ricorrere alle armi, alla violenza, e innanzi tutto farsi principe della città, per disporne poi a suo modo.» «E perchè il riordinare una città al vivere politico presuppone un uomo buono, e il diventare per violenza principe di una repubblica presuppone un uomo cattivo, per questo si troverà che radissime volte accaggia, che un uomo buono voglia diventare principe per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nell'animo usare quella autorità bene, che egli ha male acquistata. Da tutte le soprascritte cose nasce la difficoltà o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi una repubblica o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocchè quelli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenza, non possono essere corretti, fussero da una potestà quasi regia in qualche modo frenati.»

«Da queste considerazioni generali passando ad esaminare le condizioni in cui trovasi l'Italia, si vedrà chiaro che in essa, a causa della sua corruzione, c'è poco o nulla da sperare, salvo la forza e la violenza di qualche uomo grande, che sappia e voglia renderla migliore. In Italia tutto è corrotto, come in parte sono corrotte la Spagna e la Francia; ma in queste due nazioni le cose vanno meglio assai, perchè vi sono già regni ordinati. Nella Germania invece sono repubbliche ben governate, e costumi incorrotti che fanno andar bene le cose.» E qui il Machiavelli s'esalta a farci di nuovo una pittura ideale delle repubbliche armate della Germania e della Svizzera, «dove la libertà è grande ed i costumi sono aurei. La quale bontà,» egli dice, «è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto è più rara; anzi è rimasta solo in quella provincia, perchè essa non ha avuto molto commercio coi vicini, e così potè mantenersi semplice nel vivere, e non lasciò entrare fra i suoi abitanti i costumi francesi, spagnuoli e italiani, le quali nazioni tutte insieme sono la corruttela del mondo. Nelle repubbliche tedesche si ha inoltre il vantaggio grandissimo, che i nobili vengono cacciati o spenti, e così è mantenuta quella uguaglianza civile che è base necessaria della libertà.»

«Di questi nobili,» prosegue il Machiavelli, «sono piene Napoli, Roma, la Romagna e la Lombardia; onde nasce che ivi non è mai stata alcuna vera repubblica, nè alcun vivere politico; perchè tali generazioni d'uomini sono al tutto nemiche d'ogni civiltà; ed a volerle riordinare, se alcuno ne fosse arbitro, non avrebbe altra via che farvi un regno, perchè solo la forza della mano regia, ed una potenza assoluta ed eccessiva possono metter freno alla eccessiva ambizione e corruttela dei potenti. In Toscana, invece, si hanno le repubbliche di Firenze, Siena e Lucca, e si vede che le altre città, se non l'hanno, vorrebbero avere la libertà. E tutto questo segue perchè non vi sono in esse signori di castella, ma tanta eguaglianza, che facilmente un uomo prudente e che delle antiche civiltà avesse cognizione, v'introdurrebbe un vivere libero. L'infortunio loro è stato però così grande, che insino a questi ultimi tempi non è sorto alcuno che abbia voluto o saputo farlo.»

Si potrebbe addurre in contrario, continua il Machiavelli, l'esempio di Venezia, dove solo i gentiluomini hanno autorità; ma essi sono nobili solo di nome, perchè le loro ricchezze sono nella mercatanzia, e non hanno nè grandi possessi immobili, nè castelli, nè giurisdizione sugli uomini. E così la conclusione è sempre, che la libertà si fonda sulla civile uguaglianza, e che il feudalismo è assolutamente contrario ad ogni vera forma repubblicana. Dove esso esiste o bisogna istituire una monarchia, o addirittura soffocarlo nel sangue, ed estirparlo prima di potervi ordinare una repubblica. L'Italia si trovava allora in condizioni diversissime nelle sue varie provincie, alcune essendo adatte solo a formare un regno, altre solo una repubblica. E siccome senza riunirla, essa non avrebbe mai potuto formare uno Stato forte e felice, così queste sue condizioni erano quasi disperate, riuscendo difficilissimo del pari il fondarvi per tutto una repubblica o una monarchia.

Chi vuole riformare uno Stato, sia con una repubblica, sia con un regno libero, deve, secondo il Machiavelli, conservare in esse almeno l'ombra dei modi antichi, tanto che nulla appaia mutato. Chi invece vuol fondarvi un regno dispotico, deve tutto mutare: nuove leggi, nuovi modi, nuovi uomini; fare ricchi i poveri; edificare città nuove; disfare le vecchie, perchè tutto sia riconosciuto dal principe. Bisogna fare come Filippo di Macedonia, del quale si dice, «che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come i mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi e nimici d'ogni vivere non solamente cristiano, ma umano, e debbegli qualunque uomo fuggire, e vivere piuttosto privato che re con tanta rovina degli uomini.» «Ma chi non vuol seguire la via del bene, deve, per mantenersi, entrare nel male, e non pigliar mai quelle vie del mezzo, che senza renderti buono, non sono utili nè a te nè agli altri.»

Il Machiavelli combatteva con molta insistenza queste vie di mezzo, le quali esso diceva che gli uomini del suo tempo seguivano, incerti sempre fra i precetti della morale cristiana e le necessità della politica, senza obbedire del tutto nè all'una, nè all'altra. «I Romani le fuggirono come perniciosissime, perchè un governo altro non è che un tenere i sudditi in guisa che non ti possano offendere; e quindi bisogna o beneficarli in modo che ti siano amici, o assicurartene in modo che sia loro impossibile il nuocerti. A governare adunque una città sottomessa e divisa non ci sono che tre modi: ammazzare i capi dei tumulti, rimuoverli, o costringerli a fare la pace. L'ultimo modo è il più pericoloso, il primo è il più sicuro. Ma perchè siffatte esecuzioni hanno in sè il grande ed il generoso, una repubblica debole non le sa fare, e ne è tanto discosta, che a fatica la si conduce al rimedio secondo. Questi sono gli errori in cui cadono sempre i principi dei nostri tempi, per la debolezza dei presenti uomini, causata dalla fiacca educazione loro, e dalla poca notizia che hanno delle storie, il che fa giudicare i modi antichi parte inumani e parte impossibili. Essi hanno certe loro moderne opinioni assai discoste dal vero, come quella dei savî della nostra città, i quali dicevano: Che bisognava tener Pistoia con le parti e Pisa con le fortezze. Non si avvedevano che le fortezze non giovano, e che il governare con le parti è sempre pericoloso. Infatti, se con tali modi governa un principe, avrà sempre nemica una parte, la quale cercherà aiuto di fuori; e così, alla prima occasione, egli troverà nemici nella città e fuori di essa. Se poi governa una repubblica, non c'è il più bel modo a dividere sè stessa, come seguì ai Fiorentini, i quali, volendo con le parti riunire Pistoia, divisero invece la loro città.»

«Pure, nonostante la esperienza presente e la passata, gli uomini de' nostri tempi preferiscono sempre le vie di mezzo. Se ne è visto un esempio recente e chiaro, quando Giulio II, solo e senza l'esercito, entrò in Perugia, per cacciarne Giovan Paolo Baglioni. Non capirono allora i prudenti, come mai questi non si fosse impadronito del Papa, dei cardinali e di tutte le loro delizie.» «Non potè essere per bontà o per coscienza che lo ritenesse, perchè in un petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la sorella, ch'aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva scendere alcuno pietoso rispetto; ma si conchiuse che gli uomini non sanno essere onorevolmente tristi o perfettamente buoni, e come una tristizia ha in sè grandezza, o è in alcuna parte generosa, eglino non vi sanno entrare. Così Giovanpagolo, il quale non stimava essere incesto e pubblico parricida, non seppe o, a dir meglio, non ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sè lasciato memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro ai prelati quanto sia da estimare poco chi vive e regna come loro, ed avesse fatto una cosa la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo che da quella potesse dipendere.»

E tuttavia, osserva il Machiavelli, la forza, il coraggio e la violenza non sempre bastano, specialmente per salire da piccola a grande fortuna. «Ci vogliono spesso anche la frode e l'inganno; anzi la sola frode può qualche volta bastare, ma non la sola forza. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità d'ingannare; giacchè la prima spedizione che gli fa fare contro il re d'Armenia, è piena di frode, e riesce con l'inganno, non con la forza. Ed il tener questa via è necessario non solo ai principi, ma anche alle repubbliche, almeno fino a che esse non sono divenute potenti, come ne danno esempio i Romani.» Altrove cerca spiegare, com'egli non intenda lodare la frode, incondizionatamente. «Sebbene, egli dice, la fraude sia per sua natura sempre detestabile, pure l'usarla può qualche volta essere necessario, ed anche, come per esempio nella guerra, glorioso. Infatti è parimente lodato colui che con fraude supera il nimico, come quello che lo supera con la forza. Di che, per leggersi assai esempî, non ne replicherò alcuno.» «Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude esser gloriosa, che ti fa romper la fede data ed i patti fatti, perchè questa, ancora che la ti acquisti qualche volta Stato e regno, come di sopra si discorse, la non ti acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa col nimico che non si fida di te, e che consiste proprio nel maneggiare la guerra.»

Da quanto abbiamo sinora esposto, è ben chiaro che il concetto del Principe apparisce e ricomparisce di continuo, quantunque solo abbozzato, nei Discorsi, e che il Machiavelli non giudica in modo alcuno il valore morale delle azioni individuali, ma l'effetto reale di esse come azioni politiche. Questo è anzi il carattere che predomina sempre ne' suoi scritti, e ne abbiamo un altro esempio chiarissimo nel lungo capitolo Delle congiure. Qui par di vedere proprio un fisiologo che faccia esperimenti di vivisezione, e cerchi col suo coltello anatomico distinguere gli organi, scoprirne le funzioni diverse. Le congiure si fanno contro quei principi che sono più generalmente odiati. Allora sogliono dare animo alla vendetta le ingiurie private, le quali possono essere nel sangue, nella roba, nell'onore. Quanto al sangue sono assai più pericolose le minacce che le esecuzioni, perchè chi è morto non può pensare alla vendetta, e quelli che restano vivi ne lasciano spesso il pensiero al morto. Pericolosissime sono poi le ingiurie nella roba e nell'onore, perchè il principe «non può mai spogliare uno tanto che non gli resti un coltello da vendicarsi; non può mai tanto disonorare uno che non gli resti un animo ostinato alla vendetta.» Si congiura anche per solo desiderio di liberare la patria; ma allora i principi non hanno altro scampo che deporre la tirannide, il che non fanno, e però spesso capitano male.

I congiurati corrono pericolo in sul fatto, prima e dopo. Prima possono essere scoperti per denunzia, per congetture o per imprudenza. Unico rimedio sicuro è, in simili casi, comunicare la cosa ai compagni solo in sul fatto, costringendoli ad operare più presto che si può. Qualche volta questa sollecitudine è imposta dalla necessità, in cui ti trovi di fare al principe quello che egli sta per fare a te ed ai tuoi. Essa caccia allora gli uomini in modo che li fa riuscire, e però i principi debbono guardarsi dal far minacce, che sono sempre pericolosissime. I pericoli in sul fatto stesso della congiura, nascono o dal variar l'ordine già stabilito, o dal mancar l'animo, o da errore per imprudenza, o da lasciar parte della impresa incompiuta, quando si tratti di uccidere più persone. Una volta che s'è fermato il pensiero a un modo, è pericolosissimo mutarlo a un tratto; è meglio assai eseguire il primo disegno con qualche inconveniente o pericolo. Manca poi l'animo in sul fatto, per reverenza al principe o per viltà. Bisogna quindi scegliere sempre gente provata, «perchè dell'animo nelle cose grandi, senza aver fatto esperienza, non sia alcuno che se ne prometta cosa alcuna. Possono anche sopravvenire pericoli improvvisi ed inaspettati; ma di questi si può solo ragionare con esempî, per fare gli uomini più cauti, e non altro. Di tutti i pericoli poi, quello da cui i congiurati non si salvano mai, è quando il popolo è amico del principe.» E così, distinguendo ed esaminando, continua sino alla fine questo capitolo singolare davvero per chiarezza, penetrazione e conoscenza del cuore umano.

Ma non dobbiamo dimenticare che l'argomento principale dell'opera, quello intorno a cui tutte le teorie del Machiavelli s'aggirano, riman sempre la fondazione dello Stato, la formazione stabile e duratura della sua unità organica per opera del legislatore, sia che questi voglia o si trovi costretto a fondare una monarchia; sia che, più fortunato o più magnanimo, elegga, invece, fondare una repubblica, e fare in modo che, dopo la sua morte, essa possa reggersi da sè, affidata al popolo, che è sempre più atto a mantenerla che a fondarla. E qui si può chiedere: in che modo il Machiavelli pensava di costituire in Italia questa unità, e specialmente unità repubblicana, quando al suo tempo la libertà delle repubbliche era ristretta alla città dominante, che opprimeva le altre? Abbiamo visto come un tal fatto fosse stato già osservato dal Guicciardini, senza che egli ne cavasse altra conseguenza che l'affermare: essere in sostanza assai meglio cadere sotto una monarchia, che sotto una repubblica, perchè la prima tratta i sudditi suoi tutti allo stesso modo, mentre invece la seconda vuole i benefizi della libertà solo per i suoi proprî cittadini. Ed il Machiavelli aveva già fatto la stessa osservazione, quando scrisse che «di tutte le servitù più grave è quella che ti sottomette ad una repubblica, perchè più durevole, e perchè il fine della repubblica è di snervare e indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri, il che non fa un principe, che non sia un barbaro distruttore di paesi, e dissipatore di tutte le civiltà degli uomini, come sono i principi orientali. Quando però egli abbia in sè ordini umani e normali, amerà del pari tutte le città a lui soggette.»

Se non che il Machiavelli non si contenta, come il Guicciardini, di notare il fatto e passar oltre. Egli afferma ancora, che questo modo tenuto dalle repubbliche del Medio Evo era pessimo, pericoloso e rovinoso. «Le repubbliche,» egli dice, «hanno tre vie d'ampliare il loro Stato: 1a Una confederazione fra di loro, come fecero gli Etruschi e gli Svizzeri. 2a Farsi compagni i conquistati, in modo però da ritenere per sè il grado del comandare, la sedia dell'imperio ed il titolo delle imprese, che è il modo tenuto dai Romani. 3a Farsi sudditi e non compagni, come fecero gli Spartani e gli Ateniesi. Questo terzo modo è il peggiore di tutti, perchè pigliar cura d'avere a governare le città con violenza, massime quelle che sono consuete a viver libere, è una cosa difficile e faticosa. Bisogna per riuscirvi essere assai forte di armi, ed ingrossare le città, aumentandone la popolazione con forestieri. Questo non fecero Sparta ed Atene, e però rovinarono. Lo fecero invece i Romani, che in altri tempi presero anche la seconda via, e furono potenti. Essi dapprima si resero compagni i popoli italiani, unendoli a loro con leggi comuni, ma tenendo sempre l'imperio ed il comando per sè. Dipoi, con l'aiuto di questi compagni, fecero sudditi gli stranieri, i quali, essendo stati sotto i re, non erano usi a libertà. Così quando gl'Italiani si vollero ribellare, i Romani erano già assai forti, e poterono sottometterli, avendo saputo prima ingrossare la propria città coi forestieri, giacchè capivano che bisogna imitare la natura, e che mai un pedale sottile non sosterrà un albero grosso. Il primo modo poi, cioè della confederazione, è quello tenuto dagli Etruschi, i quali, mediante l'unione di dodici città, che si reggevano per via di lega, furono potentissimi nel commercio e nelle armi, e rispettati dal Tevere sino alle Alpi.»

«Queste confederazioni non fanno, è vero, grande imperio; mantengono però quello che acquistano, e non si tirano guerra addosso. La ragione per la quale non arrivano a grande potenza, è chiara. Una repubblica disgiunta e posta in varie sedi, non può con prontezza deliberare; non è ambiziosa di un dominio che deve esser diviso fra molti. E il fatto dimostra, che queste confederazioni non passano mai le dodici repubbliche, come quella degli Etruschi, o le quattordici, come quella degli Svizzeri, e così hanno quasi un termine fisso. Quando non si può o non si vuole seguire questa via, l'ingrandirsi col sottomettere ed opprimere i sudditi è un sistema che, se fu dannoso a repubbliche armate come Sparta ed Atene, sarà sempre rovinoso a quelle disarmate come le nostre. Il vero e miglior modo, adunque, riman sempre quello tenuto dai Romani, di farsi cioè compagni e non sudditi; ed è tanto più lodevole, in quanto che essi furono i primi ad adottarlo, e come non erano stati in ciò mai preceduti da alcuno, così non furono poi imitati da altri. Infatti se delle confederazioni ci danno oggi esempio gli Svizzeri e la lega di Svevia, gli ordini dei Romani non sono imitati da nessuno; anzi non se ne tien conto, perchè giudicati parte non veri, parte impossibili, parte non a proposito ed inutili. Tanto che, standoci con siffatta ignoranza, siamo preda di qualunque ha voluto correre questa provincia. Ma quando la imitazione dei Romani paresse difficile, non dovrebbe parer tale quella degli antichi Etruschi, massime a' presenti Toscani; perchè se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare uno imperio simile al romano, poterono acquistare in Italia tutta quella potenza che è consentita dal procedere per via di leghe.»

Bisogna richiamare alla memoria tutti i principali scrittori politici dei secoli XV e XVI in Italia, tutte le idee allora più universalmente accette, indubitabilmente ammesse, se si vuol capire lo sforzo gigantesco che faceva il Machiavelli, per liberarsene ed arrivare al chiaro concetto dello Stato. Egli certo non riesce a determinarlo scientificamente; non arriva a proclamare che tutti i sudditi debbono essere cittadini uguali innanzi alla legge, e tutti partecipare direttamente o indirettamente al governo. Ma per arrivare a ciò bisogna aspettare il secolo XVIII e la rivoluzione francese. Il Machiavelli, come abbiam visto, mette da un lato e respinge il feudalismo, le compagnie di ventura, il potere politico delle Arti maggiori e minori, il dominio temporale dei papi e la loro ingerenza nello Stato, del quale cerca l'unità, l'indipendenza e la forza. Egli vede ancora, e per la prima volta, che questa unità organica non si può costituire, senza trattare i sudditi come compagni e non come sottoposti. A siffatte idee, che sono un vero avvenimento nella storia della scienza politica, egli torna di continuo, con minore o maggiore chiarezza, ma sempre con uguale costanza e fede. «La Francia molte volte ha preso Genova, l'ha tenuta colla forza e l'ha sempre perduta. Solo adesso, costretta dalla necessità, l'ha lasciata reggersi da sè, con un governatore genovese, e ne è assai più sicura. Gli uomini tanto più ti si gettano in grembo, quanto più tu pari alieno dall'occuparli, e tanto meno ti temono per conto della loro libertà, quanto più sei umano e domestico con loro.» Cita poi l'esempio di Capua, che chiese spontanea il pretore ai Romani, e continua: «Ma che bisogno v'è d'andare a Capua o a Roma, quando abbiamo gli esempi in Toscana? Pistoia si dette volontaria ai Fiorentini; Lucca, Pisa, Siena furono sempre nemiche. E ciò non perchè i Pistoiesi non amassero la libertà come gli altri, o si tenessero da meno; ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come fratelli, e con gli altri come nimici.» «E senza dubbio i Fiorentini, se o per via di leghe o di aiuto, avessero dimesticati e non insalvatichiti i suoi vicini, a quest'ora sarebbero signori di Toscana. Non è per questo che io giudichi che non si abbia ad operare le armi e le forze; ma si debbono riservare in ultimo luogo, dove e quando gli altri modi non bastino.»

Certo non era possibile che, nei primi del secolo XVI, il Machiavelli arrivasse ad una determinazione scientifica, piena ed esatta della vera unità organica dello Stato, argomento su cui tanto si disputa anche oggi; e molto meno poi egli avrebbe potuto arrivare a determinarne con precisione l'origine e lo svolgimento storico. Pure anche di ciò ebbe coscienza, e vi tornò sopra più volte, sebbene in modo vago ed incerto. Nel principio del terzo libro si ferma a dire, che i governi e le istituzioni, per aver lunga vita, hanno bisogno di essere ordinati in maniera che possano spesso essere ricondotti ai loro principii. Questa sentenza fu da molti lodata senza essere pienamente intesa. Il Capponi, invece, la crede del tutto errata, accusando il Machiavelli di tener volti gli occhi indietro, e cercare rimedio alle cose fuori di loro medesime, cioè «in quel loro essere che è svanito.» Ma chi esamini con attenzione quel capitolo, vedrà che il Machiavelli non cerca aiuto e forza alle istituzioni fuori di esse. Vuole ritirarle di continuo non al passato, ma ai principii, secondo cui e su cui vennero costituite. Essi ne furono come il germe, e se ebbero la forza di generarle, debbono secondo lui aver quella di ritemperarle e rinnovarle. Gli esempi che adduce più volte chiariscono anche meglio il suo pensiero. «Prima che Roma fosse presa dai Francesi, le sue istituzioni non erano rispettate, e i tre Fabî, che combatterono i Francesi contra jus gentium, non furono puniti, ma creati tribuni. Venuta poi la calamità, e sperimentato il pericolo, essi furono puniti, e la religione e le leggi rimesse in vigore. A Roma i tribuni, i censori e le leggi fatte contro gli ambiziosi, erano destinate a ritirare di continuo la repubblica verso i suoi principii. A ciò fare basta qualche volta la semplice virtù di un uomo grande, che riconduca gli uomini verso la libertà e verso i buoni costumi, sebbene più efficaci sieno sempre le buone istituzioni. La religione cristiana sarebbe forse stata al tutto spenta dalla sua corruzione, se da S. Francesco e da S. Domenico, fondatori di ordini nuovi, non fosse stata ricondotta ai suoi principii.» «Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi e di ridurre le leggi di quelli verso il suo principio. E si vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia, il quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcun altro. Delle quali leggi e ordini ne sono mantenitori i Parlamenti, e massime quel di Parigi, le quali sono da lui rinnovate qualunque volta fa una esecuzione contro ad un principe di quel regno, e ch'ei condanna il Re nelle sue sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto, per essere stato uno ostinato esecutore contro a quella nobiltà; ma qualunque volta e' ne lasciasse qualcuna impunita, e che le venissero a multiplicare, senza dubbio ne nascerebbe o che si arebbono a correggere con disordine grande, o che quel regno si risolverebbe.» Ora si può disputare se questa idea del Machiavelli sia sempre espressa con molta chiarezza, e si può trovare qualche difficoltà nel determinarla con precisione; ma non si può dire, mi sembra, che egli cercasse il rimedio alle istituzioni pericolanti, fuori di loro stesse, in un passato che è morto. Ritorno ai loro principii vuol dire per lui ritorno al concetto fondamentale di chi le creava; giacchè, come abbiam visto, leggi, religioni, governi sono pel Machiavelli l'opera e la creazione personale del legislatore, tale essendo l'unico modo con cui gli si presentava e diveniva intelligibile la loro organica unità. Mantener fermo il concetto fondamentale del legislatore, e farvi ritorno ogni volta che se ne deviava, era quindi il solo mezzo di ridonar la vita alle istituzioni, e promuoverne la naturale evoluzione.

Questa evoluzione è pel Machiavelli l'opera propria del popolo, cui il legislatore deve perciò affidare la difesa delle leggi, la salute della patria. Ma siccome il popolo può anch'esso deviare dal retto sentiero, così è necessario prevedere i modi per ricondurvelo, il che sarà sempre più facile che ricondurvi un principe, essendo i popoli sempre migliori. «I principi sono più ingrati dei popoli, le cui ingratitudini riescono anche meno pericolose, perchè muovono da errore, non da ambizione o da animo corrotto. Il popolo è inoltre più savio. E sebbene prevalga in molti la opinione contraria, che è sostenuta ancora da Tito Livio, io oserò affermare contro tutti, che il popolo è più costante, più giudizioso, più prudente che un principe.» «E non senza cagione si assomiglia la voce di un popolo a quella di un Dio, perchè si vede una opinione universale fare effetti maravigliosi ne' pronostichi suoi, talchè pare che, per occulta virtù, e' prevegga il suo male e il suo bene.» «Esso è capace della verità che ode, ed è superiore al principe nel fare la elezione dei magistrati. Nè mai si persuaderà ad un popolo, che sia bene tirare alle dignità un uomo infame e di corrotti costumi, il che facilmente e per mille vie si persuaderà invece ad un principe. Ad un popolo licenzioso si può parlare e persuaderlo; ma con un principe cattivo non ci è altro rimedio che il ferro. Si è sempre visto le città in cui i popoli comandano, fare in brevissimo tempo progressi molto maggiori. E se i principi sono superiori ai popoli nel fare leggi, formare statuti e ordini nuovi, i popoli sono assai superiori nel mantenere le cose già ordinate. Nè c'è punto da maravigliarsi, se le città libere fanno maggiori conquiste, e sono più prospere, «perchè non il bene particolare, ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza dubbio questo bene comune non è osservato se non nelle repubbliche.... Al contrario interviene quando ci è un principe, dove il più delle volte quello che fa per lui, offende la città, e quello che fa per la città, offende lui. Di modo che subito che nasce una tirannide sopra un vivere libero, il meno male che ne risulti a questa città è non andare più innanzi.»

Ogni volta che il Machiavelli entra in questo ordine d'idee, il suo entusiasmo si ridesta subito, ed egli esalta infino al cielo quelli antichi tempi repubblicani, che sono il suo costante ideale. «Quinzio Cincinnato,» egli dice in un altro luogo, «quando fu eletto console, lavorava di propria mano la sua piccola villa, e Marco Regolo, essendo a comandare eserciti in Africa, chiese licenza di tornare a casa per custodire una sua villa, che gli era guasta dai lavoratori. Quei cittadini facevano la guerra solo per trarne onore.» «Preposti ad uno esercito, saliva la grandezza dell'animo loro sopra ogni principe; non stimavano i re, non le repubbliche; non gli sbigottiva nè spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano parchi, umili, curatori delle piccole facoltà loro, ubbidienti ai magistrati, riverenti alli loro maggiori; talchè pare impossibile che uno medesimo animo patisca tanta mutazione.» «Questi furono sempre gli effetti degli ordini liberi, e dei governi popolari, effetti che non seguono mai nelle monarchie, massime nella monarchia assoluta, la quale è utile, anzi necessaria, solo quando si tratta di riunire una nazione, di fondare uno Stato, come fecero Romolo, Licurgo e Solone. Se però questo principato dura a lungo, e non lascia al popolo la cura del governo, o almeno il principe non la divide con esso, come fanno i re di Francia col Parlamento, allora subito se ne risente il danno. È ben vero che la Dittatura, sebbene fosse un potere assoluto, non nocque punto alla repubblica romana; ma essa era anche un potere legale ed a tempo, non usurpato nè perpetuo, che è quello che nuoce. Fu invece dannoso a Roma il potere dei Decemviri, anch'esso legale, perchè allora si soppressero i Consoli, i Tribuni e l'autorità del popolo, che quasi abdicò. Un'autorità illimitata e senza freno nuoce sempre, anche se il popolo non è corrotto, perchè subito lo corrompe. Infatti si vide crescere rapidamente la potenza di Appio Claudio col favore del popolo, e se con questo favore egli avesse spento i grandi, per poi dominare il popolo, avrebbe potuto addirittura fondare la tirannide. Ma, essendosi invece unito ai grandi contro il popolo, lo ebbe contrario, e dovette cadere, perchè chi sforza bisogna che sia più potente di chi è sforzato; e però a volere fondare la tirannide con l'aiuto di pochi all'interno, è necessario avere almeno aiuto di fuori.»

E qui noi chiudiamo l'esposizione di questi Discorsi, ricordando che molti capitoli del secondo libro ed alcuni pochi del terzo si occupano dell'arte della guerra, che pel Machiavelli era parte sostanziale di quella dello Stato. Ma, come abbiamo già detto, noi avremo altrove migliore occasione a parlarne. Basti per ora ricordar solo due cose. Il disprezzo grandissimo e quasi l'odio che il Machiavelli aveva per le compagnie e pei capitani di ventura, peste, secondo lui, e rovina d'Italia; la fede quasi illimitata nelle milizie nazionali, ad imitazione di quelle dei Romani. Ed anche in ciò egli, tornando come sempre all'antica Roma, percorreva i suoi tempi, e profetava l'avvenire. Assai scarsa fede aveva nelle armi da fuoco, nè molto maggiore nelle fortezze. Queste, egli dice, giovano poco, se sono destinate a difendere contro i nemici esterni, e riescono addirittura dannose, se destinate contro i proprî sudditi. Un principe ha bisogno delle fortezze solamente quando è odiato pel suo mal governo, e allora prende per esse animo a perseverare nel male, ma gli riescono poi inutili, quando il popolo sdegnato insorge davvero, o il nemico si presenta alle porte, massime ora che ci sono le artiglierie. A queste, non senza contradizione, dà qui un'importanza, che generalmente nega del tutto. «Un principe o deve fondarsi sull'amore dei sudditi, o deve tenere un forte esercito e cercare di disfare il popolo; ma non deve mai riporre la sua difesa nelle fortezze. Quella di Milano, fondata da Francesco Sforza, non salvò i suoi eredi dai nemici interni nè dai nemici esterni. Guidobaldo duca d'Urbino, quando tornò ne' suoi Stati, dopo che ne fu cacciato il Valentino, fatto accorto dalla esperienza, disfece le fortezze, che, inutili a difender lui, erano state utili invece al nemico, e fidò solo nell'amore dei propri sudditi. Più notevole ancora è l'esempio di Genova, seguìto ai nostri tempi. Ciascuno sa come essa nel 1507 si ribellò da Luigi XII di Francia, che vi costruì poi una formidabile fortezza, la quale non gli valse a nulla, quando nel 1512, cacciate d'Italia le genti francesi, la città si ribellò di nuovo. Allora Ottaviano Fregoso, dopo avere per fame espugnato la fortezza, come uomo prudente, la disfece, fondando la sua potenza non su di essa, ma sull'amore del popolo, sulla virtù e prudenza propria. Così ha tenuto e tiene quella città; e dove, a variare lo Stato di Genova, solevano bastare mille fanti, gli avversari suoi l'hanno assalito con diecimila, e non l'hanno potuto offendere, Brescia fu presa, nonostante la fortezza. I Fiorentini fecero la fortezza in Pisa, e la videro giovar solo ai Pisani, neppur essi avendo capito che bisognava seguire l'esempio dei Romani, farsi cioè quella città compagna, o disfarla. Nelle terre che volevano tenere con la forza, i Romani smuravano e non muravano.» Secondo il Machiavelli le piccole tirannidi italiane, fondate con inganni e per sorpresa, mantenute con l'aiuto di pochi amici e d'una fortezza, in cui il principe si chiudeva, erano fondate sulla rena, e dovevano perciò scomparire per sempre.

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