Capitolo II Anna Albanese racconta: zia Adelina

«Mia madre era stata abbandonata da mio padre, che aveva un'altra famiglia; per me è morto il giorno che se n'è andato.

Il fratello maggiore di mia madre faceva le veci di mio padre ed eravamo venuti a T, quando lui si era trasferito con la sua famiglia.

Dopo qualche anno ci aveva raggiunto una parente di mio padre, la zia Adelina. Non si era mai sposata e, ormai vecchia, non volevamo che vivesse sola. Godeva di ottima salute. Inoltre era una persona attivissima piena di iniziativa, sicché la sua presenza rallegrava le giornate un po' monotone di mia madre. Questa zia ha contato molto nella mia vita e nel mio matrimonio. Sebbene la sua storia non sia stata affatto felice, anzi, la sua presenza, il suo modo di fare, i suoi racconti sprizzavano un gran piacere per il semplice fatto di stare al mondo.

Io avevo il compito di accompagnare la zia Adelina in chiesa ogni giovedí verso le cinque del pomeriggio. Era anziana, non era prudente che uscisse da sola, la portavo alla chiesa di Santa Cristina, lí c'era il suo confessore, un grande spagnolo che sembrava Torquemada. Zia Adelina era sorda e cosí come spesso accade ai sordi, gridava forte quando parlava e io sentivo tutti i suoi peccati. A dire il vero si trattava quasi sempre di un solo peccato, il peccato di gola; zia Adelina aveva un gran senso dello spettacolo e malgrado l'esiguità della colpa, dava alla sua confessione i toni del profondo tormento interiore.

"Padre ho peccato – gemeva – ancora una volta ho ceduto alle lusinghe del demonio."

"Le lusinghe del demonio" erano o frutti canditi o marrons glacés o marzapane che zia Adelina desiderava e gustava con troppo trasporto e dunque non voleva più assolutamente mangiare, ma ogni giovedí puntualmente ne aveva di nuovo mangiato.

n realtà zia Adelina, come certe grandi seduttrici che parlano apertamente solo degli amanti raffinati e d'alta classe e sorvolano sugli stallieri e sui domestici, informava Dio soltanto dei dolci; zia Adelina teneva molto alla sua reputazione presso Dio, teneva a essere considerata, come dire, quasi inappetente. A sentire le sue confessioni si poteva credere che non mangiasse quasi nulla: di tanto in tanto un dolce in un attimo fuggevole di debolezza e solo se il dolce era un grande dolce. Invece – le posso assicurare – le cose non stavano cosí: era capace di mangiare con entusiasmo tutti i cibi, che lei stessa con raffinatezza sorprendente preparava. In pratica aveva dedicato la sua vita a deliziare se stessa e gli altri cucinando il cibo in modo tutto suo. Non faceva da mangiare ogni giorno; anzi, quando in cucina c'era lei era un segno di festa, ma poteva capitare che una bella mattina lei arrivasse e senza motivo dicesse: "Oggi preparo io, mi è venuta un'idea." Gli esperimenti di zia Adelina erano il suo massimo, invenzioni che piano piano erano nate nella sua testa fantasiosa: piatti squisitissimi, ispirazioni del momento, che non riproduceva mai più.

Impastava con la mano forte di uno scultore e sminuzzava verdure e spezie con la mano leggera di un orafo. Non faceva se non cibi quotidiani, nulla di esotico, nulla di elaborato, una raffinatezza esasperata nelle cose più semplici. Diceva che la base di tutto era sapere aromatizzare il sale e profumare l'olio. Pestava rosmarino, lauro, maggiorana, menta, peperoncino e basilico, bacche di ginepro o di pepe e combinava tutto in proporzioni diverse, secondo quel che voleva preparare. Amalgamava tutto quanto insieme al sale, sale grosso o sale fino e lasciava le erbe ad asciugare, divise a seconda dello scopo in diverse tazzine secondo tempi diversi.

"L'olio, invece, deve marinare in fretta – diceva – butti dentro l'aglio, il prezzemolo, la cipolla o quel che serve, lo scaldi sul fuoco e togli appena accenna vagamente ad imbiondire: l'olio deve portare solo il ricordo dell'aroma, di più è troppo e devi usarlo subito, fai cuocere la carne o il pesce, lo butti sopra e lo mangi dopo pochi istanti. Con il sale invece bisogna massaggiare lentamente le carni."

La ricordo appunto intenta in queste operazioni, mentre preparava grandi arrosti premendo con la punta delle dita il sale finché si scioglieva e impregnava la carne. Aveva poi tutta una serie di griglie, di graticole e di recipienti bucati, "fondamentali" per fare sughi e sciroppi. Appoggiava le graticole su terrine basse, tagliava le verdure, le metteva sulle graticole, le salava e raccoglieva il liquido che "lasciavano", quindi le cuoceva e le condiva con olio e i loro umori appena intiepiditi.

Dalla frutta e dallo zucchero sapeva trarre incredibili risultati, rasentava l'alchimia e nei dolci aggiungeva un gusto estetico, che non curava per il resto. Riusciva a fare dei flan rosa con le fragole, delle bavaresi viola con i mirtilli e rosse con il ribes e le ciliege.

Le storie di famiglia vogliono che zia Adelina rivelasse fin da piccola uno spirito indipendente e un'intelligenza vivacissima; poco amante dei lavori domestici, a eccezione della cucina, era stata la prediletta del padre che proteggeva in lei un certo temperamento artistico. Era invidiatissima e tutti i familiari disapprovavano la stravaganza di don Mimi, che la voleva far studiare come un maschio. Purtroppo il padre morì quando lei aveva soltanto diciotto anni e cosí i suoi studi furono bruscamente interrotti.

Con serenità aveva accettato la malasorte, ma non aveva rinunciato a un modo estroso di fare e non fare le cose: superba cuoca, non cuciva, né riordinava, né puliva, anzi pretendeva, con poco senso delle sue peggiorate condizioni economiche, che in casa fossero le cameriere a occuparsi di queste faccende. Lei preferiva dare lezioni di francese che alzare un fazzoletto da terra per i suoi fratelli.

Sua madre avrebbe voluto che si sposasse, la preoccupava quella figlia, buona, ma poco ragionevole e indipendente al di là delle sue possibilità. La ragazza, com'era prevedibile, non si accontentava facilmente: fiera, sprezzante, provocatrice, metteva deliberatamente in fuga i giovanotti goffi, ma ricchi, che la madre le faceva ronzare intorno. Finché non si trasferirono a Roma; qui zia Adelina era riuscita a entrare nelle grazie della moglie dell'ambasciatore di Francia a cui impartiva lezioni di letteratura comparata italiana e francese. Era di casa a Palazzo Farnese. Dopo qualche tempo conobbe un giovane scrittore francese in visita a Roma: figlio di un'amica dell'ambasciatrice, se ne innamorò profondamente. Stando a lei il ragazzo era "di fisico elegantissimo", slanciato, castano, gli occhi azzurri, i denti bianchi come una fila di perle, impetuoso e ricco di intelligenza. Con i buoni auspici dell'ambasciatrice, il legame si era presto fatto serio. Lui ne aveva scritto alla famiglia e dovevano arrivare a Roma i suoi genitori. Zia Adelina insistette con sua madre per invitare a cena François, prima che arrivassero i genitori. Insistette tanto che alla fine sua madre acconsentí. Zia Adelina volle preparare una cena assolutamente eccezionale: tutto ciò che di meglio sapeva fare nel migliore dei modi.

Insaporí, marinò, fece rinvenire e fece appassire per giorni e giorni; infine venne la sera fatidica. Fin dal mattino alle cinque zia Adelina si era messa a lavorare con tutta la maestria di cui era capace. Alla sera, stanca, ma molto fiera di sé, aveva fatto un bagno e si era avvolta in un luminoso abito di seta a fiori verde e azzurro, si era raccolta i capelli neri in complicate volute dietro la nuca e cosí, al massimo del suo splendore, aveva accolto l'adorato François.

La cena era stata un incredibile fuoco di fila di prelibatezze. Per il seguito che ebbero gli eventi le cronache non riferiscono che cosa fu mangiato quella sera: si parlava delle vivande più diverse, ma ogni narratore lasciava libero sfogo alla fantasia; zia Adelina non volle mai confermare o smentire, non accreditò mai nessuna versione, semplicemente non parlava mai di quella sera e non consentiva a nessuno di alludervi in sua presenza. Certo il numero delle portate fu infinito e la squisitezza travolse ogni riserbo dei commensali. Il sapore delicatissimo dei cibi metteva in secondo piano il compito non facile che veniva chiesto allo stomaco.

Il fatidico pasto si concluse – su questo tutte le voci sono concordi – con un dolce cosí leggero, che quasi era inconsistente: un alberello di piccole paste, ognuna delle quali conteneva una fragola di bosco, poca schiuma di panna leggermente acida avvolta di un velo trasparente di zucchero filato.

I commensali, alzatisi da tavola, erano usciti sulla terrazza a chiacchierare e a prendere il caffè. Da questo punto in poi la storia si fa tanto oscura quanto tragica. La serata era tiepida e dalle finestre entrava il profumo del gelsomino di cui la terrazza era fiorita. Dopo il caffè il bel François sparisce dalla vita di zia Adelina. Esistono di questa sparizione numerose versioni, nessuna sicura e nessuna convincente.

La prima versione dice che la madre di zia Adelina, sua sorella, suo cognato e il fratello del cognato erano rimasti sulla terrazza a giocare a carte, mentre zia Adelina era entrata con François per mostrargli la collezione di monete, i quadri e i libri di suo padre. François si era interessato poco alle monete, aveva invece mostrato gran curiosità per il bell'abito di zia Adelina: incoraggiato dal tatto delicato della seta, si era presto avventurato oltre il vestito. Zia Adelina, forse prevedendolo, si era messa la biancheria più preziosa del suo regale corredo, cosí François si trovò presto fra pizzi, monogrammi a punto pieno, passanastri, gancetti, poussoirs e infiniti minuscoli bottoni tondi di madreperla, che come tante gocce di rugiada, sigillavano per ogni dove le fiorenti nudità di zia Adelina. François, capace e instancabile, venne a capo di tutte le sottogonne, i corsetti, i copribusto, i sottogola e raggiunse finalmente zia Adelina e l'amò appassionatamente. Adelina per parte sua, da ragazza sensibile e vivace qual era, dopo qualche momento di smarrimento, lo ricambiò con impeto. La serata, come una sinfonia, si era dispiegata da note iniziali di festosa allegria, in un largo crescendo dai toni sempre più alti e vibranti.

François, bello quanto fragile, non resistette a tanta delizia, e morì inebriato fra le lenzuola profumate di rosa di zia Adelina. Il cognato medico della madre lo trasportò a casa sua, cosí risultò che la disgrazia era accaduta, com'è naturale, a casa del medico e tutto fu messo a tacere.

Una seconda versione dice invece che la madre di zia Adelina e gli zii, finito di giocare a carte, erano rientrati e la signora Carola non vedendo la figlia, era andata a cercarla e l'aveva tosto trovata, guidata dai corpetti e dalle trine sparse lungo il cammino, in camera da letto. L'incauta signora aveva aperto la porta proprio nel momento in cui François era riuscito a sconfiggere l'ultimo bottone, sicché il suo cuore dopo tanta fatica non aveva retto al grido di orrore della casta dama e il bel giovane era caduto a terra folgorato.

Una terza versione vuole che le cose siano andate ben diversamente. Quando Adelina e François erano rientrati dalla terrazza si erano effettivamente messi a guardare la collezione di monete e dalle monete erano effettivamente passati ai merletti. Tuttavia Adelina, esilarata dal gioco dei gancetti, dei poussoirs e dei nastri, lo aveva protratto oltremodo. Mentre François veniva a capo di una sottana, lei si riannodava il passanastro del reggipetto, quando François toglieva i lacci del corpetto, lei si rinfilava la sottoveste. La madre e gli altri commensali erano rientrati, Adelina li aveva sentiti e, atterrita all'idea di essere sorpresa, si era rivestiva in tutta fretta ed era rientrata in salotto, mentre François in preda a profondo rammarico si rivestiva a sua volta e riappariva. Si era trattenuto ancora qualche minuto perché il suo congedo non apparisse una fuga; poi, con una scusa, aveva salutato i presenti e se n'era andato.

La sua delusione e il suo sconforto erano pari soltanto alla sua rabbia e alla sua eccitazione. Mentre a piedi nel fresco della notte ritornava a casa, passò davanti alla casa dell'ambasciatrice proprio mentre quest'ultima stava rientrando. La salutò, le baciò reverente la mano, ma non gli riuscì di celare il suo turbamento. La signora per parte sua si avvide subito dello stato d'animo del ragazzo. "Mio caro avete un pessimo aspetto, che cosa vi è accaduto? Entrate vi prego." François entrò senza rispondere. "Sono preoccupata per voi, non vi lascio solo in questo stato, ditemi che cos'è accaduto."

François si lasciò cadere in una poltrona e, una parola dietro l'altra, confessò alla signora tutta la storia: la cena, le monete, i pizzi, la sfrontata civetteria di Adelina e la cocente delusione. Il desiderio struggente traboccava da ogni sillaba, tanto che il racconto diede all'ambasciatrice un'immagine quasi visiva della prepotente e acerba grazia di Adelina.

L'ambasciatrice aveva già passato da qualche tempo la quarantina, era donna di mondo, apprezzava la vita, sicché decise di non sprecare tanto ben di Dio e di raccogliere lei i frutti coltivati con tanta attenzione da Adelina.

L'ora tarda induceva a tenere la voce sommessa e le luci smorzate: "Dovete rimanere, siete troppo sconvolto, avete bisogno di riposo." Lo accompagnò nella stanza degli ospiti. "Vi preparo una tisana, mettetevi a vostro agio, vengo subito." Era tornata pochi minuti dopo, vestita soltanto di una vestaglia di seta bordeau, un vassoio e una bianca tazza di camomilla. Spenta la luce la signora aveva detto a François: "La mia vestaglia è senza gancetti, senza bottoni, trattenuta soltanto da questa cintura, che potete senza pena sfilare.» E cosí lo aveva consolato di tutto punto.

La consolazione continuò per qualche tempo anche dopo che la signora aveva raggiunto il marito a Parigi e l'ambasciatrice aveva infine potuto vantarsi con la madre di François di averle salvato il figlio da una piccola italiana intrigante, che lo voleva sposare.

La quarta versione è la più maliziosa. Dice infatti che François non fu che il primo di una lunga serie. Vi sarebbero stati poi: un bell'inglese, un bel tedesco e alcuni altri, bei francesi di cui si erano perduti i nomi.

I fautori di questa versione sostengono infatti che la morte del padre aveva lasciato zia Adelina completamente nelle mani della madre: donna devotissima, che non conosceva e non praticava altro che la religione. Trovatasi sola con una figlia alquanto estrosa, la buona signora aveva concentrato i suoi sforzi educativi sulla dottrina, aveva insegnato e ripetuto alla figlia fino all'esasperazione i principi, le norme e i precetti del cattolicesimo, quanto mai apostolico e romano.

Adelina, sempre pronta ad apprendere, aveva accolto quanto la madre le insegnava con attenzione e interesse. Tuttavia la sua naturale curiosità la spingeva a mettere in pratica quanto aveva imparato e il suo temperamento la induceva a dare una interpretazione delle norme, che andava nella direzione opposta a quella che la sua pia madre si prefiggeva. La sua passione per preparare il cibo non era altro che un'applicazione intensa e raffinata delle opere di misericordia sulle quali sua madre l'aveva tanto ammaestrata. Poiché si doveva dar da bere agli assetati e dar da mangiare agli affamati perché non usare queste azioni devote per esplicare al meglio le proprie capacità? Gli affamati e gli assetati non ne avrebbero tratto che giovamento: bevande ottime e cibo squisito dunque.

Dopo "dar da bere agli assetati" e "dar da mandare agli affamati" a zia Adelina si era presentato il problema di "vestire gl'ignudi". Ai nostri tempi la fame e la sete, sia pure in forme assai più moderate che un tempo, esistono ancora, mentre un ignudo, per una ragazza borghese, grazie a Dio, è diventato piuttosto difficile da incontrare. Adelina non era ragazza da fermarsi alla prima difficoltà e nemmeno da lasciar cadere un esame accurato di tutte le implicazioni del precetto. Cosí quando aveva conosciuto François era stato lo stesso bell'aspetto e gradevole sorriso del giovanotto, a suggerirglielo come un possibile ignudo.

Adelina infatti era giunta alla conclusione che per poter vestire gli ignudi, bisogna prima spogliarli. Lo aveva completamente compreso quella sera stessa dopo cena. Il precetto non diceva che la benefattrice dovesse essere nuda o vestita, certo è, tuttavia, che le circostanze suggerivano che anche la soccorritrice fosse nuda, per un sorta di rispetto verso il soccorso.

Del resto le opere pie non mettono limiti alla generosità delle benefattrici né alla fortuna dei beneficati; se non si faceva parola del piacere reciproco che poteva nascere fra spogliazione e vestizione era solo perché chi dona veramente, lo fa nella discrezione e non ama che se ne parli. Mentre tutti questi pensieri si facevano strada nella mente e nel corpo di zia Adelina, nacque contemporaneamente in lei la certezza che, se avesse sposato François, il matrimonio l'avrebbe ostacolata nel suo onesto desiderio di eccellere nelle opere di misericordia. Si parlava di "vestire gli ignudi" sicché un solo ignudo nella vita di una donna devota era davvero troppo poco. Decise cosí di non sposare François, ma di restituirlo al mondo, libero, perfettamente rifocillato e rivestito con sollecitudine in ogni parte della sua nudità, per poter provvedere ad altri, bisognosi quanto e forse più di lui.

I fautori di questa versione religiosa dei fatti insistevano sulla bontà della loro interpretazione e portavano a riprova il fatto che le attenzioni benevolenti di zia Adelina si rivolgevano sempre a dei forestieri, condizione necessaria perché l'ignudo potesse rientrare nella categoria dei viandanti e pellegrini.

La quinta versione dice che tutte e quattro le precedenti versioni non erano che varianti della solita storia, che ogni zitella costruisce intorno al suo mancato matrimonio. Zia Adelina, dotata di una fervida fantasia, non si era accontentata di una sola storia: il fidanzato morto sul Carso era davvero troppo banale. Cosí aveva lei stessa costruito le quattro versioni, di cui le ho detto e, attraverso sapienti confidenze, ora all'uno ora all'altro dei parenti e delle amiche, le aveva diffuse, senza accreditarne nessuna. Questa stessa quinta versione è opera sua, è la versione forse mai raccontata, ma che lei lasciava intendere.

Quel giovedí come ogni giovedí, finita la confessione accompagnai zia Adelina all'altare maggiore, dove accesi a nome suo una candela alla Madonna. Poi zia Adelina s'inginocchiò in uno dei primi banchi, recitò la preghiera della penitenza e una volta emendata, sempre a voce altissima, iniziò una sorta di conversazione con Dio nella quale lo mise al corrente di quel che accadeva nella sua famiglia e nella cerchia dei suoi amici. Faceva sempre lunghe liste di persone "degne" che Dio doveva premiare per il loro buon comportamento e di persone "indegne" che Dio, "nella sua infinita Bontà" avrebbe dovuto provvedere a "raddrizzare". Era molto rispettosa e cauta nel rivolgersi a Dio, ma molto sicura delle informazioni che dava. Se qualcuno entrava nelle preghiere di zia Adelina, Dio si poteva fidare.

Naturalmente zia Adelina informò subito Dio del mio possibile fidanzamento e quel giovedí con le mani giunte alzate verso il Cielo la udii invocare: "Signore distogliete la mia nipotina da questo passo, allontanate quel giovane che non è per lei!"

Andando a casa mi spiegò che "Dio vede e provvede" e che mi avrebbe certo ben ispirata nella scelta di un buon marito, visto che ne avevo l'età. Le risposi che già mi aveva ispirato, avrei sposato Salvatore Albanese. Lei tacque. Passarono alcuni giovedí nei quali zia Adelina ripeté la sua supplica.

Andando e ritornando dalla Chiesa mi raccontava con ogni particolare e a fosche tinte "la crudeltà" di cui, "a detta di tutti" don Domenico Albanese si era reso responsabile. Io mi mostravo irremovibile.

Mio marito, discreto e silenzioso, come fu sempre, si presentava a casa mia a rendere omaggio a mia madre, portava notizie di amici comuni, qualche dolce, qualche fiore, chiedeva dei miei; pochi minuti e se ne andava.

Io entravo nel salotto come per caso, lo salutavo appena: scambiavamo uno sguardo. Con gli occhi gli dicevo: "Tutto bene, è solo questione di tempo, aspetta con un po' di pazienza." E lui mi rispondeva: "Non dubitare, tornerò qui fin che basta, non mi perdo certo d'animo."

Mia madre non si comprometteva, era gentile ma scostante e fredda, intratteneva una breve conversazione formale, poi lo congedava.

Zia Adelina per parte sua continuava, ogni giovedí, a far presente prima a Dio e poi a me tutti i difetti di Don Domenico Albanese e cercava di persuadere entrambe della assoluta inopportunità del matrimonio con Salvatore Albanese.

Passarono diversi mesi finché un giorno, di fronte all'ennesima dissuasione di mio zio, calma, ma irremovibile gli dissi: "Non mi convincerete mai! Non so come, né quando, ma lo sposerò!" Mio zio tacque, allargò le braccia e decise che aveva fatto il possibile: "Non si può andare contro il destino."

Il giorno seguente, quando venne mio marito, mia madre gli andò incontro e sorridendo lo salutò: "Che gioia vedervi don Salvatore!" Mio marito mi lanciò uno sguardo interrogativo e io con un colpo di palpebre gli comunicai: "Vinto! Ci sposiamo!" Lui si chinò in un elegantissimo e tenerissimo baciamano a mia madre e disse: "Signora, mio padre vi chiede di riceverlo domani." Mia madre ebbe un attimo di esitazione, poi rispose: "Sarò molto lieta di vederlo!"

Il giorno dopo, il giorno del mio fidanzamento, era un giovedí, zia Adelina volle andare in Chiesa, volle anticipare al mattino. L'accompagnai. Era agitata e scossa, elegantissima: cappellino di velluto, renard argentato intorno al collo, redingote e profumo francese: "Andiamo, su andiamo."

La confessione fu brevissima, aveva chiaramente fretta di arrivare all'altare maggiore. Quando si fu inginocchiata, mi fece accendere quattro candele, quindi si aggiustò bene il cappello, apri le braccia, mentre il renard le scivolava lungo la manica e con voce alta e tremante chiese: "Signore ascolta la tua umile serva, accogli la mia preghiera poiché essa viene dal più profondo del cuore. Signore chiama don Domenico Albanese fra gli Angeli!" Io rimasi senza fiato a queste parole, ma il mio stupore e la mia commozione dovevano aumentare. Zia Adelina dopo una breve pausa prosegui: "Signore, sono ormai vecchia e non c'è più motivo ch'io viva; non ho avuto figli, questa nipotina Anna è la persona più cara che ho al mondo e quell'uomo può impedirle di essere felice come merita. Signore Iddio, se pensate che io abbia osato troppo riprendetevi la mia vita, ma esauditemi, Ve ne supplico!" e si prosternò lentamente fino quasi a toccare terra con la fronte. Io avevo le gambe che mi tremavano e le lacrime agli occhi: zia Adelina era davvero pronta a morire per me. La sua voce impostata e sonora come si conviene a una grande recitante, vibrava di sincera e profonda emozione: una vera artista della preghiera.

Il Padreterno non la esaudì subito, mio suocero mori infatti quattro anni dopo, lei morí due mesi prima di lui.

Mi sposai dunque a diciott'anni, ero del tutto ingenua, mi trovai incinta, non avevo ancora capito bene che cosa mi era successo ed ero già al quinto mese. Del resto allora era cosí, non credo che fosse bene, nel mio caso non è stato difficile perché fra mio marito e me c'è stata un'intesa molto profonda. Era un signore. Siamo vissuti quarantasette anni insieme eppure le assicuro che il ritorno a casa di mio marito mi dava un senso di gioia e di serenità l'ultimo anno come il primo; lo sentivo arrivare, apriva la porta e mi chiamava, mi chiamava di stanza in stanza finché non gli rispondevo e non mi trovava: era una festa ogni sera rivederci.

Mio figlio pesava cinque chili alla nascita, era tutto riccioli biondi e occhi azzurri, roseo e dolce come suo padre, non è stato brutto nemmeno un attimo. Mi ha quasi uccisa nascendo. Il parto è stato tremendo e tanto difficile perché il bambino era troppo grande per una donna piccola come me, quel figlio era quasi più grande di me e io .ero quasi una bambina come lui: è stata la Madonna ad avere pietà di noi, cosí è nato.

L'ho allattato fino a diciotto mesi, camminava già, aveva i denti, ma gli faceva tanto bene il mio latte. Io ero tutta nera di capelli, di occhi, di carnagione e lui invece tutto chiaro, sembrava di latte e di miele. Mangiava e dormiva, era il più bravo bambino che si potesse desiderare. La sera per allattarlo mi sedevo sul letto, ero stanca spesso, grande com'era mangiava tantissimo e mi esauriva, allora mi addormentavo mentre poppava e lui scivolava giù sulle coperte; quando mi risvegliavo era lí accanto a me che dormiva anche lui.

Soltanto dieci anni dopo ho avuto mia figlia, è stato un parto veloce e facile, ero anche molto meno spaventata, era di peso normale, tre chili e quattro etti, tutta nera, nera come me. Mia figlia è stata sempre allegra e ben più pronta e maliziosa di suo fratello. Camminava appena, diceva poche parole, ma suo padre e suo fratello pendevano dalle sue labbra, una piccola prepotente. Anche da adulta ha continuato a sapere molto bene quel che voleva, per questo anche lei ha un matrimonio riuscito. Con qualche difficoltà, in verità, ma...

Ci sono donne che si risparmiano. Non si può fare economia con i sentimenti. Io sono cattolicissima, ma non capisco quelle donne che raccontano i fatti loro ai preti, l'ho detto mille volte a mia figlia. Un prete, non escluso il papa, è prima di tutto un uomo e per quel che riguarda il sesso, l'amore, il matrimonio e i figli i preti sono gli ultimi a poter parlare proprio perché sono uomini che conducono una vita contro natura! Cosa può sapere un uomo di vita coniugale se non ha rapporto con le donne e se li ha, li ha di nascosto, come se fosse un delitto?»

«Ma il papa si è espresso più volte molto chiaramente contro il controllo delle nascite.»

«Se non ha lui la modestia di tacere, bisogna avere noi il buon senso di non ascoltare. Io mi son sempre rifiutata di mandare mia figlia a catechismo, perché i preti con le ragazze non fanno che parlare di sesto comandamento come se non ci fosse che quello. Non uccidere, non rubare? Appena vedono una donna non pensano ad altro che a "non fornicare". Io sono profondamente credente e ho rispetto degli uomini di fede, ma Dio e solo Dio è Onnipotente e Onnisciente e, certo Lui non se la prende con le umane miserie delle donne ed è solo a Lui che dobbiamo rendere conto. I preti non sono che i Suoi servitori e, come spesso accade ai servitori, sono sciocchi.»

«Ma..., lei quando si confessava e si confessa, cosa dice?»

«Tutto! Tutto quello che è sensato dire! Certo, è questo il punto, non bisogna dare confidenza ai preti, come non si dà confidenza agli altri uomini, né più né meno. Le sembra un argomento da trattare con un uomo diverso dal proprio marito, la nascita dei propri figli, o peggio i rapporti sessuali? Io mi confesso e mi sono sempre confessata, mi comunico una volta al mese, talvolta anche di più ma non ho mai avuto problemi. Bisogna semplicemente scegliere un sacerdote che stia al suo posto.»

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