11. Due poeti allo spiedo

Il caffè Momus, nel quartiere latino di Torre del Lago, era dunque la mescita del capannone di Giovanni dove la poesia romantica si incrociava coi moccoli toscani. Ma un altro incrocio era quello delle lettere vivamente polemiche tra il Maestro e l'editore e fra costoro e i due poeti librettisti. Interessante incrocio, sempre vivo, vibrante, torturante, che aveva finito col rovinare la serena pace di Giuseppe Giacosa, trascinato, attraverso un'abile manovra di Giulio Ricordi, nella collaborazione del libretto, a cose già iniziate.

Da principio, infatti, tutto procedeva liscio, senza ombra di incagli. Giacomo, innamorato del racconto di Murger, ne aveva parlato con Illica che col suo solito divampante entusiasmo s'era buttato a tagliar quadri e scene, a scegliere episodi, a inventarne di nuovi, a riassumere insomma in quattro atti l'essenza del romanzo. Unico colpo di scena, assolutamente imprevisto, fu che una mattina, musicista e poeta, sbalorditi, lessero nel Secolo l'annuncio che Ruggero Leoncavallo si accingeva a musicare la Bohème.

Fulmine a ciel sereno cui bisognava immediatamente rispondere con un altro fulmine: la notizia sul Corriere della Sera del mezzogiorno stesso che Giacomo Puccini stava già componendo la Bohème su libretto di Luigi Illica.

Stabilita così la strana contemporaneità dell'idea, non restava che procedere imperterriti nel lavoro iniziato.

Nell'ambiente teatrale si diceva: due Manon, due Bohème. Bene. Chi ha più polvere sparerà più lontano… Puccini è un eccellente tiratore.

Ma in un secondo tempo l'accordo Illico-pucciniano, a furia di discussioni, cambiamenti, rovesciamenti di interi atti, corse sul serio il pericolo di naufragare in pieno. Il poeta esasperato delle oscillanti e pur ferme esigenze del Maestro si sfogava in violente proteste con l'editore, e costui ne informava il suo Giacomo invocando calma, pazienza, tolleranza, per non inasprire sempre più l'irritazione dell'Illica. Come parlare al muro. Imperterrito, Puccini rispondeva:

L'irritazione di Illica mi sorprende e la trovo strana… Bastava che il lavoro fosse quale deve essere, e cioè logico, stringato, interessante ed equilibrato… Ma niente per ora di tutto questo… Io devo ad occhi chiusi accettare il Vangelo di Illica?… Ora, la Bohème la vedo, ma col Quartiere Latino come lo descrissi l'ultima volta che parlai con lui… Colla scena di Musetta che trovai io… E la morte la voglio come l'ho ideata io, perché allora sono sicuro di fare un lavoro originale e vitale. Illica si calmi e si lavorerà, ma voglio anch'io, all'occorrenza, dir la mia e non farmi salir sulle spalle da nessuno.

Non c'eran, no, metafore in queste parole. Era un parlare chiaro, da uomo che sa quello che dice e che vuole, e non si lascia distogliere dalla sua strada a nessun costo.

D'altra parte il signor Giulio conosceva gli impeti di Illica, capace di stracciare di colpo il manoscritto, e cacciarsi il suo cappellaccio da moschettiere in testa, con tanti saluti a casa. Bisognava scongiurare il pericolo prima che scoppiasse un dramma inevitabile. E perciò una mattina decise di affrontare la situazione, chiamando il poeta nel suo studio: «Caro il mio caro Illica» esordì Giulio Ricordi con quella irresistibile cortesia che soleva sfoderare quando voleva raggiungere il suo scopo e intascarsi l'avversario senza che costui neanche se ne accorgesse. «L'ho mandata a chiamare perché mi trovo in un grossissimo impiccio a proposito della Bohème…» Illica sobbalzò sulla sedia e divampante d'ira proruppe: «Lei in impicci?… Io ci divento pazzo… Io non ne posso più… Lavorare con Puccini è un inferno, è una galera… Neanche Giobbe saprebbe tollerarne gli estri e i voltafaccia. Quel che oggi gli va, domani non torna. Non è possibile seguirlo nelle continue acrobazie del suo cervello… Oggi spira libeccio, domani tramontana… Io non ne posso più… Non ci resisto».

«Lo so… lo so… Ha ragione… Si calmi, che adesso ne parliamo. So bene quanto quel benedettissimo uomo si sia fatto esigente e intollerante… Lei dice giustamente di non poterne più… Ma che cosa dovrei dire io che ogni giorno sono tempestato dalle sue lettere. Vuol vedere?… Guardi qui… Sono le ultime, tutte un lamento una protesta una critica. Senta, senta quello che mi scrive: “Il secondo atto mi piace poco o nulla… Troppe cianfrusaglie, troppi episodi che non hanno niente a che fare col dramma e perciò mi danno noia…”.»

«Ma le noie le dà lui… È lui che annoia tutti!…»

«Mi lasci continuare: … “bisognerebbe” scrive “trovare un quadro diverso e più efficace… bisognerebbe che Illica – o chi per esso – mi conducesse a fine e bene questo libretto…”.»

«Cosa intende dire con il “chi per esso”?»

«Non saprei, ma è bene che la informi di tutto… Tanto, è inutile, con lei, far dei misteri… Le leggo le frasi principali e testuali: “Voglio un canovaccio che mi faccia spaziare più liricamente…”, “la morte di Mimì dev'essere come l'ho ideata io…”. E ancora, mi stia attento: “Nel Quartiere Latino bisogna togliere quel saltimbanco…”, “bisogna purgare l'atto di certe bizzarrie come queste: ‘Il cavallo è il re degli animali…’, ‘I fiumi sono vini fatti d'acqua…’, tutte cose alle quali Illica tiene come ai propri figlioli… se ne avesse…”.»

«Che sfacciato!»

«Ora» concluse il signor Giulio, mirando dritto al suo scopo «dove andremo a finire di questo passo?… In manicomio tutti, parola mia d'onore…»

«Io ho i nervi rovinati…»

«E lei vuole rovinarsi la salute per Puccini?»

«Ah, no.»

«Quello che dico anch'io!… E perciò pensavo… badi, è una idea che mi balza in mente proprio in questo momento, pensavo se non le converrebbe di associarsi qualcuno che divida fatiche, pene, difficoltà e magari se le assuma in proprio e ce ne liberi…»

«E chi mai?»

«Penserei a Giacosa…»

«A Giacosa?»

«Lei, forse non lo sa, ma a dirla in confidenza ho con lui un contratto per un libretto che non sarà mai fatto…»

«Quello del dramma russo?»

«Ecco, bravo… sì, quello… se Giacosa accettasse la collaborazione, io mi rifonderei dei quattrini già sborsati, e lei si libererebbe da un cumulo di noie… Vuol che tentiamo?…»

«E sia.»

«Oggi stesso ne parlo e sentiremo se Giacosa accetta.»

Fu con questo gioco e con questa necessaria menzogna che Giulio Ricordi piegò lo scontroso e difficile Illica all'unione stupenda. Ma sventagliando là a finto caso le lettere pucciniane, il diplomatico editore aveva tenuto ben celata al poeta la più importante, quella che svelava la chiave del complotto e chiudeva così: “Mille saluti cordiali in attesa del Quartiere Latino riveduto, accorciato e corretto con l'intervento del Budda giacosiano.”

Ai piedi di Luigi Filippo e di Giacomo Puccini, i due sovrani della Bohème, veniva da quel momento gettata la nuova vittima.

Anche la buddistica serenità di Giacosa in quel continuo e crescente turbinìo di fare e disfare, subiva delle scosse tremende. Egli non era uomo che per accontentare il Maestro potesse calpestare le esigenze dell'arte, della poesia, della forma. Per quanto Illica, pratico e spicciativo, sostenesse che il libretto alla fin fine si riduce a un canovaccio la cui forma è fatta dalla musica e che curare le parole serve tanto e quanto, dato che le parole in musica spariscono, Giacosa rispondeva che egli non poteva adattarsi a diventare un facilone del verso e che la forma gli costava tempo e fatica. Le sue lettere a Ricordi son tutte traboccanti di questa pena, degne di quel grande Maestro che egli era, ammonimento sacro a tutti i librettisti:

Buttar giù purchessia non voglio. Metter verso su verso nel solo scopo di arrivare alla fine mi parrebbe azione ingrata e disonesta… È una impresa terribile quella di ridurre alle debite proporzioni un atto pieno zeppo di fatti… Lavoro come un disperato, ma da una parte la chiarezza va rispettata, dall'altra bisogna che l'atto non conti più di trecento versi… Ci riuscirò? Più vado avanti e più ardue si fanno le difficoltà.

Quelle difficoltà, nei mesi successivi, invece che attenuarsi, aumentavano quanto più procedeva il lavoro. Giacomo non disarmava e oramai anche Giacosa si era di persona reso conto che un poeta per musica è agli ordini di chi deve crearla, specie quando il creatore è un formidabile uomo di teatro che ha la visione scenica nel sangue come un istinto innato e deve comandare secondo questo istinto più forte di ogni volontà. In Giacomo infatti succedeva sempre il fenomeno dell'arresto nel lavoro quando si trovava di fronte a qualche situazione che non lo convinceva perché la sentiva falsa. E allora bisognava tornare da capo a studiarci per trovare la giusta via d'uscita.

A modifiche compiute, trepidante il poeta si chiedeva:

Ma sarà poi finito o si dovrà ricominciare da capo? Vi confesso, mio caro signor Giulio, che di questo continuo rifare, ritoccare, aggiungere, correggere, tagliare, riappiccicare, gonfiare a destra per dimagrire a sinistra, sono stanco morto. Questo benedetto libretto l'ho già rifatto tutto da capo a piedi tre volte e certi pezzi quattro o cinque… Voi mi dite che sapete compatire la lentezza del lavoro d'arte… Ma il guaio è che quello che sto facendo per Puccini è un lavoro senza stimoli e senza calore interno. Il lavoro d'arte ha le sue ore penose e laboriose, ma in compenso ha le ore di getto nelle quali la mano è lenta a seguire il pensiero… Qui, invece, non mi riesce di illudermi e di crearmi quella fittizia realtà senza la quale non si viene a capo di nulla. Ho sporcato più carta qui per poche scene, che per nessuno dei miei lavori drammatici…

Puccini lo sa, lo sente, lo capisce, forse se ne addolora, non vorrebbe essere sì noioso ed assillante, ma non può farne a meno. Nel suo lavoro musicale quello stimolo e calore che non sente Giacosa egli lo sente. Egli ha le sue «ore di getto nelle quali la mano è lenta a seguire il pensiero». Trovate le situazioni e le scene, se i versi gli mancano, musica le situazioni, come sempre ha fatto, come sempre farà. Le parole verranno dopo e potranno applicarsi ai ritmi già fissati.

Di tanto in tanto fa una corsa a Milano. Ora sono i versi di Musetta che gli occorrono. Il valzer famoso l'ha già composto. Lo canta e lo ricanta a Giacosa correndo su al suo studio in Foro Bonaparte come un Napoleone che deve superare ogni ostacolo, compreso quello del refrattario orecchio musicale del suo grande collaboratore. Per andar sul sicuro, scrive il metro che ci vuole:

Guarda, tu devi farmi dei versi che corrispondano a queste parole: Cocoricò, cocoricò, bistecca…

Il poeta allibisce, freme, geme. Ma all'indomani i versi di Musetta si adagiano giusti giusti sulla musica: «Quando me 'n vo – quando me 'n vo – soletta…».

Giacomo intasca i versi. Sorride soddisfatto:

Ecco. Adesso ci siamo… Come vedi, era talmente semplice…

Siamo al secondo atto. La tortura continua. Giacosa a un certo punto, pressato da ogni parte di far presto, non ne può più. Ha esaurito tutte le riserve. Coraggiosamente prende una decisione ed un foglio di carta per renderla definitiva.

Scrive a Giulio Ricordi, illustra il suo patire di mesi, conclude:

Così essendo le cose, disperato come sono di uscirne nel poco tempo che mi è concesso, imputando a me solo ed alla mia insufficienzia questa vergognosa diserzione, e pur dolendomene amaramente, prendo l'eroica risoluzione di ritirarmi dall'impresa.

Intervento di Ricordi, intervento di Illica. Ritirarsi oramai è una parola. Non si stacca dal carro il più forte cavallo… Bisogna continuare, arrivare sino in fondo. Siamo già al quarto atto. L'ultimo sforzo. Poi, tutto finito e il sereno ritorna. Giacosa si convince. Riprende il duro lavoro. Verseggia il quarto atto sulla trama di Illica. Risultato? Il quarto atto non va. Non è quello che Puccini voleva. Struttura e versi son ributtati all'aria altre tre volte, e finalmente il Maestro, col suo manoscritto in valigia, parte per Torre del Lago. È la liberazione. I due poeti, gongolanti, non credono a se stessi. Hanno ragione. Tre giorni dopo il signor Giulio riceve questa lettera:

Lei avrà sul tavolo il copione dell'ultima edizione del quarto atto. Mi faccia la gentilezza di aprirlo al punto dove consegnano a Mimì il manicotto. Non le pare sia povero al momento della morte?… Due parole di più, un'espressione affettuosa verso Rodolfo mi basterebbe… Quando questa ragazza, per la quale abbiamo tanto lavorato, muore, vorrei che uscisse dal mondo meno per sé e un po' più per chi le ha voluto bene…

Giacosa legge. Stavolta non protesta. Dice: «Sì. Puccini ha ragione».

E all'indomani spedisce, per quel manicotto, la battuta che è fra le più toccanti del finale: “Oh!… come è bello e morbido… Sei tu che me lo doni?… Tu… spensierato?... Grazie… Ma costerà…” Ma quanto era costato in pazienza e fatica il libretto ai poeti!

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