12. Opera senza giro

Sul lago e nella macchia pisana filtravano i primi bagliori gelidi dell'alba quando Giacomo Puccini strappava al pianoforte quegli ultimi accordi cupi, lenti, tenuti che preparano il silenzio in cui cade la domanda angosciosa di Rodolfo agli amici: «Che vuol dire quell'andare e venire, quel guardarmi così?…». Poi l'urlo lacerante e disperato: «Mimì, Mimì, Mimì…». Ecco: la piccola fioraia, il capo reclinato dolcemente sul sospirato manicotto, è già nell'al di là. Addio, Mimì… Un singhiozzo serra la gola al Maestro, gli occhi gli si impregnano di lagrime. Il primo pianto per la sua creatura – quel pianto che più tardi dilagherà nel mondo – è il suo, com'era di Mimì il primo sole che baciava la rosa germogliante sul davanzale dell'abbaino squallido.

Giacomo quella sera aveva voluto restar solo. I pittori non vennero come sempre a raccogliersi intorno al tavolo dove fumava il ponce preparato dalla signora Elvira. Egli sentiva che nella notte avrebbe finito l'opera e voleva finirla in un'atmosfera di isolamento e poesia. Chiudere il capolavoro spremendo il cuore gonfio sulle ultime note, senza che nessuno lo sentisse e lo vedesse. Chè, solitamente, mentre componeva, gli amici chiacchieravano e fumavano nello stesso stanzone e quel baccano non lo disturbava. Anzi spesso gli piaceva, mentre s'accompagnava la battuta al piano, sentire che dall'oscurità i pittori rispondevano: «Soli d'inverno è cosa da morire…» egli accennava. E gli altri, sommessamente in coro: «Ci lasceremo alla stagion dei fiori…».

Ora tutto finiva. Due anni di lavoro e di tormento, di discussioni aspre e di rifacimenti faticosi si concludevano con la morte di Mimì. A festeggiare il grande avvenimento Giacomo aveva convitato a banchetto gli amici. Oltre la colonia di Torre del Lago, i fedeli di Lucca si strinsero in quel pomeriggio di novembre del 1895 intorno al pianoforte per far l'intera conoscenza del vivo e commosso quartetto. Si rise, si pianse, si abbracciò il compositore preconizzando un successo memorabile, unico nella storia della lirica pucciniana.

Perché il pranzo fosse degno dell'avvenimento, Giacomo era andato a caccia nella tenuta dei Ginori alla Piaggetta, facendo larga strage di fagiani. Di fronte alla luculliana imbandigione un commensale, alzando come in offertorio il piatto ricolmo, per restare in colore di bohème esclamò: «Questa è un'aringa degna di Demostene, perché sa di fagiano…».

A che Puccini, mantenendosi in tono, rispose con le stesse parole del romanzo di Murger: «L'aringa è a torto disprezzata; tutto sta nella maniera di saperla cucinare».

Nel mese successivo, per Natale, un secondo banchetto festeggiava la fine sospirata di Bohème, questa volta in casa di Giuseppe Giacosa. Un colossale panettone troneggiava sulla mensa. Quel dolce, dopo tante amarezze, l'aveva mandato il signor Giulio. E all'indomani il poeta trasformava il panettone in un serto di lauro con questi versi di ringraziamento:

Mai così aulente foglia
ebbe il lauro che Roma
e Atene tributar concordi al merto
poetico e guerresco
quale dal tuo germoglia
o Divo Giulio, inzuccherato serto
posato sul guanciale di Teombra.
Serto gargantuesco
anzi pantagruelico che invoglia
a golose peccata
l'amichevol brigata
raccolta intorno al familiar mio desco.
Se con tal monumento, oggi si premia
l'inedita Bohèmia
che sarà, che sarà
quand'essa alla ribalta splenderà?.

La risposta venne – ahimè – dai critici torinesi, aspramente concordi ed implacabili, all'indomani della prima rappresentazione al Regio la sera del primo febbraio del '96.

Dirigeva Arturo Toscanini. Il quartetto era affidato alla Ferrani, la creatrice di Manon, alla Vitale, Musetta, al tenore Evan Gorga, Rodolfo, e al baritono Moro, Marcello.

Puccini a quella prima torinese era contrario. Aveva confidato al signor Giulio il suo presentimento, maturato durante le prove:

Sento in aria odore di tempesta. Sento intorno freddezza e diffidenza. So che la chiamano l'opera degli straccioni, e non hanno fiducia… Vedrà che la critica mi farà pagar caro il trionfo di Manon… Basta… Che Dio ce la mandi buona…

«Non abbia paura…» gli aveva risposto l'editore.

Nessuno infatti più di lui era innamorato dell'opera. Pochi giorni prima aveva scritto a un amico:

Se non fosse la paura di pronunciare una parola troppo grossa, non esiterei a dire che la Bohème è un capolavoro.

Di che capolavoro si trattasse lo scrisse il Berta nella Gazzetta del Popolo:

Noi ci domandiamo se in coscienza il Puccini, tra l'onda inebriante degli applausi, non abbia provato come il senso di abdicazione. Non ha egli avvertito che la Bohème comprometteva un'ora passata che gli aveva dato gloria e fama serie e durature?

Questo era l'inizio. Ben più aspro e tagliente era il seguito:

Noi ci domandiamo che cosa spinse il Puccini sul pendìo deplorevole di questa Bohème. La domanda è amara, e noi non l'avanziamo senza una punta di dolore, noi che abbiamo applaudito e applaudiremo sempre a Manon nella quale si rivela un compositore che sapeva sposare il magistero orchestrale alla più sana italianità di concezione. Maestro, voi siete giovane e forte, voi avete ingegno, cultura e fantasia, come pochi hanno: oggi vi siete levato il capriccio di costringere il pubblico ad applaudirvi dove e quando avete voluto. Per una volta tanto sta bene. Ma nell'avvenire tornate alle grandi e difficili battaglie dell'arte…

Il successo di pubblico c'era stato. Non imponente, non travolgente, la prima sera, ma tuttavia schietto e cordiale. La critica non ne volle tener conto. Nella Stampa Carlo Bersezio affermava che quella non poteva certo dirsi un'opera riuscita. Musica leggera, molto leggera, troppo leggera non soltanto nelle parti briose ma anche in quelle passionali e drammatiche. Di più, una recisa affermazione di ipoteca sul futuro:

Come la Bohème non lascia grande impressione sull'animo degli auditori, non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico. E sarà bene se l'autore, considerandola come l'errore di un momento, proseguirà gagliardamente la strada buona e si persuaderà che questo è stato un breve traviamento dal cammino dell'arte.

E infine Luigi Alberto Villanis nella Gazzetta di Torino, dopo essersi domandato a quale genere apparteneva o s'accostava l'opera, dava questa risposta:

Abbandonati quegli aurei modelli che rivelavano nell'autore delle Villi un artista in traccia di alti ideali, la musica di Bohème è vera musica fatta per il godimento immediato, musica intuitiva. In questo punto di partenza sta l'elogio e la condanna.

Solo Giovanni Pozza, amicissimo di Giacosa, tentava sul Corriere della Sera di salvare la situazione attaccandosi al libretto:

La fortunata concezione del libretto fa sì che mentre si ride spesso come a una commedia, si prova poi la commozione più profonda che dramma umano possa produrre. Non sono contrasti ricercati, ma pagine saltuarie di quella vita che Murger ha dichiarato gaia e terribile. È un libretto letterariamente pregevolissimo: ma a mio avviso esige troppo dalla musica, la quale deve ora trovare toni freschi di colore, ora accenti inspirati di passione, generando una immancabile slegatura… Ma profetizzando sulla sua vitalità, con sicurezza afferma che: l'opera avrà lunga fortuna sui teatri giacché, se suggerisce qualche apprezzamento critico, ha qualità da farla piacere tanto a quelli che amano nella musica aver soltanto diletto, come a quelli che hanno maggiori esigenze. Gli uni si compiaceranno di accennare qualche motivo geniale, gli altri di ricercar qualche tesoro di orchestrazione o di armonizzazione. Gli uni diranno che è musica bella, gli altri che è musica ben fatta.

Meno male! Se non che, a ribadire la condanna, a creare intorno a quella prima una fredda diffidenza, un notissimo agente teatrale e librettista, Carlo d'Ormeville, autore del Ruy Blas, spediva nella notte un telegramma ai giornali teatrali milanesi testualmente così concepito:

Bohème, opera mancata, non farà giro.

Che Iddio glielo perdoni.

Neanche a farlo apposta, quasi che quel telegramma avesse dischiusa la via della fortuna, Bohème esaurisce il Regio per ventiquattro sere consecutive. Nell'aprile va in Sicilia. Al Massimo di Palermo chi dirige è Leopoldo Mugnone. Puccini lo ha sempre e per tutta la vita proclamato il più grande e fraterno concertatore e interprete delle opere sue. Rodolfo e Mimì, stavolta, sono Garbin e la Sthele. Marcello è il Sottolana, Musetta Ada Giachetti. È il tredici del mese, venerdì. Mugnone trema e vorrebbe rimandare la recita. Puccini no. È sereno, tranquillo. Si sente sicuro. Gli piace di sfidar la jettatura. Infatti l'opera trionfa tra applausi clamorosi. Alla fine nessuno abbandona il suo posto. Mentre direttore, interpreti ed autore si presentano per l'ennesima volta alla ribalta, qualcuno grida bis. Le voci trovano eco. La richiesta si fa unanime, imponente, assordante. Giacomo e Mugnone si guardano, si intendono. E sia. Si cala la tela. Mugnone è già sul podio. Dà l'attacco. Il velario si rialza e Musetta rientra affannosamente nella soffitta dei boemi esclamando:

C'è Mimì che mi segue e che sta male.
Nel far le scale
più non resse…

Il pubblico, per la seconda volta, è in delirio.

Opera mancata non farà giro: ho sott'occhio le date delle prime all'estero, mentre in Italia ogni teatro ha in cartellone Bohème: 1896 Buenos Aires e Budapest in edizione ungherese. 1897 Alessandria d'Egitto, Mosca, Manchester, Londra, Berlino, in tedesco, Vienna al teatro An-der-Wien. 1896 Barcellona e al 13 giugno, finalmente Parigi, all'Opera Comica, diretta da Carré.

Puccini va in Egitto, passa in Inghilterra, è a Parigi. Il 26 maggio scrive a Giulio Ricordi:

Oggi si farà la prima lettura in orchestra… Finora si è perduto un gran tempo per la mise en scène… Sono di una lentezza snervante e demolente. Io sono dimagrato e la nausea per la Bohème è tale che sono sgomento a comunicare un po' d'entusiasmo e un po' di vitalità italiani a questi impiegati supini e passivi. Ora spero che si avvicini la fine di questa via crucis. Con Carré non c'è mezzo di far nulla. Vuol fare tutto lui e ha messo in scena l'opera (bene, è vero) imparandola seduta stante con mia perdita di tempo incredibile. Anche la Guéridon comincia a entrare nel personaggio. Ne farà una Mimì bambina, forse troppo ingenua e poco drammatica, ma credo che questa nuova incarnazione non sia male: avrà un cachet speciale. Il resto va bene. Anche il tenore si sveltisce. Splendido Schaunard il Fuyère, peccato che abbia così poca parte. Ottimi gli altri. Solo il Colline è svogliato: è l'Isnardon…

Queste sono le notizie sul teatro e sull'andamento delle prove. Per quanto riguarda la sua vita parigina, non ci si trova. È stanco, un po' malato di nostalgia toscana, un poco intimidito:

Qui non posso lavorare. Sono troppo eccitato di nervi e senza la tranquillità che mi è necessaria. A me un invito a pranzo mi fa star male una settimana. Sono fatto così e non mi si cambia a quasi quaranta anni. È inutile insistere: non sono nato per fare la vita dei salotti e dei ricevimenti. A che pro espormi a fare la figura del cretino e dell'imbecille?… Vedo che sono tale e me ne accoro tanto. Ma, ripeto, sono impiantato così, e lei mi conosce – solo lei – non Tito, che continuamente insiste che mi sveltisca. Insistere su questo argomento, con me è peggio. Non per fare paragoni, che sarebbe ridicolo, ma Verdi ha fatto sempre il suo comodo e ciononpertanto ha fatto quel po' po' di carriera. Finora io ho, grazie a Dio, tutta la mia parte di successi senza ricorrere a mezzi per i quali non sono nato. Io sono qui unicamente perché mi eseguiscano la mia musica come è scritta. Non vedo proprio il momento di tornare alla mia quiete. Come la desidero… Domenica, con Tito, andremo a Marly, nella villa di Sardou…

*

Così, alla vigilia della grande affermazione parigina, che legherà per sempre la Bohème al repertorio dell'Opera Comica, tra gli inviti, gli onori, le nuove conoscenze letterarie e mondane, Giacomo, grande anima semplice e paesana, sogna le Apuane, la macchia pisana, il suo piccolo lago, le folaghe e i beccaccini. E forse in quella visita a Sardou vede venirgli incontro la plastica figura di Floria Tosca, col suo alto bastone tra le braccia e un gran mazzo di fiori da deporre dinanzi alla Madonna.

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