15. Alle prese con Sardou

Parlando di Sardou, Puccini, un giorno, così lo descrisse ad Arnaldo Fraccaroli:

Quell'uomo era portentoso. Aveva più di settant'anni e c'erano in lui l'energia e la spigliatezza d'un giovinotto. Era poi un parlatore infaticabile, interessantissimo. Parlava per ore intere senza mai stancarsi e senza mai stancare. Quando si metteva a parlare di storia era un rubinetto, una fontana: gli aneddoti sprizzavano limpidi, inesauribili. Qualche nostra seduta si ridusse a semplici monologhi di Sardou. Squisitamente piacevoli, non c'è dubbio, ma che non facevano troppo progredire la nostra Tosca. Tuttavia egli si mostrò subito arrendevole e si adattò facilmente alla necessità di sopprimere un atto e di fondere il quadro del carcere con quello della fucilazione. Ma sopra una cosa volle insistere: sulla possibilità che Tosca gettandosi da Castel Sant'Angelo andasse a cadere nel Tevere.

“Non si può, Maestro” gli dissi io. “Il Tevere è troppo lontano.”

“Come, non si può?” si diede a gridare Sardou al quale queste parole non erano certamente familiari.

E sotto i nostri occhi sfogliò una immensa pianta topografica di Roma per convincerci. Era tale la sua foga, e così vivo in lui il timore che lo interrompessimo, che dopo un quarto d'ora di discorrere, avendo la gola arsa e dovendo bere, mentre si appressava in gran fretta il bicchiere alle labbra, con la mano libera ci faceva segno di tacere con una specie di orgasmo perché non lo interrompessimo, che non intendeva di aver finito. E appena sorseggiato un po' d'acqua riprendeva. Era meraviglioso.

E questa lettera da Parigi, scritta da Puccini al signor Giulio lo stesso giorno della visita, descrive i particolari del colloquio:

Stamane sono stato da Sardou per un'ora, e circa il finale mi ha detto cose che non vanno. Egli Floria Tosca la vuole morta ad ogni costo, povera donna! Ora che il boia Deibler è tramontato il Mago vuole prenderne la successione. Ma io non lo seguo certamente. Egli accetta la pazzia, ma vorrebbe che svanisse, si spegnesse come un uccello. Poi, nella ripresa che Sarah Bernhardt farà fra pochi giorni, Sardou ha introdotto una grande bandiera sul Castello, volante e sfolgorante, che, secondo lui, farà certo un effettone. Vada per la bandiera alla quale egli tiene più che alla pièce stessa. Ma io sono sempre per il finale col grido: «Scarpia, davanti a Dio…» e il salto dagli spalti. A proposito di spalti, nel farmi lo schizzo del panorama Sardou voleva che si vedesse il corso del Tevere passare tra San Pietro e il Castello. Io gli ho osservato che il flumen passa dall'altra parte. Ma lui tranquillo come un pesce ha risposto: questo non ha importanza. Bel tipo, tutta vita, fuoco, ma pieno di inesattezze storico-topopanoramiche…

Inesattezze a parte, Sardou nella riduzione di Tosca fu sempre fraternamente arrendevole, e pieno di entusiasmo per la musica. Quando, subito dopo le prime in Italia, l'opera si presentò a Parigi, non mancò ad una sola delle prove dirette dal Messager.

E vi portò con fervore travolgente il contributo della sua potente esperienza teatrale, passando davanti a tutti: al Carré, direttore dell'Opera Comica, a Tito Ricordi, a Paul Ferrier riduttore in francese del libretto, e sostituendosi allo stesso Puccini, come se oltre il dramma avesse composta lui anche la musica. La quale musica, dopo la parentesi di Chiatri, fu completata a Torre del Lago alla fine di settembre del 1899.

Ai primissimi di ottobre, inatteso e insospettato, nacque un dissidio fra Puccini e il signor Giulio.

Giacomo aveva spedito, accompagnandola con poche righe piene di gioia, la composizione del terzo atto al suo paterno giudice e ne aspettava serenamente l'opinione che riteneva caldissima e affettuosa. Venne, qualche giorno dopo, l'affetto, ma il calore si convertì in una doccia gelida: al signor Giulio, il terz'atto non piaceva, e, pur con tutte le forme, lo dichiarava chiaro e netto.

Puccini carissimo – cominciava la lettera – l'affetto vero e intenso che io porto a lei e che lo fa a me caro come un figlio, la stima e la fiducia, vivissime entrambe, che io ho sempre avuto ed ho per l'artista, mi incoraggiano, mi persuadono a scriverle cose che a nessun altro se non a Puccini avrei scritto…

E dopo aver premesso ancora una volta che si riteneva certo che la sua lettera sarebbe stata accolta come la schietta espressione di un intimo sentimento, affermava:

Con battito di cuore, è vero, ma con piena franchezza e coscienza ho il coraggio di dirle: il terzo atto di Tosca, così come è, mi pare un grave errore di concetto e di fattura. Errore grave al punto che, a mio modo di vedere, cancellerebbe l'interessante impressione del primo, e la potentissima emozione che certo desterà il secondo, vero capolavoro di efficacia e di espressione tragica…

Poi comincia l'analisi: benissimo la scena di Cavaradossi, fino all'entrata di Tosca. Grande trovata la fucilazione e la fine, ma, prorompe:

Iddio santo e buonissimo, cos'è il vero centro luminoso di quest'atto?… Il duetto Tosca-Cavaradossi… Cosa ho trovato?… Una musica frammentaria a piccole linee, che immiserisce i personaggi. Ho trovato uno dei più bei squarci di poesia lirica, quello delle mani, sottolineato semplicemente da una melodia pure frammentaria e modesta e, per colmo, un pezzo portato via di sana pianta dall'Edgar… Stupendo se esso viene cantato da una contadina tirolese, ma fuori di posto in bocca a Floria Tosca e ad un Cavaradossi… Infine, ciò che doveva essere una specie di Inno latino o no – ma Inno d'amore –, ridotto a poche battute… Così il cuore del pezzo è formato con tre squarci che si susseguono, ma interrotti e perciò privi di efficacia…

Qui, pare che alzi sguardo e braccia al cielo per domandarsi: Dov'è quel Puccini dalla nobile calda vigorosa ispirazione?… Quella presa dall'Edgar lo ossessiona:

La fantasia di lui, in uno dei momenti più temibili del dramma, ha dovuto ricorrere ad un'altra opera?… Che si dirà di questo mezzo d'uscire da una posizione difficile?

Può darsi – attenua subito dopo – che lei dica che io sono impazzito e che ho le traveggole… che nessuno è in materia miglior giudice di lei… Dio voglia che sia così… Io ne sarei felice, e meriterei la più dura penitenza… Ma, – continua, – se, sgraziatamente, il mio giudizio non fosse errato, quali le conseguenze?… Disastrose per la mia casa, cattive per lei, in quanto riflette il lato artistico, il bel nome e la gloria di Giacomo Puccini… E queste mi stanno tanto a cuore che passai la notte completamente insonne pensando se dovevo o no aprirle intero l'animo mio! Decisi pel sì, e credo d'aver fatto per il bene e di avere onestamente agito…

Un'altra notte insonne, dopo aver ricevuta questa lettera la passò Puccini a Torre del Lago. Tutto si sarebbe aspettato, ma non un responso così stroncativo. Camminando per la stanza, diceva alla signora Elvira:

Possibile che l'atto gli abbia fatto un'impressione tanto disastrosa? Sì… in quanto alla faccenda dell'Edgar, può anche aver ragione… però fino ad un certo punto anche lì… Prima di tutto è sempre musica mia e di quella buona, che ho ripreso… e poi, l'ho trasformata, e poi ancora, contadina tirolese o Tosca, che importa?… In materia d'amore i sentimenti sono sempre uguali e il cuore d'una contadina, specie se parla in musica, batte come quello di una principessa, sempre in musica parlando… Lui stesso, vedi, ammette che può essere stato preso dalle traveggole… E traveggole sono, sì, senz'altro… Domattina gli dirò anch'io la mia opinione. È certo però, sin d'ora, che al terz'atto io non cambio una nota… Nemmeno se Scarpia mi mette alla tortura…

E infatti all'indomani risponde entrando decisamente in materia:

La sua lettera mi ha fatto una sorpresa straordinaria. Ne sono ancora impressionato. Pur nondimeno sono sicuro e convinto che se Ella ripassa questo terzo atto, la sua opinione cambia. Non è orgoglio il mio, no. È la convinzione di aver colorito come meglio non potevo il dramma che mi stava dinanzi. Lei sa come io sia scrupoloso nell'interpretare la situazione o le parole e quanto le vagli prima di buttar giù…

Viene quindi a discutere e giustificarsi sull'appunto di essersi servito d'un frammento dell'Edgar:

Ciò – dice – può criticarsi da lei e dai pochi che lo possono riconoscere e può sembrare uno schivafatica qualunque. Ma, togliendosi dall'idea che appartiene ad altro lavoro, e cioè al quarto atto dell'Edgar abolito, mi sembra pieno di quella poesia che emana dalle parole. Di ciò sono sicuro e se ne convincerà quando lo sentirà a posto, e cioè sulla scena. Quanto alla frammentarietà, è cosa voluta da me. La situazione non può essere uniforme e tranquilla come in altri duetti d'amore. In Tosca ritorna sempre la preoccupazione per la ben simulata caduta di Mario e relativo suo contegno davanti ai suoi fucilatori. Quanto alla fine del duetto, il cosidetto Inno latino che non ho mai avuto il bene di veder scritto dai poeti, anch'io ho i miei dubbi, ma spero che in teatro risulterà magari bene.

Per concludere dice:

Mugnone che ha sentito più volte questo terzo atto, accennato da me, ne è entusiasta, tanto da preferirlo al quart'atto di Bohème. Amici e quelli di casa mia ne hanno provato impressione ottima. Io, per l'esperienza che ho e posso avere, non ne sono scontento. Non so quindi spiegarmi questa sua deleteria impressione. Prima di accingermi a rifare – e ce ne sarebbe poi, anche volendolo, il tempo? – farò una corsa a Milano e parleremo noi due soli, col piano e la musica davanti, e se la sua impressione persiste, cercheremo il modo di salvarci, da buoni amici, come dice Scarpia…

Ma pure, due righe di dolcezza se le merita il signor Giulio. Giacomo sa che soltanto la preoccupazione che l'opera trionfi, che il suo nome salga sempre più in alto, che la critica non si scagli contro la sua musica, ha spinto il grande amico a scrivergli duramente.

Io riscontro – dice – nel mio caro papà Giulio un sentimento grande di delicatezza e un affetto che, può star certo, è ricambiato a forti dosi. E la ringrazio per l'interesse che ha per me e che ha sempre avuto dal giorno ch'ebbi la fortuna di incontrarlo. Dissento da lei per questo terzo atto. Sarà la prima volta che non ci troviamo d'accordo. Però io spero e arrivo a dirle sono sicuro che Ella si ricrederà… Vedremo!…

E infatti così avvenne.

Una ventina di giorni prima del varo della Tosca, fissato per la sera del 17 gennaio 1900 al Costanzi, erano alla capitale Giacomo con la moglie e Tito Ricordi che con l'innata tirannica energia, per non dire prepotenza, dirigeva l'andamento delle prove, attento a tutto, vigile su ogni particolare scenico e musicale, sicuro di se stesso e dell'opera. L'orchestra era in mano di Leopoldo Mugnone e intorno a lui era un terzetto di interpreti di altissimo valore: Floria Ericlea Darclée, Cavaradossi il tenore De Marchi, Scarpia Eugenio Gilardoni. In tutti fede immensa e le prove procedevano con viva soddisfazione dell'autore ed editore, quando scoppiarono due allarmi. Il primo, che riguardava la critica, era stato volutamente provocato da Tito. Era consuetudine romana che al Costanzi i giornalisti avessero libertà di andare e venire a loro piacimento. Per i primi giorni Tito sopportò l'andirivieni. Ma una mattina perdette la pazienza e cacciò fuori tutti, urlando che in teatro il padrone era lui e non voleva intrusi per i piedi. L'incidente fece chiasso con previsione di grosse rappresaglie da parte dei giornali. Puccini s'allarmò, Tito non si scompose.

«Per quello che hai da sperare dalla critica» egli disse «non perdiamo nulla. Anzi così è trovata una logica ragione per giustificare le eventuali stroncature.»

L'allarme numero due riguardava certe voci messe in giro, forse dall'infinita schiera degli antipucciniani che temevano dopo Manon e Bohème una terza imponente affermazione del maestro lucchese, antagonista di Mascagni. Queste voci preannunciavano un gravissimo incidente che avrebbe mandato a gambe all'aria non soltanto la recita ma il teatro… in persona.

Ma – ripeto – era tale la certezza di tutti nel successo che, né il timore della critica, né il brusio dei nemici spaventava. Ed ecco che la sera della recita, mezz'ora prima che s'aprisse il velario, un signore vestito tutto in nero, colore dei suoi baffoni, irrompe agitatissimo nel camerino di Mugnone già pronto in marsina: «Maestro» dice «sono corso da lei per pregarla, nel caso che stasera succeda qualche cosa, di non perdersi d'animo e di attaccare subito la Marcia Reale…».

«La Marcia Reale? Ma lei, scusi, chi è?»

«Sono il commissario di pubblica sicurezza di servizio in teatro.»

«E che cosa dovrebbe succedere?»

«Corre voce di un attentato anarchico… Noi abbiamo preso tutte le debite misure… Però, non si sa mai.»

«Non ne ha parlato che con me?»

«Con lei solo, Maestro… Adesso informerò gli artisti…»

«È matto?… No no, per carità. Sono già emozionati per la recita… Non ne parli più a nessuno… E se scoppiasse la bomba, si fidi di me. Ci sono abituato.»

«Abituato?… E come?…»

Ma subito dopo le prime battute del cupo ed incisivo tema di Scarpia con cui s'inizia l'opera, un clamore di voci dal fondo del teatro allarma il direttore. Si turba. Non capisce. Il clamore s'intensifica. Egli pensa se debba o no interrompere e attaccare la Marcia Reale. Si decide. Ferma l'orchestra. Ricade il velario. Nello stesso momento due baffoni neri si chinano su lui seduto e quasi lo sfiorano. Ai due baffi è attaccato il commissario che, rapido, sussurra: «Niente, niente, Maestro… Sono i ritardatari che protestano perché non possono entrare. Il pubblico protesta contro i ritardatari… Non si tratta della bomba… Aspettiamo un momento che si calmino… Poi riprendiamo».

Passan dieci minuti e finalmente il silenzio si ristabilisce, la tela si rialza, appare il sagrista, entra Cavaradossi… Recondite armonie… Scoppiano, al posto della bomba, i primi applausi fragorosi. E l'opera procede indisturbata e acclamata. Puccini appare dopo ogni atto fra gli interpreti: Mugnone è raggiante. Dopo il primo atto gli racconta del pericolo che incombeva, dei sudori freddi che aveva quando ha fermato l'orchestra.

«Anch'io sudavo freddo» dice Puccini «quando tu hai attaccato.»

«Ma allora tu sapevi?»

«No. Non sapevo niente… Io sudavo per l'opera, che si sa come parte e non si sa mai come arriva.»

All'indomani la critica romana non fa le temute rappresaglie. Non è entusiastica, ma nemmeno aggressiva. Mette in rilievo i punti più salienti del successo. Trova che

il difetto originario del dramma a tinte troppo forti e scarso di elemento psicologico rimane visibile ostacolo a una libera esplicazione della fantasia musicale di Giacomo Puccini. Ed è forse questo il punto debole della sua Tosca.

Ma questa debolezza si rinforzò col ricostituente di venti repliche a teatri esauriti. Poi Floria fece fagotto e lasciò Roma. Corse a Civitavecchia col lasciapassare tolto a Scarpia cadavere, si imbarcò su quella tale tartana, e «via per il mare, libera», fece il giro del mondo.

Ad oltre quarant'anni di distanza, il suo giro continua.

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