CAPITOLO XI.

L'Asino d'Oro. - I Capitoli ed altre poesie minori. - Il Dialogo sulla lingua. - La Descrizione della Peste. - Il Dialogo dell'ira e dei modi di curarla. - La Novella di Belfagor arcidiavolo. - Altri scritti minori.

A tempo avanzato il Machiavelli scrisse, specialmente in questi anni, alcune opere minori, in versi ed in prosa, delle quali dobbiamo ora occuparci. Quanto alle poche poesie, i suoi versi sono facili, ed hanno spesso una satirica e pungente vivacità; ma somigliano troppo alla prosa. Vi si trovano di tanto in tanto energiche espressioni, pensieri profondi e lungamente meditati; ma sono massime filosofiche e considerazioni che ricordano i Discorsi ed il Principe; quello che invece manca è la forza delle immagini, la originalità della rappresentazione, in una parola, tutte le qualità essenziali a costituire un vero poeta. Questi versi nondimeno sono spesso utili a farci indovinare lo stato d'animo dell'autore, e ci aiutano quindi a meglio conoscere la storia del suo spirito.

L'Asino d'Oro è il principio d'un poema in terza rima, a cui il Machiavelli lavorava nel 1517, come apparisce dalla lettera che in quell'anno stesso indirizzò a Lodovico Alamanni, nella quale si vede che dava molta importanza a questo suo lavoro. Pure, dopo averne scritto otto brevissimi capitoli, lo abbandonò, mancandogli la vena e la voglia di continuare una narrazione senza intreccio, senza passione e senza attrattiva. Il titolo è preso da Apuleio e da Luciano, il soggetto dal dialogo di Plutarco, Il Grillo. Di tanto in tanto vi si scorge una certa pretensione d'imitare la Divina Commedia; ma in sostanza è, o almeno voleva essere, una satira de' Fiorentini del suo tempo. Il poeta ci dice che, dopo essersi un pezzo quetato dal mordere ne' suoi scritti or questo or quello, è stato a un tratto ripreso dalla vecchia smania, stimolato specialmente dai tempi, che offrono alla satira larga materia. Egli entra in un'aspra selva, nella quale, invece delle tre fiere di Dante, incontra una delle donzelle di Circe, circondata da animali che conduce, e che sono uomini trasformati in bestie. È da lei menato in un palazzo, dove viene avvertito che sarà mutato in bestia anch'egli. Intanto cena e sta in compagnia di lei, ne descrive le bellezze minutamente, ma senza eleganza o finezza d'arte:

Avea la testa una grazia attrattiva

Tal ch'io non so a chi me la somigli,

Perchè l'occhio al guardarla si smarriva.

Sottili, arcati e neri erano i cigli,

Perchè a plasmargli fur tutti gli Dei,

Tutti e' celesti e superni consigli.

Lasciato solo, si pone subito da filosofo a meditare sulle cagioni

Del varïar delle mondane cose,

ed entra nelle ben note sue considerazioni. Ciò che fa rovinare dalle loro maggiori altezze i potenti è il non esser mai satolli del potere. Venezia cominciò a decadere, quando volle allargarsi sulla terraferma. Sparta e Atene cominciarono a decadere, quando ebbero domati i vicini. Le città della Germania, invece, che hanno solo sei miglia di territorio, sono libere e tranquille. Firenze, cui non fece paura l'imperatore Arrigo IV, quando essa aveva i suoi confini presso alle mura, oggi ha invece paura d'ognuno. Certo un governo dura assai più quando ha buone leggi e buoni costumi; ma anche allora non siam certi di poter esser sempre tranquilli, perchè le cose umane mutano inevitabilmente.

La virtù fa le regïon tranquille;

E da tranquillità poi ne risolta

L'ozio, e l'ozio arde i paesi e le ville.

Poi, quando una provincia è stata involta

Ne' disordini un tempo, tornar suole

Virtute ad abitarvi un'altra volta.

Quest'ordine così permette e vuole

Chi ci governa, acciò che nulla stia

O possa star mai fermo sotto 'l sole.

Così è stato e sarà sempre. Il bene succede al male e viceversa; l'uno è cagione dell'altro. S'ingannano assai coloro i quali pensano di salvarsi coi digiuni e colle orazioni da queste vicende.

Creder che senza te, per te contrasti

Dio, standoti ozïoso e ginocchioni,

Ha molti regni e molti Stati guasti.

Son ben necessarie al popolo le orazioni, e matto sarebbe chi gliele vietasse;

Ma non sia alcun di sì poco cervello,

Che creda, se la sua casa ruina,

Che Dio la salvi senz'altro puntello;

Perchè e' morrà sotto quella ruina.

Questa, come ognun vede, non è poesia, sono pagine dei Discorsi tradotte in versi. Negli ultimi tre capitoli c'è meno filosofia. La bella donna conduce il poeta a vedere gli animali, ed egli ce ne dà prima un elenco, poi si ferma a parlare con un grosso porcello, cui domanda se vuol tornare uomo, ed in risposta ha il ben noto elogio delle condizioni in cui sono gli animali, privi di cure e di pensieri tormentosi, condizioni che il porcello si sforza di provare essere, sotto ogni aspetto, preferibili a quelle dell'uomo.

Secondo il Busini, nell'Asino d'Oro s'alludeva a Luigi Guicciardini ed agli amici de' Medici, ma egli non sa poi dirci altro di più preciso. Certo il Machiavelli stesso dichiara, che nelle bestie da lui vedute ritrovò persone che aveva già conosciute, che gli eran prima parse Fabî e Catoni, ma che più tardi colle opere riuscirono pecore e montoni; e per questa ragione egli voleva morderle. Il poema resta però interrotto prima che avvenga la trasformazione in asino, cioè appunto là dove le allusioni dovevano cominciare a divenire più trasparenti; onde se non riuscì al Busini ed ai suoi contemporanei l'indovinarle, molto meno può riuscire oggi a noi.

Seguono nelle Opere, poesie minori, e prima il breve Capitolo dell'Occasione, che venne indirizzato a Filippo dei Nerli, e fu creduto imitazione d'un epigramma greco dell'Antologia Planudea; ma invece, come venne dimostrato dal prof. Piccolomini, è quasi tradotto dalla imitazione che ne fece Ausonio nel suo epigramma XII. Più lungo è il Capitolo di Fortuna, indirizzato a Giovan Battista Soderini. Con molta evidenza e naturalezza, con qualche felice immagine, il Machiavelli torna qui ad esporre le sue idee sulla Fortuna. Colui è veramente felice, che sa adattarsi alle ruote su cui essa gira; ma non basta, perchè mutano continuamente il loro moto. Bisognerebbe quindi essere pronti a saltar di ruota in ruota, cosa che non consente l'occulta virtù che ci governa: noi non possiamo mutar persona e quindi natura. Assai spesso avviene perciò, che quanto più siamo saliti in alto, tanto più precipitiamo in basso, e la Fortuna mostra allora tutta la sua potenza.

Avresti tu mai visto in loco alcuno,

Come un'aquila in alto si trasporta,

Cacciata dalla fame e dal digiuno?

E come una testuggine alto porta

Acciocchè il colpo nel cader la 'nfranga,

E pasca sè di quella carne morta?

Così fa la Fortuna.

Dopo questo Capitolo, che è certo dei migliori, segue l'altro Della Ingratitudine, indirizzato a Giovanni Folchi. È assai più tirato via; ma v'è pure qualche notevole allusione alle sventure dell'autore. Il dente dell'altrui invidia che mi morde, così comincia il Machiavelli, renderebbe maggiore la infelicità che mi ha colpito, se le Muse non rispondessero alle corde della mia cetra. So di non essere veramente un poeta, ma spero di coglier pure qualche ramo d'alloro nella via che n'è piena.

Cantando, dunque, cerco dal cuor torre,

E frenar quel dolor de' casi adversi,

Cui dietro il pensier mio furioso corre;

E come del servir gli anni sien persi,

Come in fra rena si semini ed acque,

Sarà or la materia de' miei versi.

Quando alle stelle dispiacque la gloria dei mortali, nacque l'Ingratitudine figlia dell'Avarizia, e dei sospetti, che ha la sua sede principale nelle Corti e nel cuore dei principi. Essa colpisce con tre saette avvelenate: non compensando i benefizî ricevuti, dimenticandoli affatto, e finalmente ingiuriando addirittura il benefattore.

Questo colpo trapassa dentro all'ossa,

Questa terza ferita è più mortale,

Questa saetta vien con maggior possa.

Poi aggiunge, che quando il popolo comanda, la sua ingratitudine è tanto maggiore, quanto è maggiore la sua ignoranza; e però ne segue che i buoni cittadini sono da esso sempre male rimunerati, qualche volta spinti sino anche a meditar la tirannide. Ricorda la storia greca e la romana, Aristide, Scipione e Cesare, per venire poi ai suoi tempi, nei quali trova che i principi sono divenuti anche più ingrati dei popoli, esempio il gran capitano Consalvo, che

al suo re sospetto vive

In premio delle galliche sconfitte.

Questa allusione prova che il Capitolo non fu scritto più tardi del 1515. E finalmente il Machiavelli conchiude, quasi ammonendo sè stesso:

Dunque non sendo Ingratitudin morta,

Ciascun fuggir le Corti e Stati debbe;

Che non c'è via che guidi l'uom più corta

A pianger quel ch'e' volle, poi che l'ebbe.

Nel Capitolo dell'Ambizione, indirizzato a Luigi Guicciardini, si torna di nuovo alle considerazioni filosofico-politiche. Esso non potè essere scritto molto dopo del precedente, perchè allude più volte, come di recente seguìta, alla fraterna lite dei Petrucci in Siena, la quale scoppiò l'anno 1516. L'Ambizione è cominciata da Caino, e non ha mai abbandonato i mortali. Perciò il mondo non ha pace, i regni, gli Stati furono disfatti, i principi rovinati. E se tu chiedi, perchè essa in un caso riesce nel suo intento, nell'altro no, io ti dico che questo dipende dall'essere o non essere all'ambizione unita la ferocia dell'animo. Ma se qualcuno volesse incolpare la natura, perchè non fa ora nascere fra noi uomini che abbiano questa energia, io gli ricorderei, che l'educazione può sempre supplire, dove manchi la natura. L'educazione fece un giorno fiorente e forte l'Italia, che

Or vive (se vita è vivere in pianto)

Sotto quella rovina e quella sorte,

Ch'ha meritato l'ozio suo cotanto.

Se tu in fatti rivolgi a questa lo sguardo, non vedrai altro che desolazione e stragi. I padri sono uccisi coi figli; molti vanno fuggendo in straniere regioni; le madri piangono il destino delle figlie; le fosse e le acque sono sozze di sangue, piene di membra umane;

Dovunque tu gli occhi rivolti e giri,

Di lagrime la terra e sangue è pregna,

E l'aria d'urli, singulti e sospiri.

«Tutto questo è nato dall'Ambizione. Ma a che vado io discorrendo lontano, ora che essa sopra i monti di Toscana vola, ed ha già messo tante faville tra quelle genti piene d'invidia, che arderà le terre e le ville, se grazia e ordine migliore non la spegne?» Qui il Machiavelli allude alla guerra contro Urbino, cominciata appunto in quegli anni, e condotta da Lorenzo de' Medici, che partì da Firenze nel maggio 1516.

Poco di notevole hanno le terzine del Capitolo Pastorale e la Serenata in ottava rima. Il soggetto non si presta nè alla satira, nè alle considerazioni filosofiche; il merito dovrebbe essere puramente poetico, e la penna del Machiavelli procede quindi più fiacca. Le ottave sono abbastanza disinvolte, ma dopo quelle del Poliziano e dell'Ariosto, c'è poco in esse da ammirare. Scrisse ancora sei Canti Carnascialeschi di vario metro. Alcuni hanno brio e naturalezza, ma non v'è altro. Mancano la freschezza e la vivace descrizione che s'incontrano così spesso in quelli di Lorenzo de' Medici, il quale fu anche l'inventore del genere. Le oscenità che vi abbondano, restano perciò semplici allusioni indecenti. Nel primo, il Canto dei Diavoli, questi discendono saltellando sulla terra, e si dichiarano autori di tutti i mali e di tutti i beni che vi sono, incitando gli uomini a seguirli. Nel secondo, Canto d'amanti disperati e di donne, gli amanti piangono le pene invano patite per amore, e dichiarano che perciò preferiscono ora l'Inferno; le donne vorrebbero averne pietà, ma ormai è tardi, non è più tempo d'amore, e però esse concludono avvertendo le giovani a non aver troppi rispetti, per non pentirsi poi invano del tempo perduto. Nel terzo, che è intitolato Canto degli Spiriti beati, si deplorano i mali che tribolano il genere umano, specialmente l'Italia.

Tant'è grande la sete

Di gustar quel paese,

Ch'a tutto il mondo diè la legge pria,

Che voi non v'accorgete

Che le vostre contese

Agl'inimici vostri apron la via.

. . . . . . . . .

Dipartasi il timore,

Nimicizie e rancori,

Avarizia, superbia e crudeltade.

Risorga in voi l'amore

De' giusti e veri onori,

E torni il mondo a quella prima etade.

Così vi fien le strade

Del cielo aperte alla beata gente,

Nè saran di virtù le fiamme spente.

Da questi versi si vede chiaro, come anche in mezzo al brio ed all'oscenità dei Canti Carnascialeschi, si facciano strada le solite riflessioni del Machiavelli, l'eterno pensiero della patria italiana e delle antiche virtù. Il Canto d'uomini che vendono le pine, e il Canto de' ciurmadori s'avvicinano più degli altri ai veri componimenti carnascialeschi. Seguono un'assai breve canzone, due ottave ed un sonetto. La canzone che incomincia: Se avessi l'arco e l'ale, è parsa a qualche critico moderno imitata da un epigramma greco dell'Antologia Palatina; ma fu dal Piccolomini giustamente osservato che non solo è assai difficile provare che vi sia davvero imitazione visibile, ma che il codice unico contenente l'Antologia di Cefala, cioè il Palatino, fu fatto conoscere dal Salmasio assai dopo la morte del Machiavelli. Le due ottave ed il sonetto non hanno molto valore, sono versi amorosi, come pure amoroso è l'altro sonetto che trovasi a stampa nella sua lettera del 31 gennaio 1515. Dei tre sonetti a Giuliano de' Medici e dell'epigramma sul Soderini abbiamo parlato più sopra. Non è difficile che qualche altra breve poesia del Machiavelli sia rimasta inedita, giacchè soleva comporne spesso per suo passatempo. Nella Vaticana trovasi un suo sonetto giovanile, indirizzato al padre, e poco intelligibile, perchè scritto, con allusioni oscure, in una lingua piena di riboboli fiorentini, che ricordano il Burchiello.

Venendo ora alle prose letterarie, cominceremo innanzi tutto dal Dialogo sulla Lingua, nel quale si disputa, se la lingua in cui scrissero Dante, il Petrarca ed il Boccaccio, debba chiamarsi italiana o fiorentina. Le ragioni che furono addotte dal Polidori per negare che questo dialogo sia veramente del Machiavelli, non hanno secondo noi, valore di sorta. A lui pare impossibile che il Machiavelli, il quale disse che la venuta dei barbari, fra tanti mali, aveva all'Italia portato l'inestimabile vantaggio della nuova lingua, potesse poi, come si legge nel Dialogo, biasimare aspramente coloro che la chiamano italiana e non fiorentina o toscana. Ma la disputa intorno al nome, sollevata nel 1513 in Firenze, negli Orti Oricellari, dal Trissino, che fece conoscere la prima volta il De Vulgari Eloquentia di Dante, non implica nulla quanto al merito della lingua. Al Polidori sembra impossibile del pari, che colui il quale deplorò sempre i mali d'Italia, accusi poi Dante d'aver profetato una grande rovina a Firenze, aggiungendo che la fortuna, per farlo bugiardo, l'ha condotta invece «al presente in tanta tranquillità e sì felice stato.» Tali parole gli sembrano un'allusione favorevole al governo del principato, cosa di cui non poteva, dice, il Machiavelli esser capace. Ma questi lodò più volte le condizioni in cui Firenze si trovava al suo tempo, anche sotto i Medici, come lodò i Medici stessi. Al principato, che cominciò solo dopo la sua morte, non poteva certo alludere nel Dialogo. Ma tutti i dubbi del Polidori o di altri debbono cadere innanzi all'autorevole testimonianza del Ricci, il quale afferma chiaro che quel lavoro è del Machiavelli, «quantunque in alcune parti lo stile sia diverso dal solito.» Ed aggiunge, che «Bernardo Machiavelli figlio di detto Niccolò, oggi di età d'anni 74, afferma ricordarsi averne sentito ragionare a suo padre, e vedutogliene spesso fra le mani.» V'è qualche volta, è vero, un certo sussiego e classicismo insolito in lui, non però mai tale da giustificare i dubbi, che si vorrebbero muovere sull'essere egli l'autore del Dialogo. Queste diversità di forma non solamente si spiegano con la natura del soggetto, erudito e letterario, ma son poche, e trovan pure qualche riscontro nei Discorsi, nel Principe e nelle Storie. In tutto il resto non mancano punto la solita vivacità, evidenza e spontaneità del Machiavelli. Se poi si esamina la sostanza, vi si trovano paragoni, osservazioni, pensieri così acuti ed originali, così propri di lui, che ogni dubbio deve di necessità sparire del tutto.

Questo scritto fu assai probabilmente composto nell'autunno del 1514. L'anno innanzi era stato a Firenze, ed aveva frequentato gli Orti Oricellari il Trissino. Egli che, secondo il Gelli, come abbiamo già accennato, fu primo a far conoscere ai Fiorentini il De Vulgari Eloquentia di Dante, sollevò anche la disputa sul nome da darsi alla nostra lingua. Appoggiandosi alle dottrine sostenute dal sommo poeta, affermava doversi essa chiamare italiana, non toscana, nè fiorentina. Ed il Machiavelli, col suo Dialogo, pigliava parte alla disputa, che s'accese allora in Firenze assai vivamente. Incomincia, con una forma, come dicemmo, un po' più pomposa del solito, ad esporre quel concetto, che non manca quasi mai del tutto nelle sue opere, piccole o grandi che sieno, cioè che il maggiore obbligo e più sacro noi l'abbiamo verso la patria. Aggiunge poi, che fu mosso a scrivere questo suo Dialogo dalla «disputa accesa più volte, nei passati giorni, se la lingua, cioè, in cui scrissero i poeti e prosatori fiorentini, sia da chiamarsi italiana, toscana o fiorentina. Vogliono alcuni, egli continua, che ad ogni lingua dia il proprio carattere la particella affermativa, e così si avrebbero la lingua del sì, la lingua d'och e di huy, come di yes, d'hyo (ja), ecc. Ma, se ciò fosse vero, parlerebbero la stessa lingua Siciliani e Spagnuoli. Ond'è che altri sostengono invece, che solo quella parte del discorso che si chiama verbo, è la catena e il nervo della lingua. Le lingue che variano nei verbi, sono, secondo questi tali, veramente diverse; quelle, invece, che variano nei nomi o altro, ma non nei verbi, hanno solamente una qualche dissomiglianza fra di loro. Le provincie d'Italia variano molto nei nomi, meno nei pronomi, assai poco nei verbi, e però s'intendono tutte facilmente l'una coll'altra. Anche gli accenti variano il parlare degl'Italiani, non però tanto che essi non s'intendano fra loro, come si vede fra i Toscani, che fermano le parole sulle ultime vocali, e i Romagnuoli, i Lombardi, che le sospendono. Considerate adunque quali sono le differenze in questa lingua italica, bisogna vedere quali, fra i parlari che la formano, tiene la penna in mano. I nostri primi scrittori, fatta qualche rara eccezione, sono fiorentini. Il Boccaccio dice, che egli scrive in lingua fiorentina; il Petrarca non ne parla; Dante, è vero, afferma di scrivere in lingua curiale, e danna ogni lingua particolare d'Italia, compresa la fiorentina; ma egli era nemico di Firenze, e la biasimava in ogni cosa. Inoltre parlare comune è quello che ha più del comune che del proprio, e viceversa proprio è quello in cui è più del proprio che del comune; giacchè non si trova nessuna lingua, la quale non abbia accattato qualche cosa dalle altre nel conversare. E con le nuove dottrine e le nuove arti, è pur necessario che vengano vocaboli nuovi di là appunto donde vengono quelle arti e dottrine. Questi vocaboli però sono sempre modificati con i modi, i casi e gli accenti della lingua in cui entrano, e formano una sola cosa con essa; altrimenti le lingue parrebbero rappezzate, e non tornerebbero bene. Così fra noi anche i vocaboli forestieri diventano fiorentini. In questo modo le lingue dapprima arricchiscono, più tardi si corrompono per la soverchia moltitudine di vocaboli nuovi la imbastardiscono e fanno divenire un'altra cosa. Ma tutto questo segue in uno spazio lunghissimo di tempo, tranne il caso d'una invasione, perchè allora la lingua si perde affatto in breve tempo. In questi casi, bisogna, volendo, riassumerla per mezzo degli scrittori di essa, come si fa oggi col latino e col greco. Ora io vorrei chiedere a Dante, che cosa è in lui, che non sia scritta in fiorentino?» E qui, il Machiavelli comincia a disputare in forma di dialogo, per dimostrare che, salvo poche, tutte le parole adoperate dall'immortale poeta sono prettamente fiorentine.

Ogni lingua, egli osserva, è di necessità più o meno mista; ma quella «si chiama d'una patria, la qual converte i vocaboli che ella ha accattati da altri, nell'uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano, ma la disordina loro, perchè quello che ella reca da altri, lo tira a sè in modo che par suo». E si spiega poi anche meglio, ricorrendo ad uno de' suoi soliti paragoni. «I Romani avevano negli eserciti due legioni di loro cittadini, che erano in tutto 12,000 uomini, e 20,000 di altre nazioni; nondimeno, siccome quelli erano veramente il nervo dell'esercito, così esso si chiamava sempre romano. E tu che hai messo nei tuoi scritti,» così dice il Machiavelli a Dante, «venti legioni di vocaboli fiorentini, ed usi i casi, i tempi, i modi, le desinenze fiorentine, vuoi che i vocaboli avventizî facciano mutar nome e natura alla lingua? Se la chiami comune, perchè s'usano in tutta Italia i medesimi verbi, questi sono pure variati in modo che sono da provincia a provincia un'altra cosa. Quello che t'inganna è che tu e gli altri Fiorentini che scrissero, foste celebrati tanto, che i nostri vocaboli furono perciò adottati e seguìti in tutta Italia. Paragona in fatti i libri scritti nelle altre provincie prima e dopo di noi. Negli uni non troverai le parole fiorentine, che abbondano negli altri, il che è una riprova che imitarono i nostri. Anche oggi gli scrittori delle altre parti d'Italia imitano con mille sudori la nostra lingua, nè vi riescono sempre, perchè la natura può più dell'arte. E quando adoperano termini loro, li spianano alla toscana. Nelle commedie poi, dove è necessario usare le parole e i motti familiari, che per riuscire noti debbono esser propri, i non Toscani hanno poca fortuna. Se uno di essi vorrà usare i motti della patria sua, farà una veste rattoppata; se poi non vorrà usarli, non conoscendo quelli di Toscana, farà una cosa monca, che non avrà la perfezione sua. Io voglio portare in esempio una commedia (I Suppositi) scritta da uno degli Ariosti da Ferrara. Vedrai in essa una gentil composizione, uno stile ornato ed ordinato; vedrai un nodo bene accomodato e meglio sciolto; ma la vedrai priva di quei sali che ricerca una commedia, non per altra cagione che per la detta, perchè i motti ferraresi non gli piacevano e i fiorentini non sapeva.» Cita poi alcuni esempi di espressioni ferraresi, che stanno assai male fra le toscane, e conchiude che per iscrivere bene bisogna intendere tutte le proprietà della lingua, e per intenderle, andare alla fonte, altrimenti si fa una composizione dove una parte non corrisponde coll'altra. «La poesia passò di Provenza in Sicilia, di quivi in Toscana, più di tutto in Firenze, e ciò per esservi la lingua più adatta. Ora poi ch'essa s'è così formata, si vedono Ferraresi, Napoletani, Veneziani scrivere bene, avere ingegni attissimi allo scrivere, il che non sarebbe seguìto, se i grandi scrittori fiorentini non avessero prima dimostrato loro, come dovevano dimenticare quella naturale barbarie, nella quale il loro patrio linguaggio li sommergeva. Si deve conchiudere, adunque, che non v'è una lingua curiale o comune d'Italia, perchè quella cui si dà questo nome, ha il fondamento suo nella fiorentina, alla quale, come a vero fonte, è necessario ricorrere, e però anche gli avversari, non volendo esser veri pertinaci, hanno a confessarla fiorentina.»

Se qui si considera in quali condizioni si trovava allora, fra gli eruditi italiani, la scienza filologica; se si ricorda quanti elogi furono, ai giorni nostri, fatti a Leonardo Aretino, solo per avere egli ragionato della grande differenza che passava fra il latino parlato e lo scritto; se si pensa che il Machiavelli non era nè erudito nè filologo, le sue osservazioni debbono dare sempre maggior prova dell'ingegno originale che aveva. Dire che l'indole propria delle lingue non sta nel maggiore o minor numero di parole che esse hanno in comune; ma nel verbo, sola parte del discorso che veramente si modifichi nella lingua italiana, la quale ha coniugazioni, non declinazioni, val quanto dire che la grammatica costituisce il carattere distintivo delle lingue. Ora questo è il concetto appunto col quale Federigo Schlegel iniziò la filologia comparata nel 1808. Il Dialogo sulla lingua prova chiaro, sebbene nessuno lo abbia finora osservato, che la stessa idea era stata tre secoli prima intravveduta dal Machiavelli. È ben vero, che nell'esporre le sue osservazioni, egli dice spesso: vogliono alcuni; e ciò potrebbe far supporre che avesse preso da altri il suo concetto fondamentale. Ma è prima di tutto da ricordare, che il Machiavelli, come abbiam visto altrove, dichiarò che credeva opportuno fare uso di queste o di altre simili parole, a conciliarsi meglio l'animo del lettore, quando esponeva idee e considerazioni sue proprie, che potevano sembrare troppo nuove o ardite. Oltre di che, non solamente non si trova, per quanto noi sappiamo, negli eruditi del tempo una qualche traccia anche lontana del concetto suo; ma questo fu sino quasi ai nostri giorni combattuto in Italia, dove, più lungamente che altrove, la tendenza generale della filologia fu di sostenere invece, che la somiglianza delle parole costituisce la parentela delle lingue. Il Machiavelli, non solo partì dal principio opposto, ma provò che il concetto era suo, sapendone cavare conseguenze assai giuste, allora nuove ed arditissime. Certo i tempi non erano maturi, nè egli poteva avere le cognizioni necessarie a promuovere la grande rivoluzione scientifica, che fu possibile solo nel principio del secolo XIX. Pure anche dalle osservazioni secondarie, dalle applicazioni che fece del suo concetto, si vede assai chiaro che egli ne comprendeva tutto il valore. L'importanza che dà non solo alle forme grammaticali, ma anche all'accento; la confutazione che fa dell'ipotesi, sostenuta da Dante, d'una lingua curiale composta di più dialetti, che il Machiavelli dice giustamente sarebbe una lingua rappezzata e non viva; la esposizione del come il parlare dei Fiorentini, pure accettando molte parole dagli altri dialetti, le assimilò e fece sue, dando ad esse le desinenze e le forme grammaticali sue proprie; tutto ciò, dato come conseguenza logica del primo concetto fondamentale, è ragionato in modo che par di sentire il linguaggio d'un filologo moderno. E così sempre più si conferma che, quando si tratta di scoprire i caratteri sostanziali dei fenomeni sociali, morali o intellettuali, e determinarne le leggi, il genio del Machiavelli apparisce in tutta quanta la sua potenza, ed il suo occhio vede assai lontano, penetra assai al disotto della superficie.

Di un altro scritto, che è intitolato la Descrizione della Peste di Firenze dell'anno 1527, ed ha forma di epistola, è messa, con assai maggior ragione, in dubbio l'autenticità, sebbene in favore di esso militi il fatto, che ne abbiamo una copia senza dubbio di mano del Machiavelli. In questo autografo sono però giunte e correzioni fatte da Lorenzo di Filippo Strozzi, al quale, in più parti del manoscritto stesso, è da altra mano antica attribuita tutta la Descrizione. Ciò fa credere che il Machiavelli, come nello stesso codice aveva copiato la Commedia in versi, che non si può creder sua, così copiasse ancora uno scritto dell'amico Lorenzo Strozzi, che poi lo rivide e corresse di sua mano, il che non avrebbe osato fare con una composizione del suo amico, tanto a lui superiore. Ogni dubbio scomparisce poi, quando appena si comincia a leggere questa Descrizione, che non sarà mai attribuita al Machiavelli da nessuno che ne abbia con attenzione letto le opere.

Lasciamo pure da parte, che l'anno 1527 fu quello in cui il Machiavelli morì, e non è certo credibile che, fra i tanti gravissimi pensieri che lo assediavano allora, egli avesse trovato il tempo per mettersi a fare una descrizione della peste. Questa era cominciata alcuni anni prima, e la data potrebbe perciò essere inesatta. Ma si può egli supporre che, nel 1527 o qualche anno prima, il Machiavelli parlasse d'un suo nuovo matrimonio, come fa nella Descrizione, quando si sa che a lui sopravvisse la Marietta, la sola moglie che egli ebbe? E chi vorrà mai crederlo autore di uno scritto che incomincia con un periodo contorto e pedantesco come questo: «Non ardisco in sul foglio porre la timida mano, per ordire sì noioso principio, anzi quanto più le tante miserie per la mente mi rivolgo, più l'orrenda descrizione mi spaventa; e sebbene il tutto ho visto, mi rinnuova il raccontarlo doloroso pianto; nè so anche da che parte tale cominciamento fare mi deggia, e se lecito mi fosse, da tale proponimento mi ritrarrei.» E continua sempre allo stesso modo. Ecco in fatti come descrive la bellezza d'una donna: «Candido avorio sembravano le fresche sue e delicate carni, e sì gentili e morbide da riserbare d'ogni quantunque leggiero toccamento forma, non meno che di un verde prato la tenera rugiadosa erbetta i sospesi vestigi dei leggieri animaletti faccia.... Ma che dirò io della melliflua e delicata bocca tra due piagge di rose vestite e di ligustri posta, la quale in tanta mestizia parea, che di un celeste riso non so come splendesse?... Le rosate labbra sopra gli eburnei e candidi denti accesi rubini parieno, e perle orientali insieme miste. Aveva da Giunone del soavemente esteso naso la forma tolta, così come da Venere delle candide e distese guance, ecc.» Se vuol dire d'uno che sedeva sul pancone degli Spini, incomincia: «E sopra il solitario in questi tempi pancone degli Spini, ecc., ecc.» Il verbo non viene, se non dopo tre o quattro versi ancora. Ha quindi pienissima ragione il Macaulay, quando afferma che nessuna prova esterna potrebbe indurlo mai a credere il Machiavelli colpevole d'uno scritto così detestabile, che si potrebbe appena tollerare in uno sciocco scolare di retorica.

Il Dialogo dell'ira e dei modi di curarla, dettato anch'esso in uno stile assai contorto, fu da tutti, salvo il Poggiali e qualche altro, giudicato tale da non potersi in nessun modo attribuire al Machiavelli. È una traduzione dell'opuscolo di Plutarco, Del non adirarsi, come già dicemmo più sopra. Ed anche qui noi crediamo che basti citarne qualche periodo, a convalidare senz'altro l'opinione che si può dire universalmente accettata, che esso cioè non sia un lavoro del Machiavelli. Ecco il principio: «Rettamente a me pare, Cosimo carissimo, che faccian quei prudenti pittori, li quali avanti che del tutto finischin l'opere loro, se le tolgono dalla vista per qualche tempo; acciocchè l'occhio, per quello intervallo, perdendo l'assidua consuetudine del vedere quella pittura, e dipoi, tornando nuovamente a rivederla, meglio e più dirittamente ne giudichi, ed in essa conosca i difetti, i quali forse gli avrebbe celati la continua familiarità.» Chi vorrà supporre che un periodo come questo, che è pure uno dei più semplici e dei meno contorti in tutto il Dialogo, possa mai attribuirsi al Machiavelli?

La ben nota Novella di Belfagor arcidiavolo fu senza dubbio scritta da lui. Essa non ha grande intreccio, nè vera analisi di caratteri; può dirsi uno scherzo, un capriccio grazioso, di cui molti esempi troviamo nei nostri novellieri. Plutone, osservando come tutti coloro i quali venivano nell'Inferno, si lamentavano sempre delle mogli, a cui attribuivano la cagione della loro condanna, riunì i suoi a consiglio, e deliberarono d'indagare la verità del fatto. A questo fine venne mandato sulla terra l'arcidiavolo Belfagor, sotto forma d'uomo, con 100,000 ducati, a prender moglie. Egli sposò in Firenze una tale Onesta, figlia d'Amerigo Donati; e subito la superbia, lo spendere, i modi, i parenti di lei lo ridussero alla disperazione ed alla miseria. Perfino alcuni diavoli, che in forma di serventi aveva seco menati, preferirono tornarsene a stare nel fuoco all'Inferno. I creditori lo assediarono in modo, che finalmente si dovè dare alla fuga, per evitare la prigionia. Inseguito da essi, dai magistrati, dal popolo, fu nascosto e salvato da un contadino, al quale promise, per gratitudine, d'arricchirlo. Gli disse in fatti, che quando avesse sentito parlare di qualche donna spiritata, indemoniata, fosse pur venuto a trarlo fuori, che esso, per dargli occasione di grosso guadagno, se ne sarebbe andato via. E così per ben due volte s'avverò il caso, con grande fortuna del contadino. La seconda volta però il diavolo, che era entrato nella figlia del re di Napoli, gli disse: Bada che questa sia l'ultima volta, che tu vieni a cavarmi di dove sono, perchè, se tu ritorni ancora, avrai a pentirtene amaramente. Ed il contadino, che allora ricevette da quel re la somma di 50,000 ducati, contento ormai dei guadagni fatti, voleva tornarsene a casa, a vivere tranquillo. Ma invece la fama del suo misterioso potere s'era diffusa per tutto, in guisa che trovandosi indemoniata la figlia del re di Francia, Luigi VII, questi ricorse a lui, e non accettò scuse. Il contadino dovè adunque provare la terza volta. Ma non s'era appena accostato alla figlia del Re, che il diavolo ricordandogli di quanto aveva già detto, minacciava di farlo pentire, se non andava subito via. E da un altro lato il Re, non volendo sentire ragione, lo minacciava nel capo. Messo così fra l'incudine ed il martello, il contadino ricorse all'astuzia. Ordinò che fosse nella piazza di Nostra Donna costruito un gran palco di legno, su cui dovevano sedere tutti i grandi baroni e prelati del Regno, e in mezzo della piazza un altare, su cui doveva prima celebrarsi la messa, poi esservi condotta la figlia del Re. In un canto dovevano trovarsi venti persone almeno, con trombe, corni, tamburi, cornamuse ed ogni altra sorta dei più romorosi strumenti, con ordine di sonare e correre verso l'altare, non appena il contadino avesse fatto un cenno, levando in aria il cappello. Tutto finalmente era pronto: i dignitari al loro posto, la piazza piena di popolo, la messa celebrata, la figlia del Re all'altare. Ma il diavolo minacciava sempre il contadino, e da capo lo avvertiva che, se non s'allontanava subito, qualche cosa di ben triste gli sarebbe seguìta. Questi allora fece il segno convenuto, levando il cappello, e senza indugio i sonatori s'avanzarono, facendo strepito grandissimo cogli strumenti. All'inaspettato romore, il diavolo, stupito, domandò al contadino: Che cosa è mai seguìto? Ohimè! gli rispose l'altro, è la moglie tua che viene a ritrovarti. A questo annunzio, senz'altro chiedere, il diavolo si dette a precipitosa fuga, tornandosene per sempre all'Inferno, a far fede dei pericoli e dei guai del matrimonio.

Si pretese da alcuni, che con la sua piacevole novella il Machiavelli avesse voluto alludere ai tormenti che egli ebbe dalla sua Marietta; ma i fatti più noti e i documenti più accertati dimostrano chiara la insussistenza della pretesa allusione. La Marietta, come abbiam visto, fu sempre una buona moglie, e, se mai, poteva piuttosto fare rimproveri al marito, che meritarne da lui. Vi fu ancora chi pretese, che della novella non fosse autore il Machiavelli, perchè un'altra compilazione, non molto diversa, ne venne alla luce col nome di monsignor Giovanni Brevio, nel 1545. I Giunti però la pubblicarono nel 1549, nella sua forma primitiva, col nome del Machiavelli, dichiarando di volerla così restituire «come cosa propria al fattor suo, essendo stata usurpata da persona che ama farsi onore degli altrui sudori.» L'autografo di essa fu poi trovato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, il che pose termine alle dispute, giacchè le prove intriseche, cavate dallo stile e dalla lingua, erano già tutte in favore del Machiavelli. Egli non fu certo l'inventore del soggetto, che si trova già nei Quaranta Visiri, libro turco, derivato da fonte araba, e questa da indiana. Il racconto venne dunque, per tradizione orale, se non scritta, dall'Oriente in Italia, e fu dal Machiavelli narrato nella sua novella, imitata poi dal Brevio, da Doni, dal Sansovino, da G. B. Fagiuoli e da altri. Fra di essi è da citarsi anche il La Fontaine, che riuscì in questa imitazione meglio assai che nel racconto imitato dalla Mandragola. Una novella molto simile è oggi popolare anche fra gli Slavi del Sud.

Ricorderemo ora solamente il titolo d'alcuni altri brevissimi scritti del Machiavelli, che hanno poca o nessuna importanza. I Capitoli per una bizzarra compagnia non sono che uno scherzo da ridere. L'Allocuzione fatta da un magistrato nell'ingresso dell'ufficio non contiene altro che alcune considerazioni generali sulla giustizia, pel benessere degli Stati, con una lunga citazione dalla Divina Commedia sullo stesso argomento. Sembra il principio d'un qualche esercizio letterario, appena abbozzato. Nè molto diverso è il Discorso morale, che pare scritto per essere letto in una delle tante confraternite religiose che v'erano allora a Firenze, ed espone, con una devota unzione, non scevra di certa velata ironia, l'obbligo ed i benefizî della carità verso il prossimo, della obbedienza verso Dio. Nè occorre fermarsi oltre su di ciò.

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