Capitolo III Anna Albanese racconta: la guerra di Raffaele Albanese

«Era giugno, si parlava da tempo di guerra e io sapevo che mio figlio era stato richiamato, ma io non ci credevo, mi pareva proprio assurdo. Una mattina, avevo appena finito di pettinarmi, seduta alla toilette, mi davo la cipria. Sento bussare, "Avanti." Nello specchio vedo aprirsi la porta ed entrare mio nipote: era bianco come uno straccio.

"Zia Anna, volevo dirle che purtroppo Mussolini ha dichiarato guerra alla Francia."

Mio nipote mi parlava ma io non capivo più nulla, non sentivo, non ascoltavo, piangevo, piangevo. Poi ho smesso di piangere, non ho più pianto per quattro anni, finché mio figlio non è ritornato, magro e sparuto: come l'avevano ridotto!

Per quattro anni ho avuto il cuore pieno di rabbia, rabbia verso l'intera umanità. Io non ho mai capito che cosa passasse nella mente di tutti quei militari, dove pensavano di arrivare. Come anime in pena andavano, venivano, distruggendo, uccidendosi. A me non importava nulla se erano fascisti, partigiani, tedeschi, russi, inglesi, americani, non mi fidavo di nessuno, io li odiavo tutti e tutti mi facevano pena, incapaci di sfuggire a una macchina infernale, che erano loro a tenere in piedi. Ogni aspetto della vita aveva perso senso, la folla correva nei rifugi e nelle cantine quando c'erano i bombardamenti, a morire come i topi, solo a questo servivano i rifugi. In campagna (dove eravamo sfollati), appena si spargeva la notizia di un bombardamento, tutti scappavano, interi paesi all'addiaccio, in una confusione del tutto assurda. "Andate – dicevo io –, se c'è da morire, muoio a casa."

I partigiani che avrebbero dovuto aiutare la popolazione erano spesso violenti, rapavano le donne, che disgusto! I famosi liberatori, inglesi e americani, hanno fatto ogni sorta di violenze a donne e bambini. Non parliamo dei tedeschi, non ci sono parole! Quando è salito Hitler al potere mi sono detta: quest'uomo è un ignorante presuntuoso, farà guai spaventosi. Fanno paura gli uomini di potere, ma se per giunta sono ignoranti è la fine, snidano anche la follia degli altri.

È inutile che queste cose le dica a lei che certo le sa.

Una settimana dopo la visita di mio nipote, all'alba venne mio figlio a bussare alla stessa porta. Terribile: tutto vestito da militare.

Abbiamo ricevuto lettere per due anni, dava sue notizie, costruiva ponti mobili, casematte e tutte le cose che si fanno in guerra. Non erano lettere tristi, ma certo si sforzava di apparirmi sereno. Mi scriveva delle storielle di suoi commilitoni, delle barzellette; lui voleva consolarmi e proprio quei suoi sforzi mi gettavano nella più completa disperazione.

Poi silenzio per due anni: è scomparso, non sapevamo più nulla, l'ultima traccia di lui si fermava ad Ancona dove si era imbarcato per la Grecia e poi era stato inghiottito dalla guerra. Mio marito, mia figlia e mio nipote hanno fatto l'impossibile per avere sue notizie, hanno mobilitato tutte le nostre conoscenze, ma nessuno riusciva a sapere nulla. Io non avevo alcuna fiducia che l'avrebbero trovato; malgrado questo non ho mai dubitato che l'avrei rivisto. La guerra era cosí assurda che non mi fidavo proprio di nessuno, amici o nemici, nessuno aveva conservato un minimo di buonsenso e di pietà, sicché io pregavo il Buon Dio perché davvero solo Lui poteva ascoltarmi.

Una sera all'imbrunire, ero nel cortile della casa dove eravamo sfollati, suona la campanella del cancello, la cameriera si affaccia e chiede:

"Chi è?"

"Cerco la signora Albanese."

"Lei chi è?"

"Porto un messaggio per la signora Albanese, lo dirò a lei chi sono."

Io mi avvicino al cancello, ma la donna si precipita verso di me: "Non apra signora, ha una brutta faccia quello lí fuori, la barba lunga, tutto sporco. Non son tempi da fidarsi, chiamiamo il signor Salvatore!"

Socchiudo lo spioncino e guardo lo sconosciuto; appena sente i miei occhi su di sé avvicina il viso al cancello e fissa lo spioncino.

"Devo parlare con la Signora Anna Albanese personalmente."

"Sono io."

"Mi apra, ho un messaggio di suo figlio per lei."

Tira fuori dalla tasca un foglietto e me lo mostra. È la calligrafia di Raffaele. Faccio scorrere la catena nella serratura e apro, il ragazzo fa un passo verso di me e mi porge il piccolo foglio bianco. Leggo: "Carissimi, sono sul molo del porto di P., aspetto assieme a molti altri d'imbarcarmi per l'Italia. Sto bene, ma non so quando riuscirò a partire di qui. Siamo in tanti, le possibilità di imbarco sono poche, in ogni caso non preoccupatevi per me: sono sulla strada del ritorno, prima o poi arriverò. Vi penso e vi abbraccio tutti. Raffaele."

"Suo figlio mi ha detto: cerca mia madre e dagli questo foglio, mi raccomando assicurati di darlo proprio a lei. Per questo mi son permesso d'insistere..."

"Entri, la prego, la tengo sulla porta, mi scusi, sono un po' emozionata. La prego di essere nostro ospite, non ci neghi questo regalo, io devo sentire quel che mi racconta di mio figlio."

L'abbiamo lavato, vestito e nutrito per tre giorni, gli abbiamo fatto raccontare la mezz'ora trascorsa con Raffaele a P. cento volte, chiedendo mille dettagli.

Raffaele l'aveva fermato perché aveva sentito l'accento di qui e l'aveva pregato di venire fino ad avvertirci.

"Era magro?"

"Non mi è parso."

"Era molto pallido?"

"Ma sa i soldati sembrano sempre pallidi! "

"Ha ragione."

"Poi vede io non lo conoscevo prima!"

"Certo. E di umore?"

Quel ragazzo sapeva ben poco, ma non riuscivamo assolutamente a trattenere le domande.

Sei mesi dopo questa visita, da un funzionario amico di mio marito veniamo a sapere che Raffaele è in Italia, è tornato, ma è bloccato dalla linea gotica a N. presso dei parenti. Non ha bisogno di nulla, i parenti lo circondano di attenzioni e tornerà non appena possibile.»

La mia ospite si era interrotta, aveva preso il bastone e alzandosi mi aveva detto:

«Venga, facciamo due passi, le mostro il giardino. Vede questi sono mughetti, qui non vengono di solito, è stato difficile. Questo angolo della casa l'ha messo a posto mio figlio, quello di cui le stavo raccontando.»

Sul fianco della villa c'è un ampio spiazzo a ghiaia, in mezzo un gigantesco tiglio.

«La sistemazione di quest'ala è il primo lavoro di mio figlio, era al secondo anno di architettura quando l'ha disegnata, gliel'ha eseguita una piccola impresa di qui. Io desideravo una veranda e una voliera. Ha fatto potare il tiglio dei rami bassi e poi, come vede, ha fatto costruire la voliera intorno al tronco. La chioma del tiglio si è infittita in alto e cosí ha preso questa forma a ombrello.»

Avevamo passeggiato per tutto il giardino, poi eravamo tornate indietro, la signora Albanese aveva detto ch'era ora di rientrare. Guardando dalla terrazza avevo visto, oltre il muro di cinta, una villa bianca che confinava con la proprietà degli Albanese. Mi aveva colpito il fatto che era tutta chiusa in piena stagione. Sebbene fosse ornata di fregi e stucchi piuttosto elaborati per una casa di montagna, risultava severa; a differenza di tutte le altre case intorno non aveva un solo geranio alle finestre, né un fiore in giardino. Perfettamente proporzionata, molto ricercata, era nondimeno del tutto disadorna: un prato davanti e basta. La signora Albanese, seguendo il mio sguardo aveva detto: «Non c'è nessuno.»

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