14. Spiriti di famiglia

La musica di Tosca venne scritta in gran parte a Chiatri, che è un piccolo paese tra Viareggio e Lucca. Là, su una collinetta, sorgeva una villa solitaria che non aveva una strada per arrivarci, ma un sentieretto sassoso che soltanto due gambe umane o le quattro di un mulo potevano affrontare. Giacomo comperò quella villa con la promessa che il Comune avrebbe fatta la strada, che, a tutt'oggi, credo sia rimasta come allora, ma non ha più importanza. Era importante per Giacomo isolarsi nel cheto rifugio e tanto meglio se il valico rendeva difficile il passo agli importuni.

Torre del Lago, domicilio fisso. La casa di Lucca, acquistata per le sacre memorie che chiudeva. Adesso veniva la volta della villa di campagna. Non era ancora la ricchezza, ma la agiatezza sì, dopo tanto languire fra gli stenti e le difficoltà finanziarie. La Bohème nel rapido susseguirsi delle rappresentazioni dava già buoni redditi. Poi c'era Manon, e adesso il contratto di Tosca era stato firmato con una grossa cifra di premio, trentamila lire, a quel tempo una favola. Quindi non più preoccupazioni. Una sola: lavorare e allargare il repertorio. Quando Giacomo diede l'annuncio in famiglia che tra una settimana si sarebbe partiti in calesse per Chiatri, fu un coro generale di proteste: Fosca e Antonio s'erano fatti a Torre il loro circolo di amici, la signora Elvira poteva alle rive del lago correre a Viareggio o a Pisa come e quando le piaceva. Ma lassù a Chiatri si sentivano presi in una trappola senza vie d'uscita, dati i sassi del sentiero. Però, se Giacomo pensava che in villa avrebbe meglio lavorato, non c'era più che dire. I contrasti quindi si limitarono all'annuncio, addolcito dalla promessa di non restarci molto: «Speriamolo…» disse la signora Elvira.

Ma i due ragazzi, più pratici e intuitivi, commentarono: «Tu ci credi?».

«Io no.»

Un solo ospite partiva con loro: il barba Carignani, quell'amico d'infanzia che – anni fa – aveva condiviso lo stupore di Giacomo all'Aida pisana. Il Maestro Carignani era stato il riduttore pianistico dell'Edgar, di Manon, della Bohème. Godeva l'intimità e la stima di Puccini e gli serviva, avendolo vicino, da stimolo e talvolta anche da primo giudice e consigliere.

Ma c'era un altro consigliere lontano che poi, per tutta la vita, si illuminò, con profonda tenerezza d'affetto, della gloria di essersi stretto all'amicizia di Puccini collaborando alla Tosca, e fu Don Pietro Panichelli, che Giacomo chiamava il suo pretino e che morì settantenne lo scorso anno a Pisa, pochi mesi dopo di aver pubblicato un interessantissimo volumetto di memorie pucciniane. Nel rievocarlo mi libero dal rimorso di non aver scritto su quel libro un articolo che egli ripetutamente mi aveva pregato di scrivere. Era nato a Pietrasanta in quel di Viareggio e s'era incontrato col Maestro già illustre a Roma, nel 1897, nel negozio di Ricordi. Giacomo simpatizzò per lui e gli volle sempre molto bene.

Mentre stava lavorando a Tosca, gli occorrevano dei dati di indole ecclesiastica, e si rivolse a lui con questa lettera:

Io lavoro a Tosca e sudo e dal caldo e dalle difficoltà che incontro ma che saranno – spero – superate. Ora desidero un favore; si tratta del primo atto (finale): in chiesa di Sant'Andrea della Valle ha luogo (?) un Te Deum solenne di festeggiamenti per vittoria d'armi. Ecco la scena: dalla sagrestia escono l'abate mitrato, il capitolo, ecc. ecc., in mezzo al popolo che su due ali ne osserva il passaggio. Sul davanti della scena poi, c'è un personaggio (il baritono) che monologheggia indipendentemente – o quasi – da ciò che succede nel fondo. Ora io ho bisogno per effetto fonico di far recitare preci al passaggio dell'abate e del capitolo. Sia insomma il capitolo o sia il popolo, ho bisogno di far brontolare con voce sommessa e naturale, senza intonazione, come sul vero, delle preci-versetti. L'«ecce-sacerdos» è troppo imponente per essere mormorato. So già che non usasi dire né cantare niente prima di intonare il solenne Te Deum che viene fatto appena arrivati all'Altar Maggiore, ma ripeto (sarà vero o no) io vorrei trovare qualcosa da brontolare quando dalla sagrestia vanno all'Altare, e ciò dal capitolo o dal popolo. Ma sarebbe meglio quest'ultimo, perché più numeroso e perciò più efficace musicalmente. Indagare, cercare la cosa adatta e inviarmela subito.

Il pretino si mise all'opera e inviò subito i dati e le parole.

Ora un'altra cosa Puccini, più tardi, voleva esattamente sapere da lui: quale fosse musicalmente la tonalità giusta del campanone di San Pietro. E il pretino, dopo accuratissime indagini, fu felice di scrivergli:

Caro Maestro, Eureka! Ho trovato. Il maestro Meluzzi ha potuto assicurarmi che quel tono squarciato, indistinto, confuso, inafferrabile del campanone di San Pietro risponde ad un mi naturale. E mi ha soggiunto che posso scriverlo con sicurezza a lei sotto la sua responsabilità.

E già che mi vien fatto di parlare del pretino di Puccini, mi piace riprodurre dal libro due episodi: l'uno di fede mistica, l'altro, vorrei dire, di fede perduta.

Una volta – racconta l'abate Panichelli – celebrandosi in Viareggio la festa del Santo Patrono sotto una pioggia dirotta, vidi tra la folla dei fedeli Giacomo sotto l'ombrello che ci veniva dietro. Poi, quando il corteo si sciolse tra una folla di credenti che aveva seguito religiosamente l'immagine del Santo sotto l'acquazzone, m'accostai a Puccini dicendogli: «Vedi? È gloria anche questa!». E gli occhi luccicanti mi risposero insieme alla sua voce commossa: «E la più bella gloria. Forse la sola!». Era ancora la voce dell'uomo che, nella saletta da pranzo di Torre del Lago, mi aveva detto: «Ridammi la fede in cuore e ti regalo la Tosca».

L'altro episodio riguarda gli antenati ed i posteri pucciniani:

Giacomo aveva sognato che la lunga dinastia dei Puccini musicisti non si spezzasse con lui. A suo figlio Antonio, ragazzo, aveva messo in mano un violino. E, un giorno, si avvicina alla riva del lago. Antonio è lì a giocare coi suoi compagni attorno allo strumento che il padre illustre gli ha regalato. Ci hanno piantato coi chiodi gli alberi e ci hanno messo le vele. E, adesso, tutti soffiano col fiato, visto che vento non ce n'è, per vararlo e farlo navigare. Io ero con Puccini. Si volse a me indicando il violino sull'acqua e stringendosi nelle spalle mormorò: «Ho capito. La serie è finita…». E sorrise. Ma aveva, negli occhi, un'ombra profonda e muta di malinconia. La medesima che aveva quando, rivedendomi dopo la morte di mia madre, mi tese le braccia per dirmi: «Povero pretino! Son dolori che tutti abbiamo avuto o dovremo avere. È inevitabile. Ma poi cos'è la morte? Un salto dentro il buio e buona notte». Ci pensò. Guardò lontano. Mi strinse il braccio con una mano che un po' gli tremava: «Meglio» disse «se questo buio avesse luce. Morire, allora, potrebbe anche essere una gioia…».

Nella villa di Chiatri, Puccini lavorava accanitamente al secondo atto. E in famiglia erano stufi da non poterne più. Il Maestro lo capiva e, tanto per consolarli, si impose un punto d'arrivo per smettere e tornare. Disse: «Quando avrò musicato l'ordine di Scarpia a Spoletta dopo la rivelazione di Tosca: “Nel pozzo, nel giardino…” si fa fagotto».

Ogni mattina la signora Elvira e i ragazzi, mentre lui dormiva, correvano con ansia al pianoforte per legger le parole delle pagine create nella notte. Ahimè, per arrivare al pozzo c'erano dei chilometri. E fu allora che per affrettare la partenza complottarono insieme, complice il Carignani, di far credere al Maestro che la villa era popolata di spiriti folletti.

Ed ecco che la notte seguente, mentr'egli lavorava tutto solo, d'un tratto sobbalzò. Dei colpi secchi e ripetuti a intervalli alla porta dello studio gli mozzarono il respiro. Ripreso coraggio, corse all'uscio, lo aprì: nessuno. Buio fitto. Pensò di essersi ingannato e ritornò al pianoforte. Non erano passati che cinque minuti quando un grosso rumore di rami scaraventati a terra giunse dalla cucina. D'impeto vi si precipitò, e poté constatare che i rami in perfettissimo ordine erano allineati al loro posto. Non riusciva a spiegarsi quel mistero.

«Strano» mormorava a se stesso «non è possibile che mi sia sbagliato. I rami son caduti eppure sono là…» Cominciò a dubitare che a quel mistero non fossero estranei la famiglia e l'ospite. E all'indomani mattina chiese se nessuno di loro avesse udito dei rumori misteriosi durante la notte. Imperterrite vennero le risposte: nessuno aveva udito, tutti avevano dormito tranquillissimi.

«Va bene» disse Giacomo. «Vedremo se stanotte succederà qualcosa.»

Neanche a farlo apposta nella notte successiva i fenomeni si ripeterono e aggravarono. Ma Giacomo non si impressionò. Capì di dove venivano gli spettri: erano rumorosi segni di impazienza familiare. E per non essere disturbato, scrisse una lettera che lasciò bene in vista sulla scrivania perché alla mattina fosse letta:

Sono – diceva esagerando – in una località brutta e odiosa dove il sole dardeggia senza un po' di vento. La sera però è deliziosa e la notte incantevole e tranquilla… (altro che spettri!…) Lavoro dalle dieci fino alle quattro di mattina. La villa è grande e in casa si sta benone. Insomma sono contentone di essermi rifugiato in questo luogo noioso dove l'essere umano è l'eccezione. Siamo soli veramente. Le manderò, mio caro signor Giulio, del materiale già strumentato, ma la prego di non guardarlo perché la calligrafia è andata in peggio… (il concorso della Villi non lo aveva emendato, tutt'altro) Non so capire – aggiunge – ma invecchiando perdo quella proprietà dello scrivere che era una dote così spiccata in me… (ne aveva, del coraggio!) La prego di farmi spedire una bottiglia di inchiostro solito, Stepheny-blue black.

E per chiudere, sottosegnate, queste righe:

Vorrei rimanere qui fino all'ottobre – dico vorrei perché non so se resisto, non tanto per me, quanto per i miei che sono veramente sacrificati… Così potrò portare al punto stabilito il lavoro che mi pare vada più che benone.

La signora Elvira legge e si atterrisce. Fino all'ottobre?… No, non è possibile. E decide di informare l'amico Tito Ricordi perché le venga in soccorso e trovi lui il modo di far partire Giacomo. Tito capisce la dura situazione e la salva: informa Puccini che Sardou ha telegrafato chiamandolo con lui a Parigi. Vuole esporre loro una nuova e colossale idea sul finale di Tosca. Occorre partire al più presto. Sardou non può aspettare… Tre giorni dopo la villa di Chiatri è abbandonata. E da allora abbandonata restò quasi per sempre.

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