16. Fiasco di Butterfly

La mattina del 18 febbraio 1904, Luigi Illica, pallido e sconvolto dopo una notte insonne, cappello di traverso, labbra serrate in una smorfia irosa, saliva a quattro a quattro i gradini di Casa Ricordi, chiamatovi d'urgenza dal signor Giulio. In anticamera si rivolse di colpo al Gervasini, fattorino di fiducia, chiedendogli: «È di là?».

«Sì. È di là che aspetta.»

Illica infilò dritto la porta dello studio senza farsi annunciare. Il signor Giulio gli sorrise tranquillo. Niente tradiva in lui la più lieve emozione. Ma prima che parlasse, fu il poeta che trasse di tasca il Corriere della Sera, domandandogli: «Ha letto?».

«No. Nessun giornale. Tanto, mi immagino che macello ne faranno. Povera Butterfly, ammazzata nella culla.»

«No, no. Pozza difende.»

«Difende?»

«Ora le leggo… Ecco qua… Dice… senta:

Io ricordo la prima della Bohème a Torino. L'opera che subito dopo doveva trionfare su tutte le scene e diventare la più cara alla folla, allora fu scarsamente applaudita, e per la stessa ragione per la quale Butterfly iersera non riuscì a vincere la sua battaglia. Anche la Bohème parve allora rifatta colle stesse melodie, cogli stessi effetti strumentali della Manon. Perché non potrebbe ripetersi per la Butterfly il caso della Bohème?…

«Pozza s'illude, o vuol essere generoso» commentò il sor Giulio «ma non mi illudo io. L'opera è condannata…»

«Speriamo di no.»

«Condannata, ripeto. Tanto che stamattina stessa la ritiro.»

Illica non fiatò. Era talmente pacata e recisa la parola, espressa con sì netta decisione, che ribattere non serviva. Certamente, nella notte, il signor Giulio aveva ben studiato e maturato il suo piano. E poiché la saggezza e mai l'impeto lo guidavano, bisognava inchinarsi alla sua volontà.

«Ma le pare» diceva «che, dopo quel che è accaduto ieri sera, dopo l'ignobile linciaggio, io lasci calpestare il nome di Puccini senza reagire con la risolutezza del mio sdegno?… L'opera è mia, l'ho acquistata da voi tutti, e la tutelo e la innalzo su dal fango che l'ha imbrattata, la sottraggo al dileggio ed agli sputi… Ho avuto dalla Scala ventimila lire per la priorità. Bene: in giornata le ventimila lire saranno rimborsate e mi riporto a casa la partitura… Aspetto anche Giacosa per sentire se m'approva, come senza dubbio m'approva lei…»

«Senz'altro…»

«In quanto a Puccini, ho già la sua risposta. Eccola: sono due righe. Le legga…» Illica lesse: «Mi rimetto completamentea lei. La mia coscienza di artista è tranquilla…».

«Benissimo…» commentò il poeta. «Stanotte, quando dopo il disastro l'accompagnammo a casa, entrato nel suo studio, staccò dal muro quella testina di Butterfly dipinta dal Metlicovitz per la copertina dello spartito e vi scrisse sul vetro di suo pugno: “Rinnegata e felice”… Poi mi pregò di fargli un telegramma a Lucca… Questo è l'originale che ho copiato… press'a poco quello che ha scritto a lei: “Butterfly fiasco, ma io sono tranquillo nella mia coscienza d'artista…”. Un'ora fa l'ho visto… È abbattutissimo… Nel sentire in via Verdi gli strilloni che gridavano sotto le sue finestre: “La Perseveranza col fiasco della Butterfly”, si turava le orecchie… Dice che non vuole più uscire di casa… dice che si vergogna… Fa pietà… E pensare che tutti noi, alle prove, eravamo sicuri di un trionfo!…» Era vero. Mai prove come quelle si svolsero in pienissima atmosfera d'entusiasmo e commozione. Piangevano Giacosa ed Illica, appartati in poltrone di platea. Gatti-Casazza, allora direttore della Scala, scantonava per non far vedere gli occhi lustri. Giulio e Tito Ricordi, che curava l'allestimento scenico, sui bozzetti di Jusseaume di Parigi, si sentivano nelle scene culminanti stringere il cuore, cullati dalle dolci melodie pucciniane. Rosina Storchio, la grandissima protagonista dalla squisita sensibilità, unica nel mondo lirico, diceva le poetiche frasi col singhiozzo nella voce. E Giacomo andava e veniva dal palcoscenico in platea scrutando ora l'uno ora l'altro e al vederne la celata e fidente emozione gli si allargava l'anima nella certezza di stravincere.

L'unica doccia fredda gli venne da un burbero azionista della Casa Ricordi, il chimico Carlo Erba, che, da lui interrogato all'antiprova generale sulle sue impressioni dopo il primo atto, rispose secco e brusco in dialetto milanese: «L'è ona bella allegria!…» Sebbene il trepido Giacomo ci restasse da cane, la sua fiducia non si scosse d'un millimetro. Tanto che il giorno stesso della recita accompagnò un gran cesto di fiori a Rosina Storchio con queste righe:

Cara Rosina, è inutile il mio augurio. È così vera, delicata, impressionante la sua grande arte, che certo il pubblico ne sarà soggiogato. Ed io spero, per mezzo suo, di correre alla vittoria. A stasera dunque, con animo sicuro e con tanto affetto, carissima…

Tempo fa, ho voluto raccogliere dal vivo ricordo della Storchio stessa la tumultuosa cronaca di quella serata. Ricostruisco il racconto:

Alle otto e mezzo del 17 febbraio 1904 – mi dice – eravamo tutti pronti, vestiti e truccati, in camerino. Tito ci fa chiamare in palcoscenico, ci esamina da capo a piedi. Approva. Tutto bene. Mi prende le mani, le sente gelide. Dice: «Cos'è?… Non avrai mica paura…»

«Macché» rispondo. «Son brividi. Appena entro in scena mi passa.»

«Deve passarti subito… Che storia è mai questa?… Su, su, coraggio, che avrai un grande trionfo personale.»

S'avvicina Puccini. Cammina zoppicando, appoggiato a un bastone.

L'anno prima, infatti, aveva avuto un grave incidente d'automobile. La macchina, una delle primissime, che guidava lui stesso, tornando da Lucca a Torre del Lago, di notte s'era capovolta lungo una scarpata. Erano con lui la signora Elvira e il figlio Antonio, che ambedue ne uscirono illesi. Giacomo invece rimase sotto, con la gamba sinistra fratturata.

Dopo molti mesi di cura, ancora non camminava bene, e bene non camminò più, da allora, per tutta la vita.

Dunque, stavo dicendoti, Puccini mi s'avvicinò, avvertendomi: «Son le nove. Ci siamo. Campanini è già sceso in orchestra».

Mi accosto al velario. La Scala è rigurgitante. Fa paura. Mi ritiro verso il camerino. Mentre sento l'attacco vivissimo, con la sinistra mi premo il cuore. Con la destra faccio tre volte il segno della croce. Puccini, che mi vede, s'apparta per segnarsi anche lui, di nascosto.

Gli episodi – troppi – che si susseguono nella prima parte dell'atto finiscono a stancare. Un comprimario, rientrando tra le quinte, bestemmia: «Accidenti, che pubblico! Non fanno che tossire!… Maledetti!…». Io sudo freddo. Le ancelle sono pronte per precedere la mia entrata. Adesso tocca a me. «Viene dal mare e dalla terra un primaveril soffio giocondo», ma dalla platea un ostile silenzio. Una voce dal loggione d'un tratto rompe quel silenzio gridando: «È la Bohème!». Altre voci, subito scatenate, fanno eco: «Bohème! Bohème… L'abbiamo già sentita!…». Parte degli spettatori, per reazione, applaude. Ciò che aumenta le proteste. L'incanto è ormai spezzato. Il lunghissimo atto è per finire. Il duetto fra me e Pinkerton ferma una poco la gazzarra. Ma il ritorno della frase musicale incriminata risuscita le grida: «Bohème! Bohème!».

Al calar del velario pochi applausi e moltissimi zittii. Usciamo alla ribalta. Vi trasciniamo Puccini, riluttante, per due volte.

Nell'intervallo nessuno sale in palcoscenico. Non un amico, non un giornalista. Nessuno. Brutto sintomo. L'ostilità è dunque generale e condivisa? Non osiamo rispondere alla domanda che ciascuno tacendo si rivolge. Ci guardiamo senza parlare, intontiti, esterrefatti. Rivedo la faccia di Puccini, chiazzata di gran macchie rosse. Fuma nervosamente una sigaretta dopo l'altra, incurante dei pompieri di servizio che a loro volta fanno finta di non vedere, che si rendono conto del suo stato.

Non c'è che Tito impassibile, freddissimo, composto. Le sue mascelle forti sono serrate nella morsa d'una dura volontà. Passa dall'uno all'altro battendo sulle spalle, incoraggiando: «Ora si sono sfogati. Al secondo atto ci sarà la reazione. Vi giuro che si vince. Stavolta li prendiamo».

«Sì, col sale sulla coda… di rondine… È proprio al secondo atto che s'aprono le cateratte, che avviene il linciaggio. Ecco Suzuki, accoccolata davanti all'immagine del Budda, batte il gong e prega che Pinkerton arrivi. Io ritta e immobile presso il paravento la investo, le impongo di aver fede. Sono sicura che egli tornerà, che stringerà al seno la creatura nata dal nostro amore. Porto il piccino a dormire. Nell'uscire un colpo di vento gonfia il kimono. Il pubblico sghignazza. Una voce grida: «Butterfly è ancora incinta di Pinkerton». Non odo le parole, ma gli occhi mi si empiono di lagrime disperate. Mi convinco che oramai la battaglia è perduta, che gli accaniti nemici di Puccini non si placano, decisi come sono a sabotare ogni scena, ogni gesto e movimento, a prendere occasione da ogni menoma cosa per far baccano. La romanza «Un bel dì vedremo» viene accolta al finale da proteste. Forse io stessa non ero più padrona della mia voce? Eppure so che non era possibile cantare il brano con maggiore espressione. S'arriva all'intermezzo, il famoso coro a bocca chiusa. Nella prima edizione dell'opera questo coro interrompeva l'azione che, dopo, continuava, senza che calasse il velario. La prima Butterfly era appunto in due atti e tre quadri. Con l'albata cominciava l'ultimo quadro. Il cielo si schiariva e sui peschi, sui mandorli in fiore, sul groviglio delle glicine si diffondeva un lieto cinguettìo d'uccellini. Per colorire il quadro con maggior suggestione, Tito aveva pensato che al cinguettìo della scena rispondessero altri stormi dal loggione. E per ottenere un più sicuro effetto aveva disseminato, con appositi fischietti intonati musicalmente, alcuni impiegati della Ditta e delle officine, disposti in due gruppi a sinistra e a destra per rispondersi a tempo.

Capitanava la schiera Gigino Ricordi, il figliuolo minore di Giulio. In una serata normale, certamente il risultato poteva anche essere poetico: infatti, alla prova generale, eravamo tutti d'accordo sulla genialità della trovata. Ma quella sera agli schiamazzatori non parve vero d'approfittarne. Il loggione, come direbbe il buon Collodi, pareva un paretaio. Al cinguettìo seguirono latrati di cani, chicchiricchì di galli, ragli d'asino, boati di mucche, come se in quell'alba giapponese si risvegliasse l'arca di Noè.

Il tumulto si placa sull'incalzare dell'orchestra col sorgere del sole. Ma tutta l'ultima parte è ascoltata distrattamente dal pubblico oramai disincantato. Il mio suicidio, la preparazione, il bimbo bendato, non destano più alcuna commozione. E Butterfly finisce tra fischi e clamori. Nessuno si presenta alla ribalta a raccogliere gli applausi degli amici che sostano in teatro. Siamo stretti intorno al Maestro annientato, con la desolazione del nostro pianto. D'improvviso un ragazzetto irrompe, di corsa si precipita tra le braccia di Puccini, singhiozzando: «Oh! papà… papà mio!…».

Tra i miei ricordi artistici che sono molti e luminosi, questo è il più indimenticabile, perché abbiamo sentito come non mai quanto bene volevamo al nostro grande Giacomo.

Un anno dopo, mentre ero a Buenos Aires dove con Toscanini si allestiva Madama Butterfly nella nuova edizione, ai primissimi di maggio il Maestro mi scriveva queste righe da Torre del Lago: «Parto oggi di qui per Brescia… (dove l'opera trionfò). Che Dio me la mandi buona. Io penso tanto a voi. Vi rivedo sempre nei graziosi atteggiamenti di Butterfly, e riodo la dolce vocina che tanto arriva all'anima. Forse a quest'ora saremo alla prove costì. Come vorrei esservi vicino…».

Rosina Storchio ripiegò la lettera, s'asciugò due lagrime che rigavano il suo volto ancora luminoso, mormorò: «Caro… mio caro Giacomo…».

Giulio Ricordi, invece, la descrizione di quella serata la riassunse nella sua rubrica nel fascicolo del marzo di Musica e musicisti:

Prima rappresentazione di Madama Butterfly, libretto di Illica e Giacosa, musica di Puccini. – Grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate, i soliti gridi solitari di bis fatti apposta per eccitare ancora di più gli spettatori, ecco sinteticamente quale è l'accoglienza che il pubblico della Scala fa al nuovo lavoro del Maestro Giacomo Puccini. Dopo questo pandemonio durante il quale pressoché nulla fu possibile udire, il pubblico lascia il teatro contento come una pasqua. E mai si videro tanti visi allegri e gioiosamente soddisfatti come di un trionfo collettivo. Nell'atrio del teatro la gioia è al colmo e non mancano le fregatine di mani sottolineate da queste testuali parole: consummatum est, parce sepulto. Lo spettacolo che si ha nella sala pare altrettanto bene organizzato quanto quello del palcoscenico, poiché principiò esso pure precisamente col principiare dell'opera. Questa la cronaca esatta della serata, dopo la quale gli autori Puccini, Giacosa, Illica, d'accordo con la Casa Editrice, ritirarono l'opera e restituirono l'importo dei diritti di rappresentazione, nonostante le vive insistenze della direzione della Scala per ridare l'opera.

*

Ma, a parte la violenza inconsueta e selvaggia di quel fiasco, fu proprio tutta del pubblico scaligero la colpa del disastro? E la resurrezione di pochi mesi dopo al Grande di Brescia non si basò su una nuova struttura dell'opera stessa?

Certo è che Madama Butterfly era già nata con la stella in fronte.

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