CAPITOLO XIII.

Le Istorie Fiorentine. I libri II, III e IV,

o la Storia interna di Firenze sino al trionfo dei Medici.

Il secondo libro comincia dalle origini di Firenze, delle quali dice appena alcune parole, per saltar subito all'anno 1215, narrando il fatto del Buondelmonti, cui si attribuisce la prima divisione della Città in Guelfi e Ghibellini. Dal 1215 si salta di nuovo a piè pari fino al 1250, da cui il Machiavelli, come fa anche l'Aretino, incomincia veramente la narrazione non interrotta della storia di Firenze, che in questo secondo libro conduce sino al 1348. Così in ottanta pagine abbraccia tutto il vastissimo periodo, che forma il soggetto della lunga cronica di Giovanni Villani. E di questo autore si vale ora continuamente, una sola volta ricordandone il nome insieme con quello di Dante Alighieri. Se ne vale però assai diversamente che non fece della storia di Flavio Biondo. Lascia da un lato tutte le tradizioni favolose, che il Villani ricorda sulle origini di Firenze; tutti i moltissimi capitoli che narrano la storia generale d'Europa, ed ancora quelli che trattano di guerre esterne della Repubblica. Raccoglie invece le notizie sulle divisioni, le rivoluzioni interne, le riforme politiche, e le ordina a suo modo. Si paragonino le narrazioni che i due scrittori ci danno del fatto del Buondelmonti, delle rivoluzioni e riforme del 1250, del 1267, del 1280, di Giano della Bella e degli Ordinamenti di Giustizia, e si vedrà subito che il Machiavelli non abbandona mai il suo originale. Ciò è più d'una volta confermato dagli errori stessi in cui cade, ora per colpa del Villani, ora per non averlo saputo fedelmente interpretare. Dominato com'era da un suo nuovo concetto, e quindi dal bisogno di dare con esso un proprio ordinamento a tutta la storia di Firenze, egli procede con qualche fretta, senza essere troppo scrupoloso intorno alla esattezza dei minuti particolari, fermandosi sugli avvenimenti che giovano al suo scopo, trascurando invece gli altri, anche se più importanti. Raccogliendo poi in poche pagine molti capitoli della Cronica, gli accade spesso di riunire in un solo anno fatti seguiti in tempi assai diversi, ed anche di determinar male il carattere delle varie istituzioni, il numero dei Consigli della Repubblica, massime quando il Villani adopera un linguaggio politico, di cui nel secolo XVI s'era cominciato a perdere il significato preciso.

Dopo alcune considerazioni generali sulle colonie, il Machiavelli ci dice che Firenze discese da Fiesole città etrusca, i cui mercanti lasciarono il monte e si stabilirono presso il fiume Arno, dove le colonie romane ingrossarono la nascente città, che poi sottomise quella da cui era nata. Ciò detto, arriva subito al 1215, narrando il fatto del Buondelmonti, al quale, come dicemmo, attribuisce l'origine dei Guelfi e dei Ghibellini in Firenze. E non s'avvede che lo stesso Villani aveva, nei precedenti capitoli, narrato una serie di guerre del Comune fiorentino contro i baroni del contado, che furono sottomessi ed obbligati a vivere in città, il che, per opera principalmente degli Uberti, dette origine alla guerra civile prima assai del 1215. Ma quando, dopo un nuovo salto fino al 1250, incomincia la narrazione di avvenimenti meno remoti e meno oscuri, il Machiavelli fa subito due osservazioni, che gettano una luce inaspettata sulla storia delle interne rivoluzioni di Firenze. Egli qui si avvede, che i Ghibellini non sono solamente il partito dell'Impero, ma anche dei nobili feudali; ed i Guelfi, sebbene abbiano anch'essi fra di loro dei nobili, sono il partito della Chiesa e dei popolani. Le divisioni e rivoluzioni di Firenze vengono perciò determinate e regolate da due ordini di cause e di fatti diversi, alcuni cioè interni, altri esterni: le vicende dell'Impero, della Chiesa, degli Svevi e degli Angioini di Napoli da una parte, e dall'altra gli odî naturali nelle città fra grandi e popolani. Il crescere dell'industria e del commercio dava sempre nuova forza ai popolani; l'allontanarsi o indebolirsi dell'autorità dell'Impero in Italia, ne toglieva invece ai grandi destinati perciò a sparire. Queste sono le cause che cagionano le divisioni ed i partiti in Firenze, e ne determinano la storia. In fatti cresce la potenza Federigo II, e subito esso favorisce gli Uberti, capi dei Ghibellini, ed i Guelfi sono cacciati. Muore Federigo II (1250), e gli uomini di mezzo, che erano guelfi, sono padroni della Città, che prende forma nuova e più democratica, con quella che si chiamò la Costituzione del Primo Popolo.

Il Machiavelli si ferma qui a descrivere minutamente questa costituzione popolare, ma cade, nel descriverla, in molti e gravi errori. La crede fatta in conseguenza dell'accordo tra i Guelfi ed i Ghibellini, quando invece fu fatta dai primi a danno dei secondi, massime dei nobili. Crede che sia la prima costituzione libera di Firenze, dicendo che ai Fiorentini allora «parve tempo di pigliar forma di vivere libero,» e non ricorda la costituzione precedente dei Consoli, nè la istituzione del Podestà, seguìta nel 1207, secondo i cronisti, ed anche prima, secondo i documenti del tempo. Ma v'è di più, egli pone nel 1250 la creazione così del Capitano del popolo come del Podestà, chiamandoli senz'altro due giudici forestieri per le cause civili e le criminali. Invece solo il Capitano del popolo fu creato in quest'anno, a difesa degl'interessi popolari, in opposizione del Podestà, di più antica origine e cavaliere, che pigliava la parte dei nobili. Tanto l'uno che l'altro non erano semplici giudici, ma avevano anche attribuzioni politiche e militari; erano circondati da due Consigli; comandavano in campo gli eserciti del Popolo e del Comune. E per raccoglier tutto in uno, il Machiavelli pone nel medesimo anno anche la istituzione del Carroccio fiorentino, che è assai più antica. Con questa costituzione, egli continua, fu ordinata la libertà, armato il popolo, e la Repubblica estese il suo territorio. Ma il sorgere di Manfredi, dopo la morte di Federigo II, restituì animo e forza ai Ghibellini, che si sollevarono, e dopo una prima disfatta in Città, vinsero i Guelfi a Montaperti (1260), donde tornati vittoriosi, s'impadronirono del governo, che fu così di nuovo tolto ai popolani e dato ai nobili.

Fin qui gli avvenimenti generali d'Italia sono quelli che principalmente hanno determinato la storia dei partiti in Firenze; ma ora incominciano a prevalere le cagioni interne, ed il Machiavelli è, fra tutti gli storici, il primo che se ne avveda, e che si fermi a notare come sia già cominciata, sebbene ancora poco visibile, una grande trasformazione della società fiorentina. Il partito ghibellino andava divenendo sempre più il partito dell'aristocrazia feudale; ma perdeva di numero e di forza innanzi al rapido crescere del popolo, che ingrossava i Guelfi. La gravità di questo fatto non poteva sfuggire ai nobili, che cercarono perciò di transigere, il che affrettò la loro rovina, e più tardi mutò del tutto le parti in Firenze. Essi, adunque, sebbene fossero sempre padroni del Governo, pure, a fine di guadagnare il favore del popolo, e così assicurarsi l'avvenire, secondarono la costituzione delle Arti Maggiori e delle Minori. Ma tutto ciò non valse a nulla. La lontananza dell'Imperatore, la decadenza del suo potere in Italia, il trionfo degli Angioini nel Reame finirono col far cadere di nuovo la Città interamente nelle mani dei popolani, che posero alla testa del Governo i Priori delle Arti (1282). Il Villani, cui sembra sfuggire qui il vero significato ed il valore della nuova magistratura, ricorda solo che il nome di essa fu preso dal Vangelo, là dove Cristo dice agli Apostoli: Vos estis priores. Ma il Machiavelli, che guardava più alla sostanza, senza disputare sull'origine del nome, osserva invece assai giustamente: «Questo magistrato fu cagione, come con il tempo si vide, della rovina dei nobili, perchè ne furono dal popolo per vari accidenti esclusi, e dipoi senza alcuno rispetto battuti.»

Dopo essersi con due parole sbrigato della battaglia di Campaldino (1289), come aveva fatto con quella di Montaperti, ritorna alle rivoluzioni interne, che spianarono la via a quella del 1293, che ne fu l'ultima e necessaria conseguenza. Sebbene i Ghibellini fossero stati a poco a poco superati dal popolo in modo, che quasi scomparvero del tutto, pure «restarono sempre accesi quegli umori, che sono in tutte le città fra i potenti, che vogliono comandare, ed i popolani, che vogliono vivere secondo le leggi. Queste nuove divisioni non si scopersero fino a che i Ghibellini facevano ancora paura; ma come prima essi furono domi, incominciarono quelle a mostrare subito la loro forza. Ogni giorno qualche popolano era offeso dai Grandi, e le leggi non bastavano a vendicarlo, perchè essi con i parenti e gli amici dalla forza dei Priori e del Capitano si difendevano.» Così crebbero i mali umori fino a che non si venne per opera di Giano Della Bella agli Ordinamenti di Giustizia (1293), coi quali i Grandi, come già i Ghibellini, furono del tutto esclusi dalla Signoria, e disfatti. «Il popolo allora trionfò pienamente, e la Città fu molto felice, sendo di uomini, di ricchezze e di riputazione ripiena.» Così i nobili Ghibellini, divenuti potenti coll'aiuto dell'Impero, furono disfatti dai Guelfi, che si divisero in Grandi e Popolani, e questi poi vinsero e distrussero quelli. Tutta la storia di Firenze adunque, non è fin qui altro che un lento e continuo cammino verso la democrazia, la quale finalmente trionfa.

Ma le divisioni non cessano per questo, che anzi adesso appunto incomincia un periodo transitorio di capi di parte, di ambizioni personali e di nuove discordie intestine, le quali conducono alla tirannide del Duca d'Atene. E questo episodio, che è di certo assai notevole nella storia di Firenze, diviene addirittura principalissimo nel secondo libro del Machiavelli, per la grande estensione che esso gli dà nel raccontarlo. Ci descrive prima il carattere ambizioso di Corso Donati, che turbò la Repubblica; poi le guerre contro Uguccione della Faggiuola e Castruccio Castracani, le quali narra assai più fedelmente che non aveva fatto nella sua fantastica Vita di Castruccio; arriva finalmente alla venuta del Duca (1342), chiamato dai Fiorentini a governarli ed a guidarli nella guerra contro i Ghibellini di Toscana. I cittadini, egli dice, erano, per le loro continue discordie, giunti a tale, che «non sapevano mantenere la libertà, e non potevano tollerare la servitù.» Il Duca perciò fu subito un tiranno armato, un Principe nuovo, ed il Machiavelli, esaltandosi, si ferma lungamente a descrivere per minuto, drammatizzandola con eloquenza, la ben nota istoria. Egli prende i fatti dal Villani; ma v'aggiunge di suo considerazioni, descrizioni, episodî e discorsi. Dalla cresciuta forza e potenza dello stile ci accorgiamo subito, che l'argomento è di quelli che più vivamente lo attraggono. Dimentica perfino i limiti che le proporzioni generali del suo lavoro dovevano imporgli, e si lascia prender la mano dal desiderio di ribadire le sue ben note teorie, che ora pone in bocca dei personaggi del suo dramma.

Quando il Duca è finalmente divenuto sicuro padrone della Città, e si vede chiaro che è deciso a rendersi addirittura tiranno, appoggiandosi alla plebe, il Machiavelli fa venire i Signori a fargli un discorso eloquente e singolarissimo. «Voi cercate,» essi gli dicono, «far serva una città la quale è sempre vivuta libera.... Avete voi considerato quanto in una città simile a questa importi, e quanto sia gagliardo il nome della libertà, il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, e merito alcuno non contrappesa?... Negli universali odî non si trova mai sicurtà alcuna, perchè tu non sai donde ha a nascere il male, e chi teme di ogni uomo, non si può mai assicurare di persona. E se pure tenti di farlo, ti gravi nei pericoli, perchè quelli che rimangono si accendono più nell'odio, e sono più parati alla vendetta. Che il tempo a consumare i desiderî della libertà non basti è certissimo, perchè s'intende spesso quella essere in una città da coloro riassunta, che mai la gustarono; ma solo per la memoria che ne avevano lasciata i padri loro l'amano.... E quando mai i padri non l'avessero ricordata, i palazzi pubblici, i luoghi de' magistrati, le insegne dei liberi ordini la ricordano, le quali cose conviene che siano con massimo desiderio da' cittadini conosciute. Quali opere volete voi che siano le vostre, che contrappesino alla dolcezza del vivere libero, o che faccino mancare gli uomini del desiderio delle presenti condizioni? Non se voi aggiungessi a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni giorno tornassi in questa città trionfante de' nimici nostri, perchè tutta quella gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i cittadini non acquisterebbero sudditi, ma conservi, per i quali si vedrebbero nella servitù raggravare. E quando i costumi vostri fossero santi, i modi benigni, i giudizi retti, a farvi amare non basterebbero. E se voi credessi che bastassero, v'ingannereste, perchè a uno consueto a vivere sciolto ogni catena pesa, ed ogni legame lo stringe.» In questo modo lo avvertono, che il suo desiderio della tirannide lo spinge a sicura rovina.

Il Machiavelli, com'è ben noto, non era il primo a porre questi lunghi discorsi nella sua storia. Gli eruditi, per imitare gli antichi, avevano già da un pezzo introdotto un tale uso, di cui assai spesso fecero anche abuso. Mentre però gli antichi storici, dandoci anch'essi discorsi solamente immaginarî, riuscivano eloquenti e veri, perchè facevano parlare i Greci ed i Romani nel modo in cui veramente sentivano; gli eruditi, volendo far parlare da Romani gl'Italiani del Medio Evo e del secolo XV, finivano col fare solo poveri esercizî di retorica. E lo stesso difetto si riscontra anche in molti storici del Cinquecento. Un valore ben diverso hanno però i discorsi del Guicciardini e del Machiavelli. Il primo qualche rara volta pone in bocca de' suoi personaggi quello che veramente dissero; quasi sempre fa da loro esporre le cause, le relazioni e le conseguenze reali dei fatti stessi. E così i suoi discorsi riescono ad avere un gran valore, sebbene di tanto in tanto non manchi in essi un po' di retorica. Quelli del Machiavelli, immaginarî anch'essi, espongono invece i sentimenti, le considerazioni proprie dell'autore intorno agli avvenimenti storici, e sono perciò sempre profondi, eloquentissimi, sebbene, se si guarda ai personaggi che parlano, l'anacronismo e la inverosimiglianza siano spesso assai visibili. Chi infatti può credere che i Signori di Firenze avrebbero mai osato parlare al Duca d'Atene, armato e già padrone della Città, con tanto ardire, manifestando un così profondo amore della libertà? Pure il loro discorso riesce eloquentissimo, perchè esprime quello che i fatti stessi dicevano ed ispiravano al Machiavelli, il quale, esaltato dalla sua propria narrazione, è quello veramente che parla, e parla con profonda convinzione.

Dopo di ciò, sempre colla scorta del Villani, egli prosegue la storia della tirannide del Duca, dell'odio che ne nacque nel popolo, delle tre congiure contemporaneamente ordite da tre ordini diversi di cittadini, e finalmente ci descrive con vivissimi colori lo scoppio feroce dell'ira popolare, che prima cacciò il tiranno, e poi si rivolse contro i più fidi seguaci e sostegni di lui, specialmente contro il conservatore Guglielmo d'Assisi ed il suo figlio di 18 anni. «Appariscono gli sdegni maggiori e sono le ferite più gravi, quando si ricupera una libertà che quando si difende.... Furono messer Guglielmo e il figliuolo posti intra le migliaia de' nemici loro, e il figliuolo non aveva ancora diciotto anni. Nondimeno l'età, l'innocenza, la forma sua nol poterono dalla furia della moltitudine salvare; e quelli che non poterono ferirgli vivi, gli ferirono morti, nè saziati di straziarli col ferro, con le mani e con i denti gli laceravano. E perchè tutti i sensi si soddisfacessero nella vendetta, avendo prima udito le loro querele, veduto le loro ferite, tocco le lor carni lacere, volevano che ancora il gusto le assaporasse, acciocchè, come tutte le parti di fuori ne erano sazie, quelle di dentro ancora se ne saziassero.» Anche questi ultimi particolari sono, con poche alterazioni, cavati dal Villani; ma lo stile è tale che solo il Machiavelli sapeva trovarlo, specialmente quando doveva manifestare odio alla tirannide, amore alla libertà.

Cacciato il Duca, spenti i suoi più fidi, dopo altre discordie e tumulti, furono richiamati in vigore gli Ordinamenti della Giustizia, e i Grandi vennero da capo esclusi affatto dal governo, che tornò nelle mani del popolo. Questa loro ultima disfatta fu tale, che cercarono, mutando nomi, di confondersi col popolo, contro il quale non osarono più di prendere le armi, «anzi continuamente più umani ed abietti divennero. Il che fu cagione che Firenze non solamente di armi, ma di ogni generosità si spogliasse.» Qui è notevole che il Machiavelli, il quale tanto desiderava il trionfo della democrazia, e tanto odiava l'aristocrazia, pur vide e francamente dichiarò, che col cadere di questa, decaddero le armi dei Comuni italiani, i quali si gettarono poi in braccio ai capitani di ventura, che furono la rovina della libertà, della indipendenza e della forza nazionale, come egli dimostra nei libri seguenti.

Il secondo libro delle Istorie adunque ha grandi lacune, ha molte inesattezze, non parla dei fatti esterni della Repubblica, sopra alcuni fatti interni si ferma a lungo, sopra altri passa leggermente; compilato sulla Cronica del Villani, non ha ricerche originali d'alcuna sorta. Eppure, se anche mettiamo da parte l'episodio principale, cioè quello del Duca d'Atene, con così vigorosa e splendida eloquenza narrato, questo secondo libro rimane sempre un vero capolavoro nella nostra letteratura storica. In esso il Machiavelli, con uno sguardo di aquila, abbraccia nella sua unità la storia di più d'un secolo. I fatti che nel Villani sono narrati con evidenza, ma restano disgregati e come gettati a caso sulla carta; quella serie di rivoluzioni, di sempre nuovi disordini e sempre nuove costituzioni politiche, che, secondo tutti i cronisti ed anche secondo gli storici, sembrano in piena balìa del caso, conseguenza solo di odî brutali e di feroci passioni, si connettono a un tratto mirabilmente, logicamente fra loro, e per la prima volta divengono finalmente una vera storia. Il Machiavelli s'è avvisto che tutte queste rivoluzioni hanno una stessa cagione, un solo scopo, verso cui continuamente sospingono la Repubblica, fino a che essa non tocca la mèta predestinata. Si tratta di una lotta sanguinosa fra il popolo, in cui scorre il sangue latino, e l'aristocrazia feudale, che è di origine germanica, straniera all'Italia. La fine di questa lotta è la distruzione totale prima dei nobili feudali, poi dei Grandi, il che avviene nel 1293, e si compie anche meglio dopo la cacciata del Duca d'Atene. In questo modo tutte le rivoluzioni e costituzioni fiorentine non solo si connettono fra loro, ma si seguono come evoluzione d'una sola e medesima idea. E così, per opera dell'analisi critica del Machiavelli, la storia più intricata e confusa acquista ad un tratto l'evidenza d'una proposizione geometrica. Egli ha illuminato le tenebre con la luce vivissima della sua potente intelligenza, ed ha portato il più mirabile ordine nel caos che ci avevano lasciato i cronisti. Tutto il segreto della storia fiorentina è in questo secondo libro. E qui si può veramente affermare che nessuno è mai riuscito a far meglio, e che i molti i quali non seppero, anche dopo, seguire la via da lui aperta, deviarono sempre dalla mèta, ricaddero nel disordine e nella confusione.

Il terzo libro va dall'anno 1353 fino a poco dopo il 1414, ed è compilato con tre diversi autori. Fino al 1378 il Machiavelli si vale dell'Istoria Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, nel modo stesso che ha fatto del Villani, fermandosi cioè alle sole rubriche che parlano delle lotte interne della Repubblica, e delle sue riforme politiche. L'argomento proprio di questo libro è la esposizione del modo in cui i partiti, moltiplicandosi, decompongono lo Stato, corrompono la Città, e col distruggere la libertà, spianano la via alla tirannide. L'episodio principalissimo è quindi il tumulto dei Ciompi (1378), che cogli eccessi della plebe pone i germi della potenza futura dei Medici, i quali perciò appunto erano stati i segreti fautori e promotori del tumulto stesso. Nel raccontarlo il Machiavelli si vale della storia che ne scrisse il contemporaneo Gino Capponi. Siccome però questa non è compiuta, così egli deve, verso la fine, tornare di nuovo a Marchionne di Coppo Stefani. Più oltre, nello stesso libro, ricorre anche ad altri autori, ma è difficile determinarli tutti, perchè la narrazione procede qui assai rapida. Il Machiavelli è cautissimo nella scelta delle sue fonti; gli scrittori che preferisce sono sempre i più autorevoli e sicuri nella narrazione dei fatti pei quali se ne giova. Questo però non gl'impedisce di farne un uso affatto arbitrario, quando specialmente vuol dar forza a qualche suo concetto o teoria politica.

Ogni libro di questa storia incomincia con alcune considerazioni generali. Il primo, col ragionare brevemente delle emigrazioni ed invasioni dei popoli germanici, il secondo, col discorrer delle colonie. Dal terzo libro in poi abbiamo vere e proprie introduzioni, ciascuna delle quali pone in termini chiari e precisi un problema storico-politico, che dalla narrazione seguente viene dimostrato. Esse sono preziose, non solo per il loro intrinseco valore, ma perchè ci fanno vedere come col Machiavelli la storia s'andò trasformando in scienza politica. Questa trasformazione noi la vediamo seguire quasi sotto i nostri occhi. «Le nimicizie naturali,» così incomincia il terzo libro, «fra il popolo e i nobili sono quelle che dividono e perturbano le città. Esse tennero divise Roma e Firenze, ma in modo diverso; perchè a Roma si manifestavano disputando, e si sopivano con una legge fatta pel pubblico bene; a Firenze invece si cominciavano combattendo, si inasprivano con gli esilî e la morte de' cittadini, si finivano con una legge fatta a solo vantaggio dei vincitori. Quelle di Roma, avvicinando il popolo ai nobili, alimentarono la virtù militare; quelle di Firenze, distruggendo i Grandi, la spensero. Tutto ciò avvenne, perchè il popolo romano voleva dividere coi Patrizî il governo dello Stato; quello di Firenze voleva invece escluderne i Grandi, per esser solo a comandare. Il primo desiderio era giusto, e la nobiltà romana cedette; il secondo ingiusto, e la nobiltà fiorentina dovè resistere. Così si venne alle armi, agli esilî, al sangue, e le leggi furono ingiuste, parziali, crudeli. I nobili dovettero mutare nomi, insegne, costumi, e confondersi col popolo, tanto che quella virtù d'armi e generosità d'animo, che era nella nobiltà, si spense, e nel popolo dove la non era, non si potè riaccendere. Così Firenze sempre più umile e più abietta ne divenne.»

Questo paragone, che si trova più volte ripetuto anche nei Discorsi, non è esatto. Il Machiavelli qui non osserva che l'aristocrazia fiorentina era feudale, di origine straniera, e quella di Roma, di origine nazionale; esagera assai quando dice che le lotte fra il popolo ed i Patrizî furono a Roma sempre pacifiche, e dimentica che anch'esse portarono ad una uguaglianza su cui si fondò poi il Cesarismo. In realtà egli paragona la storia di Firenze con una storia alquanto immaginaria di Roma, cui attribuisce le qualità tutte che egli vuol vedere nel suo concetto ideale delle lotte politiche. Quello che dice di Firenze è però verissimo, profondamente osservato; e le sue considerazioni, a questo proposito, hanno un gran valore intrinseco. Esse somigliano singolarmente a ciò che disse più tardi un grande scrittore moderno, paragonando la storia politica della Francia con quella dell'Inghilterra. L'aristocrazia inglese s'unì alla borghesia nel governare il paese, e ne ricevette sempre nuovo vigore e nuova vita; la francese si separò affatto dalla borghesia, dal popolo, e finì coll'essere distrutta dalla democrazia restata padrona. L'Inghilterra ebbe perciò un regolare progresso, un governo forte, ordinato e libero; la Francia ebbe invece continue rivoluzioni, ed arrivò ad una grande uguaglianza, in mezzo alla quale divennero possibili e si poterono sperimentare tutte le forme di governo. Nè molto diversamente il Machiavelli finisce la sua introduzione al terzo libro, quando dice che «Firenze a quel grado è pervenuta che facilmente da un savio dator di leggi potrebbe essere in qualunque forma di governo riordinata.»

Il duca d'Atene aveva, per fondare la sua tirannide, sollevato la plebe, appoggiandosi sopra di essa. E così, dopo la sua cacciata, si vide apparire nella lotta dei partiti un nuovo ordine di cittadini, che divenne un nuovo germe di discordia. In fatti si videro ora lottare a Firenze il popolo grasso delle Arti Maggiori, il popolo minuto delle Arti Minori e la plebe. Le armi, per la distruzione della nobiltà, erano decadute; le guerre si facevano perciò colle Compagnie di ventura, e quindi col danaro. In tale stato di cose cominciarono a primeggiare la famiglia degli Albizzi ed altri popolani grassi, che prevalevano nella Città, non come facevano una volta i Grandi, con la forza e la violenza, ma per mezzo di quelli che si chiamavano allora i modi civili, o sia impadronendosi degli uffici politici, perseguitando, esiliando gli avversarî come Ghibellini, sebbene questo partito più non esistesse. Il disordine fu grande davvero, ed il Machiavelli, per meglio dipingerlo, per esporre di nuovo le sue considerazioni sulla storia dei partiti, esprimendo tutto il suo dolore dinanzi allo spettacolo della patria e della libertà pericolanti, fa venire dinanzi ai Signori alcuni cittadini, uno dei quali parla ad essi in questo modo: «Nelle città d'Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri, si raccozza. I giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso, ogni età è piena di brutti costumi, a che le leggi buone, per essere dalle cattive usanze guaste, non rimediano.... Di qui gli ordini e le leggi non per pubblica, ma per propria utilità si fanno. Di qui le guerre, le paci, le amicizie non per gloria comune, ma per soddisfazione di pochi si deliberano.» «E se alcuna città fu mai da queste divisioni lacerata, la nostra è certo più d'ogni altra.» «Onde ne nasce che sempre, cacciata una parte e spenta una divisione, ne sorge un'altra; perchè quella città che con le sètte più che con le leggi si vuol mantenere, come una sètta è rimasa in essa senza opposizione, di necessità conviene che intra sè medesima si divida.» «Si credeva in fatti che, distrutti i Ghibellini, resterebbero lungamente felici i Guelfi; ma essi si divisero invece in Bianchi ed in Neri. Vinti i Bianchi, si combattè per le divisioni fra popolo e Grandi. E per dare poi ad altri quello che per noi medesimi possedere non sapevamo, ora al re Roberto, ora al fratello, ora al figlio, ed in ultimo al Duca d'Atene la nostra libertà sottoponemmo. Ma perchè non fummo mai d'accordo a vivere liberi, nè d'essere servi ci contentammo, cacciammo il Duca d'Atene, il cui acerbo e tirannico animo non riuscì tuttavia a farci savî, ad insegnarci a vivere. Combattemmo infatti fra di noi più di prima, tanto che l'antica nobiltà fu vinta, e dovè rimettersi in balìa del popolo. Si credette così finita ogni cagione di scandalo, essendosi messo un freno a coloro che per superbia dividevano la Città. S'è visto, invece, quanto l'opinione degli uomini sia fallace, perchè la superbia e l'ambizione de' Grandi non si spensero, ma furono ereditate dai popolani, alcuni dei quali, secondo l'uso degli ambiziosi, cercano ottenere essi il primo grado nella Repubblica, e risuscitano il nome di Guelfi e di Ghibellini, che era già spento. Per carità della patria, spegnete ora quel male che ci ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci uccide, ponendo freno all'ambizione di costoro, annullando gli ordini che sono delle sètte nutritori, e prendendo quelli che al vero vivere libero e civile sono conformi.»

I Signori elessero allora cinquantasei cittadini per riformare la Repubblica; ma questi riuscirono solo a portare maggior confusione, perchè, come già molte volte il Machiavelli aveva osservato e qui ripete, «gli assai uomini sono più atti a conservare un ordine buono, che a saperlo per loro medesimi trovare.» Così gli Albizzi ne uscirono più potenti di prima, e quando papa Gregorio XI mosse da Avignone guerra a Firenze, essi, alla testa del popolo grasso, presero tutti i provvedimenti necessarî alla difesa, e condussero la guerra con tanta energia, che non solamente furono respinte le forze del Papa, ma le città da lui dipendenti nel suo proprio Stato vennero sollevate in nome della libertà. E gli Otto della Guerra, sebbene avessero fatto poco conto delle censure, avessero spogliato le chiese dei loro beni, e forzato il clero a celebrare gli uffici divini, ebbero tutto il favore del popolo, e vennero chiamati Otto Santi, «tanto quei cittadini stimavano allora più la patria che l'anima.»

La cagione del potere acquistato dagli Albizzi e dal popolo grasso stava nel fatto che solo i ricchi mercanti, i quali si trovavano alla direzione della grande industria e del grande commercio fiorentino, erano interessati a sostenere le guerre esterne della Repubblica, per aumentarne la potenza, e nello stesso tempo tutelare la libertà dei traffici, coi quali venivano accumulate le ricchezze loro e della Città. Essi erano perciò pronti sempre a tutti i sacrifizî necessarî. Aggravavano di tasse sè stessi e gli altri, nè avevano troppi scrupoli a restringere, occorrendo, le pubbliche libertà. Le Arti Minori, invece, che vivevano della piccola industria e del piccolo commercio interno, volevano la pace, il lusso necessario alla loro florida esistenza, minori gravezze e maggiori libertà; volevano avere anch'esse qualche parte nel governo. Così avveniva costantemente che il popolo grasso trionfava con la guerra, ed il popolo minuto con la pace. E così, non appena fu finita la guerra contro il Papa, cominciarono subito i lamenti per le spese fatte, per le gravezze sopportate. Gli Albizzi allora perderono favore; il popolo minuto invece guadagnò terreno, e si volse a cercare capi che lo guidassero. Ne trovò uno accortissimo in Salvestro de' Medici, il quale, sebbene fosse del popolo grasso, si fece sin d'allora sostenitore degl'interessi del popolo minuto, cominciando così con infinita avvedutezza a spianare la via del principato alla propria famiglia. Il Machiavelli è il primo che veda fin da questo momento, le origini remote della potenza medicea, e determini chiaramente il carattere della loro astutissima e fortunata politica.

Eletto Gonfaloniere nel 1378, Salvestro avversò gli Albizzi, favorì i loro nemici ed il popolo minuto, richiamò in vigore gli Ordini della Giustizia andati in disuso. Ma tutto ciò non si potè fare, senza che ne nascesse tumulto, e ne seguissero conseguenze inaspettate. «Non sia mai,» osserva qui il Machiavelli, «alcuno che muova un'alterazione in una città, per credere poi o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo.» Questo fu in fatti il principio del tumulto dei Ciompi, che occupa una gran parte del terzo libro, e che il Machiavelli racconta minutamente con la scorta del Capponi, aggiungendovi di suo molti discorsi e considerazioni. Il popolo e la plebe, avute le prime concessioni, cominciarono a sollevarsi, tumultuando, e facendo alla Signoria sempre nuove domande. Quando appena esse erano soddisfatte, ne aggiungevano subito altre più esagerate, e finalmente cominciarono anche a saccheggiare ed a bruciare le case dei cittadini. Laonde il gonfaloniere Luigi Guicciardini, radunati i capi delle Arti, diceva loro: «Noi abbiamo ceduto a tutte le vostre domande. Si è tolta autorità ai magistrati; si sono raffrenati di nuovo i Grandi; abbiamo mandato in esilio molti potenti cittadini, perdonato a coloro che bruciarono le case e spogliarono le chiese. Che fine avranno omai queste vostre domande? Non vedete che noi sopportiamo con più pazienza l'esser vinti, che voi la vittoria? A che condurranno queste vostre divisioni questa vostra città?»

E dopo che il Machiavelli ha fatto in tal modo parlare il Gonfaloniere, pone in bocca d'un popolano un altro discorso, che ricorda qualche volta il linguaggio di Catilina in Sallustio, e ritrae con singolare eloquenza le passioni selvagge della plebe sfrenata di Firenze. V'è anche una strana mistura di paganesimo e di cristianesimo tutta propria del Rinascimento. «Quando noi dovessimo ora deliberare, se si avessero a pigliare le armi, ardere e rubare le case dei cittadini, forse anch'io consiglierei piuttosto una quieta povertà che un pericoloso guadagno. Ma perchè le armi sono prese e molti mali già fatti, bisogna ora non lasciar quelle, e de' mali commessi assicurarci. Quando altro non c'insegnasse, la necessità c'insegna. La Città è piena di odio contro di noi, e nuove forze contro le nostre teste si apparecchiano. Nè a farci perdonare gli errori vecchi c'è altro modo che farne dei nuovi, raddoppiando le arsioni e le ruberie, cercando di avere in esse molti compagni», «perchè dove molti errano, niuno si gastiga, ed i falli piccoli si puniscono, i grandi ed i gravi si premiano. E quando molti patiscono, pochi cercano di vendicarsi, perchè le ingiurie universali con più pazienza che le particolari si sopportano. Il moltiplicare adunque nei mali ci farà più facilmente trovar perdono.... Duolmi bene ch'io sento che molti di voi delle cose fatte per coscienza si pentono, e dalle nuove si vogliono astenere. E certamente s'egli è vero, voi non siete quelli uomini che io credeva che foste, perchè nè coscienza, nè infamia vi debbe sbigottire; perchè coloro che vincono in qualunque modo vincono, mai non ne riportano vergogna. E della coscienza noi non dobbiamo tener conto, perchè dove è, come è in noi, la paura della fame e delle carceri, non può nè debbe quella dello Inferno capere.»

Ed ora, in mezzo al tumulto, si presenta al Machiavelli la singolare figura di Michele di Landò, che scalzo e con poche vesti indosso, con tutta la turba dietro, salì sopra la scala del Palazzo, e fu dal popolo proclamato Gonfaloniere. Per mostrarci poi come questo popolano, che ormai ha già esaltato la sua immaginazione, era «sagace e prudente, e più alla natura che alla fortuna obbligato,» egli ci narra un aneddoto che in buona parte è sua invenzione. Dice adunque che Michele di Lando, vedendosi esaltato da un popolo, nell'ebbrezza della vittoria avido di sangue, voleva trovar modo di dominarlo, per impedirgli di trascendere a maggiori eccessi. Comandò quindi che si cercasse un tale ser Nuto, uomo odiatissimo, che era stato dagli avversari del popolo designato per bargello; e tutti allora s'avviarono, pieni d'ira, a cercarlo. Michele di Lando profittò subito del momento, per cominciare con giustizia quel governo che aveva acquistato con fortuna, e non solo ordinò che niuno osasse più di ardere le case, ma fece piantare le forche in Piazza, dimostrando così che era deciso a punir severamente chi non obbediva. In questo mezzo tornò la moltitudine, menando ser Nuto, che fu «a quelle forche per un piede impiccato, del quale avendone qualunque era intorno spiccato un pezzo, non rimase in un tratto di lui altro che il piede.» Secondo il Machiavelli, Michele di Lando non dette l'ordine esplicito d'ammazzare ser Nuto, perchè non ve n'era bisogno. Designando però la vittima odiata, che nessuno avrebbe potuto o voluto salvare, pensò con essa di saziare l'ira popolare. E così avrebbe trovato il modo di risparmiare la vita e le case di molti cittadini, di ristabilire subito l'ordine e la giustizia.

Se non che, tutto ciò non è storicamente vero. Il Capponi, nel suo Tumulto dei Ciompi, non parla del fatto, perchè la sua narrazione si ferma prima d'arrivare a questo punto; ne parlano invece gli altri storici, a cui ora ricorre il Machiavelli, ma essi l'attribuiscono ad uno scoppio feroce e spontaneo d'ira popolare, senza punto accennare che Michele di Lando vi avesse avuto parte alcuna. L'eccidio seguì di certo, e sembra ancora che, dopo averlo compiuto, il furor popolare si calmasse davvero. Ma l'ordine dato da Michele al popolo, e la intenzione con cui l'avrebbe dato, sono menzionati solo dal Machiavelli, e furono da lui inventati. Egli era talmente persuaso, che un uomo il quale, nelle rivoluzioni, nella politica, salga d'un tratto a grande altezza, deve di necessità avere nelle vene una qualche goccia del sangue di Cesare Borgia, che la vedeva anche là dove non ve n'era traccia. Del semplice scardassiere, che godè di una brevissima popolarità, che fece in vero più bene che male, ed ebbe molti lodatori, ma non fu nulla di singolarmente grande, volle formare un accorto politico, un gran personaggio. Lo ammirò oltre misura, perchè lo vide difensore della libertà popolare, senza pensare a valersi mai della prospera fortuna, per tentare di farsi tiranno. Ed una volta cominciato a dipingere il suo quadro in proporzioni assai maggiori del vero, egli lo volle, perchè riuscisse anche più attraente, colorire colla propria immaginazione, la quale troppo spesso vedeva il Valentino per tutto. E continuò, con la stessa ammirazione, con la stessa fantasia, sino alla fine. Quando poi la plebe tornò ai disordini, passando ogni confine, e non valsero ragioni nè minacce a frenarla, Michele, secondo il Machiavelli, corse la Città con la spada in mano, seguito da molti armati, e domò colla forza i ribelli. Così finalmente si sarebbero posati i tumulti «solo per virtù del Gonfaloniere, il quale d'animo, di prudenza e di bontà superò in quel tempo qualunque cittadino, e merita d'essere annoverato in tra i pochi che abbino beneficato la patria loro, perchè la bontà sua non gli fece venir pensiero nell'animo che fosse al bene universale contrario.» Ma tutto ciò è lavoro d'immaginazione. Michele di Lando fu invece un personaggio assai modesto, che spesso divenne involontario, inconscio strumento nelle mani di Salvestro de' Medici, ed in nessun caso avrebbe mai potuto, seriamente aspirare alla tirannide.

Il Machiavelli torna qui a Marchionne Stefani, e poco giovandosi dell'Aretino o di altri, continua la sua narrazione fino al 1414. Esamina, innanzi tutto, le prime conseguenze del Tumulto dei Ciompi, le quali furono una reazione contro l'eccessivo potere della plebe, cacciata ora dal governo, ed un nuovo trionfo delle Arti. Le Minori prevalsero però sulle Maggiori, e salirono quindi in auge i nemici degli Albizzi, come Giorgio Scali e più specialmente ancora Salvestro de' Medici. Questi, che era stato sin da principio il segreto promotore e manipolatore del tumulto, seppe profittare a suo proprio vantaggio della reazione che ne seguì a danno della plebe e delle Arti Maggiori. Egli e non Michele di Lando fu veramente l'accorto politico, e ciò, secondo il Machiavelli stesso, il quale poi, non volendo lodare una condotta senza audacia e di soli sotterfugi, che mirava a distruggere la libertà, esaltò e idealizzò invece il modesto e ardito scardassiere, che non pensò mai ad abusare della fortuna, a danno del popolo ed a suo proprio vantaggio.

Quando incominciò più tardi la lunga guerra dei Fiorentini contro Giovan Galeazzo Visconti, chiamato il Conte di Virtù, signore di Milano, che voleva farsi padrone di tutta Italia, il governo di Firenze tornò di nuovo nelle mani delle Arti Maggiori e degli Albizzi, i quali condussero la guerra con energia e con mirabile patriottismo. Ma essi dovettero aumentare le gravezze, e tener basso il popolo minuto, che ne restò naturalmente assai scontento. Laonde, quando appena cessarono i pericoli e si tornò alla pace, la moltitudine si sollevò subito, rivolgendosi a messer Vieri de' Medici, che divenne come il capo della Città, seguendo sempre la stessa accorta politica di aspettazione.

Il quarto libro descrive in qual modo i Medici arrivarono finalmente a toccare la mèta desiderata. S'incomincia dal 1420, facendo così un salto di parecchi anni, e si arriva fino al trionfo di Cosimo de' Medici, dopo il suo ritorno dall'esilio nel 1434. La ragione del salto non sta solamente nel non essere in quel mezzo seguiti fatti molto notevoli. Il Machiavelli si vale qui esclusivamente d'una nuova fonte, le Istorie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti, e queste incominciano appunto dal 1420. Il poco o nessun valore letterario dell'opera, la fece restar lungamente dimenticata; pure come narrazione di avvenimenti contemporanei, essa fu giudicata ed è veramente una guida sicura. Il Machiavelli ebbe quindi ragione di giovarsene moltissimo, più assai che non fece di tutte le altre sue fonti. Qualche volta, mutandone solamente lo stile, la copia addirittura.

I Medici incominciano ora ad essere potenti davvero, ed egli sembra perciò rivolgere più che può lo sguardo dai fatti interni di Firenze, per fermarsi invece a parlare lungamente delle guerre esterne, che aveva finora sempre trascurate. Ne parla però solo per avere occasione a dir male dei capitani di ventura, a notare la funesta azione che esse ebbero sui partiti in Firenze, ponendo in luce l'arte infinita con cui i Medici seppero cavarne profitto. Prende dal Cavalcanti il racconto d'alcune di esse, e lo colorisce a suo modo; ne lascia però da parte altre non poche, seguendo il suo autore nella narrazione che egli ci lasciò dei fatti interni. Il Cavalcanti fa su di essi anche le sue considerazioni, esponendole in lunghissimi, eterni discorsi, che pone in bocca de' suoi personaggi. Questi discorsi sono retorici, gonfi, penosissimi a leggersi; ma hanno il pregio di contenere i ragionamenti che si facevano allora in Firenze. Ed il Machiavelli li imita, qualche volta li copia addirittura. Se non che, quelle retoriche cicalate, per la magica forza della sua penna, diventano eloquentissime, come anche le lunghe, monotone narrazioni del Cavalcanti diventano, spesso con pochi accorti mutamenti, rapide, efficaci, vivacissime. E se a ciò s'aggiunge la connessione logica de' fatti, che egli vi pone sempre di suo, capiremo come questo quarto libro delle Storie possa avere un proprio e non piccolo valore, nonostante la continua imitazione, la quale è tale davvero, che niuno può farsene un'idea chiara, senza paragonare fra loro i due autori. E dal paragone apparisce ancora con quanto poco un uomo di genio possa mutare un pessimo scritto in uno eccellente.

Dopo una breve introduzione sui pericoli che corre la libertà, se le buone leggi non frenano gli eccessi dei nobili, che spingono alla oppressione, e quelli del popolo, che spingono alla licenza, il Machiavelli osserva come queste buone leggi le ebbero gli antichi, non le repubbliche italiane del Medio Evo, che perciò finiron tutte coll'aver bisogno d'essere da qualcuno comandate. «Un esempio manifesto ne dette Firenze, dove le parti nate per la discordia degli Albizzi e dei Ricci, e da messer Salvestro de' Medici con tanto scandalo risuscitate, mai non si spensero. Grandi furono certo i meriti degli Albizzi verso la patria; ma essi divennero subito insolenti, e si lacerarono per invidia fra di loro, il che dette modo ai Medici di riprendere sempre maggiore autorità sul popolo. Così Giovanni arrivò finalmente al primo magistrato, con grande allegrezza dell'universale. Ed invano i più savî, massime Niccolò da Uzzano, avvertirono che già si era al principio della tirannide.»

Di qui si vien subito alla guerra contro Filippo Maria Visconti, che aspirava al dominio d'Italia. E gli Albizzi furono di nuovo a capo del governo, di nuovo conducendo con molta energia la guerra, che finì nel 1424 con la rotta di Zagonara. Il Cavalcanti dice che la battaglia «incominciò grandissima e mortale;» ma che i Fiorentini furono per imperizia dei capitani circondati e messi in fuga. Il generale supremo fu fatto prigioniero; Lodovico degli Obizzi, uno dei capitani, fu morto; un terzo affogò nell'acqua. Secondo l'Ammirato furono inoltre disarmati dal nemico 3200 cavalieri. Tutto questo fa credere che, oltre i capitani, morissero anche parecchi soldati. Ma al Machiavelli, che pure ha dinanzi a sè la narrazione del Cavalcanti, non par vero di trovare una prima occasione ad esprimere il disprezzo che aveva per le armi mercenarie, e senza parlare d'alcuna resistenza, conclude dicendo, che «in tanta rotta per tutta Italia celebrata, non morì altri che Ludovico degli Obizzi, insieme con due altri dei suoi, i quali cascati da cavallo, affogarono nel fango.» Vedremo che lo stesso presso a poco egli ripete anche di altre guerre fatte allora, nelle quali la resistenza fu assai maggiore ed il numero dei morti meglio conosciuto.

La rotta di Zagonara ebbe per sua immediata conseguenza, la disfatta in Firenze delle Arti Maggiori e degli Albizzi. In tutte le piazze si gridava contro la loro ambizione. «Ora hanno creato costoro i Dieci per dar terrore al nimico? Ora hanno eglino soccorso Forlì e trattolo dalle mani del Duca? Ecco che si sono scoperti i consigli loro, ed a qual fine camminavano: non per difendere la libertà, la quale è loro inimica, ma per accrescere la potenza propria, la quale Iddio ha giustamente diminuita. Nè hanno solo con questa impresa aggravata la Città, ma con molte, perchè simile a questa fu quella contro al re Ladislao. A chi ricorreranno eglino ora per aiuto? A papa Martino, stato a contemplazione di Braccio straziato da loro? Alla reina Giovanna, che per abbandonarla l'hanno fatta gettare in grembo al re di Aragona?» Chi mai crederebbe che questo discorso è addirittura calcato sopra quello già scritto dal Cavalcanti? E pure è così certamente. Vennero allora creati venti cittadini, per mettere nuove imposte, e pagar le spese della guerra. Essi però aggravarono principalmente i popolani grassi; e questi si radunarono in Santo Stefano, dove Rinaldo degli Albizzi tenne loro un discorso, che il Cavalcanti ci dà in quindici pagine, diluendo in un mare di frasi le proposte che furono fatte, e che il Machiavelli raccoglie, con grande evidenza, in poche parole. Bisognava rendere, disse l'Albizzi, lo Stato ai potenti, e torre autorità alle Arti Minori, riducendole da quattordici a sette. Seguono ancora altri discorsi, che son sempre imitati dal Cavalcanti. E finalmente l'Albizzi riceve dai suoi incarico di guadagnare alla parte Giovanni dei Medici. Ma questi gli rispose dichiarandosi avverso alle novità, amico del popolo, il che gli accrebbe subito favore grandissimo nella Città. E qui il Cavalcanti continua, in venticinque capitoli, a parlare delle guerre esterne, che il Machiavelli tralascia quasi del tutto, ricordandone appena qualche aneddoto.

Seguìta la pace, rinacquero al solito le discordie, e Giovanni dei Medici favorì la legge del Catasto, la quale, dando modo di mettere le imposte secondo i redditi accertati, e non più ad arbitrio, era dal popolo grasso avversata, dal minuto desiderata, e fu vinta coll'aiuto di Giovanni, che poco dopo morì (1429). La descrizione della sua morte, il discorso ai figli, e perfino il suo elogio son presi sempre dalla stessa sorgente, migliorandola con la solita arte. Corre poi il Machiavelli rapidissimamente sopra altri fatti, ed arriva alla guerra contro Lucca, che riuscì in fine tutta a favore dei Medici. Deliberata, per opera d'Astorre Gianni e di Rinaldo degli Albizzi, i quali andarono commissari al campo, essa fu ben presto causa della loro rovina. Astorre Gianni si condusse con grande crudeltà contro Seravezza che pur si era già spontaneamente arresa. E però alcuni di quei cittadini vennero in Firenze, dicendo: «Questo vostro commissario non ha d'uomo altro che la presenza, nè di Fiorentino altro che il nome: una peste mortifera, una fiera crudele, un mostro orrendo, quanto mai da «alcuno scrittore fosse figurato.» Astorre allora fu richiamato, e l'Albizzi, pieno di sdegno perchè lo accusavano di aver mercanteggiato sugli approvvigionamenti dell'esercito e sulle prede di guerra, abbandonò il campo e rinunziò l'ufficio. Dopo di che la guerra andò di male in peggio, ed i Fiorentini vennero disfatti presso il Serchio.

Il Machiavelli, ricordate in breve queste fazioni, che il Cavalcanti narra a lungo, introduce finalmente sulla scena Cosimo de' Medici, che da gran tempo aspettava l'occasione ormai vicina. Ne fa il ritratto, lodandone i modi, la prudenza singolare, la liberalità grandissima verso gli amici, della quale si valeva a divenir sempre più potente. Egli aveva prima favorito la guerra contro Lucca, ed ora che, condotta dall'Albizzi, era riuscita così male, taceva o ne faceva cadere su questo tutta la colpa. Il Barbadori che s'era avvisto dell'arte finissima, invano andò da Niccolò da Uzzano, per indurlo ad unirsi coll'Albizzi, e cacciare dalla Città Cosimo. Nel farci questo racconto, seguendo le tracce del Cavalcanti, il Machiavelli tralascia il discorso che questi pone in bocca del Barbadori; ma copia, modificandolo nella forma, quello dell'Uzzano, aggiungendovi di suo appena qualche riflessione. «E' si farebbe per te, per la tua casa e per la nostra Repubblica, che tu e gli altri che ti seguono in questa opinione, avessero la barba piuttosto d'ariento che d'oro, perchè i loro consigli, procedendo da capo canuto e pieno di esperienza, sarebbero più savî e più utili a ciascheduno.» «Questa nostra parte voi la chiamate dei nobili; ma se così è, io ti ricordo che i nobili furono sempre in Firenze vinti dalla plebe. Ed ora si aggiunge, che noi siamo divisi e gli avversari sono uniti. Cosimo ha poi in mille modi beneficato il popolo.» «Adunque converrebbe addurre le cagioni del cacciarlo, perchè egli è pietoso, officioso, liberale e amato da ciascuno. Dimmi un poco qual legge è quella che proibisca o che biasimi e danni negli uomini la pietà, la liberalità, lo amore? E benchè siano modi tutti che tirino gli uomini volando al principato, nondimeno e' non sono creduti così, e noi non siamo sufficienti a dargli ad intendere, perchè i modi nostri ci hanno tolta la fede.» «Certo, sebbene e' sia molto difficile il cacciare Cosimo, pure, avendo una Signoria amica, si potrebbe riuscirvi.

Ben presto però egli tornerebbe,» «e ne avreste guadagnato questo, che voi l'avreste cacciato buono, e tornerebbeci cattivo, perchè la natura sua sarebbe corrotta da quelli che lo revocassero, a' quali sendo obbligato, non si potrebbe opporre.» Fu quello che in fatti seguì; e di quest'ultima osservazione venne data gran lode al Machiavelli; ma essa, come quasi tutto il discorso, si trovava già nel Cavalcanti.

Niccolò da Uzzano morì, e restarono a contendersi Rinaldo degli Albizzi e Cosimo de' Medici, che coi loro seguaci tenevano da capo divisa la Città. «Qualunque volta,» così scrive il Machiavelli, seguendo sempre il suo modello, «si creava un magistrato, si diceva pubblicamente quanti dell'una e quanti dell'altra parte vi sedevano, e nella tratta de' Signori stava tutta la Città sollevata. Ogni caso che veniva davanti ai magistrati, ancora che minimo, si riduceva fra loro in gara; i segreti si pubblicavano; così il bene come il male si favoriva e disfavoriva; i buoni come i cattivi ugualmente erano lacerati; niuno magistrato faceva l'ufficio suo.» E quando stava per essere eletto gonfaloniere Bernardo Guadagni, amico dell'Albizzi, questi, ad evitare che la elezione fosse annullata, gli dette il danaro necessario per soddisfare alle imposte da lui non ancora potute pagare, chiedendogli che si adoperasse nel nuovo ufficio a cacciar dalla città Cosimo de' Medici, divenuto sempre più potente. Anche nel riferire questo discorso, il Machiavelli ci dà un sunto fedele di quello che si legge nel Cavalcanti. «Gli ricordò che se messer Salvestro dei Medici aveva potuto ingiustamente frenare la grandezza de' Guelfi, ai quali spettava il governo della Città, a cagione del sangue dai loro antenati per essa versato, ben poteva egli giustamente fare contro un solo, quello che ingiustamente era stato fatto dagli altri contro tanti. Confortollo a non temere, perchè gli amici lo avrebbero aiutato colle armi, e Cosimo dalla plebe, che ora sembrava adorarlo, non trarrebbe altri favori che si facesse già messer Giorgio Scali; nè v'era da dubitare delle ricchezze di lui, perchè, quando fosse preso dai Signori, anderebbero anch'esse nelle loro mani. Questo renderebbe finalmente la Repubblica sicura ed unita, e lui glorioso.»

Dal Cavalcanti è preso tutto il racconto della prigionia, dell'esilio e del ritorno trionfale di Cosimo, non solo nelle linee generali, ma anche nei minuti particolari e nei discorsi. Molti incidenti si trovano nel suo libro che non sono in quello del Machiavelli, ma nessuno quasi è nel secondo, che non sia nel primo. Ed anche le parole di rimprovero, che nella fine di questo libro, l'Albizzi, costretto ad esulare, dice a papa Eugenio IV, sono prese dalla stessa fonte. Il Machiavelli però, come sempre, aggiunge col nuovo stile anche la connessione e la profonda intelligenza dei fatti. Egli in vero fu il primo che fece vedere, come la guerra portò al potere gli Albizzi con le Arti Maggiori, e la pace vi portò invece le Minori, dietro le quali stavano come in continuo agguato i Medici, che ottennero il favore della plebe, facendo mostra di favorirla, per poi opprimere tutti. Così potè trasformare in una storia originale e nuova, che poneva in luce l'arte più segreta dei Medici, la narrazione lunga e noiosa del Cavalcanti, scritta pessimamente, nella quale i fatti più gravi e gl'incidenti più insignificanti sono messi gli uni accanto agli altri, senza legame, senza ordine o distinzione di sorta, perdendo il loro significato, il loro proprio valore. Il paragone fra le due opere riesce quindi assai utile, ed è perciò che noi abbiamo creduto opportuno di fermarci a discorrerne così a lungo.

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