CAPITOLO IX Emma Rinaldi racconta: Maria Rinaldi

«Mio marito era compagno di scuola di mio fratello, per meglio dire mio marito studiava ingegneria e mio fratello architettura, si erano incontrati alle lezioni in comune tra le due facoltà. Avevano fatto amicizia e mio marito era venuto a casa nostra ed è cosí che l'ho incontrato. Fu un amore fulmineo, meno di un anno ed eravamo sposati. Mio marito il giorno dopo la laurea, andò da mio padre e gli disse le sue intenzioni al mio riguardo, prima ancora di chiedere a me. Io mi risentii, dissi che avrebbe potuto almeno informarsi sul mio parere e che sebbene io avessi un'ottima opinione di lui intendevo riflettere. Parlando con mio padre mi forzava la mano. Mi rispose che la prima impressione è quella che conta, che riflettere nelle faccende affettive non conviene mai e che quanto all'intenzione di forzarmi la mano, potevo star sicura che era proprio cosí, ma chi ha tempo non aspetti tempo. Escludevo di volerlo sposare? No. E allora lo volevo sposare, era chiaro, che diamine! Sono i preti che insegnano alle donne a esitare e le donne si debbono liberare sia dalle esitazioni che dai preti.

Intesi parlare di mia suocera per la prima volta proprio mentre stavamo cercando casa per sposarci. Mi ero resa conto che mio marito era piuttosto reticente sulla sua famiglia e aveva ripetuto varie volte che avrei dovuto conoscere i suoi, senza mai decidere né come né quando.

Mentre visitavamo un appartamento, mio marito mi disse che ce n'era uno libero nello stesso palazzo dove vivevano i suoi genitori. Risposi che si poteva vederlo, ma io ero alquanto intimidita al pensiero di abitare tanto vicino ai suoceri.

"Sono preoccupato al pensiero di mia madre da sola: se anche Piero si sposa, mia madre resterà isolata."

"Isolata? Tuo padre è ammalato?»

"No, i miei vivono insieme, ma non vanno d'accordo, mio padre si è sempre comportato molto male verso mia madre ed è come se fosse sola. Peggio, molto peggio che se fosse sola, il giorno che mio padre morirà sarà un bel sollievo per tutti."

Rimasi esterrefatta: come presentazione del suocero era piuttosto sconvolgente e mio marito era cosí alterato che non osai chiedere nulla. Si rafforzò in me la convinzione che era meglio scartare l'appartamento vicino ai suoceri.

Fu difficile la prima visita come tutti gli incontri successivi: ogni momento passato con i suoceri non l'ho potuto dimenticare, perché si respirava aria di pericolo imminente. Non assistetti mai a un vero litigio; del resto credo che di veri litigi ve ne siano stati pochi, solo un susseguirsi di battute, che ti piovevano addosso non si sa quando, ma di certo. Mio suocero non sembrava conoscere altra difesa che un nero silenzio. E non aveva torto, ogni risposta offensiva o difensiva che fosse, scopriva mio suocero e lo faceva cadere nell'imboscata eternamente predisposta ai suoi danni. Mia suocera aveva infatti educato i figli a due compiti specifici, che loro si erano assunti come propri. Mio marito aveva il compito di affrontare suo padre, di aggredirlo, di mortificarlo, di fargli pagare quanto più caro possibile i torti che faceva a mia suocera. Non viveva in casa, cosí veniva informato da mia suocera su chi era l'amante del momento, se era costosa o economica, signora o plebea, dove mio suocero la incontrava, quando la incontrava e chi si era accorto della tresca. Mio cognato invece viveva in casa e aveva il compito di confortare mia suocera. Non era informato di nulla, mia suocera lasciava che capisse dalle telefonate, dalle visite, da mille piccoli indizi. Quando parlava con mio marito lei pretendeva che mio cognato fosse ingenuo e diceva di non volerlo turbare con confidenze per le quali invece mio marito pareva sufficientemente smaliziato. In realtà mio cognato, come qualunque persona passasse per quella casa, capiva benissimo che suo padre tradiva ininterrottamente sua madre e capiva anche che lei ne era perfettamente al corrente; viveva non di meno nel dubbio che lei non sapesse proprio tutto e cercava in ogni modo di confortarla con un atteggiamento estremamente dolce e affettuoso.

Tutti insieme, mio marito, suo fratello, i miei suoceri e io, ci incontrammo abbastanza raramente. I figli vedevano il padre al lavoro e la madre a casa, ognuno per conto proprio. Non di meno fui coinvolta in qualche pranzo di famiglia. Ne ricordo uno in particolare.

Mio suocero aveva da poco imbastito una storia con una signora di Anlena, faceva importanti lavori per il marito di lei. Quando iniziava una nuova avventura non era difficile capirlo: era euforico, galante, raffinato nel vestire; quando invece stava per lasciare l'ennesima amante diventava opaco e depresso. Una sera rimanemmo a cena, quando mio suocero giunse era allegro e di ottimo aspetto, entrò in salotto e ci salutò con grande allegria. Io ebbi un baciamano e un gran sorriso. La sua cordialità non poteva durare mai più di qualche attimo, lo sguardo di sua moglie lo percorreva senza la minima compiacenza. Lo guardava senza emozioni, con l'occhio professionale del segugio che cerca rapida conferma ai suoi sospetti, sicché ogni tentativo di essere accattivante si spegneva sulla sua faccia.

Mio cognato giunse tardi, quando eravamo già seduti a tavola, davanti all'immancabile minestra di verdura con il riso.

"Da dove vieni e come mai sei in ritardo?" "Mamma, c'era traffico, arrivo da Anlena, sono andato per un nuovo lavoro! Il signor Toselli mi ha telefonato furioso, protestando che nessuno si faceva vivo, che era stufo di aspettare i nostri comodi, cosí sono andato, subito dopo pranzo. Quando sono arrivato il geometra R. mi ha detto, papà, che tu c'eri stato questa mattina. L'ho subito riferito al signor Toselli, che si è arrabbiato ancora di più dicendo che cerchiamo di prenderlo in giro, ma che lui è proprio stufo."

"Ho fatto un sopralluogo, ma non ho trovato Toselli, per un contrattempo. Del resto non era necessario che lo vedessi."

"Non è la sua opinione; evidentemente non si fa da parte con facilità – interrompe mia suocera –, sarà uno di quelli che vogliono almeno vedere." Quasi non avesse sentito, mio cognato prosegui: "In ogni modo, ho verificato: hanno iniziato il muro di contenimento del giardino, è tutto a posto e li ho sollecitati. La signora Toselli mi ha detto infatti che la collina frana e che si raccomanda che i lavori non vadano a rilento."

"I lavori vanno a rilento per forza di cose, dopo una certa età – interrompe di nuovo mia suocera, senza ombra di ironia nella voce –. Se voleva che le venisse fatto un lavoro veloce, la signora doveva rivolgersi a te o a Emilio. Non credi Giulio?"

Mio suocero, a questo punto, aveva capito che lei sapeva già tutto, quindi anche il tiglio maggiore era informato, per questo taceva cupo e non l'aveva quasi salutato. Mio cognato invece aveva appreso durante la conversazione la situazione e come sempre si domandava quanto la madre sapesse, se fossero congetture buttate là o se fosse un fatto già avvenuto o se stesse per avvenire.

Il silenzio era calato nella stanza, si sentivano i cucchiai battere sul fondo dei piatti, tutti i commensali sapevano che qualsiasi conversazione non poteva durare più di qualche battuta. La mente di tutti correva senza speranza da un argomento all'altro.

Io, giocando fino in fondo la parte dell'estranea, della persona che con la sua presenza impediva che i contrasti deflagrassero, dissi: "Un bellissimo paese Anlena." Fallito il mio tentativo, era nuovamente seguito il silenzio. Mio marito si era deciso infine a scandire, con voce amorfa, dietro la quale non era difficile sentire l'ira repressa: "Di Anlena, da domani mi occuperò io." Mio suocero con tono non meno perentorio aveva risposto: "Ne discuteremo in ufficio."

Questo significava che la lite, quella vera, sarebbe scoppiata il giorno seguente, a proposito dei costi, dei prezzi, dei tassi di sconto, del materiale, del dare e dell'avere. Più nessuno avrebbe nominato la signora Toselli, ma mio marito avrebbe insidiato mattone per mattone le velleità sentimentali di mio suocero, gli avrebbe reso la vita difficile a colpi di velocità di progettazione, di abilità e rapidità di esecuzione. Ogni giorno mio suocero avrebbe dovuto inventare una scusa nuova per andare ad Anlena, ogni giorno mio marito gliel'avrebbe distrutta, finché non ne avrebbe avuta più alcuna. Queste fasi di prolungato scontro rendevano mio marito intrattabile e sia io che le mie figlie ne abbiamo spesso fatto le spese, per non parlare di quanto è costato a lui.

Mio cognato non osava affrontare il padre, troppo timido e rispettoso era semplicemente l'esca ideale di mia suocera per far abboccare mio suocero e mortificarlo. Sul lavoro si teneva in disparte, aveva interessi soprattutto tecnici, anzichè affrontare il padre sul suo stesso terreno, si allontanava più che poteva da lui, su un campo teorico e astratto, dove il padre non era in grado di seguirlo.

L'indomani mio cognato non sarebbe passato in ufficio, sarebbe andato a fare delle sperimentazioni altrove. La sera stessa invece avrebbe chiesto a mia suocera che cosa aveva voluto dire a tavola. "Nulla, nulla..." avrebbe risposto lei piangendo e lui, accarezzandola, le avrebbe detto: "Mamma, ti prego, non fare cosí, non ti posso vedere in questo stato" e lei di rimando, asciugandosi gli occhi: "Non ti preoccupare, un attimo di debolezza, mi è già passato." Invece non le era mai passato: anche dopo la morte di mio suocero, mia suocera aveva mantenuto con il figlio minore questo atteggiamento afflitto e non aveva più saputo fare a meno delle sue consolazioni. Qualcosa di cui lamentarsi lo trovava sempre, poteva infatti contare su una quantità di ricordi, sia pur tutti uguali. Mentre non ero ammessa agli scontri fra mio suocero e mio marito (ne sentivo solo il contraccolpo), più di una volta sono stata ammessa alla scena del compianto fra madre e figlio minore.

Fin dalla prima volta che conobbi i miei suoceri e mio cognato capii che non sarei riuscita mai a entrare in quella famiglia, né io me ne sentivo in alcun modo attratta. Anzi, se debbo essere sincera, mi proposi di frequentarli, nel limite della decenza, il meno possibile.

Tuttavia – eravamo sposati da poco – una volta tentai di entrare nella questione e dissi a mio marito: "Perché non affronti direttamente il discorso con tuo padre?"

"Perché mia madre non vuole. La sola cosa che ci chiede è di considerarlo per quello che è, un grande lavoratore, e questa è la sua principale qualità; dice che non ci riguarda il suo comportamento, se lo sopporta lei lo dobbiamo sopportare anche noi."

"Non mi sembra che lo sopporti molto, se ne lamenta continuamente! E mi sembra che i loro rapporti vi riguardino eccome!"

Avrei voluto insistere, spiegarmi meglio, indurre mio marito a parlare schiettamente con suo padre, a chiedergli una volta per tutte perché si comportava in modo cosí ostinatamente offensivo, perché quasi esibiva le sue amanti alla moglie. Non è stato possibile: mio marito si è acceso una sigaretta, è uscito dalla stanza e non mi ha rivolto più la parola per tre settimane. Usciva al mattino presto, rientrava la sera tardi, quando io già dormivo.

Non mi raccontò mai più nulla di sua madre; ogni tanto lo vedevo uscire buio in volto, dopo una interminabile telefonata di lei, lo vedevo poi tornare ancora più cupo. I miei incontri con la sua famiglia si erano ridotti al minimo ed erano sempre identici fra loro, nulla mai è cambiato. Tutti erano gentilissimi, ma l'imbarazzo restava.

Quando le bambine erano piccole andai in campagna nel paese di C., in casa di una donna che era stata anni nella famiglia di mia suocera: era arrivata da loro giovanissima, quando mia suocera si era sposata l'aveva seguita nella nuova casa. Era rimasta da lei fino a quando si era sposata, aveva avuto due figli e nel '43 era rimasta vedova, suo marito era morto in guerra. Per difficoltà economiche aveva dovuto lasciare i figli da una parente ed era tornata da mia suocera per un periodo, poi si era ritirata definitivamente.

Marta aveva avuto una lunghissima e brutta bronchite e d'accordo con il pediatra, passammo un anno intero in campagna, in un'ala della grande cascina in cui Angela viveva. Io e le due bambine non ci spostammo mai, mio marito invece andava avanti e indietro dalla città.

Angela mi aiutava in casa e con le bambine. Aveva un modo di fare rassicurante, che mi tranquillizzava in quel periodo di paura per la salute di Marta. Lavorava con abilità e disinvoltura e raccontava la sua vita e quella dei suoi con molta immaginazione.

Un giorno, stavamo rammendando e stirando i vestiti e Angela mi dice: "Lei è diversa dalla signora Maria, lei è contenta quando arriva suo marito e le dispiace quando parte, la signora Maria era proprio il contrario."

Avevo capito fin da quando ero arrivata che Angela voleva parlarmi di mia suocera, ma voleva prima capire che tipo ero io e in che rapporti ero con lei e non aveva tardato a scoprire che non l'amavo troppo.»

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