13. Il Signor Tenore

Durante il lavoro librettistico della Bohème, in una delle tante lettere a Ricordi richiedenti modifiche, ho trovato il primo seme di Tosca in queste due righe:

Al tocco e mezzo, oggi, io ed Elvira partiamo per Firenze dove stasera si recita la Tosca.

Protagonista era Sarah Bernhardt in giro per l'Italia con la sua compagnia e il suo repertorio. Di fronte alla popolarissima Dame aux Camélias, la Tosca passava in seconda linea. Dopo la recita, per Puccini passò addirittura in quarta. Di tutta l'interpretazione della grande attrice ebrea non gli era rimasto nelle orecchie che il tono disperato della voce con cui essa ripeteva insistentemente a se stessa: Malheureuse… Malheureuse… Niente altro.

Non so chi gli avesse fatto intravedere nel drammone sardouiano la possibilità di un libretto d'opera, ma è certo che all'uscita dal teatro egli disse ad Elvira: «Che… che… questo malheureux zibaldone non è affare per me…».

Passò da allora molto tempo. Il successo di Bohème oramai s'era centuplicato e dilagava, e il Maestro continuava a cercare un soggetto che facesse per lui, senza trovarlo.

A Milano si rivide con l'Illica e gli chiese, tanto per curiosità, che cosa facesse.

«Ho imbastito un libretto tratto dalla Tosca di Sardou.»

«La Tosca

«Sì… Non ci avevi pensato anche tu, un paio d'anni fa?»

«Ci ho pensato, infatti… Ma poi…»

«Ma poi, lo so, ti sei smontato subito, ed hai avuto forse torto.»

«Tu credi?»

«Non so… Dico per dire… Se però tu volessi vedere la riduzione mia, fa un salto dal signor Giulio, fatti dare una copia del libretto, leggilo e poi dimmi che te ne pare.»

Tre o quattro giorni dopo, Giacomo, riportando il copione all'editore, lo condannò con la stessa frase d'un tempo: «Che… che… questo truce zibaldone non è affare per me».

Per molto tempo non ci pensò più. Continuava a cercare dell'altro, inutilmente. E tra le ricerche, di tanto in tanto, l'idea di Tosca riaffiorava. No, così com'era, il libretto non gli piaceva affatto, ma quel colore d'epoca, quella Repubblica romana, quella protagonista e il pittore Cavaradossi, e il bieco Scarpia, non mancavano di un certo fascino lirico. Tutt'altro.

E un giorno si decise. Andò a trovare Illica. Gli espose quasi con entusiasmo la sua decisione: «Forse, avevi ragione tu… Ripensandoci, può uscirne un'operona».

Sperava che Illica lo abbracciasse dalla gioia. Quando vide il poeta impassibile e muto, lo interrogò con ansia: «Che c'è? Difficoltà?».

«Una sola e gravissima, irreparabile…»

«Ossia?»

«Dopo il tuo rifiuto, Giulio Ricordi ha passato il libretto ad Alberto Franchetti che lo sta studiando e non lo molla più.»

«Maledizione!»

E tale fu l'accoramento di Puccini, il quale adesso avrebbe fatto moneta falsa per riavere Tosca, che Illica ne ebbe quasi un senso di pietà, condensato in un però… che apriva l'orizzonte.

«Però… tu dici?»

«Si potrebbe tentare.»

«In che maniera?»

«Tosca non ti interessa più…»

«Non è vero… M'interessa e come!»

«Lasciami dire…: non ti interessa più, e persisti a non volerla.»

«Tutt'altro…»

«No tutt'altro… Persisti a non volerla, e lo dirai a tutti, aggiungendo che musicarla è un errore… come dicevi finora… Fa in modo che la voce dilaghi il più possibile… Al resto ci penso io. E se tutto si svolge secondo le mie speranze, ti prometto che fra un mese Floria sarà tua.»

In quel momento Giacomo si sentì ardere all'idea del possesso più che se fosse Scarpia.

Illica – come era nel suo temperamento – romanzava l'avventura. Egli sapeva infatti che Franchetti, sì, è vero, aveva in mano il libretto, ma che profondamente convinto non era neanche lui. Sapeva che il libretto l'aveva fatto leggere a Verdi, pregandolo di dargli qualche consiglio e che alla sua richiesta specifica del come egli avrebbe visto musicalmente la coltellata a Scarpia il grande Maestro, lombardizzando la u, aveva risposto: «In quel momento, poca miusica… poca miusica…».

Sapeva insomma che Franchetti esitava, tentennava, e che forse una scossa avrebbe fatto cadere e frantumare il progetto.

Giulio Ricordi, che di tutto ciò era stato informato dall'Illica stesso, per raggiungere lo scopo e soddisfare l'oramai decisivo desiderio di Puccini, interviene: «Lei stesso, caro Illica, deve compiere quest'opera di demolizione per la ricostruzione immediata. Vada dunque dal Franchetti, aggravi le critiche al libretto…».

«Dovrei dunque diventare parricida?»

«Anche, se è necessario per riuscire.»

Ed Illica questa autodemolizione la seppe compiere a gradi, con tanta sottile abilità e spietata efficacia che finalmente una mattina Puccini se lo vide entrare in camera col grido esultante di «Vittoria» che erompe dall'anima di Cavaradossi all'annunzio che le truppe del Bonaparte avevano sconfitto l'esercito di Melas…

«Adesso corri subito dal signor Giulio… Franchetti gli ha restituito il libretto… Piombaci addosso e smettila di fare l'altalena.»

Ecco: il libretto c'è. Si diffonde nei giornali la notizia che Giacomo Puccini sta preparando Tosca, ancora su libretto di Illica e Giacosa. L'annuncio suscita commenti sfavorevoli; un drammaccio popolare da Stadèra? Perché non innalzare verso le vette più artistiche? La Bohème in fin dei conti era una trovata originale. Questa no. Dov'è il colore lirico che caratterizza la sua musica? Sarà un'opera da arena… Ah! questi musicisti, a che cosa s'attaccano pure di aver successo!… Così comincia a crearsi la leggenda della «facile musica» pucciniana. Non si voleva ammettere – e c'è chi dubita ancora – che Puccini venisse direttamente dopo Verdi, con una sua solida, ricca, definitiva personalità a creare un nuovo tipo di melodramma il cui blocco può sostenere ogni confronto, la cui vitalità sarà eterna, il cui valore creativo e tecnico può universalmente far testo. Non si voleva ammettere che evidenza di parola, giustezza di proporzioni, penetrazione di caratteri e di situazioni erano fuse e profuse con profonda sensibilità. E, soprattutto, che dalla sua musica s'effondeva ed elevava una atmosfera indefinibile ch'era quella che penetrava il nostro cuore inconfondibilmente, in ogni opera sua. Successo facile? E come mai, allora, il pubblico ne era conquistato lentamente, grado a grado e le prime rappresentazioni si convertivano sempre in tiepide accoglienze che la critica era pronta a registrare ribadire ingigantire?… Ma poiché non esiste che una forma d'arte, quella che arriva e l'altra che non arriverà mai, Puccini, sia pure lentamente e faticosamente, arrivava sempre. E allora si determinavano le due correnti: pubblico e giudici, affermazione e negazione in cui la timida sensibilità personale del Maestro veniva trascinata e travolta. Mettete al centro delle due correnti la grande coscienza dell'artista, pensate che per tutta la vita egli si è sentito accanitamente sminuire se non distruggere e poi dite quale cumulo enorme di tristezza sconforti abbattimenti costituisca la perenne tortura di chi crea e quale sovrumano sforzo sia necessario per ritrovare in sé la divina ispirazione che sollevi dalla miseria alle stelle.

Coraggio dunque e avanti. Anche Tosca vincerà. Intanto l'entusiasmo d'aver trovato il libretto predomina. Nelle prime riunioni con IIlica, Giacosa, Giulio Ricordi, grandi espansioni e fermissime promesse di camminare tranquilli, fraternamente, a braccetto.

Si riesamina la trama: bellissima, tagliata da gran sarto. Il dramma originale di Vittoriano Sardou è in cinque atti e sei quadri: l'interno della chiesa di Sant'Andrea della Valle, i saloni di palazzo Fernese in festa, la villa di Cavaradossi, il gabinetto di Scarpia, la cappella dei condannati, gli spalti di Castel Sant'Angelo. Il libretto ha condensato con efficace sintesi la materia del dramma in tre soli quadri: son rimasti la chiesa, il gabinetto di Scarpia, gli spalti. Sardou stesso è entusiasta della riduzione, e afferma che avrebbe voluto trovarla lui perché supera teatralmente la visione sua. L'elogio del mago della scena francese inorgoglisce l'Illica, ché il nuovo taglio è suo. Tocca adesso a Giacosa metter mano alla forma poetica.

Cominciano le richieste di Puccini a Ricordi: «Da Illica o Giacosa mi occorrono questi versi nel metro preciso dell'accluso biglietto…».

Si torna dunque al «cocoricò-cocoricò-bistecca…» della Bohème. La richiesta è urgentissima: «Se ne occupi subito… Lei ottiene di più e più rapidamente».

Rapidamente è una parola che atterrisce Giacosa.

Cominciano le sue proteste documentate: «Il manoscritto della Tosca – scrive nell'agosto del '96 – mi fu consegnato in principio di giugno e a quell'epoca fu pure pattuita la mia collaborazione. Ebbene, ho già dato un atto compiuto e sono avanti nel rimanente del lavoro». Questo, tanto per stabilire come stanno le cose. In quanto al genere del suo lavoro, dice che «altro è buttar giù una traccia più o meno distesa di scene, altro è serrare il soggetto in pochi versi, curando di metterne in rilievo gli elementi essenziali e curare la forma della scena e del verso». Insomma si ripetono, pressoché identici e con le stesse parole, gli incidenti di Bohème. Ma qui c'è un'aggravante: Giacosa, la Tosca non la sente. È persuaso che non sia buona materia per melodramma: «A prima lettura pare di sì, vista la rapidità e l'evidenza dell'azione drammatica, e più e meglio lo pare a chi legge la prima volta la sagace sintesi che ne ha fatto Illica». Ma quanto più uno si interna nell'azione, penetra in ogni scena, cerca di estrarre movimenti lirici e poetici, tanto più si persuade della sua assoluta inadattabilità al teatro di musica. Fa osservare che nel primo atto sono tutti duetti. E, tranne la breve scena della tortura, in parte della quale due soli personaggi sono davanti al pubblico, anche il secondo atto si riduce a duetti. Il terzo, poi, consiste in un duetto, solo, interminabile. Insiste che, nel congegno dei fatti che costituiscono l'intreccio, l'intreccio ha troppa prevalenza a scapito della poesia. In definitiva, Tosca è un dramma di grossi fatti emozionanti ma non poetici. Rimpiange la Bohème dove il fatto non ha importanza, mentre invece sovrabbonda il movimento lirico e hanno largo sviluppo i sentimenti.

Tutte considerazioni – pensa Giulio Ricordi nel ricevere quelle lettere – che magari saranno anche giustissime, ma che nulla risolvono. Se Giacosa, invece che perdere tempo a scagliarsi contro il congegno drammatico a detrimento del poetico, facesse i versi che Puccini aspetta, o non sarebbe meglio? A che serve insistere nel polemizzare? Tosca è quello che è, inutile discuterne… Quello che risulterà in musica è un'altra faccenda. Ci penserà Puccini. Invece di scrivere sfogandosi, mandi, Giacosa, il brano del tenore che Giacomo implora già da due settimane. Evidentemente press'a poco così deve aver risposto il signor Giulio, dato che il poeta manda i versi e li accompagna con la ironia che è in queste parole:

Io non ho più posto mente né al momento drammatico né al carattere dei personaggi né a quella psicologia del signor tenore, come voi dite. Dato che pare che per voi e per Puccini Mario Cavaradossi non sia che il Signor Tenore, non ho più posto mente nemmeno al senso comune. Si vuole un pezzo lirico, e si capisce che un pezzo lirico è qualche cosa che nulla ha a che vedere colla psicologia né colla drammatica. E allora, ecco, pezzo lirico sia! Per compiacervi ho seguito fedelmente la traccia metrica che voi m'avete mandata… – cocoricò, cocoricò, bistecca… – La prosodia non sarà molto soddisfatta, ma il pezzo lirico si infischia della prosodia.

Non rinuncia però a buttar lì un esempio: Questi tre versi di Tosca che dicono nel vostro testo: «Mio tesoro / non tradirmi / te ne imploro…» in buona regola sono tre versi che stanno ad aspettare il quarto. E quel non tradirmi che non trova con chi rimare fa una figura barbina e ne farà fare una birbona ai poeti. Ma per i versi per musica – come dice Illica – è assurdo darsi il menomo pensiero.

E conclude:

“Queste sono le esigenze del Signor Tenore al quale cedo, mi inchino e faccio tanto di cappello.”

Quando al musicista arrivano le scene fatte e i sospirati versi, eccolo entrare in campo e divertirsi con la lente d'ingrandimento a cercare i difetti. Allora suggerisce o arrangia a suo modo:

Caro sor Giulio, ho letto il secondo atto e ci ho fatto qualche modifica che credo necessaria. Esempio. Scarpia diceva a Tosca: «Come tu mi odii!». Ora è sparito il «come», è rimasto il «tu mi odii». Prima era più efficace. Poi perché mi fu tolto l'ultimo verso: «E avanti a lui tremava tutta Roma?…». Io l'ho tornato a mettere perché mi gioca bene… Per il terzo atto, bisogna fare a meno dell'ultima trionfalata che Illica chiama Inno latino…

Questo Inno latino era infatti un'idea ossessionante di Illica. Egli aveva trovato che prima di morire Mario Cavaradossi dallo spalto di Castel Sant'Angelo abbracciasse con lo guardo i colli di Roma e con parole letterariamente alate ne salutasse la grandezza passata e la gloria futura.

«Che… che…» disse Giacomo. «In quel momento Cavaradossi ha ben altro da pensare. Non è la Gloria ma Floria, la sua divina amante, che egli perde. E la chiusa del suo canto non può essere che un grido di disperazione per dover morire. È questo grido che voglio, ma con parole semplici, umanissime.»

Così nacque il famoso «E muoio disperato» cui Giacosa, per la forma e prosodia, aggiunse il verso seguente: «e non ho amato mai tanto la vita…».

Ma sono certo che avrebbe completato volentieri il suo pensiero continuando tra parentesi: «come quando non mi era rovinata da Giacomo Puccini».

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