9. Vent'anni dopo

In parte a Vacallo, in parte a Pizzamiglio, altro paesino svizzero a due passi da Chiasso, poi a Lucca e a Milano, il lavoro musicale di Manon procedeva con foga appassionata. Primo e secondo atto erano pronti. E il quarto si poteva considerare già bell'e musicato prima del primo e del secondo.

Conviene ricordare che Puccini aveva ultimata in una notte una composizione intitolata Crisantemi per la morte di Amedeo di Savoia. Ebbene, quella musica fu trasportata si può dire tale e quale nel doloroso epilogo di Manon.

Ormai dunque per finire l'Opera restava il terzo atto, l'atto che, contro l'opinione avversa di Marco Praga, Giacomo voleva ad ogni costo. L'episodio dell'imbarco, con Manon arrestata e deportata, con Des Grieux che invoca il capitano perché lo accolga mozzo, il Maestro se l'era costruito nella sua mente pittoresco e vivo. E la idea maturata diventava ossessione quando contemplava quel potente rame di Leopoldo Flameng che illustrava il volume regalatogli dall'avvocato Nasi: la morte di Manon illuminata dalla disperazione torbida d'un cielo tropicale.

Ma per arrivare all'epilogo, come sarebbe stato interessante il quadro all'Havre, il tentativo ultimo di sottrarre l'amante imprigionata, e la trama scoperta e sventata e finalmente il lento e implacabile appello delle cortigiane presso il vascello là pronto per salpare.

Fu Luigi Illica che approvò e fece sua l'idea teatralissima ed ora Giacomo si trovava alle prese proprio con quell'atto che non prevedeva gli dovesse costar tanta fatica.

Quella notte d'inverno del '92 egli aveva lavorato fino ad ora tardissima nella casa milanese di via Solferino, senza riuscire a trovare un tema musicale che commentasse con cupa tragicità la chiamata delle varie Manon destinate «a popolar le Americhe». Scontento e sfiduciato, aveva chiuso imprecando il pianoforte e all'alba era andato a dormire. Sonno torbido, agitato, e nel sogno le vele del barcone che non riuscivano a gonfiarsi nel vento e s'afflosciavano come la sua inspirazione. Allora le sciagurate pronte alla partenza, tutte insieme soffiavano a perdifiato che parevano Eolo, e invece delle vele s'agitavano le onde che accavallandosi in tempesta sommergevano ogni cosa. E in quella catastrofe una voce forsennata si levava sulle grida, la voce di Des Grieux che urlava al capitano: «Guardate com'io piango ed imploro…».

Quell'urlo lo svegliò di soprassalto. Si vestì in fretta, scese in strada, infilò la via Brera, e per togliersi di dosso l'incubo di quel sogno e mettersi a contatto con la realtà, salì i molti gradini che nel palazzo di Brera conducevano alla soffitta dov'era appollaiato lo studio del pittore Mentessi.

A quei tempi i pittori, che non erano ancora surrealisti, decoravano l'ambiente con tutte le più strambe e suggestive complicazioni del bric-a-brac, che parevano i residui della liquidazione d'un rigattiere. E vi trovavi quasi sempre un teschio ed un armonium. Quando Puccini entrò, il Mentessi era proprio seduto tutto assorto dinanzi all'armonium e cercava di tradurre in suono certe note grandissime tracciate a carbonella sopra un foglio qualunque?

«Che fai?» gli chiese Giacomo. «Componi?»

«Stammi a sentire… Capiti in buon punto» gli rispose il pittore. «Ieri, nel manicomio di Mombello dove mi reco spesso a fare degli studi, ho visto tra le mani di un pazzo questo foglio e l'ho portato via per decifrarlo… Ma ci capisco poco.»

«Lascia che veda io.»

E in così dire, Giacomo prese il posto di Mentessi e suonò quelle note, ch'erano lugubri e insistenti come colpi di destino. Non disse niente, ma ne fu colpito. Si ricopiò quella specie di tema, nato chissà come da un cervello sconvolto, se lo mise in tasca e abbandonò lo studio.

Quando, molti anni dopo, Puccini stesso raccontava l'episodio, concludeva: «E fu così che lo spunto dell'appello delle cortigiane mi fu dato dal pazzo di Mombello».

Al primo di febbraio del 1893, Manon Lescaut ebbe la sua prima rappresentazione al Regio di Torino.

Protagonisti erano la Cesira Ferrani e il tenore Cremonini. Dirigeva il Maestro Pomè.

“Esco ora dal Regio affollatissimo, elegante, caldo di entusiasmo, echeggiante degli applausi alla Manon Lescaut che vi ottenne un successo trionfale”, scrisse Giovanni Pozza all'indomani sul Corriere della Sera.

Benché molta fosse l'aspettazione, l'opera sorprese per il suo grande valore artistico, la sua potente concezione musicale, la sua teatralità. Sulle prime il pubblico era stato attento, ma diffidente. Però la diffidenza venne subito disarmata dal valore dell'opera. L'amore sì umano e insieme sì romantico del cavaliere Des Grieux per la soave e ingenuamente depravata Manon, ha innalzato l'ingegno del Puccini alle fonti della più fresca e più artistica inspirazione. La Manon Lescaut è infatti un'opera di passione e di melodia in cui ridono le grazie incipriate del settecento e palpita il dramma eternamente umano dell'amore e della morte. Dall'Edgar a questa Manon, il Puccini ha saltato un abisso. L'Edgar si può dire sia stata una preparazione necessaria tutta ridondante, tutta lampi e accenni. La Manon è l'opera dell'ingegno conscio di sé, padrone dell'arte, creatore e perfezionatore.

Se c'è tra i nostri giovani musicisti chi abbia compreso il motto famoso «Torniamo all'antico», questo è il Puccini. La Manon si può dire un'opera di carattere classico. La musica vi ha infatti gli svolgimenti e lo stile dei grandi sinfonisti, senza rinunciare per questo all'espressione voluta dal dramma. E senza rinunciare a quella che si suol dire italianità della melodia. Il Puccini è veramente un genio italiano.

E tutta la critica torinese era concorde con lui. Sulla Gazzetta Piemontese il difficile Giuseppe Depanis riaffermava:

Il successo di Manon fu splendido, in alcuni punti entusiastico, alla fine del terzo e quarto atto trionfale; un successo schietto senza preparazioni artificiose e senza montature preventive, un successo determinato dalla spontaneità dell'applauso, non dal numero delle chiamate.

E il Berta, nella Gazzetta del Popolo:

Chi scrive confessa che raramente si è trovato in un così grave imbarazzo per dar forma e ordine alle numerose note affettate che si affollavano sui margini d'ogni pagina del libretto a misura che il dramma si svolgeva, di mano in mano che le impressioni si succedevano. Il primo pensiero più spontaneo e naturale è quello di dire tutto d'un fiato in poche parole la impressione eccellente, grande, indimenticabile, provata all'audizione. Il Puccini si è in questa Manon rivelato per quello che è: uno dei più forti se non il più forte addirittura degli operisti giovani italiani. Ciò che nelle opere precedenti del Puccini era allo stato di promessa, in Manon diventa affermazione, realtà. Il contrappuntista ingegnoso e dotto, l'istrumentatore colto e di gusto squisito, si fondono in questa Manon col melodista fecondo che nel suo cuore trova inesauribili tesori di melodie erompenti con una purezza e una schiettezza sinceramente italiane, e di cui egli stesso sacrifica lo sviluppo perché la sua vena è esuberante e a un'idea ne succedono cento.

Otto giorni dopo, mentre le repliche affollavano il Regio con crescente entusiasmo, all'albergo Europa, il sindaco di Torino, senatore Sambuy, così brindava alla fine d'un grande banchetto in onore del trionfatore:

O Maestro, qui vedete raccolti ed esultanti intorno a voi, ammiratori, amici, interpreti… Vedo la signorina Cesira Ferrani insuperabile Manon e il tenore Cremonini, Des Grieux tutto ardente di passione, e il Maestro Pomè, anima dello spettacolo che onorò il nostro Regio, vi guardano commossi… Ebbene: anch'io mi sento in questo momento commosso come loro… come tutti coloro che sono stati travolti dalla vostra divina melodia. Manon è infatti l'opera che ha innalzato, dopo Le Villi e l'Edgar, il vostro fulgido ingegno alle più alte vette dell'inspirazione. La vostra grande gloria comincia stasera.

Quella chiusa fece talmente effetto su Puccini che l'indomani mattina, presa in disparte la signora Elvira, le disse: «Dato che la mia gloria è cominciata, io quasi mi decido e scrivo a Blanc».

«Per domandargli che?»

«Ora vedrai.»

Blanc era il cassiere della Casa Ricordi e la lettera di Giacomo cominciava così:

Caro Blanc, t'avverto che ho preso un bicicletto. Ma pagabile a rate mensili. Verrà da te l'amministratore della ditta Schleger, Foro Bonaparte 36 e tu gli pagherai per conto mio lire 70 come prima rata e gli altri mesi lire 50. Saluti al signor Giulio.

Ma da quel «bicicletto» a cinquanta lire mensili, certo Giacomo non poteva prevedere che sarebbero scaturite velocissime automobili e canotti a motore fendenti come freccie il laghetto ed il mare, e persino più tardi un bianchissimo yacht di cui era principe e capitano e che recava impresso sulla chiglia il bel nome di Cio-cio-san. Occorsero è vero degli anni, ma fu proprio Manon che segnò il punto di partenza verso la gloria e la ricchezza. Anche per questo Puccini amò molto quell'opera che, unica nella sua produzione, ebbe il trionfale consenso della critica, sebbene non abbia camminato per il mondo come e quanto le successive sorelle, Bohème, Tosca e Butterfly.

Le nocque, principalmente all'estero, la concorrenza dell'altra di Massenet. E in Francia non entrò nel repertorio dell'Opéra-Comique dove invece le altre tre furono sempre rappresentate in ogni settimana. E fu ancora Manon che gli diede la grande gioia, nell'ultimo anno di sua vita, d'una memorabile consacrazione scaligera, diretta dal Maestro Arturo Toscanini.

Quella sera ero vicino a lui in un angolo buio e nascosto del palco reale quando si iniziò il terzo atto. Toscanini diede ala al preludio con sì intensa e commossa poesia che a poco a poco il creatore fu trascinato nell'atmosfera della sua stessa musica con tale emozione che alla fine, quando scrosciò irrefrenabile l'applauso, il suo viso era inondato di lagrime e serrandomi il braccio con mano che tremava, con la voce velata mormorò: «Mai sentirò, mai più, la mia musica interpretata così…».

E mi parve che gli affiorassero nell'anima tanti anni passati di lavoro e amarezze, compensati da quell'istante di gloria.

Nell'imminenza di quell'unica celebrazione ch'egli ebbe vivente, m'aveva scritto da Vienna, dove pure all'Opera di Stato si allestiva Manon, queste righe:

Mi vorreste fare un gran favore?… Nell'aria di Manon del quarto atto – che di solito si taglia e che invece Toscanini per le prossime recite alla Scala vuol rimettere – essa ripete sempre tre o quattro parole: sola, sperduta, abbandonata, io, la deserta donna… Bisognerebbe mettere al posto di queste ripetizioni altre sentite parole. Sarà forse un solo verso. In cinque minuti me lo fate. Mi ricordo che ai suoi tempi, ormai lontani, quelle ripetizioni mi davano una noia tremenda. Accontentatemi, pensando che il libretto di Manon è di tutti e di nessuno…

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