CAPITOLO VIII.

L'Arte della Guerra.

Noi abbiamo già ricordato che il Machiavelli scrisse in questi anni a Firenze i sette libri dell'Arte della Guerra. Dedicati a Lorenzo di Filippo Strozzi, che lo aveva presentato in casa Medici, essi sono dialoghi, che si suppongono tenuti negli Orti Oricellari fra Cosimo Rucellai, Fabrizio Colonna, Zanobi Buondelmonti, Battista della Palla e Luigi Alamanni, nel 1516, quando il Colonna, finita la guerra di Lombardia, era tornato a Firenze. È chiaro però che quest'opera fu scritta alcuni anni dopo, giacchè sin dalle prime pagine l'autore parla della morte di Cosimo Rucellai, che non avvenne prima del 1519. Il libro si può credere già finito nel 1520. In fatti il 17 novembre di questo anno Filippo dei Nerli, scrivendo al Machiavelli, gli diceva di non aver ricevuto ancora nè la Vita di Castruccio nè l'opera De re militari, e del non aver quest'ultima specialmente si doleva, perchè anche il cardinal de' Medici la voleva leggere. L'Arte della Guerra, in ogni modo, era già stampata in Firenze, il 16 agosto 1521.

Come il Principe svolge più ampiamente alcune idee già accennate nei Discorsi, così l'Arte della Guerra espone a lungo ciò che in essi è brevemente detto sul modo di formare gli eserciti, e condurli dinanzi al nemico. Le tre opere in vero, dominate da uno stesso concetto, si potrebbero facilmente riunire in una sola. I Discorsi, che contengono in germe le altre due, e però tutto il sistema politico dell'autore, ragionano principalmente del come render libero lo Stato; il Principe, del come si fonda una monarchia nuova ed assoluta, per potere poi con essa rendere unita e indipendente la patria; l'Arte della Guerra espone come si debba armare il popolo, per difendere non solo la libertà, ma anche l'indipendenza di uno Stato, sia esso repubblica o monarchia. Ed in tutto ciò il Machiavelli, pur discorrendo assai spesso teoricamente ed in termini generali, mira sempre in particolare all'Italia. Laonde questi suoi scritti hanno nello stesso tempo un valore non solo scientifico, ma anche storico e pratico, il che, se ne aumenta il valore, rende sempre più difficile il giudicarli. A fare poi un esame accurato ed una vera critica dell'Arte della Guerra, s'incontrano altre e maggiori difficoltà. Agli uomini pratici delle armi facilmente sfugge il carattere storico d'un libro, che, messo fuori de' suoi tempi, riesce affatto incomprensibile, ed ai profani non è possibile determinar con precisione il valore intrinseco e tecnico, che esso ha certamente. Nè giova a diminuire tali difficoltà il non essere neppure il Machiavelli stato mai, a parlar propriamente, un uomo del mestiere. Ciò in fatti non agevola punto il giudicare che reale importanza abbiano davvero le sue teorie militari, in quali errori sia egli caduto, e quali di questi errori derivino dalla sua inesperienza, quali invece da' suoi tempi. Quando egli scriveva, le armi da fuoco non avevano ancora prodotto quella rivoluzione negli eserciti, che li modificò poi sostanzialmente, creando la tattica moderna. Anzi una scienza della tattica non era allora neppur cominciata. Il Machiavelli fu di certo colui che osò primo iniziarla, e lo fece con un'audacia intellettuale non punto minore di quella con cui s'era deciso a fondare la scienza dello Stato. Fino a che punto vi riuscì? È questa la domanda a cui si deve, ed a cui è assai difficile rispondere, specialmente quando si è affatto estranei a tali studî. Cercheremo quindi valerci degli autori più competenti, dei consigli e suggerimenti di persone del mestiere, alle quali molto spesso dovemmo ricorrere per avere aiuto in questo capitolo. Fortunatamente però vi sono nel libro del Machiavelli alcune idee fondamentali e generali d'un grandissimo valore politico-militare, che si possono esporre e giudicare da ognuno. E di queste ci occuperemo prima di procedere ad un esame più speciale e minuto dell'opera.

L'arte della guerra, come del resto tutta la società in Europa, era allora in una grande e rapida trasformazione. Gli uomini d'arme, coperti di ferro da capo a piedi, cavaliere e cavallo, avevano con le loro lunghissime lance cominciato nel Medio Evo ad abbattere i fanti, che perciò finirono col cadere in discredito, e così il nerbo degli eserciti fu la cavalleria pesante. Di questa vennero principalmente composte le Compagnie di ventura, che in Italia prevalsero, riducendo quasi a nulla le milizie degli antichi Comuni, formate da artigiani, i quali militavano a piedi, e assai difficilmente potevano trovare il tempo e i denari per educarsi ai più lunghi e difficili esercizî della cavalleria. Nel secolo XV però le fanterie degli Svizzeri scesero dai loro monti a difesa della propria libertà. Coperti d'una semplice corazza, riuniti in grossi e serrati battaglioni, con lunghissime picche, che poggiavano a terra, e puntavano contro gli uomini d'arme, essi combatterono con grandissimo valore contro l'Austria e contro i duchi di Borgogna, dimostrando come i fanti potevano resistere non solo, ma vincere anco la più forte cavalleria. Con ciò conquistarono nello stesso tempo la loro indipendenza e la reputazione d'essere i primi soldati del mondo. Cominciarono quindi a servir come soldati di ventura presso gli stranieri, e furono subito da tutti ricercati in modo, che pareva non si potesse più vincere una battaglia, senza avere in aiuto un buon numero di Svizzeri. Vennero imitati prima dai lanzichenecchi tedeschi, poi dagli Spagnuoli, e sempre con fortuna. Così a poco a poco la forza principale degli eserciti si fondò sulla fanteria, e non più sulla cavalleria; s'andò abbassando la temuta potenza delle antiche Compagnie di ventura, che per molte altre ragioni dovevano col tempo scomparire; e neppure i tanto celebrati uomini d'arme francesi furono più giudicati invincibili dai fanti.

Di tutto questo il Machiavelli cominciò ad avvedersi sin dalla prima esperienza che ebbe di cose militari al campo di Pisa, e sempre più se ne convinse nei viaggi da lui fatti più tardi nella Svizzera e nel Tirolo. E su di ciò si pose lungamente a meditare. L'idea fondamentale della sua Arte della Guerra è in fatti, che la vera milizia è il popolo armato; che in ogni tempo il nerbo degli eserciti sta nella fanteria, e quindi che all'ordinamento ed alla disciplina di questa bisogna sopra tutto provvedere. Nei paesi, egli dice, dove, come in alcune regioni dell'Asia, sono immense pianure e popolazioni nomadi, può darsi che la cavalleria debba nella guerra avere una parte predominante; ma in Europa essa vale solo a fare scorrerie, a riconoscere il paese, a venire alcuna volta in aiuto dei fanti, ad inseguire il nemico vinto, non però mai a decidere la battaglia. E lo dice e ripete con tanta precisione, con tanta sicurezza, che autorevoli scrittori militari affermano trovarsi in queste sue parole addirittura il linguaggio di un tattico moderno.

Partendo da tale concetto, il Machiavelli veniva dalla sua ammirazione pei Romani naturalmente condotto a studiare in Tito Livio, in Polibio, sopra tutto in Vegezio l'ordine, la formazione, la disciplina della loro fanteria, e si persuase subito che la legione romana era un modello, non solo da imitarsi, ma assai difficilmente superabile. Nè in ciò s'ingannava. Anche dopo di lui essa fu, per più secoli, oggetto di studio e di ammirazione da parte dei grandi riformatori di eserciti. Se in fatti lasciamo per poco da un lato le profonde modificazioni portate nella tattica moderna dalle armi da fuoco, la legione romana resta anch'oggi un modello non mai superato, e dal quale si può tuttavia apprendere molto. A tali studî unendo l'esperienza avuta dei fanti svizzeri, le osservazioni ripetute ne' suoi viaggi sui fanti tedeschi, e quello che aveva negli ultimi anni sentito degli Spagnuoli, il Machiavelli si pose a meditare sulla riforma della fanteria, e arrivò così alla sua Ordinanza, che andò nella propria mente sempre più perfezionando. E questo concetto della nuova fanteria si univa all'altro di maggiore importanza, dal quale derivava, e che gli era suggerito anch'esso dall'esempio dei Romani, degli Svizzeri, dei Tirolesi, il concetto che è fine principale del suo libro, e fu uno degli scopi più costanti di tutta la sua vita: la vera forza militare dello Stato moderno, l'esercito veramente nazionale, invincibile è il popolo armato. Tale idea, non senza ragione fu da alcuni chiamata profetica, perchè, sebbene a lui suggerita dai Romani, trionfò nuovamente solo ai nostri giorni col sistema prussiano del servizio militare obbligatorio, più o meno imitato ora in quasi tutta Europa. Il pensiero politico ed il pensiero militare del Machiavelli si riuniscono così in uno solo nell'Arte della Guerra, e se la originalità del primo apparisce luminosa a tutti, anche le riforme tecniche da lui proposte per migliorare la fanteria de' suoi tempi, riscossero più volte l'approvazione e l'ammirazione dei tattici moderni.

Noi abbiamo già detto, che il Machiavelli non era uomo del mestiere, e questo apertamente riconosce egli stesso sin dal principio della sua opera. Ciò rende di certo maggiore il merito delle verità da lui divinate, e dimostra sempre più l'altezza del suo ingegno; ma lo fa anche cadere qualche volta in errori. E sopra uno di questi errori dobbiamo ora fermare la nostra attenzione, perchè esso ha conseguenze che determinano in parte il carattere generale dell'opera. Il Machiavelli aveva assai poca fede nelle armi da fuoco. Già nei Discorsi aveva detto, che se le artiglierie possono molto contro le mura di una fortezza, e contro un esercito che si difenda in luogo chiuso, assai poco valgono in campo aperto, contro chi muova all'offesa, nella quale, ben più che nella difesa, sta la vera importanza della guerra, come dimostrarono col loro esempio i Romani. Nè egli mutò punto questa sua opinione nell'Arte della Guerra, dove, sebbene faccia osservazioni di gran valore anche sul modo di assediare e difendere le fortezze con le artiglierie, arriva qualche volta sino a dire che, in campo aperto, i cannoni fanno poco altro che fumo. E quanto alle armi portatili da fuoco, ne faceva così poco conto, che più d'una volta si vede chiaro come egli sarebbe stato disposto ad abolirle del tutto, se non avesse temuto di andar troppo contro a quelli che gli sembravano pregiudizî del suo tempo. Bisogna però determinare bene la natura e le cagioni di questo che chiamiamo errore del Machiavelli, se non vogliamo noi stessi cadere in esagerazioni ingiuste a suo danno. Le armi portatili da fuoco erano allora davvero così imperfette, così difficili ad adoperarsi con qualche celerità e profitto, che in nessun modo potevano ancora sostituire vantaggiosamente l'arco e la balestra. In fatti non solamente in tutte le battaglie del secolo si continua a parlar sempre di arcieri e balestrieri; ma a più d'un secolo di distanza, il Montecuccoli proponeva ancora una fanteria armata per due terzi di moschetti, ed il resto di picche, le quali scomparvero davvero solo nel secolo XVIII con l'invenzione della baionetta. Del resto quanto si sia nella guerra lenti ad accettare grandi mutamenti, anche se dimostrati utilissimi, lo abbiamo visto a' nostri giorni col fucile ad ago. L'esercito prussiano, che lo aveva adottato già sin dal 1840, potè farne la più sicura esperienza nella guerra di Danimarca, l'anno 1864, e, ciò nonostante, l'Austria continuava a fare studî, nè lo aveva ancora nella guerra del 1866. Solo il grande disastro di Sadowa lo fece finalmente adottare da essa e da tutti gli eserciti d'Europa. Quali difficoltà non doveva dunque incontrare la diffusione delle prime armi portatili da fuoco, le quali erano così imperfette, che sembravano venir solo a sconvolgere tutte le migliori tradizioni della guerra, tutta quanta la tattica militare degli eserciti allora più reputati? Ma per le artiglierie la cosa era assai diversa, e però queste osservazioni non valgono a difendere del tutto il Machiavelli. A Ravenna (1512) i cannoni assai celebrati di Alfonso d'Este avevano fatto molto danno al nemico; a Novara (1513) gli Svizzeri avevano perduto gran numero dei loro, stracciati dalle artiglierie, secondo l'espressione del Giovio; a Marignano (1515) l'artiglieria francese ebbe una parte decisiva nella battaglia, e fece soffrire perdite enormi alle fitte ordinanze degli Svizzeri. Anzi da questo momento appunto le loro fanterie cominciarono a perdere la reputazione d'invincibili. Ora il Machiavelli scrisse la sua Arte della Guerra dopo la battaglia di Marignano, dove per giunta anche gli scoppiettieri poterono la prima volta dimostrare l'utilità della loro arme, la qual cosa più tardi riuscì assai meglio a Pavia (1525).

La causa vera del troppo poco conto che il Machiavelli faceva delle armi da fuoco, bisogna ricercarla nell'assai ristretta esperienza militare da lui avuta solo nel campo di Pisa, e nel formare poi l'Ordinanza fiorentina. Aveva potuto, è vero, esaminare le fanterie svizzere e tedesche; ma anche ciò assai fugacemente, e sempre alcuni anni prima del 1512. Nei giorni della battaglia di Ravenna, egli era tutto intento ad apparecchiare la difesa di Prato e di Firenze; quelle di Novara e di Marignano seguirono quando egli era già fuori degli affari, ritirato nella sua villa, dove solo da lontano e per relazioni d'uomini politici o d'uomini di lettere potè esserne informato. La conseguenza fu, che egli conobbe da vicino e personalmente le fanterie e le armi quali erano prima del 1512; cercò il modo di perfezionarle, tenendo presenti le condizioni in cui le aveva viste allora, e meditando sull'arte della guerra presso i Romani. Se fosse stato davvero un uomo di guerra, avrebbe di certo avuto maggiori occasioni di meglio conoscere le grandi battaglie seguite al suo tempo, e quindi anche un più chiaro e sicuro presentimento dell'avvenire serbato alle armi da fuoco. La lancia, la picca, la spada e l'arco non sono nella loro semplicità capaci di grandi perfezionamenti, tanto che restano presso i moderni poco diversi da quel che erano presso gli antichi; ma le armi da fuoco, infinitamente più complicate, furono appunto perciò capaci di grandissimi miglioramenti, dei quali si poteva prevedere l'importanza, ma non certo determinare l'estensione. Meno che mai era al Machiavelli possibile determinarla, e però il valore delle sue teorie militari bisogna giudicarlo, tenendo conto delle condizioni in cui esse furono meditate ed esposte.

Egli fu, in ogni modo, il primo che cercò di dare una teoria ragionata e scientifica di ciò che la tattica era nelle guerre del suo tempo, e dei miglioramenti che in essa si potevano portare. Le sue proposte risguardano quella che si può chiamare la parte fondamentale e costante dell'arte militare; hanno perciò un valore incontrastabile e permanente, meraviglioso davvero in un uomo che non fu mai soldato. Se le armi da fuoco non avessero fatto grandissimi progressi, tutto mutando o modificando, anche quelle parti del libro che oggi hanno solo un valore storico, ne avrebbero uno pratico, non meno notevole, perchè egli indicò con sicurezza l'unica via per cui era possibile progredire, fino a che non intervenne un elemento così disturbatore della tattica antica. Pur tale quale è, il suo libro basta a provare, secondo la opinione dei più esperti, che il fondatore della scienza politica è anche «il primo classico moderno di cose militari.»

Nella lettera dedicatoria a Lorenzo Strozzi, uno de' suoi amici e protettori, il Machiavelli espone subito assai chiaro il concetto politico dominante, lo scopo principalissimo del suo libro. «È stato un errore funestissimo,» egli dice, «l'avere in Italia separato la vita civile dalla militare, facendo di questa un mestiere, come è seguìto colle Compagnie di ventura. Il soldato diviene così violento, minaccioso, corrotto, nemico d'ogni vivere civile. Bisogna perciò tornare agli ordini antichi dei Romani, i quali non conoscevano differenza alcuna tra cittadino e soldato; questo anzi doveva più degli altri essere fedele, pacifico, pieno del timore di Dio. In quale uomo, in fatti, dobbiamo ricercare più fede, più onestà e virtù, che in colui il quale deve esser sempre pronto a morire per la patria? Esso è più degli altri offeso dalla guerra, e trovandosi in continui pericoli, ha quindi maggior bisogno dell'aiuto di Dio. Volendo adunque provarmi a restaurare fra noi l'antica virtù, il che io non giudico impossibile, e per non passare questi miei oziosi tempi senza operare alcuna cosa, ho deliberato di scrivere dell'arte della guerra quello che io ne intendo. So bene che è assai animoso trattare di quella materia di cui non si è fatto professione; pure gli scrittori non possono con le parole recar danni gravi come son quelli che spesso recano coi fatti i capitani inesperti.»

L'opera incomincia con un elogio di Cosimo Rucellai, morto di recente in assai giovane età, pel quale il Machiavelli dimostra una riconoscenza sincera, un affetto caldissimo, profondo. Con una commozione in lui rara, dice di non poterne ricordare il nome senza lacrime, perchè egli ebbe tutte le qualità che in un buon amico dagli amici, in un cittadino dalla patria si possono desiderare. «Io non so qual cosa si fosse tanto sua (non eccettuando, non ch'altro, l'anima) che per gli amici volentieri da lui non fosse stata spesa; non so quale impresa lo avesse sbigottito, dove quello avesse conosciuto il bene della sua patria.» E dopo di ciò ha subito principio il dialogo. Fabrizio Colonna, ben noto capitano, arrivato allora dalla guerra di Lombardia, è invitato da Cosimo fra gli amici degli Orti Oricellari, ed appena giunto, entra a ragionar della guerra. Nel primo dei sette libri, nei quali l'opera è divisa, si discorre principalmente di che sorta d'uomini debba essere composto un esercito. Pieno d'una grandissima ammirazione per la milizia romana, il Colonna, che in sostanza qui rappresenta il Machiavelli, di cui espone le dottrine, osserva che tutti volevano allora imitar degli antichi le cose esteriori, quando invece bisognava cercar d'imitarne la sostanza, cioè i costumi e l'anima. Noi dovremmo, egli dice, come essi facevano, «onorare e premiare le virtù, non dispregiare la povertà; stimare i modi e gli ordini della disciplina militare; costringere i cittadini ad amare l'uno l'altro, a vivere senza sètte, a stimare meno il privato che il pubblico.... I quali modi non sono difficili a persuadere, quando vi si pensa assai, ed entrasi per i debiti mezzi, perchè in essi appare tanto la verità, che ogni comunale ingegno ne puote essere capace.»

Ma tutto questo non si potrà mai ritrovare in coloro che fanno della guerra un mestiere, come i soldati di ventura. Essi debbono di necessità essere violenti, rapaci, fraudolenti, e desiderare sempre guerra, o commettere nella pace violenze e ruberie per vivere. «Non avete voi tutti alla memoria le taglie, i saccheggi, le ruberie commesse dalle Compagnie di ventura, senza che vi si potesse porre alcun rimedio? Al tempo dei padri nostri Francesco Sforza non solo ingannò i Milanesi, di cui era soldato, ma tolse ad essi la libertà e divenne loro principe; Attendolo suo padre costrinse la regina Giovanna, che lo aveva stipendiato, a gettarsi nelle braccia del re d'Aragona, avendola a un tratto abbandonata; Braccio di Montone, con le medesime arti, si sarebbe addirittura impadronito del Reame, se non trovava la morte in Aquila. E tutto questo perchè della guerra avevano fatto un mestiere, e solo con essa potevano vivere. Fino a che la repubblica romana visse immacolata, i suoi capitani furono contenti di trionfare per la patria, e tornarsene poi alla vita privata. Dopo la guerra cartaginese mutarono i tempi; sorsero uomini che facevano il soldato per mestiere, e si cadde subito nei medesimi pericoli in cui siamo caduti noi, come ne sono esempio Cesare e Pompeo. Per questa ragione nessuno Stato bene ordinato ammise mai che i suoi cittadini esercitassero la guerra per mestiere. Nè si alleghi in contrario alcuno dei presenti regni, perchè non sono mai condotti secondo le buone regole. Ma gli Stati bene ordinati danno ai loro re imperio assoluto sugli eserciti solo in campo e durante la guerra, perchè solo allora è necessaria una subita deliberazione, e quindi una potestà unica. Nelle altre cose il re nulla deve operare senza consiglio, e si deve con ogni cura evitare che in tempo di pace egli abbia appresso di sè alcuno di coloro che vogliono sempre la guerra, e non sanno nè possono vivere senza di essa. Ma lasciando anche da parte gli Stati bene ordinati, neppure ai presenti re può convenire l'aver soldati di mestiere, massime ora che il nervo degli eserciti sta tutto nelle fanterie. Se non si ordinano in modo le cose, che in tempo di pace i fanti sieno contenti di tornarsene a casa a vivere delle loro arti, conviene che di necessità per una via o per l'altra lo Stato rovini. Tu sei forzato o a far sempre guerra, o a pagar sempre i tuoi soldati, o a portare pericolo che non ti tolgano il regno. Far sempre guerra non è possibile, pagarli sempre non si può; ecco come di necessità si corre alla rovina.» Al tempo del Machiavelli, veniva, per questo rispetto, dalla fanteria un pericolo maggiore assai che dalla cavalleria. Gli uomini d'arme in fatti erano generalmente dell'aristocrazia, e potevano quindi, massime in Francia ed in Germania, vivere delle loro entrate. La fanteria invece veniva formata di popolani e di contadini, i quali, se non tornavano alle arti della pace, avevano bisogno di guerra o di paga continua.

Dopo di ciò si viene a discorrere del come fare la scelta dei soldati, quella cioè che noi chiamiamo leva militare, e che il Machiavelli chiama deletto. «Vogliono coloro che alla guerra hanno dato regola,» così dice il Colonna, alludendo al libro di Vegezio, in parte imitandolo, in parte traducendolo, «che bisogna scegliere gli uomini dai paesi temperati, perchè essi li generano animosi e prudenti, quando invece i paesi caldi li generano prudenti e timidi, e i paesi freddi li generano animosi ed imprudenti. Ma questa sarebbe una regola buona solamente per chi fosse padrone del mondo, e avesse libera la scelta. Volendo invece dare una regola utile a tutti, bisogna trovar modo di scegliere i soldati in ogni provincia, formandoli poi, come facevano gli antichi, con la disciplina, che val più della natura. Dallo stesso Vegezio è copiata anche la descrizione delle qualità fisiche e morali che sono desiderabili nel soldato: «gli occhi vivi e lieti, il collo nervoso, il petto largo, le braccia muscolose, le dita lunghe, poco ventre, i fianchi rotondi, le gambe ed il piede asciutto, le quali parti sogliono sempre rendere l'uomo agile e forte, che sono due cose che in un soldato si cercano sopra tutte le altre. Debbesi sopra tutto riguardare ai costumi, e che in lui sia onestà e vergogna, altrimenti si elegge un istrumento di scandalo ed un principio di corruzione, «perchè non sia alcuno che creda, che nella educazione disonesta e nell'animo brutto possa cadere alcuna virtù che sia in alcuna parte lodevole.»

«Voi adunque,» osserva qui Cosimo Rucellai al Colonna, «volete ricostituire l'Ordinanza fiorentina, la quale da molti savî è stata biasimata come inutile, ed ha fatto all'occorrenza cattiva prova. Questi allegano i Romani, che, avendo le armi da voi raccomandate, perderono la libertà; allegano i Veneziani, che mai non vollero questa Ordinanza, ed il re di Francia, che ha disarmato i suoi sudditi per poterli meglio comandare. In conclusione essi condannano l'Ordinanza più come inutile che come pericolosa.» A tali osservazioni Fabrizio Colonna risponde, che queste opinioni si possono sostenere solo da chi non ha sicura cognizione nè vera esperienza delle cose di guerra. «È infatti,» egli dice, «dimostrato dalla storia e dalla esperienza, che tutti gli Stati si debbono fondare sulle armi proprie, e che con esse sole si possono difendere davvero; nè si può avere milizia propria se non con l'Ordinanza. Se questa una volta non fece a Firenze buona prova, bisogna correggerla, non condannarla, e ricordarsi ancora che non vi sono al mondo eserciti i quali vincano sempre. Nessun savio ordinatore di Stati dubitò mai che la patria debba essere difesa dai suoi cittadini. Se i Veneziani avessero compreso tutto ciò, avrebbero fondato un nuovo imperio nel mondo. Essi in fatti combatterono in mare colle proprie armi, e furono sempre vittoriosi; ricorsero in terra ai capitani di ventura, ai soldati di mestiere, e questo tagliò loro le gambe. I Romani, invece, assai più savî, essendosi prima esercitati a combattere solo in terra, quando ebbero sul mare nemici i Cartaginesi, educarono subito le loro genti alle battaglie navali, e vinsero del pari. Circa poi all'esempio della Francia, che non tiene i suoi abitatori esercitati alla guerra, e deve perciò ricorrere molto anche a soldati di mestiere, non v'è uomo alcuno, che non sia accecato dalla passione, il quale non veda che questa è la vera cagione che ha indebolito quel regno.» In conclusione Fabrizio Colonna vuole che tutti gli uomini sani, dai diciassette ai quaranta anni, vengano esercitati alle armi in certi giorni determinati, per essere sempre pronti a difendere la patria.

Da questo primo libro dell'Arte della Guerra chiaro apparisce, che la monarchia del Machiavelli, la quale egli accetta e sostiene dove la repubblica non è possibile, circonda il re d'uomini savî, che lo consigliano, non lasciandogli mai nella pace assoluto dominio. Solo in guerra, il principe deve essere alla testa del proprio esercito, con assoluto imperio. Repubblica poi o monarchia, lo Stato deve riporre la sua forza nella nazione armata, riunita dalla disciplina, dalle leggi e dal dovere, a difesa comune. Questo è l'esercito in cui il Machiavelli ha piena fiducia, e lo vuole composto d'uomini non solamente forti, educati alle armi; ma sopra tutto virtuosi, modesti, pronti ad ogni sacrifizio pel bene pubblico. Mille volte nell'Arte della Guerra egli ripete che la virtù dei cittadini è la vera forza degli eserciti, e quindi l'unica solida base degli Stati. E ciò non contradice punto a quanto egli disse nei Discorsi e nel Principe. Anche il capitano deve seguire norme di condotta che sono ben diverse da quelle imposte nella vita privata. Ma nella vita pubblica, cittadini, principi e capitani debbono sacrificare tutto allo Stato, alla salute della patria; ed in ciò anch'essi ritrovano il valore morale delle loro azioni. Crediamo noi forse che sia meno leale degli altri, meno generoso, meno devoto al proprio dovere il soldato d'onore che, senza odî o rancori personali, va con calma e fermezza alla guerra; ma che all'occorrenza inganna il nemico, per sconfiggerlo, e ne premia i disertori, che son traditori della loro patria, e paga le spie, che qualche volta compiono anch'esse un necessario e pericoloso dovere? Noi non possiamo perciò, secondo il Machiavelli, negar vera grandezza morale nè al politico, nè al capitano che, seguendo le leggi inesorabili, naturali, fatali dell'arte di Governo e dell'arte della guerra, operano solo nell'interesse della patria, da esso solo lasciandosi guidare, ad esso solo sacrificando tutto. Questo sacrifizio del privato al pubblico bene deve essere la norma costante della condotta politica e militare in uno Stato bene ordinato. E riuscirà a seguirla davvero solo chi è realmente onesto e buono, quantunque possa apparire tristo agli occhi del volgo. Non si speri però d'aver mai una patria ed un esercito forte, senza virtù vera.

Nel secondo libro si comincia a ragionare del come debbano essere armati ed esercitati gli uomini. E qui, anche più che altrove, il Machiavelli ricorre agli antichi scrittori, dei quali in tutta l'opera, più o meno, continuamente si vale, senza quasi mai citarne i nomi. Vegezio riman sempre la sua fonte principale, ed a lui allude ogni volta che accenna in genere a «coloro che scrivono delle cose di guerra.» Spessissimo si vale di Polibio e di Livio, massime quando discorre della falange greca e della legione romana, la quale è, come dicemmo, il modello che propone alla imitazione degl'italiani. Da questi due autori il Machiavelli attinge molte notizie intorno alle armi ed agli esercizi militari degli antichi, di tanto in tanto ricorrendo anche ad altri, una o due volte a Giuseppe Flavio. Se non che, assai poco curandosi che queste sue varie fonti appartengono a tempi diversissimi, li segue senza distinzione di sorta. E quindi, non ostante le osservazioni spesso acutissime che fa nel paragonare gli eserciti greci ai romani, la legione che da lui ci vien descritta, e che è il termine costante d'ogni suo paragone, non riesce storicamente esatta, avendo egli in essa riunito cose, che furono in realtà divise da non breve distanza di tempo. S'aggiunge poi che, volendo egli trovar sempre alle proprie idee sostegno nell'autorità degli antichi scrittori, si lascia qualche volta andare ad interpetrazioni, che si possono dire addirittura arbitrarie. Oltre poi ai sopra accennati autori greci e romani, dobbiamo notare che, nell'Arte della Guerra, a cominciar dalla fine del libro terzo, il Machiavelli fa un uso frequentissimo di Frontino, il quale diviene anzi la sua fonte costante ogni volta che si parla di astuzie, stratagemmi o accorgimenti militari da usarsi nel condurre le guerre.

«I Romani,» così comincia il secondo libro, «coprivano di ferro il loro fante; gli davano lo scudo, la spada e un dardo, che chiamavano pilo; i Greci, e specialmente i Macedoni, lo armavano meno gravemente, più ad offesa che a difesa, con una lancia lunga dieci braccia, che chiamavano sarissa.» E qui è da notare che il Machiavelli, non ostante le prove in contrario, non vuole in nessun modo ammettere che i Greci adoperassero lo scudo, perchè non sa vedere come potessero utilmente farlo insieme con la sarissa. È una difficoltà notata anche da altri; ma non è perciò giustificata la sua affermazione contro l'autorità degli antichi. Determina poi mirabilmente quali sono i difetti della falange greca, e quindi la sua grande inferiorità di fronte alla legione romana. Si sforza di trovar somiglianza fra le armi, l'ordinamento degli Svizzeri e quello dei Greci, per meglio provare la superiorità della sua Ordinanza, armata quasi in tutto alla romana. «Gli Svizzeri,» egli dice, «hanno imitato, col loro battaglione, la falange greca, ponendo tutto lo sforzo nelle picche, coprendo assai poco i loro uomini. E dietro questo loro esempio i fanti hanno oggi un petto di ferro, una picca lunga nove braccia, ed una spada che è pure assai lunga. Pochi portano coperta di ferro la schiena e le braccia, nessuno il capo, e questi pochi hanno l'alabarda lunga tre braccia, il cui ferro è come una scure. Si aggiungono alcuni scoppiettieri, che fanno l'ufficio di balestrieri. Questo modo fu trovato dagli Svizzeri, quando con le picche dimostrarono che i fanti possono vincere i cavalli, salendo così in grandissima reputazione, venendo poi imitati dai Tedeschi. Ma fermati e vinti che sono i cavalli, quando si viene alla mischia stretta, la picca non giova più, e questi soldati così poco coperti sono esposti ai colpi del nemico. Si è perciò visto che gli Svizzeri, fortissimi sempre contro la cavalleria, riescono deboli contro quei fanti che sono armati in modo da poter combattere anche da presso. I Romani in fatti coprivano di ferro il soldato, gli davano lo scudo per difesa, e la spada per offesa, venendo subito alla pugna stretta. Gli Spagnuoli son ben armati, tanto da poter vincere i Tedeschi, quando si combatte corpo a corpo; ma non reggono poi contro la cavalleria moderna, che è più forte dell'antica, perchè meglio coperta di ferro, ed ha gli arcioni alle selle, e le staffe che allora non usavano. Quando il Carmagnola si trovò con seimila cavalli e pochi fanti contro diciottomila Svizzeri, fu dalle loro picche respinto. Ma egli, che era un capitano valente, fece scendere a terra i suoi uomini d'arme coperti di ferro, e così vinse il nemico. Quando gli Spagnuoli vennero a liberare il loro capitano Consalvo, che era chiuso in Barletta, si fecero loro incontro i Francesi con le genti d'armi e quattromila Tedeschi. Questi con le lunghe picche aprirono subito le file dei fanti spagnuoli, i quali allora, aiutandosi coi brocchieri e con la propria agilità, si cacciarono tra i nemici, tanto da raggiungerli con la spada, e così li finirono. Lo stesso sarebbe avvenuto a Ravenna, dove gli Spagnuoli si cacciarono in mezzo ai Tedeschi, e li avrebbero finiti, se non sopravveniva la cavalleria nemica, contro la quale essi non potevano resistere con uguale fortuna. Occorreva dunque trovare una fanteria armata alla romana, capace di resistere ai fanti come la spagnuola, ma capace anche di resistere alla cavalleria come gli Svizzeri. Ed in questa fanteria bisogna, come facevano i Romani, riporre tutta la forza dell'esercito, perchè la cavalleria è buona a fare scoperte, a correre e guastare il paese nemico, a tenere l'esercito di quello tribolato e sempre in sulle armi, ad impedirgli le vettovaglie; ma nelle zuffe campali decide la fanteria. Il non avere di ciò tenuto conto, fu, ai tempi nostri, la rovina d'Italia, la quale è stata predata, rovinata e corsa dai forestieri, non per altro peccato che per aver tenuto poca cura delle milizie a piedi, ed essersi ridotti i soldati suoi tutti a cavallo.»

Si viene poi a parlare degli esercizî coi quali deve essere formato il soldato; nè qui il Machiavelli fa altro che imitare Vegezio, descrivendo e raccomandando tutto ciò che facevano i Romani, concludendo che come tali esercizî si potevano fare dagli antichi, «così possono farsi presso di noi, avendosene anche un esempio in molte città tedesche, nelle quali si tengono vivi questi modi, ed ogni abitante decide quali armi preferisce, in quelle viene descritto, e nei giorni oziosi esercitato. Ma non basta educare e formare ciascun soldato per sè; occorre anche ordinarli ed esercitarli insieme. Ogni esercito deve perciò avere come un membro principale, in cui riunire e formare i suoi uomini. I Romani avevano la legione, i Greci la falange, gli Svizzeri hanno i battaglioni, e così dobbiamo fare anche noi.» E quindi, per le ragioni già esposte, egli arma il suo battaglione parte alla greca, parte alla romana; formandolo di seimila uomini, che divide in dieci battaglie, come in dieci coorti era divisa la legione romana, composta, egli dice, di cinque in sei mila uomini. Ogni battaglia è di 450 fanti, 400 dei quali armati gravemente, o sia 100 con le picche, e 300 con lo scudo e la spada. Restano 50 fanti, che sono i veliti, armati alla leggera, con scoppietti, con balestre o simili. Le picche sono nelle cinque prime file, di venti uomini ciascuna; nelle altre quindici sono gli scudi. Ma perchè il battaglione sia da ogni parte difeso contro la cavalleria nemica, s'aggiungono 1500 fanti straordinari, di cui mille armati di picche, e questi si distendono ai lati del battaglione, con 500 veliti, che si uniscono con essi, e formano le ali. Una volta o due l'anno bisogna riunire tutto il battaglione, ed esercitarlo come in tempo di guerra. «L'esercito animoso lo fa non tanto l'essere in quello uomini animosi, quanto l'esservi buoni ordini, perchè se io sono dei primi combattenti, e sappia, sendo superato, dove io m'abbia a ritirare, e chi abbia a succedere nel luogo mio, sempre combatterò con animo, veggendomi il soccorso propinquo.» Come nei Discorsi il Machiavelli attribuiva una straordinaria efficacia ai buoni ordini politici, e li credeva per sè stessi capaci di dare la libertà e generare la virtù, così nell'Arte della Guerra attribuisce una straordinaria efficacia ai buoni ordini militari, e li crede sufficienti a formare il soldato, ad infondergli valore.

Egli ordina ora la sua battaglia, esponendo le varie forme che può prendere, i vari movimenti che deve fare, descrivendone tutte le evoluzioni assai per minuto. «Importa più che cosa alcuna avere i soldati che si sappiano mettere negli ordini tosto, ed è necessario tenerli in queste battaglie, esercitarveli dentro e farli andare forte, o innanzi o indietro, passare per luoghi difficili senza turbare l'ordine; perchè i soldati che sanno fare questo bene, sono soldati pratichi, ed ancora che non avessero mai veduti nemici in viso, si possono chiamare soldati vecchi.... Questo è quanto al metterli insieme, quando sono nelle file piccole, camminando. Ma messi che sono, e poi essendo rotti per qualche accidente che nasca o dal sito o dal nemico, a fare che in un «subito si riordinino, questa è l'importanza e la difficoltà, e dove bisogna assai esercizio ed assai pratica, e dove gli antichi mettevano assai studio.» Il Machiavelli aveva ragione d'insistere moltissimo sopra di ciò. Gli eserciti erano allora ordinati in maniera, che quando, durante la battaglia, il nemico riusciva ad assalire di fianco, tutto era perduto, per la grande difficoltà di mutar posizione; e così, quando le prime linee retrocedevano, la confusione diveniva subito generale, e non v'era più rimedio. Insistendo sempre sulla necessità di rendere l'esercito mobile e capace di mutare forma istantaneamente, in presenza del nemico, e d'ogni nuovo accidente o pericolo che sorgesse, l'autore dell'Arte della Guerra dimostrava di conoscere quale era il modo più sicuro di migliorare la tattica de' suoi tempi.

Se attentamente si esamina il modo, con cui è formato il battaglione del Machiavelli, apparisce in un punto qualche contradizione. Egli si fonda tutto sulla fanteria, e la vuole armata ed ordinata al modo romano, mobilissima, pronta all'offesa più che alla difesa, nè sembra voler mai far gran conto della cavalleria. Pure non solo copre di ferro i soldati della sua Ordinanza, ma la circonda da ogni lato di picche, perchè possa esser difesa contro gli assalti della cavalleria, ai quali pensa di continuo. Rimprovera anzi alle fanterie spagnuole d'aver troppo poco pensato a questo, onde spesso venivano sbaragliate dai cavalli, sebbene poi nella mischia stretta si rifacessero. Tutto ciò segue, perchè, sebbene egli vedesse chiaro quale era l'avvenire della fanteria, non poteva poi nella pratica negare alla cavalleria una parte almeno di quella importanza grandissima, che nelle guerre d'allora essa continuava ad avere, e quindi il pensiero di difendersi dagli uomini d'arme ricompariva e spesso prevaleva. Questo si vedeva pure nell'ordinamento dei battaglioni svizzeri, che egli tanto ammirava, ed a questo lo induceva ancora il poco conto in cui teneva le armi da fuoco. Messa però da un lato una tal contradizione teorica, è certo che il battaglione del Machiavelli è un vero miglioramento di quello degli Svizzeri, per la sua maggiore articolazione, la sua mobilità e mutabilità. Era tale in fatti che, se non fosse intervenuto il progresso delle armi da fuoco, l'incremento logico e naturale dell'arte militare avrebbe necessariamente portato a seguire la via da lui indicata, e fatte adottare le riforme da lui proposte. Il fucile ed il cannone perfezionati scomposero di poi i battaglioni compatti, obbligando a presentare al nemico masse meno profonde e più estese. Ma ciò avvenne assai più tardi, nè si poteva allora prevedere.

A questo punto gl'interlocutori fanno una domanda simile ad un'altra, che il Machiavelli s'era già fatta nei Discorsi. Aveva in essi domandato: perchè mai gli antichi ebbero maggiori libertà, maggiori virtù politiche dei moderni? E la risposta era stata: perchè ebbero governi repubblicani, e perchè le religioni pagane esaltavano la forza, l'amor di patria, anche la ferocia dell'animo, quando invece il Cristianesimo pensa al cielo più che alla terra, ed esalta la mansuetudine al di sopra della forza. Solo fra gli Svizzeri ed i Tedeschi si trovano ancora esempî dell'antica virtù. E nell'Arte della Guerra Cosimo Rucellai domanda del pari: quale è la cagione per la quale l'Europa ebbe in antico tanti gran capitani, e così pochi ne ebbero l'Asia e l'Africa, così pochi se ne hanno oggi per tutto? «Gli antichi,» risponde Fabrizio Colonna, «ebbero in Europa molti principati o repubbliche, che, combattendo fra loro, educavano le virtù militari; i popoli dell'Oriente ebbero invece solo uno o due grandi imperi. L'Africa, per questo rispetto, si trovò in condizioni più fortunate, a cagione della repubblica cartaginese. Dalle repubbliche escono più uomini eccellenti che dai regni, perchè in quelle il più delle volte si onora la virtù, ne' regni invece si teme; onde ne nasce che nelle une gli uomini virtuosi si nutriscono, negli altri si spengono. Quando poi in Europa, cresciuto l'impero romano, e divenuto signore del mondo, non vi furono più nemici da temere, allora la virtù militare scomparve per le ragioni stesse che l'avevano spenta fra i popoli dell'Oriente. I barbari, è vero, la divisero di nuovo; ma la virtù che una volta è venuta meno non rinasce così facilmente. Oltre di che, come fu già osservato, il Cristianesimo è più mite delle religioni pagane, e sotto di esso le cose non procedono perciò con l'antica ferocia. Inoltre abbiamo ora grandi regni, che non temono i vicini, e piccole città, che si accostano ai potenti per farsi difendere da essi; così manca occasione a quelle lotte, che promuovono la virtù militare. Considerate la Magna, nella quale per essere assai principati e repubbliche, vi è assai virtù, e vedrete come tutto ciò che nella presente milizia è di buono, dipende dall'esempio di quei popoli, i quali, essendo gelosi dei loro Stati, temendo la servitù, che altrove non si teme, tutti si mantengono sicuri ed onorati.»

In fine del secondo libro, Cosimo ricorda a Fabrizio, che della cavalleria non ha ancora parlato. E questi risponde, che ha taciuto, perchè essa ha minore importanza della fanteria, e perchè era allora in assai migliori condizioni. «Se non è più forte dell'antica, le è certo pari.» La vorrebbe perciò poco o punto mutare. Porrebbe fra i cavalleggeri qualche scoppiettiere, più per far paura ai paesani, che per produrre effetto reale. Vorrebbe per ogni battaglione 150 uomini d'arme e 150 cavalli leggieri; vorrebbe diminuito molto il numero eccessivo in Italia dei cavalli e dei carri, che portavano le armi e gli arnesi della cavalleria. Nè altro aggiunge. Gli studî, la principale esperienza del Machiavelli, e quindi le proposte che faceva, si riferivano quasi sempre alla fanteria.

Nel terzo libro si ordina l'esercito, per poter venire a giornata col nemico. Il più grande errore che si possa commettere, secondo il Machiavelli, è quello di dare all'esercito, come facevano al suo tempo, una sola fronte, una sola linea di battaglia, obbligandolo così ad un impeto e ad una fortuna sola. Questo avveniva perchè non si sapevano imitare i Romani, «i quali dividevano la legione in Astati, Principi e Triarî. I primi erano nella fronte, con ordini spessi; i secondi seguivano più radi, in modo da potere all'occorrenza ricevere i primi, quando questi dovevano retrocedere; i terzi, più radi ancora, per ricevere i primi ed i secondi. I Greci, armati di lunghe lance, non avevano questo modo di rifarsi; ma il soldato che cadeva, veniva sostituito da chi gli era dietro, e così le file restavano sempre piene, salvo l'ultima che andava diradando. Siffatto ordine imitarono in principio anche i Romani; poi non piacque loro, e divisero le legioni in coorti o in manipoli, perchè giudicarono, che quel corpo avesse più vita, che aveva più anime, ed era composto di più parti, ciascuna delle quali per sè stessa si reggesse. «Gli Svizzeri sono tornati alla falange greca, e dividono il loro esercito in tre grossi battaglioni, che scalano così: il secondo a destra e dietro al primo; il terzo più indietro ancora, a sinistra. I primi, ritirandosi, non possono essere ricevuti nei secondi e terzi; ma questi s'avanzano, invece, a soccorrere i primi, quando è necessario. E però, come la solidità delle falangi dovette cedere di fronte alla mobilità ed articolazione della legione romana, così i grossi battaglioni svizzeri debbono cedere di fronte alla nostra Ordinanza, pronta a combattere da ogni lato; a rifarsi tre volte, quando deve retrocedere; a prendere ogni forma; a resistere contro i cavalli con la picca, contro i fanti con la spada.»

Il Machiavelli compone il suo esercito normale di quattro battaglioni, diviso ciascuno in dieci battaglie, come dieci erano le coorti della legione descritta da Vegezio. In tutto sarebbero 24,000 fanti e 1200 cavalli; ma egli dice che, per maggiore semplicità, fa i suoi ragionamenti solo su due di essi, o sia 12,000 fanti e 600 cavalli, potendo con facilità le stesse osservazioni applicarsi ad un doppio numero di uomini. Pone adunque in prima linea dieci battaglie, sei in seconda, e quattro in terza, perchè la prima linea, ritirandosi, possa essere ricevuta nella seconda, e ambedue nella terza. Ogni battaglia ha le picche nelle prime linee e gli scudi nelle altre. Ai fianchi dell'esercito sono disposte le picche chiamate straordinarie, perchè da ogni lato si possa far fronte ai cavalli nemici. Pone la sua cavalleria alle ali, l'artiglieria dinanzi. Se queste battaglie, durante la mischia, si ristorano nel modo che egli ha chiamato romano, le prime ritirandosi cioè nelle seconde, ed ambedue nelle terze, dentro ciascuna di esse invece gli uomini si aiutano seguendo il modo proprio della falange greca, colui che è indietro avanzandosi cioè a prendere il posto del compagno che gli è caduto dinanzi.

I due eserciti sono ora di fronte, e Fabrizio Colonna espone come procede il suo. Le artiglierie tirano e fanno poco altro che fumo. Subito dopo i militi e la cavalleria leggiera escono sparsi per la campagna, ed assaltano il nemico, la cui artiglieria ha già tirato, ma i colpi sono passati sul capo dei fanti di Fabrizio. Le picche resistono fieramente all'assalto; quando però la mischia si stringe non possono più nulla, e si ritirano per dar luogo ai fanti armati di scudo e di spada, i quali disfanno il nemico.

Dopo che Fabrizio Colonna ha con calore e minutamente descritto questa battaglia, Luigi Alamanni domanda: «Perchè avete voi fatto tirare una sola volta le vostre artiglierie, e poi subito smettere; perchè mai avete posto quelle del nemico in modo che i colpi sono passati sul capo dei vostri? Io invece ho sentito da molti spregiare le armi e gli ordini degli antichi, dicendo che sarebbero ora inutili contro le artiglierie, le quali rompono gli ordini e passan le corazze.» «È vero,» risponde Fabrizio, «che feci tirare una volta sola, ed anche di ciò stetti in dubbio, perchè, più del percuotere il nemico coi miei cannoni, m'importa non essere io percosso dai suoi. È quindi necessario andar contro alla sua artiglieria subito e con ordine rado, per non lasciargli tempo ad offendere, e perchè in ogni caso esso tiri solo contro uomini sparsi. Esitai, come ho detto, perfino a tirare la prima volta, perchè so che il fumo delle artiglierie ti leva la vista del nemico. E feci passare i suoi colpi sulla testa dei miei uomini, questo essendo ciò che di fatto segue quasi sempre. Sono in vero le artiglierie così difficili a trattare, che quando appena tu le alzi, passano sul capo al nemico, ed ogni poco che le abbassi, danno in terra. Appiccata poi che è la zuffa, riescono addirittura inutili. So bene che molti presumono essere contro le artiglierie affatto inefficaci gli ordini antichi, quasi se ne fosse ora trovato uno nuovo, che riesca utile contro di esse. Se voi lo conoscete, avrò caro che me l'insegnate, perchè infino a qui io non ce ne so vedere alcuno, nè credo se ne possa trovare. Vorrei sapere da voi, perchè i soldati a piedi dei nostri tempi portano ancora il petto ed il corsaletto di ferro, e perchè quelli a cavallo sono sempre tutti coperti di ferro? Gli Svizzeri, a similitudine degli antichi, formano battaglioni stretti di sei o ottomila uomini, e tutti gli hanno imitati. Non v'è contro le artiglierie un ordine più pericoloso che l'ordine stretto, eppure è quello che oggi prevale. Se questi modi non difendono dalle artiglierie, contro le quali non v'è rimedio che valga, essi difendono sempre dai fanti, dai cavalli, dalle picche, dalle spade, dalle balestre, ecc. Del resto, se oggi è ancora possibile mettere il campo sotto una città, di dove le artiglierie ti offendono senza essere offese, molto più possiam farlo in una pianura aperta, senza sbigottirci e senza presumere che sia possibile mai abbandonare gli ordini antichi. Questo esercito adunque manterrà sempre il vantaggio sugli altri dei nostri tempi, perchè, meglio ordinato ed armato, può fermare al primo scontro il nemico, e disfarlo poi quando si accosta; può riprendere la battaglia tre volte, senza mai confondersi; può facilmente combattere da ogni lato.»

Nel quarto e quinto libro si parla dei movimenti di tutto l'esercito, tenendo sempre dietro all'esempio romano, senza che il Machiavelli possa molto aggiungere di nuovo per esperienza propria, non essendosi trovato mai nè a grandi guerre, nè fra grandi moltitudini di armati. Ed è qui che incomincia a fare uso frequentissimo di Frontino, da lui pigliando continuamente gli esempî di astuzie e stratagemmi di guerra, che suggerisce. Ciò a cui ora più costantemente mira, si è il poter dare all'esercito, con grande rapidità, anche in presenza del nemico, tutte quante le possibili forme. Egli biasima però sempre il distenderne molto la fronte, giudicando che sia cosa pericolosissima. Il troppo poco conto che faceva delle armi da fuoco, non gli rendeva possibile prevedere, che esse avrebbero reso necessaria una formazione sempre più larga e meno profonda.

Quando l'esercito si trovi molto scarso di cavalli, il Machiavelli consiglia di ordinarlo, potendo, fra vigne ed alberi, come fecero gli Spagnuoli alla Cerignola. Consiglia di porre la parte più forte de' suoi contro la più debole del nemico, per poter meglio, ritirandosi da un lato, circondarlo dall'altro. E questa fu in ogni tempo l'arte dei grandi capitani. Alcune altre sue osservazioni possono dirsi più di senso comune che veramente di arte della guerra, sebbene anche in questa l'ingegno naturale di colui che comanda, e la sua conoscenza degli uomini ebbero ed avranno sempre una importanza superiore alle cognizioni tecniche. Il Machiavelli raccomanda il segreto in tutte le imprese militari, lo studio e la conoscenza dei luoghi, e dice che giova sopra ogni cosa saper mettere il soldato nella condizione di potersi salvar solo colla vittoria. «Le necessità possono essere molte, ma quella è più forte, che ti costringe a vincere o morire.» Gli esempî che adduce in questi due libri, sono quasi tutti cavati dalla storia antica.

E così ancora nel sesto libro, dove discorre del modo d'alloggiare l'esercito, cerca attenersi ai Romani, quantunque sia pur necessario che se ne allontani più d'una volta, a cagione delle mutate condizioni dei tempi. Il Colonna comincia col riconoscere che sarebbe stato forse più opportuno «alloggiare prima l'esercito, per farlo poi muovere e finalmente combattere.» Ma volendo egli dimostrare come poteva, camminando, ridurlo a un tratto dalla forma tenuta nell'avanzarsi a quella della zuffa, fu indotto a cominciare dall'ordinario a battaglia più presto che poteva. E viene ora a parlar degli alloggiamenti, senza molto aggiungere di nuovo, che meriti particolar menzione. Qui egli ordina non più due, ma quattro battaglioni, cioè tutto quanto l'esercito normale di 24,000 fanti e circa 2000 cavalli. Come i Romani componevano il loro esercito di 24,000 fanti, e nei casi estremi non superarono, secondo il Machiavelli, quasi mai il numero di 50,000, «coi quali poterono vincere 200,000 Francesi, così debbono fare i moderni. I popoli dell'Oriente e quelli dell'Occidente fecero, è vero, la guerra con le moltitudini armate; ma questi si fondarono tutti sulla loro naturale e selvaggia ferocia, quelli sulla grande reverenza e passiva obbedienza ai loro re. Per i popoli meridionali in Italia ed in Grecia, dove mancano così la naturale ferocia, come la passiva obbedienza, fu necessario ricorrere alla disciplina, la quale ha tanta forza, che con essa i pochi e bene ordinati poterono vincere il furore e la ostinazione dei molti. Gli antichi fecero ogni cosa meglio di noi, massime nella guerra, e chi vorrà imitarli non deve formare eserciti troppo numerosi, perchè si disordina la disciplina e si genera confusione.» A mantenere con sicurezza questa disciplina, propone che la pena ed in parte anche il giudizio sieno dati popolarmente, come avevano fatto i Romani e come facevano gli Svizzeri, presso i quali chi violava la disciplina veniva ammazzato dai propri compagni d'arme. «E ciò,» egli dice, «è assai bene considerato, perchè il reo non troverà mai difensori in coloro che lo avranno punito.» Fra i consigli o suggerimenti dati in questo libro, ve n'è qualcuno che torna a ricordarci quanto, così nella guerra, come nella pace, la moralità di quei tempi fosse diversa dalla nostra. Il Machiavelli dice, per esempio, che alcuni abbandonavano il campo con tutti i viveri al nemico, per poi sorprenderlo quando s'era ripieno di vino e di cibo, ed aggiunge, senza altro osservare, che qualche volta, per meglio riuscire, si avvelenavano prima i vini.

Il valore di quest'opera si rialza di nuovo nel settimo ed ultimo libro, nel quale l'autore espone alcune idee assai notevoli intorno alle fortificazioni, e poi conclude. Le fortificazioni erano da un pezzo materia di studî, fatti in Italia e fuori da valenti ingegneri civili e militari. Ma l'uso delle artiglierie rendeva adesso necessaria anche in ciò una trasformazione radicale. Le antiche mura assai alte venivano facilmente abbattute dai cannoni, e le altissime torri non facevano più danno al nemico, perchè su di esse non potevano portarsi le artiglierie, nè il gettar sassi o altro noceva a chi poteva ora tenersi lontano. Si cercavano quindi costruzioni più basse e più solide, sulle quali fosse possibile portare i cannoni. Di tutto ciò il Machiavelli aveva avuto qualche esperienza, così al campo di Pisa, come nell'apparecchiare la difesa di Firenze e di Prato contro gli Spagnuoli nel 1512. Più tardi, quando però il suo libro era stato già scritto, dovè occuparsene di nuovo col celebre Pietro Navarro, per apparecchiare la difesa della sua città nativa contro l'esercito di Carlo V.

Le idee a questo proposito esposte nell'Arte della Guerra, non mancano certo di valore e di originalità, sebbene qualche volta sembrino accennare ad uno stato di cose anteriore a quello in cui la scienza delle fortificazioni era allora arrivata. Il Machiavelli voleva sempre tenere assai alte le mura per impedire che venissero scalate. Riconosce però in questo caso tutto il valore che avevano le artiglierie, delle quali dice, «è tanto il furore, che un muro solo non può in alcun modo resistere.» Ma ciò che è più, riconosce quale era allora il problema fondamentale, proponendo anche una soluzione sua propria. «Se le mura sono troppo alte,» egli osserva, «non vi si possono far salire le grosse artiglierie, e non si può resistere a quelle del nemico, che facilmente apre la breccia; se sono troppo basse, vengono scalate.» A questo pericolo si era da più tempo cercato un rimedio con ciò che i Francesi dicono rempart. Il muro, sempre alto, veniva rivestito di terra nell'interno, e così ingrossato e reso più forte contro i colpi del nemico. Ma tale sistema aveva un gran difetto, già notato da altri, e di cui il Machiavelli stesso s'era coi propri occhi avveduto a Pisa. Appena aperta la breccia, le pietre del muro rovinato cadevano sempre dalla parte donde venivano i colpi, e dietro seguiva la terra con cui era stato ingrossato. In questo modo, il fosso esterno si trovava ricolmo, ed al nemico era reso facile dare l'assalto decisivo. Il Machiavelli perciò proponeva un sistema nuovo, del quale un piccolo saggio, aveva potuto vedere ben due volte a Pisa, nel 1500 e nel 1505, quando i Fiorentini, avendo aperta una larga breccia nelle mura di quella città, sperano dovuti ritirare, perchè dietro il muro era stato dai Pisani cavato un fosso, e dietro il fosso alzato un riparo. Lo stesso esperimento, in assai più larga misura e con maggior fortuna, era stato fatto l'anno 1509 a Padova, ordinando la difesa di tutta la città secondo il nuovo sistema, e costringendo così il poderosissimo esercito di Massimiliano a levare vergognosamente l'assedio. Tutto quello che avvenne nella guerra di Pisa era, com'è noto, familiarissimo al Machiavelli, e nel 1509, trovandosi a Mantova ed a Verona, aveva potuto ricevere esatte notizie della tanto celebrata difesa di Padova. Di essa allora si parlò molto; il Guicciardini ce ne lasciò una minutissima descrizione, e dalle lettere dirette al Machiavelli apparisce chiaro, che sin dai primi giorni, egli volle esserne minutamente ragguagliato.

Il sistema che suggeriva era dunque il seguente. Le mura debbono essere «ritorte e piene di volture, per poter ferire il nemico da più lati.» Proponeva poi due cerchi di mura, con un largo fossato tra l'uno e l'altro. L'esterno doveva essere grosso tre braccia almeno, con torri ad ogni dugento braccia, alto più che era possibile, acciò il nemico non potesse scalarlo. Invece d'avere il fossato dinanzi, doveva averlo di dietro, largo trenta braccia, profondo dodici, con casematte nel fondo ad ogni dugento braccia. Il terreno cavato per formare il fosso, doveva gettarsi dalla parte che guardava la città, e servire a formare il muro interno, alto tanto da coprire un uomo, grosso in modo da sostenere le artiglierie pesanti, e poter quindi rispondere a quelle del nemico. In tal modo, egli diceva, quando sarà aperta la breccia nel muro esterno, avverrà come a Pisa, che le pietre, cadendo dal lato di dove vengono i colpi, invece di colmare il fosso che è nell'interno, formeranno un riparo esterno che renderà il fosso più profondo ancora; e così il nemico si troverà di fronte un primo argine o riparo ingrossato dalle pietre cadute, poi il fosso, poi il secondo muro con le artiglierie più pesanti. Il Machiavelli non vuole bastioni esterni o altre opere staccate, a distanza dalle mura, perchè una volta prese tali opere, è presa, egli dice, la fortezza. Fino ad un miglio di distanza sarà quindi spianato e libero il terreno. Ed anche quest'ultimo concetto è, secondo gli scrittori moderni, originale e nuovo per quel tempo. Qualche cosa di simile pare che suggerisse in Germania il grande ingegno del pittore Alberto Dürer, che potè ricevere la sua ispirazione dallo stesso assedio e difesa di Padova. In ogni modo è certo che queste idee scientificamente esposte nell'Arte della Guerra, dànno un'altra prova dell'acume singolare e del genio pratico del Machiavelli. Le artiglierie però mutarono allora con sì grande rapidità tutti i vecchi sistemi di fortificazione, che non lasciarono tempo a fermarsi in questi tentativi intermedi, per quanto fossero ingegnosi ed anche fortunati nella prima esperienza che se ne fece.

Noi potremmo qui ripetere una serie di osservazioni sui modi di migliorare la costruzione delle feritoie, delle saracinesche, delle ruote e dei carri per trasportare le artiglierie, dei ponti levatoi e simili. Da esse si vedrebbe come il Machiavelli non tralasciasse mai occasione alcuna di tutto osservare e ricordare, e come le sue osservazioni fossero sempre ingegnose, acute e non prive di valore pratico. Ma preferiamo di affrettarci alla conclusione dell'opera, alla quale s'arriva dopo alcuni pensieri, quasi direi aforismi militari, come i seguenti: «Colui che seguita con disordine il nemico poi ch'egli è rotto, non vuole fare altro che diventare di vittorioso perdente. - Muta partito, quando ti accorgi che il nemico lo abbia previsto. - Agli accidenti subiti con difficoltà si rimedia, ai pensati con facilità. - Gli uomini, il ferro, i danari ed il pane sono il nervo della guerra; ma di questi quattro sono più necessari i primi due, perchè gli uomini ed il ferro trovano i danari ed il pane; ma il pane ed i danari non trovano del pari gli uomini ed il ferro.»

E qui il Colonna s'affretta a concludere, dicendo che avrebbe potuto esporre molte altre cose intorno alla milizia degli antichi; ma il suo scopo era stato di dir solamente ciò che gli pareva necessario al buono ordinamento di quella de' suoi tempi. Della milizia navale non aveva parlato, perchè non se ne intendeva. «Se voi volete sapere, quali sono le qualità che deve avere un buon capitano, io sarò assai breve, bastando il dirvi che deve conoscere tutte le cose soprascritte; ma che esse non bastano, se non saprà nulla trovare di suo, perchè niuno mai fu grande nel suo mestiere senza invenzione, e questa è sopra tutto necessaria nella guerra. Ridurre la milizia ai modi antichi non è difficile, come io vi ho mostrato; ma a poterlo fare, sarebbe necessario essere un principe grande abbastanza da mettere insieme quindici o ventimila giovani, per farli buoni soldati. E nulla si può immaginare di più glorioso, perchè se è lodevole con un buon esercito vincere una battaglia, più lodevole assai è formare un esercito vittorioso. Di questo numero furono Pelopida, Epaminonda, Filippo di Macedonia padre di Alessandro, Ciro re dei Persi. Costoro riuscirono per la loro prudenza, e per avere avuto soggetti adatti ad un tale scopo; ma nessuno di loro, ancorchè eccellente, avrebbe potuto compiere opere lodevoli in una provincia piena di uomini corrotti, non usi ad alcuna onesta obbedienza, come è l'Italia. Qui non basta saper comandare un esercito; bisogna saperlo e poterlo prima formare, e però è necessario cominciare coll'essere principe di uno Stato grosso. Di questi tali non posso essere io, che comandai sempre eserciti forestieri, soldati di ventura, uomini obbligati ad altri e non a me. E lascio giudicare a voi, se è possibile introdurre in essi qualche utile riforma. Come potrei io indurli a portare più armi del solito, ad esercitarsi più ore del giorno? Quando si asterrebbero essi dalle lascivie, dalle insolenze e dalle violenze che ogni giorno commettono? Quando si ridurrebbero mai in tanta disciplina, che un albero carico di pomi, in mezzo ai loro alloggiamenti, rimanesse intatto, come si legge che presso gli antichi molte volte intervenne? Che cosa posso loro promettere, quando, finita la guerra, non hanno più nulla da fare con me?» «Di che gli ho io a fare vergognare, che sono nati ed allevati senza vergogna?... Per quale Iddio o per quale Santo gli ho io a fare giurare? Per quei che eglino adorano, o per quelli che bestemmiano? Che ne adorino non so io alcuno; ma so bene che li bestemmiano tutti.... Come possono coloro che bestemmiano Iddio riverire gli uomini? Quale adunque buona forma sarebbe quella che si potesse imprimere in questa materia?»

«Gli Svizzeri e gli Spagnuoli, sebbene lontani dalla perfezione, sono assai migliori degl'italiani, che non avendo preso alcun ordine buono, rimangono il vituperio del mondo. Non ne hanno già colpa i popoli, ma i principi, i quali ne sono stati puniti col perdere ignominiosamente lo Stato, senza dare alcuno esempio virtuoso. E che gli ordini vigenti siano pessimi, lo prova chiaro il fatto che, dopo tante guerre seguìte in Italia dalla venuta di Carlo VIII in qua, i nostri eserciti, invece di agguerrirsi col combattere, sono andati sempre peggiorando. Nè c'è altro rimedio fuori di quello indicato, cioè di un principe che possa e sappia formare il suo esercito con uomini rozzi, non ancora guasti dai cattivi ordini presenti. Una nuova forma s'imprime assai meglio in animi rozzi ed inculti, che nei corrotti, come un buono scultore riuscirà meglio a fare una statua da un blocco di marmo greggio, che da uno male abbozzato.» «Credevano i nostri principi italiani, prima che egli assaggiassero i colpi delle ultramontane guerre, che a un principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d'oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co' sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nell'ozio, dare i gradi della milizia per grazia;... nè si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le subite fughe, e le miracolose perdite, e così tre potentissimi Stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti.» «Ma peggio ancora si è, che coloro i quali restano, vivono nel medesimo errore e nel medesimo disordine, nè considerano che quelli che in antico volevano tenere lo Stato, erano i primi tra i combattenti, e se perdevano, volevano con lo Stato perdere la vita, talmente che o vivevano o morivano virtuosamente. E se in alcuno di essi si poteva dannare troppa ambizione o ferocia, non si troverà mai alcuna mollizie o cosa che faccia gli uomini delicati ed imbelli. Le quali cose se fossero state lette e credute dai nostri principi, sarebbe impossibile che essi non mutassero forma di vivere, e che le loro province non mutassero fortuna.»

«Ma perchè voi vi doleste della nostra Ordinanza, vi dico, che se davvero l'avete formata come di sopra ho detto, e non ha fatto buona esperienza di sè, ve ne potete dolere; ma se non l'avete esercitata e formata come io ho detto, essa può dolersi di voi, che avete fatto un abortivo, non una figura perfetta. Anche i Veneziani e il duca di Ferrara cominciarono e poi non seguirono, il che fu colpa loro e non dei loro uomini.» «Ed io vi affermo che qualunque di quelli che tengono oggi Stati in Italia, prima entrerà per questa via, fia prima che alcun altro signore di questa provincia; ed interverrà allo Stato suo come al regno de' Macedoni, il quale, venendo sotto a Filippo, che aveva imparato il modo di ordinare gli eserciti da Epaminonda tebano, diventò con questo ordine e con questi esercizî, mentre che l'altra Grecia stava in ozio ed attendeva a recitar commedie, tanto potente, che potette in pochi anni tutta occuparla, ed al figliuolo lasciare tale fondamento, che potè farsi principe di tutto il mondo. Colui adunque che dispregia questi pensieri, se egli è principe, dispregia il principato suo; s'egli è cittadino, la sua città. Ed io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi doveva fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facoltà a poterlo eseguire. Nè penso oggimai, essendo vecchio, potere averne alcuna occasione, e per questo io ne sono stato con voi liberale, che essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piaceranno, ai debiti tempi in favore dei vostri principi aiutarle o consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perchè questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura. Ma quanto a me si aspetta, per essere in là cogli anni, me ne diffido. E veramente se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto Stato, quanto basta a una simile impresa, io crederei in brevissimo tempo avere dimostro al mondo, quanto gli antichi ordini vagliano; e senza dubbio, o io l'avrei accresciuto con gloria, o perduto senza vergogna.»

Ed ecco ricomparir sulla scena il re liberatore, che a similitudine di Filippo il Macedone deve con le armi salvare la patria. Così anche l'Arte della Guerra si riconnette col Principe. - Colui che primo in Italia seguirà i miei consigli, riuscirà con suo onore immortale nella magnanima impresa di liberare la patria. - Questo aveva il Machiavelli detto a Giuliano ed a Lorenzo de' Medici; questo ripetè agli amici degli Orti Oricellari, e scrisse nel suo Discorso sulla riforma di Firenze, al cardinal dei Medici ed a Leone X; questo ripete di nuovo nell'Arte della Guerra. Se in essa il suo pensiero dominante riesce anche più chiaro che altrove, e più esplicita apparisce la sua ammirazione per la virtù, più ardente e puro il suo patriottismo, ciò dipende solo dalla natura del soggetto che trattava. E se egli parlava così chiaro quando s'era potuto finalmente avvicinare ai Medici, e ne aveva la prima volta avuto sicura speranza di qualche favore, nessuno potrà credere che avesse voluto esprimere diversi pensieri, o cercato di mascherare il suo patriottismo, scrivendo i Discorsi ed il Principe, quando si trovava da tutti abbandonato, e vivevano ancora Giuliano e Lorenzo, il primo dei quali almeno era certo d'animo più mite del Cardinale e del Papa.

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