CAPITOLO VII.

Il Machiavelli e la sua famiglia in villa. - I suoi figli. - Corrispondenza col nipote Giovanni Vernacci. - Viaggio a Genova. - Gli Orti Oricellari. - Discorsi del Guicciardini. - Il Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze. - Commissione a Lucca. - Sommario delle cose di Lucca. - Vita di Castruccio Castracani.

Il gusto letterario e la moda prevalente nella Corte di Leone X avrebbero dovuto consigliare al Machiavelli di porsi a scrivere poesie, satire, commedie. Da questi lavori poteva certo sperare maggior fortuna, ed egli vi era anche inclinato, come aveva con qualche primo saggio dimostrato, e come dimostrò anche meglio più tardi. Noi lo abbiam visto scrivere i suoi Decennali in mezzo a una moltitudine d'affari, che appena gli lasciavano qualche riposo; lo abbiamo visto, dopo le sue disgrazie, passar buona parte del giorno sotto gli alberi del proprio bosco, accanto ad una fonte, leggendo poeti italiani e latini. Da una lettera che scrisse a Lodovico Alamanni in Roma, il 17 dicembre 1517, si vede che, avendo letto con grande ammirazione l'Orlando Furioso dell'Ariosto, si doleva di non esser da lui stato annoverato fra i molti poeti che nominava. Ed aggiunse, che stava allora scrivendo il suo poema l'Asino, nel quale avrebbe invece reso giustizia al merito eminente dell'Ariosto, che lo aveva dimenticato. Ma questo poema del Machiavelli, che contiene molte allusioni satiriche a' suoi contemporanei, rimase presto interrotto, e se egli compose allora, come fece di certo, altre poesie e lavori puramente letterarî, non furono cose di lunga lena. L'animo suo era troppo addolorato dagli ultimi fatti seguiti in Firenze, dalle sventure che lo avevano colpito; la sua mente era ancor tutta piena delle immagini e memorie del passato; la sua attenzione era troppo vivamente rivolta a meditare sugli avvenimenti che ogni giorno turbavano l'Europa, minacciavano l'Italia. E però solo gli scritti politici potevano allora dargli qualche conforto, perchè solo essi riuscivano ad impadronirsi veramente dell'animo suo, ad occupare tutte le sue facoltà, facendogli per poco dimenticare il triste stato in cui era condannato a vivere.

Egli continuava a starsene in villa, dove aveva scritto e ritoccava il Principe, continuava i Discorsi, finiva l'Arte della guerra. Posta fra le colline che circondano Firenze, lontana alcune ore da essa, pareva che questa villa, chiudendolo fra boschi e poderi, lo separasse dal natìo luogo, che era stato la sede della sua attività, delle sue gioie, delle fallite speranze e delle sventure. Si sentiva colà come isolato dal mondo, cercava pace nella solitudine e nello studio; pure, guardando a tramontana, di mezzo all'ondeggiar delle vaghe colline, ricomparivano la cupola, il campanile, la torre di Palazzo, a ricordargli continuamente il passato, a non fargli mai dimenticare il presente. Aveva allora cinque figli, quattro maschi ed una femmina. Bernardo, il primo, era nato il dì 8 novembre 1503; Pietro, l'ultimo, il 4 settembre 1514. Degli altri tre, Lodovico, Guido e Bartolommeo, l'età non è certa. Ma in ogni modo la famiglia era numerosa, il patrimonio assai povero, e questi figli davano non poco pensiero. Qualcuno, come Pietro, che ebbe poi vita assai avventurosa nelle armi, era ancora in età tenerissima. Guido era anch'egli fanciullo, giacchè da una sua lettera del 1527, come vedremo, apparisce che allora studiava tuttavia grammatica. D'indole assai mite, si dette poi alla vita ecclesiastica ed alla letteratura, nella quale non uscì mai dalla mediocrità. Di Bernardo, che era assai più innanzi cogli anni, sappiamo poco. Ma una condanna da lui subita nel 1528, per avere bestemmiato al gioco, e tentato di stuprare una donna del contado, non fa certo pensar bene del suo carattere. Lodovico, poco più giovane di Bernardo, era di un'indole violentissima. Una sua lettera del 14 agosto 1525 ce lo fa vedere in Adrianopoli, occupato nel commercio, in mezzo a brighe continue, pieno d'ira e desiderio di vendetta. Nello stesso anno aveva già avute varie condanne dagli Otto per diverse risse, nelle quali v'erano state da una parte e dall'altra ferite e sangue. Nè le cagioni di queste risse erano sempre onorevoli; una di esse nacque anzi da gelosia per donna di mal affare. Più tardi, egli si potè, almeno in parte, redimere, combattendo e morendo in difesa della libertà, nell'assedio di Firenze. Intanto era di certo fra quelli che più davano da pensare al padre. Della figlia Bartolommea o Baccia, che andò poi sposa nei Ricci, sappiamo assai poco. Dal secondo testamento, che il Machiavelli fece nel 1532, vediamo che pensava a costituirle una dote sul Monte delle Fanciulle, senza esservi ancora riuscito.

Anche la Marietta rimane assai nell'ombra. Di lei abbiamo una sola lettera, che è scritta al Machiavelli in Roma, poco dopo la nascita d'uno dei figli. Sfortunatamente è senza data; ma la crediamo anteriore agli anni di cui ora ragioniamo. Da essa trasparisce una vera affezione, diremo anzi amore verso il marito. Si duole di non ricevere più spesso lettere di lui, e gli ricorda che sa bene, come ella non possa mai esser lieta, quando è separata da lui, tanto più sentendo che «è in luogo dove c'è gran morbo. Pensate come io sto contenta, che non trovo riposo nè dì nè notte. Il bambino sta bene e somiglia voi. È bianco come la neve, ma gli ha il capo che pare un velluto nero, ed è peloso come voi. E dacchè somiglia voi, parmi bello, ed è vispo che pare che sia stato un anno al mondo, e aperse gli occhi che non era nato, e messe a romore tutta la casa. La bambina si sente male. Ricordovi el tornare.» Da tutte le lettere di famiglia che ci restano, apparisce assai evidente, che questo affetto di moglie e di madre durò nella Marietta inalterato sino alla fine della sua vita. E sebbene non ne abbiamo del Machiavelli a lei, pure da quelle che scrisse ai figli, si vede chiaro che, non ostante i suoi trascorsi, qualche volta veri, ma qualche altra, come già vedemmo, solamente immaginari, anch'egli amò sino all'ultimo la moglie, e fu in famiglia migliore assai che non ci si è voluto far credere.

Di questi medesimi anni abbiamo una sua corrispondenza con Giovanni Vernacci, figlio di sua sorella Primerana, il quale trovavasi per affari commerciali in Pera. Da essa di tanto in tanto traspariscono tutta la tristezza da cui il Machiavelli era allora oppresso, ed anche un affetto sincero, vivace tra il nipote e lo zio. Questi che, come abbiam visto altrove, aveva sin dal principio annunziato al Vernacci la propria sventura, gli dava amorevoli consigli nell'agosto del 1513, e gli faceva sapere come alle altre sue calamità s'era in quell'anno per lui infausto, aggiunta la perdita d'una bimba, morta tre soli giorni dopo la nascita. Nel 1514 gli parlava di affari, e gli faceva la proposta d'un matrimonio; il 17 agosto 1515 si scusava se non gli scriveva più spesso, «perchè i tempi sono stati di sorta, che mi hanno fatto sdimenticare di me medesimo. Pure non mi dimentico mai di te, e sempre ti avrò in luogo di figliuolo, e me e le cose mie saranno sempre ai tuoi piaceri.» Queste lettere, andando in Oriente, spesso si perdevano; laonde il nipote scriveva e lamentavasi continuamente del silenzio, ed il Machiavelli era costretto a ripetere le sue attestazioni d'affetto. «La perdita delle mie lettere ti farà credere che io mi sia dimenticato di te, il che non è punto vero, perchè la fortuna non mi ha lasciato altro che i parenti e gli amici, e ne fo capitale. Ma se non scrivo più spesso ancora, egli è che io sono diventato inutile a me, ai parenti ed agli amici, perchè ha voluto così la mia dolorosa sorte. Non mi è restato altro di buono che la sanità a me ed a tutti i miei.» Più tardi, nel 1517, gli scrisse di nuovo e fece scrivere anche dai figli; ma le lettere al solito andarono perdute, e però il 5 gennaio 1518 gli scriveva da capo. Di quest'ultima lettera fece due copie, che dette a due persone diverse, ragguagliandone con un'altra il nipote, il 25 dello stesso mese. L'8 di giugno gli diceva d'amarlo sempre più, per aver esso «fatto prova d'uomo buono e valente. Io sono anzi orgoglioso di te, perchè ti ho allevato. La casa mia è sempre al tuo piacere come pel passato, ancora che povera e sgraziata.» Nè meno affettuose erano le lettere del nipote. Il 31 ottobre 1517 gli chiedeva al solito notizie di lui e della famiglia, dolendosi di non averne da un anno. «Di me più non avete ricordo come di caro nipote. Pure amandovi io sempre come figlio, spero che se avete perso la penna e 'l foglio allo scrivermi, non abbiate perso l'amore che tanto tempo mi avete portato.» Da altre lettere apparisce, come questo affetto dello zio pel nipote non fosse di sole parole, perchè il Machiavelli, in mezzo ai suoi mille fastidî, s'occupava spesso anche degli affari del lontano e affettuoso parente, che in lui riponeva piena fiducia.

Tale era in realtà l'uomo che ci è stato per sì lungo tempo descritto come un mostro, incapace d'ogni sentimento gentile, d'ogni sincero affetto, d'ogni onestà. Egli continuava ora a lavorare, a lottare contro l'avversità e la povertà, dimostrandosi pronto a tutto, pur di guadagnare onestamente qualche cosa per aiutare la famiglia. Nell'aprile del 1518 andò a Genova a trattare gli affari d'alcuni mercanti fiorentini, i quali dovevano colà riscuotere parecchie migliaia di scudi, e poi tornò alla sua villa. Da essa veniva però di tanto in tanto a Firenze, dove aveva sempre una casa, dove aveva qualche faccenda, e dove, non ostante l'avversità dei tempi, serbava pure alcuni amici fidati, coi quali gli era conforto intrattenersi.

Quando a poco a poco i tempi divennero più tranquilli, s'andaron nella Città ricostituendo alcuni di quei convegni letterari, che molto diffusi in tutta l'Italia del secolo XVI, formavano una parte essenziale nella società di quel tempo, uno dei piaceri più geniali e desiderati da tutti gli uomini culti in Firenze. Il più rinomato allora fra questi convegni si teneva negli Orti Oricellari, e v'intervenivano molti dei primi letterati non solo di Firenze, ma d'Italia. Bernardo Rucellai, vissuto nella seconda metà del secolo XV, scrittore di satire latine, fautore de' Medici, ricco e potente cittadino, aveva, in sul finire del secolo, comperato un orto in via della Scala. Con molta spesa vi costruì uno splendido palazzo, con più splendido giardino, il quale ben presto fu celebrato pe' suoi bellissimi alberi, ed è nella storia letteraria del tempo conosciuto col nome d'Orti Oricellari. Anch'oggi possiamo avere un'idea abbastanza esatta di quel che dovevano essere allora palazzo e giardino, se da questo leviamo la singolare e colossale statua di Polifemo, messavi più tardi dai Medici, ed alcune piccole costruzioni di pietra che vi furono aggiunte ai nostri giorni, e fanno singolare contrasto col carattere antico. Gli alberi sono tuttavia bellissimi, e paiono invitar sempre sotto le loro ombre al meditare ed al conversare. Attraverso i loro folti rami si vedono ancora le linee eleganti, armoniche dell'antico palazzo, che ha tutto il severo carattere architettonico della scuola di Filippo Brunelleschi e di Leon Battista Alberti. Le ampie sale terrene sono sempre aperte, come a sicuro ricovero dalla pioggia o dal sole nelle ore canicolari. Per poco che la mente si distragga, le ombre del passato sorgono intorno a noi, e ci pare di sentir nuovamente la voce degli uomini che così spesso s'adunavano colà, e dei quali tanto parlano le storie.

Bernardo Rucellai moriva nel 1514. Gli anni che precedettero, e quelli che seguirono di poco il 1512, erano stati così turbolenti da non lasciare agio al pacifico conversare letterario, e però gli Orti furono allora poco frequentati. Dei figli Cosimo e Piero che lo precedettero nella tomba, poco dicono le storie, che parlano invece assai del secondogenito Palla, il quale tenne alti ufficî politici, e s'adoprò tenacemente, fin quasi agli ultimi anni di sua vita, a favore de' Medici, essendosi da essi alienato solo nel 1537. Un altro fratello, Giovanni, come tutti i Rucellai, amico de' Medici, di cui erano anche parenti, si dette con grande fortuna alle lettere, e fu il noto autore della tragedia la Rosmunda, e del poema Le Api. Discepolo o amico dei primi letterati di Firenze, cominciò a raccoglierli intorno a sè; ma aspirando al cappello cardinalizio, se ne andò poi a Roma, presso Leone X, suo cugino. Vestito l'abito ecclesiastico, entrato in prelatura, passò colà la maggior parte del tempo, anche sotto Clemente VII, che lo nominò castellano di Castel Sant'Angelo, ufficio che tenne sino alla morte, seguita nel 1525, quando aspettava maggior grado. Per tutte queste ragioni, sebbene la casa de' Rucellai fosse da un pezzo già molto frequentata, il primo ad iniziar davvero, in modo regolare, le adunanze negli Orti, fu il figlio di Cosimo, che, nato nel 1495, l'anno stesso in cui moriva il padre, ne ebbe il nome, e fu da tutti chiamato Cosimino. Si dedicò alle lettere, scriveva versi e dava grandi speranze di sè, dimostrava indole generosa e benevola assai verso gli amici. Ma per trascorsi di gioventù aveva preso una malattia venerea, che, non ben curata, lo ridusse storpio in modo, che dovè per sempre giacere in una specie di culla o in una lettiga, su cui veniva trasportato. Questa sua sventura, i facili modi, l'indole benevola e lo svegliato ingegno raccolsero intorno a lui tutti i migliori amici di casa Rucellai, i quali lo visitavano assai spesso, sicuri di trovarlo sempre in casa o nel giardino, dove solamente poteva respirare all'aperto.

Fra i più assidui frequentatori di queste adunanze, erano Zanobi Buondelmonti e Luigi di Piero Alamanni, poeta assai noto per le sue liriche, pe' suoi poemi cavallereschi, ma più di tutto per il poema La Coltivazione, in cui volle imitare le Georgiche di Virgilio, dimostrando molta eleganza e facilità in un verseggiare, che non è però senza monotonia. Questi due giovani, i quali più tardi divennero ardenti fautori di libertà, erano allora anch'essi amici de' Medici, come quasi tutti coloro che frequentavano gli Orti Oricellari. Assai spesso venivano colà anche due cugini, che si chiamavano, così l'uno come l'altro, Francesco da Diacceto, e però a distinguerli, erano dal colore degli abiti chiamati uno il Nero, l'altro il Pagonazzo, ed appartenevano ambedue alla scuola degli eruditi. Il secondo, nato da Zanobi da Diacceto nel 1466, era stato fra i principali discepoli del Ficino, aveva scritto molte opere filosofiche ed insegnava nello Studio. Un Diacceto d'altra famiglia, ma discepolo del Pagonazzo, e chiamato il Diaccetino, si trovava anch'egli fra i principali frequentatori degli Orti; aveva studiato il greco ed ottenuto dal cardinale dei Medici una lezione nello Studio. Costui era, come l'Alamanni ed il Buondelmonti, ambizioso, audace, passionatissimo. Loro comune amico fu sempre un Giovan Battista della Palla, il quale, essendo stato molto affezionato a Giuliano dei Medici, sperava per tal mezzo d'ottenere il cappello di cardinale, e se ne andò quindi ben presto a Roma ad intrigare. Ma, come vedremo, egli non tralasciò mai di corrispondere per lettere continue co' suoi amici di Firenze, coi quali più tardi cospirò. Frequentavano gli Orti moltissimi altri, fra cui i due ben noti scrittori di storie, Iacopo Nardi e Filippo dei Nerli, questi mediceo, quegli repubblicano, ma per ora anch'egli in buoni termini col Cardinale. V'erano spesso tutti i Rucellai, tutti i più celebri letterati d'Italia, che capitavano a Firenze, fra i quali ricorderemo solo Giangiorgio Trissino, il celebre gentiluomo di Vicenza, erudito, grammatico, poeta tragico ed epico, l'autore della Sofonisba e dell'Italia liberata dai Goti, che tanto faceva allora parlare di sè.

A torto s'è in tali riunioni voluto vedere una continuazione o rinnovamento dell'Accademia Platonica. Questa era morta col Ficino, ed il tentativo di rinnovarla fu fatto assai più tardi da altri uomini. Quelli che adesso frequentavano gli Orti Oricellari, appartenevano, se facciamo eccezione di Francesco da Diacceto e di qualche altro, ad una generazione non solo posteriore, ma anche assai diversa. Tutti ammiratori dell'antichità, tutti più o meno conoscitori delle lingue antiche, non erano di coloro che a tempo di Lorenzo il Magnifico passavano i giorni ed i mesi a disputare sulle idee di Platone, sulle forme di Aristotile, sulle allegorie di Plotino e di Porfirio, sopra questioni di grammatica. Alcuni di essi erano solamente uomini politici, pratici degli affari; altri erano poeti, scrittori di storie, di prose italiane, veri letterati del Cinquecento, contemporanei di Raffaello, di Michelangelo, del Guicciardini, dell'Ariosto, sebbene, essendo ingegni minori assai di questi sommi, e però meno indipendenti, rimanevano più servilmente legati all'antichità. E neppure si deve credere che queste adunanze fossero allora ostili al Cardinale ed al Papa, come si è detto e ripetuto tante volte, a causa della congiura più tardi tramata da alcuni di coloro che spesso v'intervenivano. Quasi tutti erano anzi amici dei Medici; quegli stessi che più tardi cospirarono contro di loro, erano stati per molto tempo in buonissimi termini con essi, e se ne alienarono la prima volta per ragioni affatto personali, alle quali s'aggiunse poi la passione politica. Una riprova di tutto ciò deve vedersi anco nel fatto, che venuto Leone X a Firenze nel 1515, fu invitato negli Orti, dove per rendergli onore, si fece, alla sua presenza, rappresentare la Rosmunda del Rucellai.

Quando queste adunanze erano già fiorenti, vi fu introdotto anche il Machiavelli, ed il suo andare colà non era certamente segno ch'egli s'allontanasse dai Medici; indicava anzi il contrario. Infatti noi troviamo che alcuni anni dopo egli fu introdotto in casa Medici. Il 17 marzo 1519 Filippo Strozzi scriveva da Roma al fratello Lorenzo: «Piacemi assai abbiate condotto el Machiavello in casa e' Medici, che ogni poco di fede acquisti co' padroni è persona per surgere.» Questa lettera da un lato conferma quello che abbiam detto sulla compagnia degli Orti Oricellari, e dall'altro spiega come il cardinal de' Medici cominciasse allora appunto a dimostrare qualche benevolenza al Machiavelli. Se adesso solamente egli fu introdotto in casa Medici, ciò prova del pari quanto esagerate, anzi addirittura immaginarie, fossero le pretese relazioni intime che, secondo molti scrittori, l'autore del Principe avrebbe avute con Lorenzo e Giuliano.

Il Machiavelli, com'era naturale, venne assai bene accolto negli Orti, e Cosimino specialmente lo ammirò molto, legandosi a lui d'un affetto sincero, che fu ricambiato con vera amicizia. A lui ed a Zanobi Buondelmonti il Machiavelli dedicò i Discorsi; di lui con vivo dolore parlò nell'Arte della Guerra, poco dopo la morte immatura. A questi amici cominciò a leggere i Discorsi, che molto piacquero, e dettero luogo a discussioni assai animate, che finivano sempre incoraggiandolo a continuare con zelo indefesso l'opera intrapresa, la quale il Nardi dice «di nuovo argomento, non più tentata (che io sappi) ad alcuno.» Ed aggiunge, che il nuovo ospite fu tanto amato da quei giovani, che essi trovarono modo anche di sovvenirlo cortesemente, perchè si dilettavano oltre ogni dire della sua conversazione, e ne ammiravano gli scritti per modo, che egli non fu poi giudicato senza colpa, quando il loro animo si trovò infiammato ad imprese audaci e pericolose a favore della libertà. Questa benevola accoglienza si spiega facilmente. Ammiratore sincerissimo degli antichi, il Machiavelli aveva pure, studiando le loro opere, ritrovato tutta l'indipendenza del proprio spirito, meditando con originalità vera sugli avvenimenti del suo tempo. E quindi le sue opere riuscirono a quegli uditori, ancora troppo servilmente imitatori dell'antichità, come la rivelazione della loro più intima coscienza. Anche in mezzo a questi fautori dei Medici, egli che non sapeva mai parlare o scrivere diversamente da quel che sentiva, manifestò tutto il suo amore di libertà, tutto il suo entusiasmo per la repubblica romana. Nè ciò produceva scandalo veruno. Ogni dotto Italiano ammirava allora l'antica Roma; ogni vero Fiorentino si sentiva repubblicano; i Medici stessi facevano mostra di voler governare Firenze a repubblica, e promettevano di sempre più ridurla tale. Il Machiavelli perciò si espandeva, si manifestava liberamente fra quei giovani, esaltandosi e tornando di continuo all'idea prediletta della sua Ordinanza, cioè del popolo armato. Cavando esempi dalla storia antica, esponeva in che modo poteva armarsi l'Italia di buone armi, tali da resistere agli stranieri, tutelare la dignità e la indipendenza nazionale. Questi erano i ragionamenti stessi ripetuti poi nella sua Arte della Guerra, che andò via via leggendo ai giovani amici. La nuova opera, che fra poco esamineremo, è in fatti composta a forma di dialoghi tenuti negli Orti Oricellari fra i principali frequentatori di quelle adunanze. L'entusiasmo, non solamente letterario, ma politico, che con tali discorsi e con tali letture il Machiavelli destava in essi, s'accendeva sempre di più; ma egli, tutto compreso del suo soggetto, trascinato dalle proprie idee, non s'accorgeva che le sue parole producevano qualche volta sull'animo loro, l'effetto stesso di una scintilla sulla polvere da sparo, e potevano perciò avere pericolose conseguenze. Se ne tornava quindi tranquillo nella solitudine della sua villa, e continuava a porre sulla carta i ragionamenti avuti, per tornare poi a leggerli ed a discuterli coi suoi amici ed ammiratori.

Tutto questo però, allora almeno, non gli noceva punto appresso ai Medici, anzi faceva sì che, secondo la frase adoperata dallo Strozzi, egli fosse tenuto veramente «persona per sorgere.» Molto in fatti parlavano di lui coloro che circondavano il Cardinale, il quale, come altra volta lo aveva da Roma, per mezzo del Vettori, interrogato sulla politica generale d'Italia, così ora lo incitava a scrivere sul modo di riformare il governo di Firenze, indirizzando il suo discorso a Leone X, che in sostanza era il vero padrone della Città. Usavano allora i Medici, massime il cardinal Giulio, interrogare così le persone più autorevoli; ed era anche assai gradito ai Fiorentini esporre le proprie opinioni sugli eventi che seguivano alla giornata, sulle riforme da portare nel governo, per rendere contenta la loro sempre irrequieta città. Abbiamo quindi un numero non piccolo di tali discorsi, più o meno eloquenti, più o meno audaci o accorti, scritti in questi anni appunto.

Vedemmo altrove come il Guicciardini nel 1512, essendo nella Spagna, dove prevedeva già le caduta del Soderini, ma non sapeva ancora del ritorno de' Medici, scrivesse un discorso, in cui con grandissimo acume suggeriva i modi secondo lui migliori per rendere più forte e sicura la Repubblica. E vedemmo pure, come avuta appena notizia del mutamento seguito nella Città, ne scrivesse un altro, nel quale, senza ancora troppo dichiararsi pronto a mutar parte, esponeva invece i modi con cui il governo dei Medici avrebbe potuto rafforzarsi. Più esplicitamente e più largamente ancora trattò questo medesimo soggetto in un terzo discorso, scritto nel 1516, quando, già da tre anni tornato a Firenze, era divenuto uno dei loro più caldi fautori. «I Medici,» egli scriveva allora, «s'erano impadroniti della Città contro il desiderio e la volontà del massimo numero dei suoi abitanti. La elezione di Leone X aveva, è vero, mutato le cose in loro favore; ma era tuttavia necessario pensare all'avvenire con accorti provvedimenti, se non si voleva da un momento all'altro vedersi esposti a gravissimi pericoli. Il principale ostacolo a questi provvedimenti trovavasi però nella indifferenza di Giuliano e di Lorenzo, i quali avevano messo così alto la loro mira, che poco o punto si curavano di Firenze, pensando invece a formarsi altrove uno Stato. E questo era un sogno pericoloso, perchè nella sua effettuazione urtava contro difficoltà insormontabile. A Firenze i Medici, sotto le apparenze di repubblica, avevano un dominio assai più solido e sicuro di quello che potevano sperare a Parma, a Modena o altrove. Era bene ricordarsi, che i nipoti di Calisto III e di Pio II, contentandosi di poco, restarono nel loro grado anche dopo la morte di quei papi; il duca Valentino, invece, che voleva grande e nuovo Stato, rovinò.» «E la ragione ci è manifesta, perchè privati acquistare Stati grandi è cosa ardua, ma molto più ardua conservarli, per infinite difficoltà che si tira dietro un principato nuovo.» Qui è chiaro che il Guicciardini si dimostra contrario affatto non solamente alle illusioni del Machiavelli sul Valentino; ma allo stesso concetto fondamentale del Principe, non che ai consigli che l'autore di esso aveva già dati ai Medici per mezzo del Vettori, quando si parlava della formazione d'uno Stato nuovo a Parma ed a Modena. I Medici, secondo il Guicciardini, avrebbero fatto assai meglio e operato da savi smettendo queste illusioni pericolose, pensando solo a conservare quello che avevano in Firenze. A tal fine occorreva formarsi un nucleo d'amici fidati e sicuri, i quali conoscessero bene la Città, e fossero perciò in grado di dare aiuto e consigli opportuni. «Senza affidarsi ad essi troppo ciecamente, ma tenendo sempre nelle proprie mani la briglia, è pur necessario dar loro favori e potere. Con i favori si è ben sicuri di potersi guadagnare l'animo di ciascuno, giacchè ora non sono più i tempi dei Greci e dei Romani, che si contentavano della sola gloria. Non v'è oggi in Firenze alcuno, il quale ami tanto la libertà, che non si volti facilmente ad un altro reggimento qualunque, se può in esso avere maggior parte e miglior essere che nella repubblica. Quanto poi alla universalità dei cittadini basta fare economia per non aggravarli di tasse, curare che la giustizia civile sia bene amministrata, difendere i deboli contro i potenti, usare con tutti modi cortesi. A coloro che consigliano di prendere addirittura in Firenze il dominio assoluto, senza alcuna ombra di civiltà e di libertà, bisogna ricordare, che non si potrebbe prendere un partito peggiore, più pieno di sospetti, di difficoltà, ed, a lungo andare, anche assai crudele e quindi pericoloso a tutti.»

Questi erano i consigli che dava ai Medici il Guicciardini; ben diversi invece furono quelli dati dal Machiavelli, quando venne interrogato. In sostanza egli consigliava nè più nè meno che il ristabilimento della repubblica, sforzandosi però di trovare un modo col quale il Papa ed il Cardinale potessero, durante la loro vita, restar padroni della Città, senza di che sapeva che ogni sua proposta sarebbe stata vana e puerile. Molti lo hanno perciò accusato di contradirsi, rimproverandogli che, dopo d'avere nel Principe suggerito il governo assoluto a Giuliano ed a Lorenzo de' Medici, consigliava ora a papa Leone X la repubblica. Ma ogni contradizione scomparisce del tutto, se per poco si rifletta che il Principe fu scritto per dimostrare come si poteva colla forza formare uno Stato assoluto e nuovo, e come, formandolo in Italia, si poteva ingrandirlo per riunire tutta la Penisola. Adesso invece erano già morti Giuliano e Lorenzo, ai quali questi consigli erano stati indirizzati, ed il Machiavelli veniva interrogato dal Cardinale sopra un altro e assai diverso argomento. Non si trattava più d'uno Stato nuovo a Parma e Modena, o altrove; si trattava di Firenze solamente. Egli aveva già molte e molte volte ripetuto nei Discorsi, nelle lettere familiari, in quasi tutte le sue opere politiche, che se nell'Italia settentrionale e nella meridionale non era possibile altro che una monarchia; se con questa solamente poteva iniziarsi colà uno Stato nuovo, ed ingrossarlo sempre più, nella Toscana invece, massime poi a Firenze, per la grande uguaglianza che v'era e per le antiche consuetudini, solo una repubblica poteva contentare e durare. Di ciò appunto si trattava adesso. Il Papa stesso ed il Cardinale sembravano persuasi, che i Fiorentini, più o meno, volevano tutti la repubblica. Non avendo eredi legittimi, essendo perciò certi che in loro spegnevasi il ramo mediceo di Cosimo il Vecchio e di Lorenzo il Magnifico, mostravano di esitare a far qualche passo decisivo verso la repubblica, solamente per non perdere il loro protettorato assoluto finchè vivevano. Veri o finti che fossero questi loro sentimenti, essi li manifestavano e li facevano credere a molti. Ed il Machiavelli era persuaso d'aver trovato il modo di risolvere l'arduo problema, di fondare cioè sicuramente la libertà per l'avvenire, mantenendo ferma nel presente l'autorità assoluta del Papa e del Cardinale, finchè vivevano. Con tale intendimento egli scrisse il suo nuovo Discorso.

Incomincia adunque con l'esaminare le cagioni della instabilità di tutti i governi che si successero in Firenze, e le ritrova nell'essere stati sempre ordinati a vantaggio d'una sola parte e non del pubblico, nell'essere riusciti tutti una mescolanza ibrida e poco durevole di monarchia e di repubblica. «Questi governi di mezzo,» egli dice, «riescono sempre debolissimi, perchè hanno più vie aperte alla loro rovina. Il principato rovina andando verso la repubblica, e questa andando verso il principato. Ma i governi di mezzo rovinano da ogni lato, sia che vadano verso la repubblica, sia che vadano verso il principato. Vi sono molti che esaltano il governo di Cosimo e di Lorenzo il Magnifico, e vorrebbero perciò ristabilirne oggi uno simile. Ma esso non fu esente dai difetti e dai pericoli già notati negli altri, e questi difetti sarebbero oggi di gran lunga maggiori. I Medici erano allora educati e vissuti nella Città, e la conoscevano assai bene; governavano con una familiarità alla quale non si saprebbero più piegare adesso che sono divenuti potentissimi, dopo essere stati lungamente in esilio. Allora avevano assai favorevole la universalità dei cittadini, ora l'hanno contraria. Nè v'erano come oggi in Italia tanti potenti armati, contro i quali un governo debole non potrebbe più in alcun modo resistere. Dicono molti che Firenze non può stare senza un capo; ma non riflettono costoro che si può avere un capo pubblico ed un capo privato. Nessuno dubita che se si dovesse scegliere un capo privato, tutti preferirebbero uno della casa dei Medici. Quando però si dovesse scegliere tra capo pubblico e privato, sempre piacerà più ai Fiorentini avere il primo, o sia un magistrato eletto dai cittadini, e frenato dalle leggi. È certo in ogni modo, che a volere ordinare il principato in Firenze, dove è sì grande uguaglianza, non si riuscirebbe senza mutare tutto con violenza. E perchè questa sarebbe una cosa non solo difficile, ma ancora inumana e crudele, deve giudicarsi indegna di chiunque desideri essere tenuto pietoso e buono. Io, adunque, lascerò indietro il ragionare del principato, e parlerò della repubblica, anche perchè s'intende la Santità Vostra esservi dispostissima, ed esitare solamente, perchè desidera trovare un ordine con cui l'autorità sua rimanga grande in Firenze, e gli amici vivano sicuri. Parendomi pertanto d'averlo pensato, ho voluto che intenda questo mio pensiero; acciocchè, se ci è cosa veruna di buono, se ne valga, e possa ancora, mediante questo, conoscere quale sia la mia servitù verso di lei.»

Il concetto del Machiavelli era, in termini generali, semplicissimo: fondare una vera e propria repubblica, lasciando per ora le elezioni dei magistrati in mano dei Medici. Così essi sarebbero stati i veri padroni d'ogni cosa, durante la vita; ma alla loro morte Firenze sarebbe tornata libera davvero. Non era un concetto nuovo del tutto, giacchè per mezzo delle elezioni appunto, Cosimo e Lorenzo il Magnifico erano riusciti a rendersi padroni della repubblica. È vero che così avevano anche ucciso la libertà; ma adesso il Papa era lontano, e nè egli nè il Cardinale avevano successori cui dover pensare; non potevano o almeno non era, secondo il Machiavelli, ragionevole che si dolessero se, dopo la morte loro, la libertà potesse davvero prosperare. In sostanza adunque tutto si riduceva a cercar di persuadere i Medici, che essi acquisterebbero una gloria immortale, se, pur mantenendosi in vita padroni di Firenze, assicurassero fin d'allora il trionfo della repubblica per l'avvenire. A risolvere praticamente l'arduo problema, il Machiavelli ricorre nel Discorso anche a molti ripieghi, che finiscono col rendere assai artificiosa la sua proposta. Egli torna un momento alla vecchia teoria fiorentina delle tre ambizioni, dei tre ordini di cittadini da soddisfare: coloro che vogliono primeggiare e comandare; coloro che sono contenti di partecipare in qualche modo al governo; e coloro che formano la moltitudine, la quale chiede solo libertà e giustizia. Vuole sopprimere tutte le complicazioni dei vecchi Consigli e dei vecchi magistrati, che i Medici, per mera apparenza, avevano risuscitati dagli Statuti anteriori al 1494, ed istituire un Gonfaloniere con la Signoria, il Senato ed il Consiglio Grande. Questa era la forma di governo fondata nel 1494, al tempo del Savonarola, e, con poche modificazioni, durata sino al 1512. Essa era anche quella che in sostanza veniva proposta dal Guicciardini, quando favoriva la repubblica, e più tardi dal Giannotti, sebbene ciascuno, a suo modo, la modificasse.

Venendo poi ai mezzi pratici d'attuare una tale riforma, il Machiavelli incominciava col proporre, che si eleggessero a vita sessantacinque cittadini di quarantacinque anni finiti, nominando uno di essi Gonfaloniere per due o tre anni, od anche a vita. La metà dei sessantaquattro che restavano, doveva formare una specie di Consiglio del Gonfaloniere, per un anno, venendo, nel seguente, sostituita dall'altra metà, e continuando così ad alternarsi. Questi trentadue si dividevano poi in quattro parti di otto cittadini ciascuna, i quali per un trimestre formavano la Signoria propriamente detta, alla cui testa era il Gonfaloniere. E così venivano, egli credeva, soddisfatte le ambizioni più irrequiete. V'era inoltre un Senato o Consiglio dei Dugento, i quali dovevano avere ciascuno quaranta anni finiti. Il Machiavelli che aboliva, come dicemmo, molti dei vecchi magistrati, lasciava invece sussistere gli Otto di Guardia e Balìa, che formavano una specie di tribunale ordinario, e gli Otto di Pratica, che provvedevano alle cose della guerra, e quindi all'Ordinanza, che fu sempre l'istituzione a lui più cara. I Medici l'avevano nel 1512 disciolta, per poi in modo efimero ricostituirla, con una provvisione del 19 maggio 1514, chiamandola Ordinanza del Contado. Su questo soggetto che doveva riuscire assai scabroso, perchè si trattava di far dare dai Medici le armi al popolo, il Machiavelli non si fermò allora, deliberato com'era a tornarvi più tardi, dopo essere cioè prima riuscito a persuader loro la opportunità di ricostituire la repubblica. Per adesso lasciava l'Ordinanza quale essi l'avevano ridotta, proponendo solo che fosse divisa in due parti, ciascuna delle quali venisse comandata da un commissario, eletto ogni due anni dal Papa. Questi ed il Cardinale dovevano inoltre, con l'autorità e balìa di tutto il popolo fiorentino, eleggere il Gonfaloniere, la Signoria, i Dugento, gli altri magistrati. Tale era il mezzo dal Machiavelli escogitato per assicurare ai Medici un potere che, dopo la loro morte, sarebbe andato tutto nelle mani del popolo.

Rimaneva ancora l'ultima parte, la più importante della riforma, quella cioè con cui bisognava soddisfar subito alla universalità dei cittadini. A tal fine, proseguiva il Machiavelli, cominciando subito ad esaltarsi, è necessario riaprire la sala del Consiglio Grande. «Senza satisfare all'universale, non si fece mai alcuna repubblica stabile; non si satisfarà mai all'universale dei cittadini fiorentini, se non si riapre la Sala; però conviene, a volere fare una repubblica in Firenze, riaprire questa Sala e rendere questa distribuzione all'universale. E sappia Vostra Santità, che chiunque penserà di torle lo Stato, penserà innanzi ad ogni altra cosa di riaprirla, e però è partito migliore, che quella l'apra con termini e modi sicuri.» Bisognava adunque ricostituire il Consiglio Grande, componendolo di mille o almeno di seicento cittadini. E non occorreva determinare il modo della elezione, perchè si dovevano in esso alternare tutti coloro che, secondo gli antichi statuti erano cittadini beneficiati o sia abili al governo. Suo ufficio principalissimo doveva essere, oltre l'approvazione delle leggi, la elezione dei magistrati. Queste attribuzioni però gli venivano per ora solo in minima parte concesse, dovendo restare ai Medici, finchè vivevano il Papa ed il Cardinale. E quindi il Machiavelli suggeriva ai Medici, che di tanto in tanto chiamassero il Consiglio ad un più largo esercizio de' suoi diritti. Così si sarebbe cominciato fin d'ora ad educare il popolo alla libertà, nel che stava lo scopo principalissimo che egli si era proposto nel Discorso.

«Con questi ordini,» così egli conchiudeva, rivolgendosi al Papa ed al Cardinale, esaltandosi sempre di più, «voi siete i padroni assoluti di tutto. Nominate i principali magistrati, il Gonfaloniere, la Signoria, i Dugento; fate le leggi con l'autorità di tutto il popolo; ogni cosa dipende dal vostro arbitrio; nè, durante la vostra vita, v'è alcuna differenza da questo governo ad una monarchia. Alla vostra morte, lasciate alla patria una vera e libera repubblica, che dovrà a voi la sua esistenza.» «Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini, sia quello che volontariamente è loro dato dalla loro patria; credo che il maggior bene che si faccia ed il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltre di questo, non è esaltato alcun uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quelli che hanno con leggi e con istituti riformato le repubbliche e i regni: questi sono, dopo quelli che sono stati Iddii, i primi laudati.... Non dà adunque il Cielo maggiore dono ad un uomo, nè gli può mostrare più gloriosa via di questa; ed in fra tante felicità, che ha date Dio alla casa vostra ed alla persona di Vostra Santità, è questa la maggiore, di darle potenza e subietto da farsi immortale, e superare di gran lunga per questa via la potenza e la avita gloria.»

Sebbene una tal conclusione ci riconduca al pensiero dominante del Machiavelli, e ricordi la celebre esortazione finale del Principe, pure noi non possiamo attribuire a tutto il Discorso un grande valore scientifico, e neppure un grande valore pratico. Egli o ripete idee che già aveva esposte altrove più ampiamente, o accetta senz'altro dottrine universalmente divulgate in Firenze. La forma di repubblica da lui proposta è, ne' suoi lineamenti generali, quella stessa che allora tutti più o meno consigliavano. E quanto alle modificazioni con cui voleva migliorarla, i suoi suggerimenti restavano di gran lunga inferiori a quelli assai più accorti e pratici, che aveva dati dalla Spagna il Guicciardini nel primo de' suoi discorsi. I ripieghi poi coi quali voleva apparecchiare il passaggio dal dispotismo presente alla futura libertà, erano davvero troppo sottili ed artifiziosi, com'ebbe a notare più tardi Alessandro de' Pazzi, quando fu del pari interrogato dal cardinale dei Medici. E quando essi fossero stati davvero accettati, difficilmente avrebbero ottenuto l'intento cui miravano. Una repubblica lasciata in pieno arbitrio d'un papa come Leone X, o avrebbe portato ad immediato conflitto col popolo, o avrebbe reso sempre più difficile fondare in avvenire la libertà. In tal modo non poteva quindi il Discorso riuscire nè scientifico nè pratico abbastanza, ma solo fantastico. Ciò non ostante, esso dimostrava ancora una volta quanto sincero, costante, profondo fosse nel Machiavelli l'amore della libertà. Dopo aver tanto desiderato il favore dei Medici, per poter essere in qualche modo adoperato da loro negli affari, appena essi rivolgono a lui lo sguardo e lo interrogano, non sa far altro che ripetere con entusiasmo irrefrenabile un solo e medesimo pensiero: la maggior gloria, la più grande fortuna che si possa dai mortali desiderare su questa terra, sta nel sapere e nel volere fondare uno Stato libero, civile e forte. E di ciò era tanto convinto, che non capiva come non dovesse subito convincersene ognuno. Questo gli fece credere di poter persuadere prima Giuliano e poi Lorenzo a farsi redentori d'Italia; questo gli faceva sperare adesso d'indurre Leone X a fondare per l'avvenire la libertà di Firenze. Ma s'illuse la prima e la seconda volta, senza però mai perdere la sua fede o smettere il pensiero di tornare alla prova. Per ora il Papa non dava nessuna importanza a tutte le proposte che da più parte gli venivano, principalmente per istigazione del Cardinale. L'uno e l'altro del resto avevano promosso questi scritti solo col fine di alimentare speranze ed illusioni nei più caldi amatori di libertà, e così tenerli sospesi e tranquilli, scoprendone in pari tempo le più riposte intenzioni.

Il cardinale però sembrava che volesse veramente avvicinare a sè il Machiavelli. Lo aveva da poco conosciuto di persona, gli aveva cominciato a scrivere qualche lettera, a rendere qualche favore. Pareva quindi che dovessero per lui cominciare tempi migliori; ma erano ancora segni così tenui e favori così meschini, che qualche volta riuscivano più ad umiliarlo che ad esaltarlo. Nell'anno 1520 ebbe in fatti dalla Signoria e dal Cardinale una prima commissione a Lucca, per trattar gli affari d'alcuni mercanti fiorentini, i quali avevano colà un credito di 1600 fiorini con un tal Michele Guinigi, che non voleva pagare. Questa privata faccenda avrebbe dovuto esser decisa dai tribunali ordinarî, ma s'era andata complicando ed arruffando in maniera, che veniva ora trattata dai due governi. Il Guinigi aveva ereditato dal padre una grossa fortuna, la più parte della quale era stata vincolata ai suoi figli, sapendosi che egli l'avrebbe subito mandata a male. Oltre i debiti da lui contratti con Fiorentini e con altri non pochi per faccende commerciali, ne aveva già fatto altri moltissimi al gioco, ed era nella impossibilità di pagarli. Si cercava dunque d'ottenere dalla repubblica lucchese, che l'affare venisse eccezionalmente rimesso nelle mani di arbitri, con facoltà d'annullare questi secondi debiti, o almeno dare precedenza assoluta ai primi. In tal caso solamente i parenti e tutori dei figli del Guinigi promettevano di pagare quelli che risultavano da affari commerciali, cosa che in nessun modo avrebbero consentito pei debiti fatti al giuoco. Se non che questi erano stati contratti con carte così legali e regolari, che occorreva a metterli da parte l'intervento del potere politico. Ove ciò non si fosse ottenuto, la fortuna di Michele Guinigi, cui spettava solo l'usufrutto, sarebbe rimasta vincolata tutta ai suoi figli minori, ed i parenti che ne avevano la tutela, avrebbero con loro pieno diritto negato di nulla concedere ai creditori fiorentini. Il Machiavelli, dopo lungo negoziare, ottenne che il Consiglio Generale di Lucca deliberasse di rimettere la cosa al pretore ed a tre arbitri, che rivedessero i libri; esaminassero quali obblighi erano contratti veramente per debiti giustificati, quali erano fittizi, e nei casi dubbi ne riferissero agli Anziani della repubblica, i quali avrebbero portata di nuovo la cosa al Consiglio Generale.

Egli si trattenne per questa faccenda parecchi mesi a Lucca, dove passò il tempo, studiando al solito la forma di quel governo, e pigliando su di esso alcuni appunti. Noi abbiamo in fatti un suo Sommario delle cose della città di Lucca, che il Machiavelli dovè scrivere in questo tempo. È un abbozzo compilato in fretta, nè senza qualche inesattezza; non vi mancano però opportune osservazioni. Nove cittadini ed un Gonfaloniere, egli dice, componevano la Signoria, che mutava ogni due mesi, dopo i quali ciascuno aveva divieto per due anni, cioè non poteva in quel tempo essere rieletto. Seguiva un Consiglio di trentasei, che si rinnovava da sè ogni sei mesi, non potendo, chi aveva seduto un primo semestre, continuare nel secondo, ma bensì nel terzo. Il Consiglio Generale durava un anno, ed era composto di settantadue membri, i quali venivano eletti dalla Signoria e da dodici altri cittadini nominati dai trentasei; avevano divieto un anno. La Signoria esercitava grandissima autorità nel contado, il quale, secondo l'uso repubblicano di quei tempi, non godeva delle libertà politiche; ma ben poca ne aveva nella città, dove poteva solo radunare i Consigli, e proporre le deliberazioni apparecchiate nelle Pratiche, che a Lucca si chiamavano Colloqui, ai quali erano invitati i più savî cittadini. Il Consiglio Generale era il vero padrone della città; faceva leggi e tregue; pronunziava condanne a morte senza appello, e i partiti si vincevano in esso con tre quarti dei voti. V'era nonostante un Potestà, che aveva autorità nelle cause civili e nelle criminali.

Il Machiavelli osserva che questo governo a Lucca operava bene, quantunque non fosse senza difetti. Loda il non dare alla Signoria molta autorità sui cittadini, «perchè così hanno sempre fatto le buone repubbliche giacchè il primo magistrato facilmente può abusare, se non è frenato. Non avevano i Consoli romani, non avevano e non hanno autorità sulla vita dei cittadini il Doge e la Signoria di Venezia.» A Lucca però la Signoria mancava, secondo il Machiavelli, della dovuta maestà, «perchè la breve durata dell'ufficio, e i molti divieti obbligavano a nominare persone di poco conto. Si era quindi necessitati di continuo a richiedere nei Colloqui il consiglio di privati cittadini, il che non si usa nelle repubbliche bene ordinate, nelle quali il numero maggiore distribuisce gli ufficî, il mezzano consiglia, il minore esegue.» Questa infatti, era allora tenuta la norma fondamentale e la base necessaria d'ogni regolare governo, non essendovi alcuna idea della moderna divisione dei poteri. E perciò il Machiavelli continuava: «Così facevano a Roma il popolo, il Senato, i Consoli; così fanno a Venezia il Gran Consiglio, i Pregadi, la Signoria. Ma a Lucca invece questi ordini sono confusi perchè il numero mezzano, cioè i Trentasei distribuiscono gli uffici; i Settantadue e la Signoria parte consigliano, parte eseguono. Pure anche da ciò non viene nel fatto gran danno, per la ragione già notata, che i magistrati non sono, per la loro poca maestà, punto ricercati, e i ricchi si occupano più che altro delle loro private faccende. Questo è tuttavia un ordine da non raccomandarsi.» Loda poi l'autorità data al Consiglio Generale sulla vita dei cittadini, perchè questo è, secondo lui, un gran freno all'ambizione dei potenti, i quali non sarebbero mai condannati da pochi giudici. Vorrebbe però che vi fosse, come a Firenze, un tribunale di quattro o sei magistrati per giudicare le minori cause civili e criminali fra i cittadini, lasciando al Potestà quelle del dominio, e tutte le altre a lui devolute dagli Statuti. «Se una tale magistratura non si istituisce,» egli diceva, «le minori cause che occorrono alla giornata, saranno sempre trascurate con danno e pericolo della libertà. Infatti anche a Lucca s'è dovuto venire ad una legge speciale, che fu chiamata dei discoli, per la quale, nel settembre e nel marzo, i Consigli riuniti deliberano di mandare, per tre anni, fuori dello Stato un certo numero di giovani creduti più pericolosi. Essa mise di certo un freno, ma è pure riuscita impotente contro l'insolenza della famiglia, che è chiamata di quelli di Poggio.» Questo breve Sommario, come si vede facilmente, non ha gran valore; ma dimostra, che allora come sempre il Machiavelli non lasciava mai fuggire alcuna occasione per studiare le istituzioni, gli ordinamenti politici dei popoli vicini o lontani, cercando d'indagare e suggerire i modi per migliorarli.

Fu tuttavia un lavoro che potè occuparlo poco tempo, nè molto l'occuparono altre piccole faccende. Ricevette allora varie lettere, una fra le altre del cardinal dei Medici, in data dell'ultimo di luglio, la quale incominciando con le parole: Spectabilis vir, amice mi carissime, gli raccomandava di far cacciare da Lucca tre studenti dell'università di Pisa, già mandati via di là per cattiva condotta. Gli amici degli Orti Oricellari gli scrivevano lettere ora serie, ora facete, pregandolo di tornare presto, e più vive premure gli facevano i figli, in nome loro e della madre Marietta. Ma il Machiavelli non si poteva muovere, se prima non veniva a qualche conclusione l'affare di cui era incaricato, e quindi profittò del tempo che gli restava libero, per comporre un altro suo breve lavoro, che è assai noto, e che da lui fu intitolato Vita di Castruccio Castracani. Il 29 agosto lo mandava di là all'amico Zanobi Buondelmonti, al quale ed a Luigi Alamanni, suoi amicissimi, lo aveva dedicato. E già il 6 settembre il Buondelmonti gli rispondeva d'averlo ricevuto e letto con l'Alamanni ed altri, ai quali tutti era molto piaciuto.

È notissimo che questo lavoro dette anch'esso occasione a dubbi e dispute non poche. Chi lo chiamò un romanzo, chi una imitazione della Ciropedia di Senofonte, chi altro. Certamente esso non è una storia, come può accorgersene chiunque lo paragoni per poco con la narrazione autentica dei fatti più conosciuti ed accertati. L'autore compose la biografia d'un personaggio ideale, cui diede il nome di Castruccio Castracani, e la ricavò in parte dalla vita di questo capitano, quale ci è data nelle storie e biografie; ma in parte non piccola ancora dalla vita d'Agatocle, narrata nei libri XIX e XX di Diodoro Siculo, aggiungendovi anche fatti che sono addirittura di sua propria invenzione. Castruccio, in vero, fu un figlio legittimo della nobile famiglia Antelminelli, nacque nel 1281, ed andò ben presto col padre Geri in esilio ad Ancona. Restato senza genitori, fu a combattere in Fiandra insieme con Alberto Scotti e Musciatto Franzesi, al soldo di Filippo il Bello. Nel 1310 combatteva in Lombardia, a favore dei Visconti. Il Machiavelli, invece, comincia coll'affermare, che gli uomini straordinari sogliono aver quasi tutti bassa ed oscura origine, perchè la fortuna vuol mostrare la sua potenza, e poi aggiunge, che un canonico Castracani ed una sua sorella Dianora, i quali vivevano insieme, trovarono nel proprio giardino un bimbo abbandonato, che allevarono in casa loro, e fu questi il celebre Castruccio. Mostrando egli attitudine alle armi, venne da messer Francesco Guinigi educato e condotto poi a combattere in Lombardia, dove sin dall'età di 18 anni cominciò a mostrare il suo valore. Il canonico e la sorella sono personaggi immaginari del tutto, come immaginario è il fatto del bimbo trovato nel giardino. Nell'età di 18 anni Castruccio era inoltre fuori d'Italia, nè si trova un Francesco Guinigi, cui si possano attribuire i fatti narrati dal Machiavelli. Invece Agatocle, secondo Diodoro Siculo, fu dal padre abbandonato, e dopo alcuni giorni la madre lo prese e menò dal proprio fratello, che lo allevò. Venne più tardi protetto da un nobile che gli diè grado nell'esercito, nel quale Agatocle subito fece prova del suo valore.

Prosegue il Machiavelli raccontando come, tornato che Castruccio fu dalla Lombardia a Lucca, messer Francesco Guinigi morì e lasciò un figlio di tredici anni, di nome Paolo, nominando Castruccio tutore di esso, ed amministratore de' suoi beni. Paolo è personaggio immaginario come il padre e come tutto l'episodio, imitato anche questo da Diodoro, il quale narra in fatti che Agatocle sposò la vedova del suo protettore, e così di povero divenne ricco. Il modo con cui Castruccio, a poco a poco, prima coll'aiuto d'Uguccione della Faggiola signore di Pisa, poi contro la volontà di lui, riuscì a farsi padrone di Lucca, è narrato dal Machiavelli con maggiore verità. Ma la battaglia di Montecatini, nella quale i Fiorentini furono disfatti, e Castruccio combattè tanto valorosamente sotto gli ordini d'Uguccione, che per ciò appunto ne ingelosì e gli fu nemico, è descritta in un modo affatto arbitrario. Il Machiavelli fa ammalare Uguccione, che invece si trovò a comandare l'esercito, e ciò per dare il comando a Castruccio, cui attribuisce, a suo modo, tutto un disegno immaginario di battaglia. Divenuto Castruccio signore di Lucca, e capo dei Ghibellini di Toscana, per la morte d'Uguccione, segue la narrazione del modo con cui egli soppresse una ribellione in quella città.

E qui il Machiavelli imita di nuovo Diodoro, attribuendo al suo eroe una condotta simile a quella tenuta da Agatocle nello spegnere i propri nemici, condotta già ricordata e lodata tante volte nel Principe e nei Discorsi. Secondo Diodoro Siculo, Agatocle, formato prima, come capitano dei Siracusani, un grosso esercito, chiamò i capi del Consiglio dei seicento, sotto pretesto di ragionar con loro, e gli spense tutti. Indi sollevò contro i Grandi il popolo che li odiava, e furono così uccise da quattromila persone. Secondo il Machiavelli, Stefano di Poggio s'unì prima ai ribelli in Lucca; poi li sedò, e quando Castruccio fu tornato dal campo, si presentò a lui, mostrandogli come tutto era tranquillo per opera sua, e gli raccomandò i propri amici e parenti. Castruccio lo accolse con benevolenza e lo invitò a condur seco gli amici. Venuti sotto la data fede alla sua presenza, furono tutti presi e morti, dopo di che egli spense ancora molti altri, i quali potevano per ambizione aspirare ai primi onori, e così fu finalmente sicuro padrone di Lucca.

Anche la narrazione del modo in cui Castruccio s'impadronì di Pistoia, è affatto immaginaria. Secondo il Machiavelli, egli si sarebbe messo d'accordo coi capi delle due parti che dividevano la città, facendo credere così agli uni come agli altri, che entrerebbe una tal notte per combattere gli avversarî. Invece, al momento stabilito, dato il segnale, s'impadronì subito degli uni e degli altri, facendoli tutti ammazzare. La città venne allora corsa in nome di Castruccio, e si sottomise insieme col contado, «tale,» così conchiude il Machiavelli, «che ognuno, pieno di speranza, mosso in buona parte dalla virtù sua, si quietò.» Invece Pistoia fu ceduta da Filippo Tedici, che n'era capo. Sentendosi troppo debole per lottare ad un tempo contro Castruccio, contro i Fiorentini e contro i nemici interni, ingannò i secondi e s'arrese al primo, che lo fece suo capitano e gli dette in moglie la propria figliuola. Così almeno raccontano le Storie Pistoiesi, ben più credibili. Il Machiavelli, fra le altre cose, non dà a Castruccio nè moglie nè figli, quando ebbe moglie e molti figli, nove secondo il suo biografo Tegrimi.

Dopo la presa di Pistoia seguono storicamente due battaglie, che sono i fatti più importanti nella vita militare di Castruccio. La prima e principale fu quella di Altopascio (1325), nella quale i Fiorentini vennero pienamente rotti. E di questa il Machiavelli, che la descrive minutamente nelle sue Storie, non dice qui neppure una parola. Dopo varî altri fatti d'arme, Castruccio, divenuto duca di Lucca, Volterra, Pistoia, ecc., e vicario imperiale in Pisa, trovavasi in Roma, dove aveva accompagnato Lodovico il Bavaro. Ivi seppe che i Fiorentini avevano ripreso Pistoia. Corse allora a Lucca, formò un esercito, assediò Pistoia, e battè nello stesso tempo i Fiorentini, che volevano liberarla. Ma qui prese una febbre, di cui morì a Lucca. Ed anche di questo fatto militare, che è per la sua importanza il secondo nella vita di Castruccio, il Machiavelli tace affatto, per narrare invece battaglie immaginarie. Secondo lui, Castruccio, uscito di Lucca coll'esercito, incontrò i Fiorentini a Serravalle, dove è minutissimamente descritto uno scontro, che non avvenne mai, nel quale Castruccio avrebbe dato prova del suo grandissimo genio militare, rompendo il nemico. Divenuto così nuovamente padrone di Pistoia, corse verso Pisa, dove era scoppiata una congiura. Incontrò per via i Fiorentini, che lo assalirono con numerosissimo esercito, ed abbiamo a Fucecchio la descrizione minutissima di un'altra battaglia immaginaria, nella quale risplende di nuovo il genio militare di Castruccio, e i Fiorentini sono rotti un'altra volta. In queste due narrazioni, che sono smentite dalle Storie stesse del Machiavelli, si vede anche più chiaro che altrove, come nella sua Vita di Castruccio egli si fosse proposto di scrivere una specie di piccolo romanzo politico-militare, per dimostrare alcuni suoi concetti politici, e fra le altre cose, anche la grande superiorità che nella guerra i fanti hanno contro i cavalli. Ci dice infatti che Castruccio riuscì facilmente vittorioso contro i Fiorentini, perchè essi s'erano fondati sui cavalli, ed egli invece sui fanti. E questa fu sempre la teoria non senza valide ragioni sostenuta dal Machiavelli. L'aveva già prima accennata nei Discorsi; più tardi, come vedremo fra poco, l'espose a lungo e dimostrò teoreticamente nell'Arte della Guerra. Nella Vita di Castruccio cercò invece descriverla, e renderla visibile, con esempî da lui immaginati, ai quali dette un'apparenza storica, per renderli più efficaci.

La fortuna intanto, eterna dominatrice delle cose umane, continua il Machiavelli, come aveva sinora favorito Castruccio, volle, per dimostrare sempre meglio la propria potenza, troncarne a un tratto la vita, con una febbre che lo colpì dopo l'ultima sua gloriosa battaglia. Presso a morire, egli chiamò l'ipotetico suo successore, Paolo Guinigi, e gli tenne questo discorso: «Se avessi saputo, che la fortuna voleva troncare a mezzo il mio cammino, ti avrei lasciato più piccolo Stato e meno nemici. Ma essa vuole essere arbitra di tutto, e non mi ha dato tanto giudizio da conoscerla prima, nè tanto tempo da poterla poi superare. Io non presi moglie per dimostrarmi grato al sangue di tuo padre, che mi aveva protetto. Ora tocca a te cercar di mantenere il regno che ti lascio, e che acquistai con la guerra.» Paolo non ebbe però nè la virtù nè la fortuna di Castruccio, e subito perdette il regno. Così ci narra il Machiavelli; ma anche questo è un romanzo, perchè, come abbiamo già detto, Castruccio lasciò invece molti figli, e furono essi che ebbero lo Stato, e che per la loro incapacità lo perdettero. Questa singolare biografia, che incomincia e finisce con l'esaltare l'onnipotenza della fortuna, ha come in appendice una serie di detti memorabili attribuiti a Castruccio. Si credette da molti che fossero quasi tutti cavati dagli Apoftegmi di Plutarco; ma fu invece dimostrato recentemente che sono in parte non piccola cavati dalla Vita d'Aristippo, scritta da Diogene Laerzio.

Da tutto quello che abbiam detto, ci par che risulti chiaro quale scopo ebbe il Machiavelli nel comporre il suo scritto. Trovandosi a Lucca, meditò, com'era suo costume, sulla storia di quel paese, e naturalmente si fermò sopra il carattere e le avventure di Castruccio, ardito soldato, accorto politico, che fondò uno Stato nuovo, e fu un personaggio del genere del Valentino. E come questi, trasformato dalla fantasia del Machiavelli, era divenuto un suo ideale politico, così anche Castruccio, che più facilmente poteva essere trasformato, perchè più antico, divenne un altro suo ideale politico-militare. Facendone l'eroe d'un singolare romanzo storico, volle in lui personificare alcune delle idee espresse nel Principe e nei Discorsi, ma più ancora le teorie più tardi da lui esposte nell'Arte della Guerra. Dove la storia di Castruccio non bastava, gli attribuì fatti ricavati dalla vita d'Agatocle, e dove neppur questa era sufficiente, supplì colla sua immaginazione, che del resto fu quella che riunì e compose tutto a suo arbitrio. Può ben essere, come da molti si è ripetuto, che la Ciropedia di Senofonte o altri scritti dell'antichità dessero il primo suggerimento alla composizione di questo scritto. La vita di Castruccio fu sin dal principio, a cominciare dallo stesso Tegrimi, circondata da leggende. Il Machiavelli, ricordandola nei suoi Discorsi, la dice scritta da lui per dimostrare quali sono le qualità che hanno, e che, per riuscire nelle loro imprese, è necessario abbiano i principi conquistatori. È certo in ogni caso, che la Ciropedia o altri lavori poterono dargli solo un qualche suggerimento intorno al genere del lavoro ed al modo di condurlo. Quanto alla sostanza, agl'intendimenti di esso, ai precetti che suggerisce, la Vita di Castruccio è tutta propria del Machiavelli e del suo tempo.

Non vi è quindi da maravigliarsi, se uno scritto composto con tali intendimenti ed in tal modo, desse occasione a molte dispute. I dubbî sullo scopo e sull'indole di esso cominciarono in fatti sin dalla sua prima apparizione, e persisterono sempre. Anche nella lettera più sopra menzionata di Zanobi Buondelmonti, questi diceva d'aver subito letto con piacere il nuovo lavoro del Machiavelli, insieme con molti amici degli Orti Oricellari, e tutti lo incoraggiavano a scrivere storie, «perchè voi qui vi alzate con lo stile più che non fate altrove.» Mentre però tutti erano in ciò d'accordo, «ciascuno si fermava e dubitava circa all'istoria ed alla esplicazione dei sensi e concetti vostri.» Osservava inoltre, e non senza ragione, che i detti da lui attribuiti a Castruccio parevan troppi, tanto più che alcuni di essi erano stati ad «altri antichi e moderni savi attribuiti.» La narrazione della sua Vita di Castruccio procede veramente con una rapidità, con una evidenza e freschezza di stile che trascina, come gli seguiva ogni volta che, sotto una o un'altra forma, presentava e descriveva l'immagine de' suoi ideali prediletti.

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