CAPITOLO X.

Condizioni generali del teatro in Italia. - Le Sacre Rappresentazioni, la Commedia dell'arte e la Commedia erudita. - Le Commedie dell'Ariosto. - La Calandra del cardinal Bibbiena. - Le Commedie del Machiavelli: La Mandragola, La Clizia, la Commedia in prosa, la Commedia in versi, la traduzione dell'Andria.

L'Italia, com'è noto, ebbe più di uno scrittore comico, e qualche poeta tragico di grandissimo merito; ma non quello che si chiama veramente un teatro nazionale. Quando dai Mimi e dalle Atellane, che erano farse e rappresentazioni popolari, comiche, satiriche, i Romani potevano cavare una commedia originale e nazionale, sopravvenne l'imitazione greca, da cui non si potè liberare neppure il genio di Terenzio e di Plauto. S'ebbe quindi una commedia letteraria, che non era sorta dalle viscere del popolo, il quale continuò a preferire i Mimi e le Atellane. Queste antiche farse, lentamente alterandosi, sopravvissero anche nel Medio Evo, quando si avvicinarono, s'innestarono alle Sacre Rappresentazioni, che finalmente resero laiche e cavarono fuori delle chiese. Più tardi dettero origine a quella che si chiamò la commedia dell'arte, la quale divenne assai popolare, e nel Rinascimento s'era già molto diffusa fra di noi. Essa, com'è noto, veniva quasi improvvisata dagli attori, ai quali si dava solo lo scenario, cioè il soggetto, l'intreccio generale, lo scheletro delle varie scene, determinando il carattere che ciascun personaggio doveva rappresentare, i punti più salienti dei principali dialoghi. Le maschere di questa commedia, Pantalone, Arlecchino, Pulcinella, Brighella sono, secondo ogni probabilità, lente trasformazioni dei personaggi delle Atellane e dei Mimi.

Nel Rinascimento avvenne poi qualche cosa di simile a ciò che era assai prima seguìto a Roma. Poteva dalle Sacre Rappresentazioni, che già erano arrivate ad uno svolgimento letterario notabile, come poteva dalla commedia dell'arte, che già fioriva, cavarsi un dramma, una commedia nazionale, quando sopravvenne invece l'imitazione dei tragici e dei comici antichi. La tragedia rimase addirittura soffocata da questa imitazione. In un tempo nel quale lo scetticismo invadeva gli animi, le istituzioni politiche si decomponevano, la nazione non riusciva a formarsi, e le invasioni straniere cominciavano, non erano più possibili nè la vera ispirazione epica, nè il dolore veramente tragico. La Sofonisba del Trissino e la Rosmunda del Rucellai, che sono le migliori tragedie di quel tempo, non mancano di pregi; vi si ritrova qualche slancio lirico ed anche qualche lampo di drammatica potenza: ma esse non abbandonano mai il modello antico, non hanno mai una vera e propria vitalità, nè furono seguìte da altre opere migliori. Allora però, in mezzo a tante sventure, pur troppo si rideva molto in Italia, e più fortunata fu quindi la commedia, quantunque anch'essa s'andasse formando con la imitazione, specialmente di Terenzio e di Plauto. Questa che fu chiamata commedia erudita, si diffuse largamente fra i letterati, nelle Corti, avvicinandosi sempre più alla commedia dell'arte. E senza mai confondersi con essa, riuscì pure a migliorarla, correggerla non poco, ricevendone in cambio maggiore vivacità e spontaneità. Nondimeno la commedia erudita era pur sempre un'opera di letterati, un lavoro d'imitazione, e quindi il popolo continuò a preferire quella dell'arte, che sebbene cominciasse a divenire anch'essa alquanto artificiosa, non perdè mai affatto il suo carattere popolare e primitivo.

Si è molto disputato intorno alle ragioni, per le quali l'Italia non potè nel Rinascimento arrivare alla creazione d'un vero teatro, neppure d'una vera commedia nazionale, quando già per questa v'erano ad esuberanza tutti gli elementi necessarî a costituirla. Non mancavano certo vivacità e fecondità d'invenzione nella commedia dell'arte, e nella erudita si ritrovava pure una grande ricchezza di quello spirito comico, che abbondava anche in quasi tutte le novelle, in molte poesie italiane di quel tempo. Da un altro lato moltissimi dei nostri lavori letterarî cominciarono dalla imitazione, e da essa poi, per forza intrinseca, per vitalità propria, si resero indipendenti, arrivando ad una vera originalità nazionale. Perchè dunque a questo non potè mai giungere il nostro teatro? In verità l'essere una nazione riuscita felicemente in molte cose, non è una ragione, perchè debba riuscire del pari fortunata in tutte. La creazione del teatro richiede che la vita sociale e nazionale siano già formate e progredite, e l'Italia non era anche costituita a nazione, quando le invasioni straniere sconvolsero tutto, soffocando la libertà ed affrettando la decadenza. Richiede inoltre una larga partecipazione del pubblico, quasi la cooperazione del popolo, che, in questo come in molti altri generi, apparecchia la materia poetica, in cui i sommi scrittori infondono poi la nuova vita dell'arte. Ed è pur da riconoscere, che allo svolgimento originale, vigoroso, compiuto d'una poesia popolare propriamente detta, fu in Italia assai spesso contraria l'azione continua, incessante, che l'arte dei letterati esercitò sempre su quella del popolo, più culto che altrove. Prima che un genere qualunque di componimento popolare arrivi fra noi a quella maturità, che è necessaria a far germogliare una nuova forma di arte nazionale, più di una volta s'è visto, che esso comincia ad inaridire, cedendo il terreno all'arte dei letterati, che s'avanza e penetra nel popolo. Essi certo si giovano molto d'ogni elemento popolare, anzi è con tale aiuto, che l'imitazione classica riuscì a divenire in Italia un vero e proprio rinascimento. Ma quando l'elemento popolare dovrebbe prevalere, per arrivare alla creazione originale d'una forma poetica nuova e nazionale, è allora che la nostra letteratura incontra le maggiori difficoltà. Non c'è quindi da maravigliarsi se essa non le supera in quei casi nei quali anche le condizioni politiche le riescono avverse, come furono certo al nostro teatro nel secolo XVI.

Per queste ragioni avvenne, che la Sacra Rappresentazione era nel Rinascimento italiano già piena di classiche reminiscenze, di forme letterarie e convenzionali, prima che fosse giunta alla sua piena vitalità popolare, prima cioè di offrire ai grandi scrittori materia adatta a nuove creazioni. La commedia dell'arte si era anch'essa ripulita, modificata, alterata, avvicinandosi alla erudita. E questa, senza poter mai lasciare del tutto l'imitazione di Plauto e di Terenzio, si sforzava continuamente d'accostarsi al popolo. Più di una volta pareva che fosse già per toccare la mèta; che sorgesse finalmente per questa via la commedia originale, nazionale, quando invece prevaleva da capo la imitazione classica. Così si oscillava sempre fra l'artifizioso ed il plebeo, senza poter mai arrivare permanentemente al vero comico di Aristofane e di Molière.

Terenzio è assai facile, e però fu subito molto imitato in Italia; ma l'azione di Plauto sul nostro teatro non è piccola. Come scrittore comico, sebbene più rozzo, egli è assai superiore. Il suo sguardo psicologico è quello di un accorto conoscitore degli uomini; la rappresentazione dei caratteri, la forza e varietà con cui riproduce le innumerevoli forme della vita cittadina, e sopra tutto il genio che dimostra nel porre in rilievo il lato comico delle azioni e dei caratteri, con una certa ardita superiorità che ride di tutto, sono le qualità che lo distinguono e che lo resero popolare in Italia. Egli, come osserva il Mommsen, stringe e scioglie i nodi del suo intreccio comico con grande accortezza e malizia; preferisce di stare nella bettola, che nella sua commedia è in opposizione con la casa. Terenzio, invece, sta nella casa, fra gente di buona e civile condizione; va dietro alla verosimiglianza, anche a costo di lungaggini; ha un'indole quieta e tranquilla, e le sue commedie ci presentano un concetto più morale della donna e della vita matrimoniale. Plauto colorisce i suoi caratteri con largo pennello; l'analisi psicologica di Terenzio è una miniatura. Nella commedia del primo i figli canzonano continuamente i padri, ed il suo linguaggio è pieno di frizzi; il secondo sembra spesso avere un fine pedagogico, il suo stile ornato, sereno ha finezza e movimenti eleganti: il suo lato debole è la invenzione, alla quale supplisce con l'arte.

I nostri eruditi cominciarono subito con le imitazioni, traduzioni, rappresentazioni in italiano ed in latino di questi due comici. Pomponio Leto fu a Roma dei primi, con la sua Accademia Romana, a far rappresentare antiche commedie. Seguì ben presto l'Accademia dei Rozzi in Siena, e per tutto poi un gran numero di altre: Infiammati, Infocati, Intronati, Immobili, Costanti, ecc. Questo movimento ebbe però il suo vero impulso e la sede principale in Ferrara, per opera di quei duchi. Colà i Menecmi di Plauto furono tradotti e rappresentati sin dal 1486. E come, per l'innesto degli antichi romanzi francesi con la erudizione, a Ferrara trovò una vera forma il nostro poema cavalleresco; così dall'innesto di Plauto e di Terenzio con elementi nazionali e popolari colà nacque pure la nuova commedia, di cui fu iniziatore Lodovico Ariosto, prima che si rendesse immortale col suo Orlando Furioso.

Il modo con cui egli successivamente compose le sue cinque commedie, ci presenta in breve la storia del teatro comico italiano. Incominciò con traduzioni che andarono perdute, e si dette poi alle commedie originali. Nella Cassaria, che fu scritta nel 1498, s'incontrano ad ogni passo imitazioni da Terenzio; i Suppositi che vennero dipoi, presero il soggetto dai Captivi e dall'Eunuco, fusi insieme. E l'autore dichiara nel suo prologo, che «non solo nelli costumi, ma anche nelli argomenti delle favole, vuole essere degli antichi e celebrati poeti a tutta possanza imitatore.» Pure con i Suppositi già siamo a Ferrara, nel tempo della presa d'Otranto pei Turchi; le allusioni ai fatti contemporanei e i costumi del tempo appariscono frequenti, il dialogo acquista una vita propria e indipendente. Le due commedie, scritte dapprima in prosa, furono più tardi voltate dall'autore in versi, come in versi scrisse le altre, perchè solo in essi l'Ariosto trovava quel suo stile tanto semplice, naturale, originale, e si sentiva assai più nel proprio elemento. Così si allontanava però dalla via che era propria della commedia italiana, scritta quasi sempre in prosa, per la necessità di riprodurre il dialogo familiare. Nella Lena il soggetto e i caratteri sono del secolo XVI. Più originali di tutte le altre riescono le due ultime, il Negromante e la Scolastica. Siamo con esse fra gli studenti di Padova e di Ferrara, in mezzo agl'intrighi amorosi. La corruzione della società italiana ci è rappresentata senza velo, e la satira sferza i costumi del tempo: gli uomini che s'imbellettano come donne, i poveri che voglion fare da ricchi, i rettori delle terre che sono rapaci come lupi, i preti che danno scandali d'ogni sorta, i papi che vendono le indulgenze.

In questo modo la commedia erudita uscì dalle mani degli accademici, acquistò indipendenza e naturalezza, sempre più avvicinandosi alla società de' suoi tempi. Le dava vita uno spirito mordace e satirico, una grande semplicità e sensualità, che sono caratteri proprî della letteratura del Cinquecento in Italia, e trovavano alimento nello studio e nella imitazione di Plauto. Le commedie del Rinascimento sono quasi tutte d'intreccio, e spesso si compongono riunendo insieme più commedie antiche, che solevano esser di carattere. Ciò che principalmente si ammira in quelle dell'Ariosto, è la vivace dipintura dei tempi, la satira di essi, la quale è piuttosto una fine ironia, con cui l'autore, parte egli stesso del secolo che descrive, ride di tutto. Vi si ritrova l'ingegno del gran poeta, l'iniziatore d'un genere nuovo; ma si sente pure che egli già s'apparecchia ad un'opera maggiore e diversa. Per quanto maravigliosamente spontaneo e naturale sia il suo verso, l'indole privata e domestica della commedia italiana trova solo nella libertà del dialogo in prosa la propria forma. Inoltre ciò che più richiama l'attenzione dell'Ariosto e colpisce la sua immaginazione, ciò che egli sopra tutto ci rappresenta è l'intreccio, la mutabilità continua degli avvenimenti, la forma esteriore de' suoi personaggi. Non vuole, non può lungamente fermarsi all'esame psicologico di nessun carattere, di nessuna passione. Una grande varietà di episodî, che non sempre trovano la loro unità, o la trovano solo nel continuo mutare; una moltitudine d'individui, che compariscono pieni di vita, e scompariscono prima di aver compiuto nulla d'importante, ci avvertono che in queste commedie si va educando e formando il genio immortale di colui che creerà l'Orlando Furioso. Il grande poema sembra già vivere nella sua fantasia, pieno di vigore e di giovinezza, impaziente di venire alla luce. Si direbbe che esso già agita la mente del poeta, ed altera il carattere dell'opera che, in questo momento, egli ha ora fra le mani.

La Calandra del cardinal Bernardo Dovizi da Bibbiena, composta nel primo decennio del secolo XVI, levò gran rumore. Fu da molti affermato che essa iniziò il nuovo genere in Italia, il che non è vero, essendo stata già preceduta da alcune commedie dell'Ariosto, alle quali è molto inferiore. Il Bibbiena era però cardinale, toscano ed assai faceto; non era un poeta, ma voleva scrivere alla buona per divertire il pubblico, e vi riuscì. Il popolo, il papa, i cardinali, i personaggi più autorevoli del tempo lo ascoltarono, ridendo, e lo applaudirono. Il favore da lui ottenuto fu davvero grandissimo. La commedia fu subito molte volte recitata in varie città d'Italia, e poi anche, nel settembre del 1548, a Lione in Francia, ad iniziativa della nazione fiorentina, da attori toscani, fatti espressamente venire d'Italia, per festeggiare l'entrata di Errico II e Caterina dei Medici. Nel suo prologo il Bibbiena dichiara, che non vuole usare il verso, «perchè la commedia rappresenta cose familiarmente fatte e dette, e perchè e' si parla in prosa con parole sciolte e non ligate.» Si scusa inoltre co' suoi uditori, se la commedia non è antica, perchè le cose moderne piacciono più; si scusa anche se non è latina, perchè vuole essere inteso da tutti, e la lingua che Dio e la natura ci han data, non bisogna stimarla meno che la latina, la greca e l'ebraica. Tutto questo prova quanto il gusto del pubblico s'era allora mutato. Pure la Calandra è presa dai Menecmi di Plauto, sostituendo ai due gemelli maschi, affatto simili tra loro, un uomo e una donna anch'essi gemelli e simili in modo che, mutando abiti, vengono facilmente scambiati l'uno per l'altro. Da questa somiglianza e dalla sciocchezza di Calandro, che s'innamora dell'uomo credendolo donna, nascono mille equivoci buffi, comici, oscenissimi, il che secondava mirabilmente il gusto del tempo, e richiamava l'attenzione tanto più, perchè l'autore era cardinale, e papa e cardinali applaudivano e ridevano. Di moderno e di veramente nuovo non v'è che la forma esteriore, la vivacità e la naturalezza del dialogo toscano, che pur qualche volta è troppo lungo e monotono. La commedia si regge quasi del tutto sopra espedienti più osceni e buffoneschi che veramente comici. I personaggi sono vacui, e gl'incidenti non hanno mai un vero valore drammatico o comico, perchè tutto dipende dalla eccessiva imbecillità di Calandro, cui si può dare ad intendere quello che si vuole. Insomma è più che altro una farsa ripiena di facezie buffe ed oscene. La grande fortuna che ebbe allora, venne in parte anche dal modo in cui fu rappresentata; e si può facilmente capire come valenti attori potessero con essa riuscire a fare smascellar dalle risa un pubblico del secolo XVI. La Calandra rappresenta il momento in cui la commedia erudita e d'imitazione, avvicinandosi a quella dell'arte, trova finalmente nel dialogo in prosa la sua propria forma. Questo è ciò che le dà una importanza storica nella nostra letteratura.

Ma colui al quale, dopo l'Ariosto, spetta il primo luogo, per aver dato il suo vero carattere alla commedia italiana, è di certo il Machiavelli, che superò tutti con la Mandragola. Che egli avesse un grande spirito comico e satirico, lo abbiamo già visto ne' suoi scritti, massime nelle lettere familiari; che perciò si sentisse inclinato a scrivere commedie, lo vedemmo del pari fin dal 1504, quando si provò ad imitar le Nuvole di Aristofane, scrivendo le Maschere, che andarono perdute, e nelle quali mordeva i suoi contemporanei. Ma tutto questo non poteva far supporre, che egli fosse capace di darci nella Mandragola la migliore commedia del teatro italiano, superiore, secondo il Macaulay, alle migliori del Goldoni, inferiore solo alle più belle del Molière.

L'azione, che par suggerita da un fatto avvenuto in Firenze, ha luogo nel 1504. Ma il prologo ci fa chiaramente capire che la commedia fu scritta assai più tardi, certo dopo del 1512, nei giorni meno lieti della vita del Machiavelli. Il Giovio, ne' suoi Elogia doctorum virorum, dice che Leone X, sentito del gran successo della Mandragola in Firenze, la fece dai medesimi attori rappresentare anche in Roma. E da una lettera che scrisse Battista della Palla il 26 aprile 1520, vediamo che allora tutto era già pronto per farla recitare. In quell'anno adunque la commedia era stata assai probabilmente già rappresentata in Firenze. La più antica edizione, di cui, secondo i bibliografi, si crede conosciuta la data, sarebbe quella che si suppone pubblicata a Roma nell'agosto del 1524; ma par certo che, fra le edizioni senza data, ve ne sia qualcuna ancora più antica. Il Sanudo racconta, ne' suoi Diari, che il 13 febbraio 1523, la Mandragola fu recitata a Venezia, dove il teatro era così affollato, che non si potè dare il quinto atto. Ma la recita che si pretese data negli Orti Oricellari, dinanzi a Leone X, non viene in alcun modo confermata, anzi non par credibile. Si fece probabilmente confusione con la Rosmunda del Rucellai.

La Mandragola ha per noi una doppia importanza, perchè da un lato ci fa conoscere il genio comico del Machiavelli, nella sua maggiore originalità; da un altro ci presenta sotto nuova luce, il concetto che egli s'era formato degli uomini e della società del suo tempo. Di essa egli fa come una fotografia, che spiega sotto i nostri occhi, quasi cinicamente ridendo. Ma la sua spensierata gaiezza è pur qualche volta interrotta da uno scoppio improvviso di pianto, che egli comprime subito, e, quasi se ne vergognasse, cerca far credere che sia invece uno scroscio di riso. Se voi chiedete, così dice nel prologo, come mai l'autore si perda in una materia troppo leggiera per chi voglia parere uomo savio e grave,

Scusatelo con questo, che s'ingegna

Con questi van pensieri

Fare il suo tristo tempo più soave,

Perchè altrove non ave

Dove voltare il viso,

Che gli è stato interciso,

Mostrar con altre imprese altra virtue.

«Ora non c'è più rimedio possibile ai nostri mali. Bisogna contentarsi di vedere ognuno starsene da canto a ghignare e sparlare. Così il secolo traligna dall'antica virtù, perchè vedendo come tutti biasimano e ridono, nessuno s'affatica alle opere generose, che il vento dissipa e la nebbia ricopre. Ma se qualcuno credesse di spaventar l'autore col dirne male, io vi ammonisco che sa dir male anch'esso, che questa anzi è la sua prima arte; e non istima in Italia alcuno, sebbene faccia reverenza a chi sembra portare miglior mantello di lui.»

Callimaco è un fiorentino che ha trenta anni d'età, venti dei quali ha passati a Parigi tranquillamente. Ivi ha sentito tanto lodare la bellezza e le virtù della moglie di Nicia Calfucci, che è venuto a Firenze per vederla, e subito è stato preso di grande amore per lei. Questa donna per nome Lucrezia è così buona ed onesta, che l'unica speranza di Callimaco sta nella scempiaggine del marito, nel desiderio vivissimo in lui e nella moglie d'avere figliuoli. Mezzano di questo amore è un tale Ligurio, scroccone, al quale Callimaco ha promesso danari, e che frequenta casa Calfucci. La semplicità e la scempiaggine ingenua di messer Nicia, che ha titolo di dottore e si crede gran cosa, mirabilmente rappresentate, divengono una delle principali sorgenti del comico nella Mandragola. Ligurio intanto vuol persuadere messere Nicia di condurre, come consigliano i medici, la moglie ai bagni. Così egli pensa, che Callimaco avrà più facile modo a conoscerla ed avvicinarla. Ma messer Nicia resiste, perchè, sebbene desideri molto aver figliuoli, pure gli sembra gran cosa il muoversi, e i dottori dicono chi una cosa, chi l'altra; «non sanno quello che si pescano. - A te dà briga,» - gli dice Ligurio, - «il non essere uso a perder di vista la cupola del Duomo. - Tu, erri,» - risponde subito messer Nicia, - «io sono stato da giovane molto randagio, e non mancavo mai alla fiera di Prato, nè c'è castello intorno Firenze, dove io non sia andato. E ti vo' dire più là: io sono stato a Pisa ed a Livorno. Oh! va. - Avete visto il mare? quanto è maggiore d'Arno? - Che Arno! Quattro, sei, sette volte. Non si vede se non acqua, acqua, acqua!» - Si conchiude finalmente, che Ligurio sentirà i medici, e messer Nicia cercherà intanto disporre la moglie a partire.

Nella terza, che è l'ultima scena del primo atto, Callimaco chiede ansioso a Ligurio, che cosa hanno conchiuso, e Ligurio risponde che i Calfucci facilmente andranno ai bagni; ma teme che con questo non si sia fatto nulla. - «Io conosco che tu di' il vero,» - risponde Callimaco. - «Ma come ho a fare? che partito ho a pigliare? dove mi ho a volgere? A me bisogna tentare qualche cosa, sia grande, sia pericolosa, sia dannosa, sia infame: meglio è morire che viver così. S'io potessi dormire la notte, s'io potessi mangiare, se io potessi conversare, se io potessi pigliar piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad aspettare il tempo. Ma qui non ci è rimedio, e se io non son tenuto in isperanza da qualche partito, io mi morrò in ogni modo; e veggendo d'avere a morire, non sono per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudo e nefando.» Questo linguaggio manifesta, con molta eloquenza, una passione assai singolare, perchè divenuta già violenta, prima ancora che Callimaco abbia parlato alla donna amata. Ligurio dice a un tratto d'avere una felice idea, e gli propone di fare esso le parti di medico col Nicia. Gli dirà poi il resto. E così vien fissato.

Nel secondo atto, Ligurio presenta Callimaco a Nicia, dandogli a intendere che è medico, e che ha una pozione, bevuta la quale, la moglie avrà un figliuolo. Se non che colui che le si avvicina la prima volta, dopo che essa ha bevuto, deve ben presto morire. Bisogna quindi consentire che la moglie sia la prima volta avvicinata da un altro. Lo spavento di Nicia a queste parole, la sua presunzione di parlar latino col finto dottore, la sua ammirazione nel sentirlo rispondere con citazioni latine che non capisce, la facilità con cui si persuade, appena gli viene affermato che il re di Francia ed altri principi consentirono all'esperimento, e tutto ciò credendo sempre essere più furbo degli altri, rendono questo secondo atto comico davvero. Ma non basta aver persuaso messer Nicia, bisogna ora persuadere la moglie, ed a ciò Ligurio suggerisce, unico mezzo, il confessore, che è un frate. - «Chi disporrà il confessore?» - gli domanda Callimaco. - «Tu, io, i danari, la cattività nostra, la loro,» - risponde l'altro, proponendo che si parli alla madre, perchè poi induca il confessore ad aiutarla, con l'autorità della religione, a persuadere la figlia.

Nel terzo atto la madre è già persuasa, a condizione però che non si gravi la coscienza. I prudenti, ella dice, debbono pigliare dei cattivi partiti il migliore. Nicia intanto ha già dato 25 ducati a Ligurio, che gli ha chiesti per corrompere il frate, ed a tal fine s'avviano ora alla chiesa. «Questi frati,» osserva Ligurio, «sono trincati ed astuti, perchè sanno i loro peccati ed i nostri. Chi non ne è pratico s'inganna e non sa condurli a suo proposito.»

Ed ora comparisce la prima volta sulla scena fra Timoteo, che sotto un certo aspetto può dirsi davvero il personaggio più notevole della commedia. Egli se ne sta in chiesa, tranquillamente discorrendo con una fantesca, e il dialogo, nella sua impareggiabile vivacità e naturalezza, nella sua spensierata tranquillità, fa un contrasto così singolare con tutto quello che deve seguire tra poco, che richiama alla memoria l'arte inarrivabile dello Shakspeare. - «Se voi vi volete confessare,» - dice il frate, - «io farò ciò che voi volete. - Non per oggi,» - risponde la donna; - «io sono aspettata, e' mi basta essermi sfogata un poco così ritta ritta. Avete voi detto quelle messe della Nostra Donna? - Madonna sì. - Togliete ora questo fiorino, e direte due mesi, ogni lunedì, la messa dei morti per l'anima di mio marito. Ed ancora che fosse un omaccio, pure le carni tirano; io non posso far ch'io non mi risenta, quando io me ne ricordo. Ma credete voi ch'e' sia in Purgatorio? - Senza dubbio. - Io non so già cotesto. Voi sapete pure quello che mi faceva qualche volta. Oh! quanto me ne dolsi io con esso voi. Io me ne discostava quanto io poteva; ma egli era sì importuno. Uh! nostro Signore. - Non dubitate, la clemenza di Dio è grande. Se non manca all'uomo la voglia, non gli manca mai la potenza a pentirsi. - Credete voi che 'l Turco passi questo anno in Italia? - Se voi non fate orazione, sì. - Naffe! Dio ci aiuti con queste diavolerie; io ho una gran paura di quello impalare. Ma io veggo qua in chiesa una donna, che ha cert'accia di mio; io vo' ire a trovarla. State col buon dì. - Andate sana.»

Intanto arrivano Nicia e Ligurio, il quale subito annunzia al frate, che vi sono alcune centinaia di ducati da distribuire in limosine, purchè egli dia mano ad aiutarlo in una faccenda, che è però tutta un'invenzione, che egli racconta solo per vedere se, colla promessa delle limosine, può sperare aiuto dal frate, e fidarsene tanto da domandargli ciò che veramente vuole. Vistolo infatti pronto a cedere, gli espone con arte ogni cosa, e ne riceve la promessa desiderata. Arrivano in questo mezzo le donne, e la madre va dicendo alla figlia, che non vorrebbe mai consigliarle nulla di male. «Se però fra Timoteo dirà che non c'è carico di coscienza, tu puoi stare tranquilla.» La figlia non sa persuadersi di dovere «esser cagione che un uomo muoia per vituperarla.» E qui di nuovo entra in campo il frate, e fa prova di tutta la sua destrezza. «Io sono stato in su i libri a studiare più di due ore questo caso, e dopo molte esamine, io trovo di molte cose che in particolare e in generale fanno per noi.... Voi avete, quanto alla coscienza, a pigliare questa generalità, che dove è un ben certo e un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi avrete un figliuolo, acquisterete un'anima a messer Domenedio.... La volontà è quella che pecca, non il corpo, e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi gli compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltre di questo, il fine si ha a riguardare in tutte le cose. Il fine vostro si è riempiere una sedia in Paradiso, contentare il marito vostro.» E così continua, ricordando ancora come la Bibbia dice che le figliuole di Lot non peccarono, perchè la loro intenzione fu buona, concludendo, che si tratta d'un peccato veniale, il quale va via con l'acqua benedetta. «A che mi conducete, Padre?» esclama qui la povera Lucrezia, e promette, confusa, di fare il voler loro; ma aggiunge che teme di non poter sopravvivere alla vergogna ed al dolore.

Il quarto atto s'apre con Callimaco, che è nelle angosce dell'incertezza. Un momento spera, un momento dispera. «Sei impazzato?» egli dice a sè stesso. «Non sai che verranno poi il disinganno ed il pentimento, anche se otterrai l'intento? Ma che cosa è il peggio che ti possa mai seguire? Morire ed andare all'Inferno. Vi son però tanti uomini da bene morti ed andati all'Inferno, perchè devi vergognarti d'andarvi tu? Volgi il viso alla sorte. Fuggi il male o, non potendolo fuggire, sopportalo come uomo. Non ti prosternare, non t'invilire come una donna. Ma io non posso restar fermo su questo pensiero,» «perché da ogni parte mi assalta tanto desio di essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira.»

Ora arriva da capo Ligurio, e la trama già ordita si avanza rapidamente al suo fine. Fra Timoteo s'è travestito, ed è divenuto un ausiliario potente e deciso al male, sebbene faccia tutto con la più grande bonomia. «E' dicono il vero quelli che dicono, che le cattive compagnie conducono gli uomini alle forche. E molte volte uno capita male, così per essere troppo facile e troppo buono, come per essere troppo tristo. Dio sa ch'io non pensavo ad ingiuriare persona. Stavami nella mia cella, diceva il mio ufficio, intratteneva i miei devoti; capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intingere il dito in un errore, donde io ci ho messo il «braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforta, che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura.» Tutto ormai procede secondo i desiderî di Callimaco.

Il quinto ed ultimo atto incomincia con un altro soliloquio di fra Timoteo, il quale ha passato la notte senza dormire, per la smania di sapere come siano andate le cose. «Io dissi mattutino, lessi una vita de' Santi Padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada che era spenta, mutai un velo a una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati, che la tengano pulita! E si maravigliano poi se la divozione manca. Io mi ricordo esservi cinquecento immagini, e non ve ne sono oggi venti. Questo nasce da noi che non le abbiamo saputo mantenere la reputazione.» «Noi vi dicevamo orazioni e facevamo processioni, perchè si vedessero sempre immagini fresche. Ora non si fa nulla di queste cose, e poi ci maravigliamo che la cose vadano fredde. Oh quanto poco cervello è in questi miei frati! Ma sento un gran rumore di casa messer Nicia.» Tutti vengono allegri e contenti, per menare la Lucrezia in Santo, ed il frate, ricordandosi delle limosine promesse, fa l'orazione e li benedice. «Chi non sarebbe allegra?» sono le ultime parole della madre in questa commedia, che finisce con una benedizione data in chiesa all'adulterio.

Quello che più stranamente qui ci colpisce, non è il vedere una società in ogni sua parte corrotta, il non incontrare un solo personaggio veramente onesto e virtuoso; ma il vuoto orrendo, spaventoso che è nella coscienza di tutti; il vederli passare dal bene al male, senza quasi accorgersi di mutare. Callimaco s'è innamorato di Lucrezia prima d'averla veduta, solo per averne sentito lodare la bellezza e l'onestà; la sua passione diviene subito irresistibile, nè ha altro che un solo scopo e sensuale. Non può viver così, è disposto a pigliare piuttosto «qualche partito bestiale, crudo e nefando.» Gli balenano un momento l'idea dello scrupolo e la paura dell'Inferno; ma vi sono andati tanti uomini dabbene, può dunque farsi animo e andarvi anch'egli. La sola persona che apparisce onesta è la giovane sposa, la povera Lucrezia, un essere negativo, senza volontà, pienamente in balìa degl'inganni e dei capricci altrui. Quando la madre, il marito, tutti la spingono all'adulterio, perchè abbia un figlio, ella inorridisce e resiste; ma la menano in chiesa, dinanzi al confessore, il quale subito la persuade, che non c'è poi nessun peccato a «riempire una sedia in Paradiso.» Ed ella finisce non solo col rassegnarsi, ma col volersi allegramente godere la vita nell'abisso morale in cui l'hanno precipitata. La più chiara espressione, la più compiuta personificazione di questo stato di cose, si trova in fra Timoteo. Egli dice le sue orazioni e la messa, attende devoto alle immagini ed alla confessione; ma quando, per indurlo ad un'azione infame, gli sono promesse alcune limosine, non si turba punto. Considera che si diranno più messe, s'accenderanno più ceri; esamina i libri sacri e, trovato un sofisma adatto al caso, consente ad aiutare l'adulterio, a persuadere alla povera Lucrezia, che il male è bene, e che, disonorando se stessa, farà cosa grata a Dio. Ben riflette un momento che le cattive compagnie inducono al male anche i migliori; ma ormai ci si trova, e lo conforta il pensare che tutti sono interessati a nasconder la colpa. Spolvera le immagini, rilegge le vite dei Santi Padri, deplora la poca devozione de' suoi tempi; lo domina intanto, sopra ogni cosa, il desiderio di sapere se l'adulterio preparato, e col suo aiuto reso possibile, è riuscito ad votum. Saputo il resultato, li benedice tutti in chiesa.

Non vi pare, dinanzi a questa commedia, di veder sorgere, come evocata dalla vostra coscienza, la tragica figura del Principe, che con la sua spada insanguinata percorre le vie, e con la forza, la violenza, anche l'inganno, costringe i suoi sudditi ad unirsi per formare uno Stato, avere una patria, e, dopo averli disciplinati con l'Arte della Guerra, li conduce dinanzi al nemico, sospingendoli, con l'esempio di Roma, non cristiana, ma pagana, a difendere questo Stato e questa patria col proprio sangue, ed a ricordarsi finalmente, tra i pericoli e le sventure, d'essere uomini? Non vi pare di sentir tuonare la voce potente di Martino Lutero, il quale grida che c'è pure una coscienza, che c'è qualche cosa in essa di sacro e d'inviolabile, ed obbliga così i cattolici stessi a vergognarsi ed a correggersi? La Mandragola, fu già osservato, è la commedia d'una società, di cui il Principe è la tragedia. Questo vuole col ferro rimediare ai mali che quella descrive ridendo, ma dei quali accenna pure la causa riposta. Perciò essa incomincia e finisce nella chiesa. Ivi già i Discorsi ci dissero trovarsi il germe della corruzione italiana, ed ora noi vediamo rappresentato sotto i nostri occhi, come la religione, divenuta puramente formale e meccanica, possa col sofisma giustificare così il male come il bene, e produrre quindi il vuoto nella coscienza. Si direbbe che qui gli uomini commettano il male senza rendersene conto, senza neppure esser cattivi. Le azioni da essi compiute non sono più loro proprî atti. Par che li guidi, che li conduca una forza esteriore, la quale si chiama ora passione, ora istinto, ora consuetudine, pregiudizio, non si chiama mai coscienza. E però solo una forza esteriore può portarvi rimedio. Unica medicina il ferro. Tale fu sempre il pensiero dominante del Machiavelli, ed ogni volta che lo espone, il suo animo si esalta, il suo linguaggio acquista una precisione, una eleganza, una forza che trascina: egli pare allora un uomo ispirato, e diviene superiore a sè stesso. Questo pensiero, che fu il soggetto dominante del Principe, nella Mandragola si vede continuamente balenare da lontano. Lo stile e la lingua dell'autore salirono nei due scritti a tanta altezza da farli riuscire due grandi capolavori della prosa italiana. Il Machiavelli è di certo il primo nostro prosatore; ogni sua parola esprime un'idea, senza inutili ornamenti, senza artifizî, senza sforzo alcuno. Gli uomini, gli avvenimenti, le cose stesse sembrano aver trovato il loro proprio linguaggio, e parlare direttamente al lettore. Egli ha tutto il mirabile atticismo che è sulla bocca del popolo fiorentino, qualche volta riproducendone con singolare vigore anche gl'idiotismi, non sempre grammaticalmente corretti. Dal latino piglia ciò che è più necessario a dar forza, dignità al suo stile. E se questa imitazione prevale qualche volta un po' troppo in altre opere, di rado assai ciò gli succede nel Principe, e meno ancora nella Mandragola, dove i tesori della lingua parlata si manifestano liberamente, largamente in tutta la loro freschezza, in tutta la loro vivacità, la loro inesauribile varietà d'armonìa e di colori. Senza mai cader nel volgare, egli è sempre naturale, spontaneo; senza mai cader nell'artificioso, è sempre elegante.

Il Macaulay, che come critico letterario è certo autorevolissimo, ha per la Mandragola un'ammirazione quasi sconfinata. Crede che il Machiavelli abbia in essa provato, come, se si fosse dato al dramma, sarebbe salito alle maggiori altezze, ed avrebbe prodotto un effetto salutare nel gusto e nella letteratura nazionale. Ciò, egli afferma, si deduce non tanto dal grado, quanto dalla natura stessa dell'eccellenza conseguita: «con una corretta e vigorosa descrizione dell'umana natura, tien desta l'attenzione del lettore, senza bisogno d'un intreccio complicato o piacevole, senza la più lontana ambizione a far prova d'arguzia.» Il carattere più originale in tutta la commedia è, secondo lui, quello di Nicia, e lo dichiara perciò superiore ad ogni elogio. E veramente questo sciocco presuntuoso, che, senza mai avvedersene, diviene zimbello di tutti, è il personaggio più ingenuo e più vero, in un mondo nel quale non sembrano avere coscienza di sè, quelli che più dovrebbero averla. Il riso che muove, il comico di cui è sorgente continua, non vengono in noi amareggiati mai da nessuna considerazione estranea. Nicia è quindi nel suo genere perfetto, ed il conoscerlo rallegra artisticamente, senza moralmente affliggere.

Nella Mandragola v'è però un lato più serio, che è sfuggito al Macaulay, come gli è sfuggito quello che n'è il lato più debole. Se noi guardiamo alla unità fondamentale, al concetto dominante della commedia, Fra Timoteo è il personaggio che richiama la nostra attenzione principale. Il comico si unisce in esso ad una satira sanguinosa e profonda della società italiana, e possiamo quindi assai meglio riconoscere l'altezza del genio di colui che creava il singolare carattere. È però certo ancora, che il nostro riso è in questa commedia, assai spesso fermato, soffocato a mezzo. La immaginazione è come di tratto in tratto, quasi violentemente, dominata da troppo gravi riflessioni, per osare d'abbandonarsi a sè stessa, alla pura contemplazione estetica. L'autore, è ben vero, sembra occuparsi di rappresentarci solo il lato comico della società che gli sta dinanzi; ma dalla stessa sua rappresentazione sorge inesorabile, nel suo e nel nostro spirito, una satira sanguinosa. È come un nuovo, più alto, profondo e segreto concetto, che apparisce a distanza, senza poter mai entrar davvero nella commedia, perchè rimane sempre in una forma astratta, teoretica di riflessione filosofica. Il Machiavelli non riesce a concretarlo, ad individuarlo poeticamente, comicamente, facendo ricadere il ridicolo e il disprezzo sui veri autori d'una colpa, che ci mette orrore, e che egli invece si ostina a far trionfare ridendo. Ma questa non è l'atmosfera di cui la commedia ha bisogno per vivere, per respirare liberamente; e però i personaggi della Mandragola si trovano qualche volta come a un tratto circondati da una nebbia, che offusca i lineamenti della loro fisonomia reale, determinata e vivente, che pur costituisce il merito principale di questa commedia.

Si è detto da qualche critico, che Fra Timoteo è un buon frate, volendoci l'autore rappresentare in esso solo le conseguenze d'una falsa religione. Resta però a dimostrare come si possa esser buoni, ed aiutare a commettere azioni turpi, benedicendole anche in nome della religione. Che questa, una volta corrotta e mutata in puro formalismo, sia cagione di molti danni, è vero. Non è però vero che l'uomo possa mai trascorrere dal bene al male con animo così sereno e tranquillo, come fa Timoteo. E che dire d'una madre la quale cerca, ridendo, l'aiuto del confessore, per disonorare la propria figlia, la sola onesta, ma che finisce anch'essa col ridere del suo morale naufragio? I sospiri che sembrano qualche volta uscire involontari dal petto dell'autore, quando deplora i tempi in cui è nato e di cui fa parte, valgono solo a provar nuovamente, che neppure nella commedia è possibile sopprimere del tutto quel lato appunto dell'umana natura, che nella Mandragola è troppo spesso dimenticato. La descrizione che essa ci dà dell'uomo e delle sue passioni, se è sempre vigorosa ed originale, non è sempre corretta, come crede il Macaulay. L'arte ha bisogno della realtà vivente, deve rappresentarci la natura umana nella sua integrità, ed è uccisa dalle vivisezioni, che possono giovar solo alla scienza. Al di sotto di ogni delitto, d'ogni corruzione, vuol sentire da vicino o da lontano la voce della coscienza, che anche nella colpa non può mai essere spenta del tutto, se prima non si spegne l'umana natura.

Con tutto ciò, riman sempre certo che la Mandragola fu scritta in un momento di vera ispirazione, nel quale il Machiavelli finì col superare sè stesso. La potenza della rappresentazione quasi sempre felicissima, la freschezza della forma e la profondità del concetto ne fanno un'opera che, non ostante i suoi difetti, è maravigliosa davvero. Ma che egli non fosse nato per esser un grande autore drammatico, lo prova il fatto, che non riuscì mai a compor nulla di simile alla Mandragola. Tutti gli altri suoi tentativi, riconfermarono sempre che, sebbene avesse scritto una commedia eccellente, egli non avrebbe mai saputo dare all'Italia un teatro nazionale. Il suo pensiero dominante, nella forma in cui costantemente lo vedeva, solamente nelle scienze politiche e storiche poteva riuscire davvero originale e fecondo, dando inesauribile materia a nuove riflessioni. La commedia italiana continuò, durante tutto il secolo XVI, a seguire la via in cui era già prima del Machiavelli entrata. E così avvenne che, con una fantasia ed uno spirito comico inesauribili; con una ricchezza, naturalezza, eleganza veramente prodigiose di lingua e di stile; con una vivacità inarrivabile di dialogo, gl'Italiani produssero un numero infinito di commedie, senza mai riuscire ad avere nè un Aristofane nè un Molière. L'arte non è di certo una predica di morale; ma neppure può, senza rinnegare l'umana natura ed uccidere sè stessa, supporre che morale non vi sia, o presumere di ridere là dove ci sarebbe invece materia di pianto.

La Clizia, che venne rappresentata a Firenze nel 1525, fu scritta certo dopo la Mandragola, e la ricorda infatti nella terza scena del secondo atto. L'azione, che in questa è messa nel 1504, è posta nell'altra due anni dopo, cioè nel 1506. Il merito n'è assai inferiore, trattandosi d'una pura e semplice imitazione della Casina di Plauto, essa stessa, com'è ben noto, imitata dal greco. Il Machiavelli, sebbene qui muti in Fiorentini del suo tempo tutti quanti i personaggi della commedia antica, pure s'avvicina qualche volta tanto al suo originale, che addirittura lo traduce; qualche altra invece se ne allontana, abbandonandosi ad inopportune lungaggini e riflessioni astratte: di tanto in tanto però raggiunge qui appunto un'assai grande vivacità. Ma il suo genio comico si dimostra quasi sempre molto inferiore a quello di Plauto, che vuole emulare; e le sentenze e considerazioni generali raffreddano lo stile della commedia. Quasi tutte le aggiunte che vi fa di suo, ne indeboliscono lo svolgimento drammatico, scemandone il vigore comico.

Il prologo comincia col ripetere, in grave e solenne prosa, ciò che il Machiavelli ha già tante volte esposto altrove, che gli uomini cioè sono sempre gli stessi, e però quello che una volta seguì in Atene, è seguìto anche a Firenze. Egli preferisce il caso di Firenze, perchè ora non si parla più greco. - Cleandro ed il suo vecchio genitore Nicomaco si sono innamorati della giovane Clizia, allevata in casa loro, e tenuta come figlia. Nicomaco vuol darla in moglie al servo Pirro, e Cleandro, con lo stesso fine, cerca sventare la trama del padre, proponendo di darla al fattore Eustachio, nel che è secondato dalla madre, la quale s'è avvista d'ogni cosa. - La rappresentazione, che spesso è qui solo una narrazione di tutto ciò, forma l'intero primo atto e parte del secondo. A Plauto bastò invece un semplice dialogo, vivacissimo e comico, tra il servo ed il fattore, per entrar subito nel cuore del soggetto, senza prima narrare quello che doveva poi rappresentare. Ma il Machiavelli non si contenta ancora, ed aggiunge un lungo monologo di Cleandro, che è un paragone tra la vita dell'innamorato e quella del soldato, dialogo che starebbe assai meglio in una dissertazione politica o storica. Più vivace assai, nel secondo atto, riesce la commedia là dove la moglie disputa col marito, dicendo che vuol dare la giovane non al servo, ma al fattore, «che sa attendere alle faccende, ha un capitale, e viverebbe in su l'acqua, quando l'altro vive nelle taverne, nei giuochi, e morrebbe di fame nell'Altopascio.» Rimasta sola, essa ci dà una vivacissima pittura del mutamento che ha fatto il marito, la quale è anche una fedele descrizione della vita dei borghesi fiorentini a quel tempo. «Udiva la messa, trattava gli affari, andava ai magistrati, era ordinato in tutto. Ma da poi che gli entrò questa fantasia di costei, le faccende sue si trascurano, i poderi si guastano, i traffichi rovinano. Grida sempre e non sa di che; entra ed esce ogni dì mille volte, senza sapere quello si vada facendo.» La lingua è vivacissima, piena di motti fiorentini. Si finisce con un dialogo tra il servo ed il fattore, nel quale è molto bene imitato quello con cui incomincia la commedia di Plauto, e ne forma tutto il primo atto.

Nel terzo atto della Clizia, Cleandro si duole di trovarsi in lotta d'amore col padre. E questa sua condizione non apparisce in verità nè molto comica nè punto tragica. Come nella Casina, così nella Clizia, la moglie finalmente s'accorda col marito, per rimettere tutto alla decisione della sorte. S'imborsano i due nomi, si estrae quello di colui che sarà lo sposo, e riesce Pirro, secondo il desiderio di Nicomaco. Questi crede ora di trionfare, ma ha fatto i conti senza l'oste. Tutto lieto, egli fissa col pieghevole servo come avrà luogo il matrimonio, e la casa in cui egli, primo e solo, vedrà la novella sposa. Ma la moglie lo tien d'occhio, non lo perde mai di vista, e sa disporre le cose in maniera, che il povero Nicomaco si ritrova la notte non con la Clizia, ma con un famiglio. Il modo in cui il vecchio marito, tirato nella trappola, diviene ridicolo a tutti, è assai comico, forse anche più originale che in Plauto stesso, sebbene nella maggior parte di questo atto il Machiavelli imiti o anche traduca la Casina. La quale riesce però nel suo insieme molto più naturale, perchè la giovane è promessa sposa ad uno schiavo, non ad un uomo libero come nella Clizia, e la cieca, assoluta sottomissione al padrone è quindi più verosimile, più tollerabile. Nel quinto atto la moglie, mediante la trama che ha ordita, raggiunge il proprio fine, ed il marito umiliato si pacifica finalmente con lei. E qui la commedia veramente finisce, ma il Machiavelli v'aggiunge di suo quattro scene, nelle quali si scopre il padre della Clizia, un gentiluomo che arriva da Napoli; ed allora si celebra il matrimonio di lei con Cleandro. Quest'ultimo incidente è solo annunziato nella commedia di Plauto, il quale, come non fa comparire la fanciulla, nel che è seguìto dal Machiavelli, così non fa comparire neppure Cleandro. Egli capì, che un figlio in lotta d'amore col proprio padre, non può mai riuscir veramente comico; e che era addirittura superfluo il portar sulla scena il padre della fanciulla, il quale in fatti riesce nella Clizia niente altro che una vuota comparsa. Il Machiavelli abbandonò qui il suo modello, e fu a tutto suo danno.

La Commedia in prosa, brevissima, in tre soli atti, è piuttosto una farsa. Il soggetto è preso da un fatto, di cui sembra che si parlasse allora molto in Firenze. - Una serva si trova fra il vecchio padrone Amerigo, che s'è innamorato della comare, moglie di Alfonso, e frate Alberigo, che s'era innamorato della giovane padrona Caterina. Questa, confidandosi colla serva, le dice che ormai è stanca, e vuol cercarsi anch'essa un amante. L'altra allora le parla subito di Alberigo, vincendo facilmente le resistenze di lei. E il frate, divenuto così sicuro del fatto suo, cerca di mandare a vuoto la tresca fra Amerigo e la comare, di cui conosce il marito. Nella casa di costui viene la moglie d'Amerigo, e dopo aver colà visto prima l'amante, aspetta il proprio marito, che crede invece trovarvi la comare, e ne segue una scena clamorosa. In questo mezzo sopravviene, come a caso, il frate, che cerca metter pace fra marito e moglie, i quali, dopo essersi di nuovo ingiuriati, s'accordano finalmente, e pigliano a proprio confessore il frate stesso, che trionfa così ne' suoi intenti. - L'oscenità è qui anche maggiore del solito, l'azione è più narrata che rappresentata, e manca un vero svolgimento di caratteri. Il dialogo ha tutta la vivacità fiorentina del tempo, sebbene non sempre quella che è più propria del Machiavelli. Se questa commedia fosse veramente di lui, come per lungo tempo fu creduto, non aumenterebbe di certo la fama del suo genio comico. Ma dopo che il professor Bartoli pubblicò il prologo e l'argomento d'una farsa del Lasca, intitolata Il Frate, fu dimostrato che essa è una cosa stessa con la Commedia in prosa la quale non può quindi essere più attribuita al Machiavelli.

Resta a dir qualche cosa di due altre commedie, quella chiamata la Commedia in versi, e l'Andria, che è solo una traduzione di Terenzio. L'autenticità della prima fu pure messa in dubbio da parecchi; altri la ritennero invece lavoro giovanile del Machiavelli. Ciò che potrebbe farla creder sua è il fatto, certo notevolissimo, che nel ben noto codice strozziano della Nazionale di Firenze, se ne trova una copia autografa di lui. Ma questa prova esterna perde il suo valore, quando si pensa che nello stesso codice v'è, di mano pure del Machiavelli, la Descrizione della peste, della quale nessuno oggi lo crede autore. In fine della commedia trovansi anche di sua mano scritte le parole: Ego Barlachia recensui, E ciò ribadisce il dubbio, che egli avesse qui copiato alcuni scritti non suoi, del che troveremo più innanzi nuova conferma. Se poi dalle prove esterne passiamo alle interne, sarà assai difficile attribuire al Machiavelli questa Commedia in versi. Fondata tutta sull'equivoco di due nomi, Camillo e Catillo, essa porta sulla scena personaggi e fatti di tempi romani; non ha intreccio, non bellezza di stile, non realtà o verità di caratteri, ed è noiosa tanto che non si può reggere alla lettura. Piena d'eterni monologhi, non ha neppure quei motti e sali fiorentini, che non mancano mai nelle commedie e nelle poesie del Machiavelli. Scorrendola anche a caso, difficilmente si crederà che sieno di lui versi come quelli del monologo che incomincia:

Oh! che disgrazia, oh! che infelicità

È quella di chi vive in gelosia!

Oh! quanti savi tener pazzi fa,

Ma de' pazzi giammai savi non fe' .

Non si mangia un boccon mai che buon sia;

Usasi sempre solo. Adunque egli è

Piacer da mille forche. E spesse volte

Stassi desto la notte a udir quel dice

Sua donna, perchè già n'è sute colte;

Che c'è chi in sogno i fatti suoi ridice.

E così continua per sessanta versi. Un altro monologo incomincia:

Oh! che miseria è quella degli amanti,

Ma molto più di quelli

Ch'hanno i lor modi strani a sofferire!

Io, per me, innanzi vuo' prima morire,

Che seguir tai cervelli.

E continua allo stesso modo per cinquantasei versi. Di simili e di peggiori tutta questa commedia è piena. Il Polidori, che l'ha pubblicata fra quelle del Machiavelli, dubita assai della sua autenticità; l'Hillebrand, che l'accetta come autentica e vi trova qua e là qualche bellezza, conviene anch'egli che è indegna dell'autore della Mandragola. Il Macaulay però non l'accetta per genuina, dicendo che nè i meriti, nè i difetti di essa ricordano mai il Machiavelli. Questa opinione, che fu anche la nostra, è stata recentemente messa fuori d'ogni dubbio dal fatto che in un codice Ashburnham. (572 a c. 52b) Filippo Strozzi scrisse di sua mano che la commedia era sua.

L'Andria è una traduzione della commedia di Terenzio, che porta lo stesso titolo. Paragonandola con l'originale, vi si trovano alcuni luoghi in cui la frase latina non è resa fedelmente, ed altri nei quali la frase italiana è ancora incerta ed oscura, il che farebbe supporre che manchi l'ultima lima. In generale però essa non solo interpetra con fedeltà l'originale latino, ma ha una freschezza ed una spontaneità assai maggiori che nelle più moderne e reputate traduzioni.

Queste sono le commedie del Segretario fiorentino. Ma non dobbiamo tralasciar di ricordare, come fu più volte da altri già osservato, che anche la Sporta, la migliore cioè delle due commedie di Giovan Battista Gelli, sia stata da questo composta sugli abbozzi che ne lasciò il Machiavelli. E ciò, sebbene da alcuni sia stato negato, è pur messo fuori d'ogni dubbio dal Ricci, il quale nel suo Priorista, enumerando le opere dello zio, dice chiaro che questi compose ancora, «pigliando il concepto dall'Aulularia di Plauto, un'altra commedia detta la Sporta; ma perchè gli fragmenti di essa restarono in mano di Bernardino di Giordano, essendo capitati alle mani di Giovan Battista Gelli, aggiuntovi poche cose, la diede fuori per sua.» Questi, nella sua dedicatoria, dice d'avere ritratto il caso dal vero, e nel prologo riconosce di aver voluto imitare Plauto e Terenzio; nella scena IV dell'atto III, ricorda la Mandragola e la Clizia del Machiavelli, senza altro aggiungere. che egli però, non solo ne leggesse molto gli scritti, ma spesso anche li imitasse, è cosa certa. Il concetto stesso della Circe, che è il miglior suo lavoro, trovasi già nell'Asino d'Oro del Machiavelli, che lo aveva preso dagli antichi; e la sua seconda commedia, intitolata l'Errore, fu in parte almeno, come egli medesimo implicitamente riconosce, imitata dalla Clizia. Quanto alla Sporta, leggendola con attenzione, si può qualche volta credere di ritrovarvi la mano del Segretario fiorentino, nella più grande naturalezza e vivacità del dialogo, ed in alcuni monologhi, che hanno le ben note riflessioni di lui. Il Gelli, secondo noi, con la introduzione di episodî e di personaggi secondarî, arruffò non poco l'intreccio della commedia, della quale il Machiavelli assai probabilmente aveva disteso solamente l'ordito, cominciando qua e là a colorirne le scene e i dialoghi colla sua consueta vivacità. Sono però ipotesi, giacchè una volta perduto questo suo abbozzo, non potrà mai con certezza essere determinata la parte che gli spetta nella composizione della Sporta. In ogni modo tutto ciò potrebbe assai poco aggiungere o levare alla sua fama di autore comico, la quale riposerà sempre sulla Mandragola, sola commedia in cui il Machiavelli dette prova d'un vero genio drammatico. Fu un momento di felice ispirazione, di vera creazione poetica, che non si ripetè una seconda volta in tutta la sua vita.

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