10. La brigata della Bohème

«Oh, bravo sor Eugenio, già che la incontro, la mi dica un po': ma è vero che la casa del Venanzio l'ha affittata il Puccini che ha intenzione di stabilirsi qui?»

«Verissimo.»

La domanda era rivolta dal giovine pittore Ferruccio Pagni, un allievo del Fattori, al conte Eugenio Ottolini, nobile lucchese, amico degli artisti, che spesso si recava a villeggiare sulle sponde del laghetto di Massaciuccoli dove s'erano accampati in perfetta bolletta alcuni macchiaioli di Toscana.

«Be', ne sono felice» continuò il Pagni «sia perché Torre del Lago, non lo dico per vantarmi, son io che l'ho scoperta, sia perché un già illustre musicista accrescerà, così, importanza al loco e alla masnada dei geni incompresi come me…. E, la mi dica, quando arriverà?»

«Molto probabilmente la settimana prossima. Giorni fa, incontratolo a Lucca, mi chiese se sapevo indicargli un angolo pittoresco e tranquillo per lavorare. Mi confessò che è stufo di Milano e dei dintorni svizzeri. Anela a respirare nel suo ambiente fresca e pura aria natìa. Par che abbia intenzione di scrivere un'opera che si chiama la Bohème

«Più bohème della nostra credo che sia difficile trovarla. Qui può dipingere in musica, dal vero, tutto intero il romanzo di Murger.»

«Ma pare sopra tutto che voglia andare a caccia.»

«E non è forse questo il regno di Nembrotte?»

«Appunto. Glielo dissi. Lo sapeva. E anche per questo si è deciso.»

«Il buon Dio ha raccolto alle falde del monte di Quiesa tutte le folaghe, le morette, le arzavole, le strolaghe, le gallinelle e le pappardelle del creato, senza contare i fischioni, i germani, i moriglioni, i rossinotti, i trabocchi, i codoni, i beccaccini e via dicendo, che aspettano, innocenti, qualche Erode che ne faccia la strage a volontà. Lo informi dunque che il pittore Pagni gli preparerà memorabili accoglienze.»

Il lago di Massaciuccoli si adagia grigioazzurro tra il confine della provincia di Pisa e le colline della Lucchesia ai piedi dell'imponente massa delle Alpi Apuane. A nord è limitato dal padule, groviglio d'alte erbe e di canneti, sino verso la strada per Viareggio; ad occidente, traverso la pineta arciducale, dista un paio di chilometri dal Tirreno. Torre del Lago, allora, si componeva di un gruppetto di case intorno alla chiesa e di alcune capanne di pescatori, col tetto di falasco. Non raggiungeva i centocinquanta abitanti e prendeva il suo nome appunto dal lago nel quale si specchiavano le sue ultime abitazioni basse a un solo piano, e dalle fondamenta di un'antica torre romanica sulle quali Venanzio, la guardia forestale, aveva fabbricata la casetta affittata da Puccini.

«Paesaggio di sogno» lo descrisse lo stesso Pagni «per gli amanti e per gli artisti, dove tutto appare morbido e tenue allo sguardo, dove, quando le luci si combinano in certi modi e le colorazioni assumono alcuni aspetti, sembra di vivere in un paese d'Oriente. E a sera, se la luna con la sua tonda faccia sorga e si stacchi dalle nitide creste delle colline tutte nere nella controluce, e l'atmosfera s'ammanti di un sottile velo di brume, giureresti di essere in Giappone». Ed è vero. Quella impressione giapponese l'ho specialmente avuta scendendo alla Piaggetta sull'altra sponda del lago dirimpetto alla villa di Puccini, dov'è la proprietà dei marchesi Ginori. Le antiche mura della casa patrizia affondano nell'acqua su pilastri ed arcate e la costruzione prettamente toscana è circondata da una vegetazione costantemente lussureggiante di palmizi d'alto fusto, di salici, di lecci, d'eucalipti, di mille piante esotiche e lacustri, di candidi o rosati nenufari che aprono i grassi petali negli stagni che si sono liberati dalle canne e dal falasco. Perciò vedevo sempre aggirarsi in quell'angolo incantato, vicina al suo creatore, la piccola ombra di madama Butterfly.

Fu in un pomeriggio di giugno che la famiglia Puccini al completo scese alla stazioncina di Torre del Lago con molte armi e pochissimo bagaglio. Il Pagni, che ne era stato precedentemente informato dal sor Eugenio, mantenne la parola: l'intero paese era stato mobilitato. All'ingresso della casa di Venanzio s'era innalzato un immenso arco trionfale di verzura. Uno sciame di bimbi avevano l'incarico di offrire alla signora Elvira gran mazzi di nenufari o caffari come si chiaman là. E tutti questi inattesi omaggi, quelle grida di evviva e benvenuto, commossero il Maestro che si sentiva a posto, in terra sua. Poi, alla sera, tutto si concluse in una grande bevuta di ringraziamento offerta da Giacomo ai suoi sudditi acclamanti, nell'osteria di Giovanni, ch'era dietro la casa di Venanzio. La presa di possesso non poteva iniziarsi più propizia. Fino da quella sera Torre del Lago e Puccini si fusero in glorioso binomio, anche se nessuno, allora, poteva prevedere che, in un giorno lontano, il paese si sarebbe chiamato così: Torre del Lago-Puccini.

Ma mentre nasceva la Bohème, il Quartiere Latino della vecchia Parigi si era trapiantato là, sulle sponde grigioazzurre.

Di chi fosse composta la gaia brigata ci racconta Ferruccio Pagni in un volumetto di ricordi pucciniani, scritto in collaborazione con Guido Marotti. Ecco la descrizione e la presentazione dei personaggi:

Puccini Giacomo, protagonista, lucchese, cacciatore tremendo, sognatore, realizzatore di milioni di trionfi, o di trionfi che rendono milioni. Tommasi Angiolino, livornese, pittore paesista, onesto nell'arte come nella vita, anche se, nell'uno e l'altro campo, giocasse d'azzardo. Tommasi Ludovico, fratello del primo, pittore come lui. Fanelli Francesco detto Cecco, senese, macchiaiolo impressionista. Pagni Ferruccio, livornesissimo, arcismoccolatore imaginifico, soprannominato «denti di ghisa», per il suo schietto appetito senza fondo. Gambogi Raffaello, pittore, coniugato con la Filandia come si chiamava la moglie, pittrice paesista assai meglio di lui. Razzi Giuseppe, gran barba mosaica, cognato di Puccini. Papasogli Giovanni, livornese, cacciatore a moto perpetuo. Mazzini Gioacchino, forlivese, quattrinaio, giocatore e cacciatore. Bettolacci Antonio, livornese, amministratore di Casa Ginori e come tale residente alla Piaggetta. Ottolini Eugenio, conte di Lucca, narratore pedante, cacciatore, giocatore di fondo, cuoco scientifico.

Questi erano i principali componenti del «Club della Bohème» che aveva preso per sede la capanna di Giovanni detto «gambe di merlo». Era una costruzione rustica e primitiva, col tetto di falasco, ma spaziosa, vicina al lago, di fronte alla casa di Venanzio. Una grande porta s'apriva sulla facciata fra due finestroni senza vetri. L'arredamento interno consisteva in poche sedie impagliate, qualche panca, due o tre sgabelli e cinque tavoli di legno rozzo. Nel fondo era il bancone per la mescita e dietro tre scaffali di fiaschi e bottiglie. Dal soffitto pendevano sul banco grosse file di prosciutti e salami e l'illuminazione era affidata a una lampada a petrolio, appesa al centro.

Là si raccoglieva ogni sera la brigata composta in prevalenza di pittori-Marcelli. Il poeta Rodolfo era Giacomo stesso, mentre Giuseppe Razzi, con la prolissa barba, poteva anche simboleggiare la filosofia di Colline, e la parte di Schaunard, salvatore di situazioni, la sapeva rappresentare il conte Eugenio Ottolini, quando pagava i conti a suon di cinque lire che pareva cantassero sul banco: «La Banca di Francia per noi si sbilancia…».

Ma dove mai si erano nascoste Mimì e Musetta? Esse forse non osavano farsi vedere per la paura della signora Elvira.

Il credo di quella bizzarra associazione era stato ben fissato in uno statuto che diceva così:

Art. 1 – I soci del club «La Bohème», fedeli interpreti dello spirito onde il club è stato fondato, giurano di bere bene e mangiar meglio.

Art. 2 – Ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere non sono ammessi o vengono cacciati a furore di soci.

Art. 3 – Il Presidente funge da conciliatore, ma s'incarica d'ostacolare il cassiere nella riscossione delle quote sociali.

Art. 4 – Il cassiere ha facoltà di fuggire con la cassa.

Art. 5 – L'illuminazione del locale è fatta con lampada a petrolio. Mancando il combustibile, servono i «moccoli» dei soci.

Art. 6 – Sono severamente proibiti tutti i giochi leciti.

Art. 7 – È vietato il silenzio.

Art. 8 – La saggezza non è ammessa neppure in via eccezionale.

Fu questa in verità la parte superficiale allegra e spensierata del periodo di Bohème: la bohème vissuta al vero, un po' per celia e un po' per riallacciarsi all'autentica scapigliata miseria delle origini. Ma l'altra parte, che riguarda le vicende della preparazione del libretto, fu ben più ardua e amara, e stava navigando nell'alto mare delle acque del Naviglio. Nocchiero della barca era Giulio Ricordi, capitano Giacomo Puccini, marinai Illica e Giacosa. Ma prima di salire a bordo tutti e quattro insieme erano passate altre peripezie.

Nel periodo immediatamente successivo a Manon Lescaut, l'idea di ridurre a melodramma il pittoresco capolavoro di Enrico Murger era soltanto vaga, imprecisa, campata nell'aria dei progetti possibili. Altri due libretti si fondavano su basi più decise e concrete. Il primo di Giacosa, il secondo di Verga. L'autore di Tristi amori era stato sollecitato dal sor Giulio di cercare una trama per Puccini, ed aveva imbastito un soggetto d'ambiente russo che l'editore aveva subito spedito al suo Maestro perché lo leggesse e giudicasse. Giacomo, che si trovava a Pizzameglio in quel di Chiasso, alle prese con Manon, lesse, meditò per qualche settimana e rispose così:

Sono tormentato dal dubbio circa il libretto di Giocosa. Temo che il soggetto non sia adatto per me. Ho paura di non riuscire a musicarlo come si deve… Ah! se potesse trovar modo di dire a Giacosa, senza urtarlo, di sospendere il lavoro! Io andrei sette o otto giorni da lui e ci si intenderebbe sul da farsi, si cercherebbe e si troverebbe sicuramente qualche cosa di più poetico, di più simpatico e meno tetro e con un po' di maggiore elevatezza di concetto. Quella Russia mi spaventa e, a dir la verità, mi persuade poco. Sono sicuro che a lei dispiacerà molto ciò che scrivo… Ma se poi dovessi fare un lavoro che non sentissi completamente? Farei il danno suo e mio. Con Giacosa il contratto potrebbe restare. Si potrebbe solo modificare la clausola della consegna a novembre e portarla a dicembre o a gennaio. Tanto, io da lavorare ne ho. Sono sicuro che con Giacosa si troverebbe quel che ci vuole e si andrebbe pienamente d'accordo con soddisfazione di tutti…

Più tardi, dalla fitta boscaglia delle ricerche e delle possibilità sbucò una Lupa: quella di Giovanni Verga.

A Giacomo, collaborare con l'autore di Cavalleria, fare un tuffo in Sicilia, anche lui come Mascagni, non sarebbe spiaciuto. Tanto che un bel giorno decise di abboccarsi personalmente con il grande scrittore là, dove «gli aranci olezzano sui verdi margini…». Accoglienze fraterne, rapidissima intesa, impressione potente del dramma, insomma accordo completo e completissima intesa su tutti i particolari. Ritorno di Puccini per mare, via Livorno. C'era a bordo dello stesso piroscafo la marchesa Gravina, figliastra di Riccardo Wagner, essendo nata dal primo matrimonio di Cosima con Bülow. Essa volle conoscere il giovane e già celebre autore di Manon e sapere che progetti maturasse per la futura opera. Giacomo, con fervore entusiastico, le raccontò per esteso il soggetto della Lupa, chiedendo il suo giudizio.

«Il mio giudizio?… Posso dirvelo schietto?»

«Naturalmente. È quello che desidero.»

«Caro Maestro mio… Un soggetto siciliano, crudamente realistico… Poi, non solo quello…»

«Che altro, marchesa?»

«Quella processione… la processione del Venerdì Santo… Mio Dio… processione, preti, croci… che spavento!… Guardatevene bene… Eccovi il mio consiglio.»

Il piroscafo navigava, la Sicilia sfumava, la Lupa naufragava.

Quando apparve il porto di Livorno, il dramma siciliano era già condannato.

*

Lettera di Puccini a Giulio Ricordi:

Per la Lupa è meglio attendere il giudizio che il pubblico darà sul dramma. In Sicilia non raccolsi niente di musicale. Solo fotografai tipi, cascinali, siepi di fichi d'India, tutte cose che le mostrerò a suo tempo… Intanto ho bisogno di una sua lettera che tranquillizzi e non condanni la mia incostanza che chiamerei veduta tarda. Ma meglio accorgersene tardi che mai…

Nell'aria già squillava alto l'appello dei boemi: «Al Quartier Latino ci attende Momus…».

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