QUARTO INTERMEZZO

Ero scesa prima del solito quella domenica e passeggiavo in giardino. Nel silenzio, sento fermarsi una macchina, mi sembra sotto al cancello: mi affaccio e vedo che invece si è fermata al cancello della villa accanto, quella vuota e chiusa. Scendono una signora anziana e una più giovane, la più anziana parla con l'autista, gli dà qualcosa, l'autista porta due valige fin sull'uscio, torna alla macchina e riparte, scende verso il paese. Le due donne entrano in casa, prendono le valigie, la porta si chiude e la casa sembra di nuovo disabitata.

Stavo nella villa ormai da tre settimane, la mattina era fresca, ma il sole forte lasciava presagire un pomeriggio rovente – erano alcuni giorni che si soffocava.

Non soltanto il caldo mi pesava: se avevo deciso di andare in Francia a studiare le società contadine, non era stato per caso; i rapporti familiari rarefatti e circoscritti fra le pareti domestiche non mi erano estranei, cercavo qualcosa di meno chiuso e di meno incrostato di convenzioni. Ahimè! La fuga forse era convenzionale anch'essa.

Mi sistemo all'ombra con il quaderno e la penna, sono li nelle solite esitazioni mattutine. È un rituale, una specie di atto d'omaggio al senso del dovere: ogni mattina tento di scrivere, ma non ho ogni mattina qualcosa da scrivere, so che quel che scrivo sarà da buttar via e che io ho un modo lento e ruminante di assorbire. Devo pensare a lungo, avvertire i sentimenti che ne nascono per ipotizzare nuove elaborazioni.

Mentre il mio quaderno è vicino all'immancabile splendida caraffa, mi torna alla memoria il più straordinario documento che io avessi avuto in mano. Dopo averlo letto e riletto, non avevo avuto il coraggio (o la viltà) di copiarlo e l'avevo restituito al suo legittimo proprietario. Rendendoglielo mi ero chiesta se dirgli quanto lo trovassi prezioso e perché, ma alla fine avevo deciso di non dirgli assolutamente nulla, perché, dopo tutto, non volevo suggerirgli di utilizzarlo in qualche modo, volevo che rimanesse nel silenzio rispettoso in cui fino ad allora era rimasto. Si trattava di eventi scarni, in uno scenario senza fronzoli, pochi gesti chiari, eppure narrava di affetti e sentimenti estremamente elaborati, non certo estranei a quelli da cui mi sentivo circondata.

Il documento era una lettera di fine secolo di un emigrato meridionale ai genitori. Reo confesso di omicidio, scriveva poche ore prima di essere giustiziato. Aveva sferrato una sola e perfetta coltellata nel fegato di un provocatore.

Erano molti anni che lavorava dal mattino alla sera, le cose di giorno in giorno andavano meglio, non aveva mai fatto altro che lavorare e inseguire la fortuna. Una sera, la prima da cinque anni che era partito, una sera di stanchezza e solitudine, era andato (come non faceva mai), in un'osteria di italiani per parlare con qualcuno.

Era entrato un canadese, veniva a ingaggiare la gente, uno sfruttatore che lo aveva insultato. Lo aveva insultato quella sera come molte altre volte, era un gigante violento e profittatore, lo conosceva, sapeva bene che cercava la rissa per poter spaccare le ossa a qualche poveraccio senza santi in paradiso come lui e poi poterla fare franca.

Lo sapeva e non aveva mai reagito, perché era andato in America per lavorare. Quella sera non se l'aspettava che il canadese entrasse in quell'osteria, si sentiva al riparo e quando l'aveva visto entrare non credeva che l'avrebbe insultato come al solito; invece lui l'aveva insultato, forte del fatto che come tutte le altre volte, lui non avrebbe reagito. Quella sera era stanco e non se l'aspettava e il suo coltello, più veloce della sua mano, lo aveva abbattuto.

Era condannato alla sedia elettrica, fra quarantott'ore: ben prima che la lettera giungesse, la sentenza sarebbe stata eseguita. Non dovevano piangere per lui – diceva – la condanna era tanto meritata quanto era stato giusto l'omicidio: cosí doveva essere.

La prima parte della lettera era scritta da una persona non colta, ma insolitamente capace di esprimersi a dispetto della sua ignoranza. Gli errori di ortografia e di grammatica erano innumerevoli, ma avevano una specie di coerenza espressiva, come volessero rendere sensibile la fulminea concitazione della scena. Le doppie sovrabbondavano, cosí come le esse e le erre e le zeta. Qua e là parole inglesi italianizzate davano il senso della difficoltà della convivenza, ma anche della volontà di adattarsi senza perdere i propri punti di riferimento.

La prima metà della lettera era commovente, ma se non fosse stato per la fine drammatica di chi scriveva, assomigliava ad altre lettere di emigrati che avevo visto.

La seconda parte della lettera invece era di una intensità letteraria, non so come altrimenti dire, che non immaginavo fosse possibile raggiungere da una persona quasi analfabeta.

Il linguaggio mutava, le parole risalivano ad anni più lontani, non c'erano più parole americane e aumentavano i termini dialettali italianizzati, gli errori volevano smussare tutte le asprezze del linguaggio e incidere tenerezza in ogni parola. Cercava infatti di confortare la madre dicendole: è una storia drammatica, ma io la prendo con serenità, un'unica cosa mi dispiace, che voi pensiate che ho tenuto in poco conto la vita che mi avete dato. Credetemi io l'ho amata molto e l'ho goduta, l'ho usata meglio che ho potuto e vi sono sempre stato grato, anche ora, che in un certo modo ve la restituisco.

A riprova di quanto diceva le inviava una fotografia, che aveva ottenuto gli fosse scattata con i suoi abiti anziché con quelli del carcere, appunto per poterla inviare a lei.

Come potete vedere sto bene, ho sempre curato il mio aspetto, vedete il vestito di mio padre, che mi avete dato, l'ho tenuto come voi mi avete insegnato.

La fotografia un po' scolorita restituiva ancora la luminosità dei capelli neri, la profondità degli occhi scurissimi e i tratti regolari ed eleganti di un bell'uomo del sud sui trent'anni.

Proseguiva la lettera: quando sono partito ci siamo salutati e tutti e due pensavano che non ci saremmo più visti. Cosí è.

Nei cinque anni appena passati ho curato la pianta di pomodori che mi avete dato partendo. È cresciuta e allora l'ho trapiantata in una "grasta" grande e sono nati dei pomodori belli come quelli che facevate crescere voi. Quando innaffiavo quella pianta pensavo a voi e a me bambino, mentre v'accompagnavo a bagnare l'orto e per cinque anni è stato come se ogni giorno foste stata presente.

Non cambia nulla, semplicemente, adesso tocca a voi pensare a me, "la sera quando trasite nel giardino".

Erano passate due ore da che la macchina aveva lasciato le due signore nella villa accanto, eppure non una finestra era stata aperta, non si sentiva nulla, come se le due donne me le fossi inventate. In casa Albanese, un po' per volta si erano alzati tutti e tutti erano scesi fuorché la signora Anna.

Marta mi aveva visto e con un vasetto di yogurt in mano mi era venuta incontro. «E arrivata l'altra nonna, credo.»

«Quando?»

«Questa mattina presto, alle otto più o meno, però non hanno ancora aperto le finestre, non vorrei essermi sbagliata.»

«Non vuoi dire, possono benissimo essere arrivate, anche se è ancora tutto chiuso. La zia fa finta di non esserci.»

«Sei una bella maligna!»

«Sí, lo chieda a mamma, è verissimo. Non ha ancora voglia di vederci e può darsi che non apra fino a questa sera. Perché noi appena la nonna arrivava andavamo subito a salutarla e lei non vuole che noi andiamo fintanto che non ha messo a posto. Solita storia: una volta ci ha mandate via, la mamma si è arrabbiata e cosí lei arriva presto e non apre per non litigare e per non vederci.»

«Sí, sí – aveva detto Anna junior arrivata accanto a noi – sí, la zia non ama la gente in genere e noi in particolare, perché non vuole nessuno nei piedi. Se andiamo a salutare si secca e se non andiamo dirà alla nonna: "Non si degnano nemmeno di venire a salutare." La nonna Anna le ha offerto tante volte di aprire e far ordinare la casa prima che arrivino, ma lei rifiuta di dire i suoi programmi, pretende di non averne mai e di fare solo quello che nonna Maria vuole.»

«Che età ha la nonna Maria?»

«Ne ha compiuti ottanta sei mesi fa.»

«Sta bene?»

«Benissimo, non esce molto, ma non l'ha mai fatto ed è bene che non resti sola. La zia però esagera, sembra che sia capace solo lei di farle compagnia, tutti gli altri la stancano, la disturbano. Marta e io specialmente la stanchiamo, secondo la zia; la verità è che la nonna è molto affezionata a noi e lei è gelosa.» Delle tensioni fra gli Albanese e i Rinaldi mi ero resa conto e in particolare delle tensioni fra Emma Rinaldi e la sua famiglia di acquisto.

La signora Emma aveva spesso assistito alle conversazioni fra me e sua madre, ascoltava ma interveniva poco. Quando la signora Anna aveva iniziato a parlarmi della signora Rinaldi, cioè di sua suocera, si era improvvisamente animata e si era mezza a raccontare.

«Mia suocera? Una storia difficile, un rapporto difficile fin da quanto l'ho conosciuta.»

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