CAPITOLO XIV.

Le Istorie fiorentine. - I libri V e VI, il trionfo dei Medici e le guerre d'Italia. - I libri VII e VIII, Lorenzo dei Medici e le congiure. - I Frammenti storici. - Gli Estratti di lettere ai Dieci di Balìa. - La prima bozza delle Istorie.

I quattro libri che seguono, costituiscono la terza ed ultima parte delle Storie, e procedono assai meno ordinati. Il Machiavelli avrebbe qui dovuto parlare del dispotismo dei Medici, e dei modi con cui distrussero la libertà. Ma era un argomento assai difficile per lui. Anche lodando le loro buone qualità, avrebbe dovuto biasimare aspramente la loro condotta politica, e non poteva farlo con la necessaria libertà, in un'opera dedicata a Clemente VII, che gliene aveva fatto avere la commissione. Il 30 agosto 1524 egli scriveva al Guicciardini: «Attendo in villa all'istoria, e pagherei dieci soldi, non voglio dire di più, per consultarvi; giacchè sono venuto a un punto, che avrei bisogno d'intendere da voi, se offendo troppo con l'esaltare o abbassare. Pure m'ingegnerò di fare in modo che, dicendo il vero, nessuno si possa dolere.» Nel quinto e sesto libro perciò egli si ferma lungamente a parlare delle guerre fiorentine, anzi delle italiane in generale, per sempre più condannare i capitani di ventura, dimostrando di nuovo che essi furon causa della rovina d'Italia. Solo di tanto in tanto ritorna ai fatti interni di Firenze, pei quali continua a valersi del Cavalcanti; ma poi subito ne rifugge, per discorrer nuovamente delle guerre, nel raccontar le quali si vale di Flavio Biondo, di Gino Capponi e del Simonetta, che ne furono spesso testimoni oculari.

Dopo avere adunque accennato alle sue ben note idee sul crescere e decadere degli Stati, osserva che nelle umane società prima sorgono i capitani e le armi, poi la filosofia e le lettere. «Le armi portano vittoria, la vittoria quiete, nè si può la fortezza degli animi con il più onesto modo, che con quello delle lettere corrompere. L'Italia percorse anch'essa queste vicende, riuscendo con gli Etruschi ed i Romani ad essere ora felice, ora misera. E sebbene, dopo la rovina dell'Impero, non si fece nulla che riuscisse a redimerla, riunendola sotto un virtuoso principe che sapesse farla gloriosamente operare, pure essa potè per qualche tempo avere la virtù necessaria a difendersi dai barbari. Ma si venne poi a tempi i quali non furono per la pace quieti, nè per la guerra pericolosi. I principi e gli Stati, è vero, si assaltavano l'un l'altro; ma non si possono chiamare guerre quelle in cui gli uomini non si ammazzano, le città non si saccheggiano, i principati non si distruggono. Esse si cominciavano senza paura, trattavansi senza pericolo, finivansi senza danno. E così quella virtù militare, che altrove fu spenta dalla lunga pace, venne fra di noi spenta da tali guerre, come si vedrà per ciò che diremo dal 1434 al 1494, quando fu di nuovo aperta la via ai barbari, e rimessa l'Italia nella loro servitù.» «E se nel descrivere le cose seguite in questo basso mondo, non si narrerà o fortezza di soldati o virtù di capitani o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni, con quali astuzie ed arti i principi, i soldati e capi delle repubbliche, per mantenersi quella reputazione che non avevano meritata, si governavano.» Questa è la introduzione al quinto libro.

Comincia poi il Machiavelli a parlar delle due scuole della milizia italiana, capitanate l'una da Francesco Sforza, l'altra da Niccolò Fortebracci e da Niccolò Piccinini. Narra rapidamente, incompiutamente, con assai poca esattezza le loro imprese nello Stato della Chiesa dopo l'anno 1433, sempre col solo scopo di far conoscere la triste natura di quelle guerre, le grandi rovine che portarono alla libertà ed all'Italia. E tutto ciò, ora venendo bruscamente ai fatti interni di Firenze, ora allontanandosene di nuovo non meno bruscamente. Il ritorno trionfale di Cosimo, e le persecuzioni che subito ne seguirono, conducono l'autore a fare alcune osservazioni, le quali rivelano che cosa egli veramente pensasse di quei fatti, e perchè rifuggisse dal narrarli. «Ai cittadini allora non solo l'umore delle parti nuoceva; ma le ricchezze, i parenti, le inimicizie private. E se questa proscrizione fosse stata dal sangue accompagnata, avrebbe a quella d'Ottaviano e di Silla renduto similitudine, ancora che in qualche parte nel sangue s'intingesse; essendo stati decapitati Bernardo Guadagni ed altri cittadini.» Non furono mutati i magistrati, ma alterate le loro attribuzioni, diminuita la loro importanza politica. Si trovò con le Balìe il modo d'assicurare in favore dei Medici le nuove elezioni, anzi questa fu poi sempre la loro arte di governo. Poco altro ci dice della storia interna di Firenze il quinto libro, che torna ora a parlar delle principali guerre italiane, sulle quali assai più lungamente si ferma.

Da Firenze si salta in fatti alla morte di Giovanna II di Napoli, alla venuta di Alfonso d'Aragona ed alla guerra da lui sostenuta contro i Genovesi, che lo fecero prigioniero insieme con due suoi fratelli, e li condussero al duca Filippo M. Visconti, per ordine del quale avevano combattuto. Qui il Cavalcanti immagina uno strano e assurdo discorso del Duca, dopo del quale esso avrebbe senz'altro liberato i prigionieri, colmandoli di cortesie, con parole sempre retoriche, ampollose e vuote. Il Machiavelli compone invece un discorso, mediante il quale Alfonso d'Aragona avrebbe, con assai accorte ragioni, persuaso il Duca a lasciarlo libero. Questo discorso non ha certo nulla di storico; ma espone quali furono le vere ragioni che, secondo il Machiavelli, dovettero decidere il Duca a liberare i prigionieri. «A lui più che ad altri era pericoloso,» così gli avrebbe detto il Re, «col tener prigionieri gli Aragonesi, far trionfare in Napoli gli Angioini. Milano avrebbe allora avuto i Francesi a settentrione ed a mezzogiorno, rimanendo così in loro balìa. A nessuno quindi più che a lui importava il trionfo degli Aragonesi in Napoli, se già ei non volesse soddisfare ad un suo appetito, piuttosto che assicurarsi lo Stato.»

Segue, in conseguenza di ciò, la rivoluzione dei Genovesi, sdegnati d'aver combattuto invano, vedendosi costretti a ricondurre liberi sulle proprie navi i prigionieri che avevano presi. Di qui la loro alleanza con Firenze e Venezia contro Milano, che fu difesa dalle armi di Niccolò Piccinini. Ed ora il Machiavelli incomincia a valersi dei Commentarî di Neri Capponi, giovandosene anche nel narrare le guerre tra lo Sforza ed il Piccinini. Va d'un tratto alle vicende del celebre e fiero cardinal Vitelleschi, che raccoglie da Flavio Biondo. E si ferma poi a narrare la battaglia d'Anghiari, vinta dai Fiorentini con le loro armi mercenarie, contro l'esercito del Piccinini, il quale combatteva pel Visconti. Qui si lascia trascinar nuovamente dalla voglia di parlar male dei soldati di ventura. Avendo dinanzi a sè scrittori autorevoli, che davano narrazioni minute e fedeli della battaglia, se ne allontana per esagerar contro il vero, in modo appena credibile. Dopo aver detto che il Piccinini fu disfatto pienamente, aggiunge che «in tanta rotta, in sì lunga zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì altri che un uomo, il quale non di ferite o altro virtuoso colpo, ma, caduto da cavallo e calpesto, espirò.» «I capitani non vollero inseguire il nemico, ma contro il volere dei commissari fiorentini, contro ogni buono ordine di guerra, andarono in Arezzo a deporre la preda fatta, liberando gli uomini d'arme che avevano presi al nemico. Onde è da meravigliarsi solamente, che si fosse trovata in questo tanta viltà da lasciarsi vincere da un esercito siffatto.» Eppure nulla di tutto ciò dicono gli scrittori del tempo. Il Capponi, che era commissario al campo, si duole molto dell'esercito; ma afferma che il nemico venne inseguito sino ai fossi degli alloggiamenti, e che furono fatti 1540 prigionieri. Parlando poi della cura che i Fiorentini dovettero prendere dei loro feriti, ci fa chiaramente capire che la battaglia non era stata senza sangue, come affermò poi il Machiavelli. Flavio Biondo, che per questi tempi è anch'esso molto autorevole, parla di sessanta morti e quattrocento feriti tra i ducheschi, di dugento feriti e dieci morti tra i Fiorentini, oltre seicento cavalli d'ambo le parti, distesi sul suolo dalle artiglierie. E aggiunge che il capitano Astorre Manfredi fu fatto prigioniero dopo essere stato ferito. Il Bracciolini dice che vi furono quaranta morti e molti feriti da parte del nemico.

Dopo avere narrata la presa del Casentino, per opera del commissario Capponi, e la morte di Rinaldo degli Albizzi, il Machiavelli finisce il quinto ed incomincia il sesto libro, tornando nella introduzione di esso a deplorare il modo con cui allora si facevano le guerre. Narra le fazioni di Lombardia tra il Piccinini, che era ai servigi del Duca, e lo Sforza, che combattè prima pei Veneziani e pei Fiorentini; poi, mutato padrone, pel Duca contro il Piccinini, che ora aveva mutato anch'egli. E qui l'autore torna bruscamente ai fatti di Firenze, dicendo come Cosimo era vissuto in gelosia grandissima verso Neri Capponi e Baldaccio d'Anghiari, il quale venne poi ucciso a tradimento e gettato dalle finestre di palazzo. Di questo ultimo fatto il Cavalcanti ed il Machiavelli danno tutta la colpa agli amici di Cosimo; ma il Guicciardini, forse con maggior verità, afferma invece che primo ordinatore dell'assassinio fu Cosimo stesso, il quale seppe operare in maniera da disfarsi d'uno dei due nemici, indebolendo anche l'altro, senza potere essere accusato da alcuno.

E da capo, giacchè questo libro, al pari del precedente, manca d'ogni unità, si ripiglia la narrazione delle guerre di Lombardia fino a che muore il Duca senza eredi, come da tanto tempo aspettava lo Sforza, suo capitano e suo rivale. Il Machiavelli si ferma qui a narrare la storia della repubblica ambrosiana, che commise l'errore di scegliere a suo capitano lo Sforza, il quale iniquamente la tradì, rivolgendo contro di essa quelle armi che erano a lui pagate per difenderla. Ma sebbene avesse dinanzi a sè la narrazione dello storico Simonetta, pure, essendo egli avversissimo allo Sforza, perchè capitano di ventura e distruttore di una repubblica, colorisce a suo capriccio la brutta storia, senza voler rendere giustizia neppure all'ingegno politico e militare di lui. E rende anche più singolare il suo racconto, ponendo in bocca dei rappresentanti della tradita città, un discorso, che certo essi non avrebbero mai osato di fare allo Sforza; ma che esprime invece, in modo assai chiaro ed eloquente, il giudizio che il Machiavelli faceva della condotta di lui. Venuti adunque al campo del vittorioso traditore, essi così avrebbero parlato: «Noi non possiamo adoperare nè prieghi, nè premi, nè minacce, perchè negli uomini potenti e crudeli non hanno forza. Conoscendo ora la crudeltà ed ambizione tua, vogliamo solo ricordarti i benefizî che hai ricevuti dai Milanesi, per dimostrarti così la tua ingratitudine, e gustare qualche piacere nel rimproverarteli. Noi ti pigliammo al nostro soldo, quando eri da tutti abbandonato, e tu subito incominciasti a tradirci. Chè non differisti insino ad ora a dimostrarci l'iniquo animo tuo; ma ne desti segno, quando fosti appena padrone delle nostre armi, ricevendo in tuo proprio nome Pavia. Oh! infelici quelle città che sono, colle armi mercenarie ed infedeli come le tue, necessitate a difendersi. Noi certo non dovevamo porre speranza in colui che aveva tante volte tradito; ma se la nostra poca prudenza accusa noi, non scusa perciò la perfidia tua, e tu stesso dovrai giudicarti degno della pena dei parricidi.»

Queste guerre dello Sforza sono, può dirsi, l'argomento principale del quinto e del sesto libro. In mezzo al disordine apparente con cui esse procedono, il Machiavelli vede ed espone assai chiaro il loro scopo costante, che ne determina l'unità. La vita di quel capitano, i mezzi con cui arrivò all'ambita signoria di Milano, scalzando prima la potenza del Duca, e tradendo poi perfidamente la repubblica ambrosiana, riescono il più chiaro esempio d'una pertinace e sleale ambizione, dando un'altra prova manifesta della nessuna fede che si poteva avere negli eserciti di ventura, ed in coloro che li comandavano. Dopo di che il Machiavelli narra altre guerre, ed arriva alla fine del sesto libro, conchiudendolo con le vicende seguìte nel reame di Napoli sino alla morte d'Alfonso d'Aragona, ed all'avvenimento di Ferrante al trono.

Incomincia poi il settimo libro collo scusarsi d'avere troppo divagato nella storia generale d'Italia; ma ciò gli parve necessario a far meglio intendere quella di Firenze, alla quale ora ritorna per poco, premettendo alcune nuove riflessioni sui modi con cui i Medici, in mezzo alle divisioni, si fecero strada al potere assoluto. «Le divisioni sono in tutte le città inevitabili; ma i capi di parte possono divenire autorevoli e potenti per vie pubbliche o per vie private. Quando si compie lodevolmente una guerra o un'ambasceria, quando si danno utili consigli alla repubblica, allora si sale per vie pubbliche, giovando alla patria, e si trovano amici e aderenti. Quando si rendono benefizî o favori ai privati, e si gratificano con danari o con ufficî; quando si trattiene il popolo con giuochi e feste pubbliche, allora si sale per vie private, e si fanno partigiani che danno origine alle sètte, le quali sono sempre nocive. Queste deve un savio legislatore cercare di spegnere, non potendo mai evitare del tutto le divisioni. Neri Capponi era salito solamente per vie pubbliche; Cosimo de' Medici, per vie pubbliche e private, onde ebbe non solo amici, ma anche partigiani, che formarono una sètta. Essa si tenne più o meno unita dal 1434 al 1455, e potè quindi in ventun anno, per mezzo delle Balìe, riassumere sei volte il governo. Ma dopo la morte del Capponi (1455) i partigiani de' Medici si divisero, volendo alcuni da capo la Balìa, altri le elezioni a sorte. Vinsero i primi, e la sètta divenne allora più potente e audace che mai. Fu questo governo che durò otto anni, insopportabile e violento, perchè Cosimo, vecchio e stanco, lasciò fare ai suoi, che restarono senza freno, e Luca Pitti, suo amico, pensò solo a costruire il proprio palazzo ricevendo donativi da ognuno.»

Segue nel 1464 la morte di Cosimo, ed il Machiavelli deve fermarsi a farne l'elogio. Dice adunque che egli fu esempio unico di potere acquistato in città libera, senza le armi, solo con la prudenza e l'astuzia. Seppe per trentun anno tenere lo Stato, rivolgendo così le divisioni interne della Città come le guerre esterne a proprio vantaggio, perchè conosceva i mali discosto e preparava i rimedî a tempo. Accenna alla protezione data da Cosimo alle lettere ed alle arti; ma neppure in questo luogo trova modo di parlare alquanto largamente della nuova cultura che fu allora iniziata a Firenze, e nella quale i Medici ebbero così gran parte. Non volendo o non potendo dir tutto quello che pensava del carattere politico di Cosimo, conclude ricordandone alcuni detti, che abbastanza chiaramente lo dipingono anche nelle sue parti meno lodevoli. - Gli Stati non si governano coi paternostri. - Meglio città guasta che perduta. - Con due canne di panno rosate si fa un uomo dabbene. - Con queste ultime parole Cosimo rispondeva a coloro che lo accusavano di fare entrare nel Palazzo e negli ufficî uomini di poco conto. Basta, egli voleva dire, che si dia loro il panno rosso per farsi il lucco, che saranno cittadini rispettabili come gli altri.

Qui la storia del Machiavelli entra in un nuovo argomento, che forma il soggetto principalissimo dei due ultimi libri. La società italiana s'andava sempre più corrompendo; il dispotismo trionfava per tutto; le guerre erano condotte in modo sempre più vergognoso: unica protesta, unico segno d'energia e d'amore alla libertà erano le congiure, che in questi anni furono molte. E però esse e le arti con cui i tiranni cercavano difendersi contro i proprî sudditi, sono ora il soggetto principale della narrazione. I fatti che il Machiavelli deve da qui innanzi esporre, si trovavano ricordati in molti scrittori contemporanei, ed erano allora freschi nella memoria di tutti. Una ricerca ed uno studio delle fonti è quindi inutile. Egli narrava quello che tutti sapevano e ripetevano; cercava qualche volta le altrui narrazioni ed anche i documenti autentici, qualche altra s'affidava alla memoria. Ciò che ora sopra tutto l'occupa è l'analisi delle passioni e dei sentimenti che animavano i congiurati, le cui imprese egli descrive, rappresenta con una eloquenza, con una potenza tale che alcune di queste pagine sono fra le più belle della sua storia. Ma anche qui, a meglio ottenere il suo intento, più d'una volta non ha scrupolo d'aggiustare i fatti, e comporre i discorsi a suo arbitrio.

Incomincia col narrare la fine di Iacopo Piccinini, il quale da Milano, incoraggiato dallo Sforza, andò a Napoli, dove fu proditoriamente ucciso da Ferrante d'Aragona. Il Machiavelli non esita punto a vedere in ciò l'accordo ed il tradimento dei due principi italiani, i quali, come tutti i tiranni, «quella virtù che non era in loro, temevano negli altri, e la spensero in modo da non poterla più ritrovare in alcuno, il che fu poi causa della rovina comune.» Il Guicciardini invece è più cauto, ed osserva che se pure vi fu l'accordo, sempre sdegnosamente negato dallo Sforza, non era possibile averne certezza, perchè i due sovrani non lo avrebbero mai concluso in modo da farlo conoscere agli altri.

Segue la congiura tramata a Firenze contro Piero dei Medici, uomo debole d'animo e di corpo, ma che pure, in questa occasione, riuscì superiore all'aspettativa. Il Machiavelli nondimeno colorisce il fatto in modo da far risaltare anche più del giusto la prudenza e prontezza dimostrate allora da Piero. Questi ricevette da Ercole Bentivoglio una lettera, con cui venne avvertito che i suoi nemici avevano raccolto genti, le quali già erano in via per Firenze. Allora, sebbene fosse ammalato in villa, scrisse subito, dando ordini per avere armati in sua difesa e, accompagnato da essi, si fece in lettiga portare nella Città, dove la sua inaspettata prontezza gli fece trovar modo di aggiustar le cose. Ma di tutto ciò il Machiavelli non si contenta, e per descrivere Piero anche più astuto che non fu realmente, afferma che egli, accortosi delle trame contro di lui ordite, finse d'aver ricevuto la lettera dal Bentivoglio, perchè gli servisse di pretesto ad armarsi improvvisamente. Questa infedeltà storica da esso ideata a favore del Medici, non gl'impedisce però di biasimare la condotta tenuta da lui e dagli amici nel perseguitare gli avversarî, in modo «che pareva che Iddio avesse loro dato quella Città in preda.» Nè si può supporre che simili errori siano sempre involontarî, perchè vi sono spesso prove del contrario. Un esempio ne abbiamo poco dopo, quando gli esuli che volevano tornare a Firenze, si rivolsero a Piero. Gli scrisse fra gli altri Angelo Acciaiuoli, chiedendo grazia con un linguaggio alquanto ironico, e quasi offensivo, cui egli rispose negando la grazia, in modo però abbastanza cortese e dignitoso. Sono a stampa le due lettere, che il Machiavelli certo vide, perchè ne riporta fedelmente alcune frasi, alterandone però il resto in maniera da fare apparire l'Acciaiuoli più rimesso, e Piero più duro e cinico che non fu. Dominato dalle sue teorie, e qualche volta anche eccentrico, egli obbediva spesso al solo capriccio della sua fantasia.

Non fu quindi senza ragione se l'Ammirato, giunto a questi medesimi tempi nelle sue Storie fiorentine, perdè la pazienza, e dopo avere notato in quelle del Machiavelli diversi errori, affermò che esso «scambia i nomi e gli anni, aggiunge, toglie, diminuisce, e, quello che è più, non sempre per solo errore, ma anche a disegno e per rendere la sua narrazione più eloquente.» Ed in vero poco più oltre, nel descrivere la battaglia seguìta l'anno 1466 alla Molinella, tra i Veneziani e i Fiorentini, egli finisce al solito con queste parole: «Vennero a una ordinata zuffa, la quale durò mezzo un giorno, senza che niuna delle parti inclinasse. Nondimeno non vi morì alcuno; solo vi furono alcuni cavalli feriti, e certi prigionieri da ogni parte presi.» Anche qui, l'Ammirato giustamente osserva, v'è grandissima esagerazione, perchè gli scrittori del tempo parlano tutti più o meno di parecchie centinaia di morti, ed il Guicciardini dice addirittura, che quello fu «un bel fatto d'armi.»

Ed ora si torna alle congiure. Bernardo Nardi, esule fiorentino, messosi d'accordo con Diotisalvi Neroni, andò a Prato per sollevare quella terra contro Firenze e contro Lorenzo e Giuliano dei Medici, che erano allora successi a Piero. Nel narrare questo fatto, il Machiavelli ci descrive una scena ignorata dagli altri scrittori, ma assai poco credibile. Il Nardi, secondo lui, s'impadronì del Podestà, ed era per impiccarlo alle finestre del Palazzo, quando questi, trovandosi col capestro al collo, gli fece un discorso così ben ragionato, con tali e tante promesse, che lo persuase a lasciarlo andar via libero. Allora il Podestà fu di nuovo padrone della terra, la congiura andò a monte, ed il Nardi venne decapitato. Il vero è invece che l'impresa fallì, perchè il popolo non si mosse, ed al rappresentante del governo fiorentino non fu quindi difficile vincere subito i ribelli e punirli.

Dopo la rivoluzione, la sottomissione ed il sacco crudelissimo di Volterra, il Machiavelli arriva all'episodio principale del settimo libro, alla congiura, cioè, scoppiata contro Galeazzo Sforza duca di Milano nel 1476. Lo stile qui si rialza con un vigore che va crescendo sino alla tragica fine del sanguinoso dramma. L'autore descrive con la penna di Tacito i vizî del Duca, che tutti offendeva, tutti insultava, pubblicamente vantandosi delle donne che disonorava, e l'odio feroce che negli offesi animi sorgeva perciò contro queste iniquità. Nel comporre la sua narrazione egli di certo aveva letto la coraggiosa confessione dell'Olgiati, che fu poi pubblicata dal Corio, e però con molta verità, con singolare eloquenza ci pone sotto gli occhi l'animo esaltato di quel giovane e de' suoi due compagni, continuamente riaccesi a cospirare, con la lettura dei classici latini, dal loro maestro Niccola Montano. I discorsi e preparativi che essi facevano, i continui esercizî a ferirsi impetuosamente colle guaine dei pugnali, e sopra tutto la strana mescolanza d'odio pagano contro la tirannide, e di sentimento cristiano, col quale volevano santificare quell'odio, sono descritti, rappresentati con tale evidenza, che noi abbiamo una visione tanto chiara e precisa del modo di sentire e di pensare in quei tempi, quale non si trova nè forse si troverà mai più in nessun altro scrittore antico e moderno. Il Machiavelli supera veramente sè stesso, quando, narrata che ha l'uccisione del Duca nella Chiesa, ci descrive la fine eroica dell'Olgiati, il solo dei congiurati che scampò al primo impeto del furor popolare. Sottomesso alla tortura, egli, come apparisce anche dal suo processo, invocava la Vergine e componeva distici latini, esaltando la libertà, ed affrontando impavido la morte. La prosa italiana difficilmente può presentarci esempî d'uno stile più vigoroso ed eloquente di quello del Machiavelli in questo luogo.

Pure seppe innalzarsi ancora più alto. L'ottavo libro continua il settimo, trattando lo stesso argomento. E perchè le considerazioni generali sulle congiure furono già esposte nei Discorsi, l'autore non fa su di esse nuovi preamboli, ma incomincia subito con quella dei Pazzi, scoppiata a Firenze l'anno 1478. Questa può dirsi il punto culminante della tenebrosa serie dei fatti sanguinosi, ricordati nei due ultimi libri delle Storie. Il Poliziano ed altri testimoni oculari l'avevano narrata, essa era quindi notissima a tutti in Firenze. Il Machiavelli aveva di certo parlato con più d'uno di coloro che vi si erano trovati presenti, ed aveva letto la confessione del Montesecco, uno dei congiurati, la quale venne divulgata quattro mesi dopo l'accaduto, ed è ricordata anche dal Guicciardini. La narrazione d'una tale congiura non poteva quindi permettere capricciose alterazioni; ed essa riuscì non solo esatta e fedele, ma anche un vero capolavoro di stile. La propria eloquenza trascina solo una o due volte l'autore, facendogli aggiungere di fantasia qualche particolare assai secondario, che senza mutar la natura dei fatti, serve a più vivamente colorirli. Di tanto in tanto il racconto, sempre vivace, sempre efficace, è interrotto da brevi considerazioni, esposte rapidamente come di passaggio, in modo da aggiungere, non da togliere forza.

Il Montesecco, sebbene fosse un soldato di ventura, ricusò di prender parte alla esecuzione della congiura, quando seppe che Lorenzo e Giuliano dovevano essere pugnalati in Duomo, nel momento della elevazione dell'ostia. Non volle unire il sacrilegio al tradimento. Vennero quindi scelti in fretta due altri, uno dei quali era prete, e si credeva perciò che, avendo con le cose sacre maggiore familiarità, dovesse avere minori scrupoli. Ma questo fu invece causa della rovina dell'impresa, «perchè se mai in alcuna faccenda si ricerca l'animo grande e fermo, e nella vita e nella morte per molte esperienze risoluto, è necessario averlo in questa, dove si è assai volte veduto agli uomini nell'arme esperti e nel sangue intrisi l'animo mancare.» Il Machiavelli è insuperabile, quando descrive i congiurati che, per esser sicuri di colpire a un tratto le due vittime predestinate, cercarono Giuliano e lo condussero in chiesa. «È cosa veramente degna di memoria, che tanto odio, tanto pensiero di tanto eccesso si potesse, con tanto cuore e tanta ostinazione d'animo, da Francesco (dei Pazzi) e da Bernardo (Bandini) ricoprire. Perchè condottolo nel tempio, e per la via e nella chiesa con motteggi e giovanili ragionamenti l'intrattennero. Nè mancò Francesco, sotto colore di carezzarlo, con le mani e con le braccia strignerlo, per vedere se lo trovava di corazza o d'altra simile difesa munito.» Di poi, nel momento fissato, gittatoglisi sopra, «lo empiè di ferite, e con tanto studio lo percosse, che, acciecato da quel furore che lo portava, sè medesimo in una gamba gravemente offese.» Lorenzo era scampato al pugnale degli assassini, ed il Bandini, vistolo ancora vivo dopo che Giuliano era morto, invano gli si scagliò contro con grandissimo impeto, ammazzando un altro che gli si parò allora dinanzi, perchè Lorenzo fu in tempo a salvarsi nella sagrestia. Il tumulto divenne tale «che pareva il tempio rovinasse.» La tremenda confusione di uomini, di grida, di ferite e di sangue è qui viva dinanzi a noi, nè meno vivamente sono descritte le stragi che nei giorni seguenti furono commesse dal popolo adirato, sempre più eccitato all'odio ed alla vendetta contro i congiurati dallo sdegno irrefrenabile di Lorenzo dei Medici. Francesco dei Pazzi venne con altri impiccato alle finestre del Palazzo; il suo vecchio parente, Iacopo, invano chiamò in aiuto il popolo, invano gridò il nome della libertà. «L'uno era dalla fortuna e liberalità dei Medici fatto sordo, l'altra in Firenze non era conosciuta.... Le membra dei morti o sopra la punta delle armi fitte o per la Città trascinate si vedevano.» Iacopo fu preso, mentre fuggiva su pei monti vicini, nè i montanari gli dettero ascolto, quando pregò che per pietà l'ammazzassero. Condannato a morte e sepolto nella tomba de' suoi, ne venne tirato fuori perchè scomunicato, e fu sotterrato lungo le mura. Poi di nuovo lo disseppellirono, trascinandolo per le vie della Città, collo stesso capestro col quale lo avevano impiccato. Finalmente il cadavere venne gittato in Arno, dove galleggiò lungo tempo, spettacolo orrendo agli occhi di tutti.

Dopo questo episodio principalissimo, l'ottavo ed ultimo libro continua con la narrazione di altre guerre e congiure italiane, arrivando sino alla morte di Lorenzo dei Medici nel 1492, con la quale finisce. Il Machiavelli si ferma qui a descriverne il carattere ed a tesserne l'elogio. Lo dice potente e fortunato in tutto, salvo nelle cose del commercio, che andarono a lui tanto male, quanto erano andate bene a Cosimo. Accenna, in termini assai generali, alle opere pubbliche da lui compiute, alla protezione data alle arti ed alle lettere, alla grande reputazione acquistata fra tutti i principi. «La quale riputazione ciascun giorno per la prudenza sua cresceva, perchè era nel discorrere le cose eloquente ed arguto, nel risolvere savio, nell'eseguirle presto ed animoso. Nè di quello si possono addurre vizî che maculassero tante sue virtù, ancora che fosse nelle cose veneree maravigliosamente involto, e che si dilettasse d'uomini faceti e mordaci, e di giuochi puerili più che a un tanto uomo non pareva si convenisse.» Questi elogi, sebbene in gran parte meritati, e da tutti universalmente ripetuti, sono pure espressi in forma alquanto vaga e generica, perchè il Machiavelli non sapeva senza riserve, esplicite o sottintese, ammirare colui che aveva con tanta astuzia finito di distruggere la libertà di Firenze, e s'era dato a proteggere letterati ed artisti, quando invece vi sarebbe stato bisogno di formare soldati. Il Guicciardini, invece, che non ebbe mai troppo ardenti entusiasmi repubblicani, e scrisse la Storia fiorentina nella sua gioventù, quando i Medici erano in esilio, e non si prevedeva ancora che potessero tornare, si trovò, nel parlare di Lorenzo, in una condizione d'animo più libera ed indipendente. Ce ne lasciò quindi un ritratto assai fedele, un giudizio più sicuro e determinato. Lo dichiara un tiranno, ma il più amabile che si potesse avere. Ne riconosce e ne esalta l'ingegno vario, elegante, originale. Come uomo politico lo crede inferiore a Cosimo, che in condizioni assai più difficili corse minori pericoli, e fondò uno Stato che Lorenzo fu spesso in procinto di perdere. Questi ebbe una superbia grande, governò col sospetto e collo spionaggio, esaltò gli uomini di poco conto, abbassò i più autorevoli e reputati, promosse la corruzione. E tutto ciò il Guicciardini dice colla massima calma, senza mai esaltarsi nè in favore, nè contro la libertà o i Medici.

Seguono ora i Frammenti storici, che son brani staccati, i quali dovevano formar parte dei libri seguenti, che non furono mai compiuti. Se diamo ad essi un'occhiata, vedremo facilmente come furono compilati dal Machiavelli, ed apprenderemo anche il modo da lui tenuto nel comporre il più recente periodo delle sue Storie. Questi Frammenti vanno dal 1494 al 1499, e sono divisi in due parti, la seconda delle quali, ancora più informe, è intitolata: Estratto di lettere ai Dieci di Balìa. I Dieci ricevevano, com'è noto, le lettere dei commissarî di guerra e degli ambasciatori. Da esse il Machiavelli ricavò i suoi Estratti, che sono semplici appunti, con i quali compose poi i Frammenti, che sono già brani staccati da far parte delle Storie, generalmente narrazioni di guerre della Repubblica. La forma dei Frammenti e degli Estratti è molto varia, qualche volta quasi finita e limata, qualche altra invece allo stato di primissimo abbozzo. In alcuni punti vi si trovano perfino le frasi stesse delle lettere su cui furono composti. Spesso infatti vi leggiamo: le vostre genti, i vostri ambasciatori fecero, dissero questo o quest'altro. Qualche volta vi si trovano semplici richiami per memoria dello scrittore: «domanda di questa risposta mess. Francesco Pepi.» Una tal forma informe apparisce anche più visibile verso la fine. Tutto vi è dall'autore accennato appena, per doverlo poi meglio studiare: «A dì otto di aprile 1498 morì il re Carlo di apoplessia, e quel medesimo dì seguì il caso del Frate, del quale si vuole dire appunto.» Spesso rimanda ad altre ricerche da farsi nelle lettere e nei documenti d'archivio: «Tutta la pratica si vede per una lettera che è in filza. - Sono in filza molte lettere, dalle quali si caverà ordine, come e quando le genti inimiche venissero a Marradi.»

Un tal modo di comporre le storie contemporanee era allora assai generale. Il Diario del Buonaccorsi è compilato colle lettere ai Dieci ed ai Signori; i Diarî di Marin Sanuto non son quasi altro che una gigantesca collezione di lettere e relazioni d'ambasciatori, cui ne furono aggiunte moltissime altre di privati. Il Machiavelli però che, come il Guicciardini, scriveva una storia, non un diario, raccolto che aveva i suoi materiali, doveva ordinare i fatti e dar grande importanza allo stile. Dopo quindi d'aver messo sulla carta i suoi estratti, componeva con gran cura alcuni brani della narrazione; poi collegava tutto, secondo un disegno generale, scrivendo e riscrivendo da capo. Anche le sue Nature di uomini fiorentini non sono altro che quattro ritratti scritti e corretti, per esser poi messi nelle Storie, come chiaro apparisce dalla loro forma, e dall'essere qualcuno di essi già entrato a far parte dei Frammenti.

Abbiamo poi mille altre prove della grandissima cura che il Machiavelli poneva nello stile. Trovasi fra i suoi manoscritti parte non piccola d'una bozza, a quanto pare, già qualche volta corretta, delle Storie. Essa fu recentemente pubblicata, e se la paragoniamo con le stampe che ci danno lo stesso lavoro di nuovo riveduto dall'autore, potremo osservare che le ultime correzioni furono quasi tutte di sola forma, e avremo un'idea del modo, del criterio con cui furono fatte. Certo anche il Machiavelli si lascia di tanto in tanto vincere dal desiderio, allora comune fra i letterati, d'usar frasi e parole ricercate, di dare maggiore dignità al periodo, rendendolo più latino che non veniva alla prima. Ma tutto ciò faceva meno assai de' suoi contemporanei. Correggendo, egli mirava sopra tutto a rendere lo stile sempre più semplice e chiaro, ad aumentarne con la maggiore naturalezza il vigore e l'efficacia. Il linguaggio parlato, con tutta la sua nativa spontaneità, qualche volta anche coi suoi idiotismi, non iscomparisce mai affatto neppur dalle Storie, sebbene in esse più che altrove il Machiavelli cercasse, con uno studio continuo dei classici latini, di raggiungere una maggiore solennità. In ogni modo, qui come altrove, la maravigliosa potenza del suo stile nasce principalmente dalla sua semplicità: più egli si esalta, più semplice, più spontaneo diviene. Ma il suo vigore, il suo calore, non bisogna dimenticarlo, risultano solo in parte dalle doti proprio dell'ingegno, dalle qualità del pensatore, giacchè in parte non piccola risultano anche dall'entusiasmo che sempre anima il cittadino per la patria e per la libertà. Qui è sopra tutto, come vedemmo, la sorgente principale de' suoi pregi e difetti così nelle Storie, come nelle opere politiche del Machiavelli, il che sarà più evidente, se le paragoniamo con quelle del Guicciardini.

Questi non ha teorie da dimostrare, non entusiasmi che lo trasportino mai; è sempre sereno, tranquillo, impassibile. Qualche volta si lascia vincere dal desiderio di lodare un po' troppo sè stesso, e troppo deprimere i suoi avversarî politici; ma trionfa poi subito il bisogno irresistibile di ritrarre la realtà vera dei fatti, le loro cause e conseguenze prossime, perchè questa è la natura del suo ingegno. Nei Ricordi autobiografici egli mette in luce le proprie debolezze, i difetti, i vizî de' suoi antenati, con una franchezza che pare cinismo, ed è invece bisogno di descrivere gli uomini quali sono. Nell'immensa moltitudine di fatti che espone nella sua Storia d'Italia, non riesce, è vero, a trovare un ordine razionale, anzi non lo cerca neppure; ma non li riunisce mai in un ordine artificiale e forzato. S'attiene ancora un po' troppo alla forma di annali, abbandonata affatto dal Machiavelli, ed è costretto perciò ad interrompere continuamente il filo della narrazione, per riprenderla da capo nell'anno successivo. Ciò la rende spesso intralciata e faticosa. Di certo la storia d'Italia è ben più varia, più multiforme di quella di Firenze, trattata dal Machiavelli, ed è così piena d'avvenimenti fra di loro oscuramente connessi, che neppur noi oggi riusciamo a darle ordine logico ed unità razionale. Ma lo spazio di tempo che il Guicciardini abbraccia è anche assai più ristretto. Egli si occupa solo di fatti contemporanei, in molti dei quali ebbe grandissima parte; e però di essi e degli uomini che li compierono, sempre vasta, profonda è la sua conoscenza. Non v'ha luogo ad ipotesi, a teorie, e neppure a cercare le grandi leggi della storia o le cause remote degli avvenimenti. Ciò che sopra tutto occorre è solo un esame severo, accurato della realtà. Ed in questo appunto il Guicciardini riesce inarrivabile davvero.

Molte furono le sue accurate ricerche anche nei documenti, grande la sua esperienza; nessuno conobbe e ritrasse al pari di lui il carattere degli uomini di Stato, e i più oscuri intrighi diplomatici del suo tempo. Nato, educato in Firenze, che era allora il più gran centro di attività, di accortezza e di coltura politica, andò assai giovane alla corte di Ferdinando il Cattolico, dove imparò a conoscere gli affari d'Europa. Tornato in Italia, venne adoperato a servizio dei papi, in altissimi uffici. Tenne il governo di vaste provincie in tempi assai difficili; ebbe una parte notevolissima nei grandi avvenimenti che allora seguivano in Italia, e si mostrò sempre un vero uomo di Stato. Questa esperienza, queste qualità si ritrovano nella sua grande opera. Gl'Italiani avevano da un pezzo imparato a scrivere ammirabili storie municipali; il Guicciardini fu il primo che scrisse con egual pregio una storia generale. All'acuta penetrazione dei Fiorentini egli aggiunse la pratica della grande politica in Italia ed in Europa, una indipendenza e larghezza di giudizio, che non si lasciava mai vincere da pregiudizî locali, nè si spingeva mai a speculazioni troppo audaci. Tutto ciò si vede così nella narrazione, come anche nei discorsi di cui la sua storia è piena. Se quelli del Machiavelli partono spesso da un concetto generale e mirano a dimostrarlo, quelli del Guicciardini cercano invece di mettere in luce la natura dei fatti e il loro legame, dimostrandone le cause e le conseguenze più prossime; dicono ciò che nel momento determinato, nell'ora che fugge, è necessario ed è possibile fare. Altri ideali, intellettuali o morali, egli non ne ha mai; quasi ne rifugge come da vane illusioni.

L'adagio, così spesso ripetuto, che lo stile è l'uomo, trova anche qui una singolare conferma. La Storia fiorentina del Guicciardini, tutte le altre sue Opere inedite, scritte nella prima gioventù, o più tardi in mezzo agli affari, senza ambizione letteraria di sorta, hanno una tale evidenza, una così spontanea eleganza, che il suo stile si confonderebbe con quello del Machiavelli, se non fosse il calore dell'entusiasmo che anima sempre il secondo, e non riesce mai ad alterare la impassibile serenità del primo. Quando invece questi si pose a scrivere la Storia d'Italia, e volle mirare a maggiore solennità, a maggiore dignità di forma, raggiunse certo una eloquenza più grandiosa; ma perdette subito la primitiva e spontanea semplicità. La sua frase troppo studiata, il suo periodo troppo ciceroniano stancano affannosamente il lettore. Nè è vero, come si disse, che ciò gli avvenne perchè non ebbe il tempo necessario a rivedere e correggere. Fu anzi la lima, fu l'artificio studiato e cercato quello che alterò e sciupò il suo stile. Se ne ha prova chiarissima nel manoscritto originale, corretto, ricopiato un gran numero di volte. Le sue lettere, le sue legazioni, buttate giù alla prima, sono sempre semplicissime ed eleganti. Quando volle innalzare le sue idee, rivestirle di forme solenni, grandiose, sentiva come un bisogno di allontanarle da sè, e diveniva artificioso. Sublime invece pareva al Machiavelli ciò che più profondamente sentiva; ciò che era più vicino, più intimo al suo spirito. Ogni volta che dinanzi a lui balenavano i suoi ideali, egli si sollevava al di sopra di sè stesso, ed acquistava una forza, una evidenza, una spontanea naturalezza, nella quale superò tutti nel suo secolo. In lui ardeva più viva e pura la fiamma del patriottismo; fu più grande scrittore, perchè migliore assai era il suo animo, nonostante le calunnie de' suoi detrattori. Divenne perciò il nostro più grande prosatore, come Dante era stato il nostro più grande poeta.

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