17. Dal Giappone all'America

Nel periodo culminante delle prove scaligere, quando Butterfly era preconizzata un successo immancabile, vi fu un giudice occulto che non soltanto dubitò, ma previde la caduta: Arturo Toscanini.

Durante una di quelle serate in cui egli raccoglieva gli amici nella sua casa di via Durini, dopo certi memorabili spettacoli alla Scala, udii la narrazione di questo sconosciuto episodio a distanza di un ventennio dalla tragica prima.

«Il gran parlare» disse «che si faceva sull'attesissima nuova opera di Puccini acuì in me il desiderio di conoscerne lo spartito che Ricordi giustamente teneva segretissimo. Un giorno, recatomi a trovare la Storchio, vista sul pianoforte Butterfly, me la presi e portai a casa. Alla lettura mi caddero le braccia. Non già per ragioni musicali ma per la sorpresa che mi diede il taglio inconsueto dell'opera: due lunghissimi atti, il secondo spezzato da un intermezzo. Mi parve incredibile che tre uomini di teatro come Puccini, Illica e Giacosa non si fossero accorti dell'errore e del conseguente pericolo. All'indomani, riportando alla Storchio lo spartito, le esposi questa mia impressione contro la quale essa reagì violentemente, imbevuta come era di entusiasmi scaligeri. In fondo non desideravo di meglio che sbagliarmi. Ma purtroppo si avverò quel che temevo. Perciò» concluse «quando si parla della grossa ingiustizia del famoso insuccesso e di partito preso per accoppare Puccini, bisogna almeno mettere in bilancia quella parte di colpa che ne ebbero gli autori, prestando il fianco a tanto accanimento. E si deve anche considerare che quando l'opera stravinse non era più nell'edizione presentata alla Scala e dalla Scala, sia pure con eccesso, condannata.»

Anche Tito Ricordi pensava che, passata la burrasca, se si voleva ridar vita all'opera, era necessaria una rielaborazione. Ma affrontare Giacomo in quello stato non era molto facile. Poi papà Giulio non voleva più sentirne parlare. Dopo il gesto del ritiro e conseguente restituzione della somma, il suo convincimento era crollato, la sua fede smarrita. Diceva al figlio: «Credi a me, Tito… Perso per perso, conviene lasciar perdere».

«Se Giacomo mi ascolta, vedrai, sono sicuro che niente è perduto.»

Giacomo aveva un bel dire, telegrafare e scrivere che, contro quell'iniqua condanna, la sua coscienza era tranquilla. Ma lo diceva più per scagionarsi e riabilitarsi dello smacco e della sua ripercussione che per proprio intimo convincimento. Sapeva meglio d'ogni altro che pericolo fosse l'affrontare un secondo giudizio di pubblico e sentiva che bisognava meditarci ben bene prima di decidere. Perciò, soltanto dopo che Tito gli espose le sue nuove idee, scrisse al «pretino», in quel tempo sbalzato nell'alta Garfagnana, queste righe:

Povero prete nascosto fra i monti, tu sarai spaventato dalle vili parole della stampa invida. Niente paura. La Butterfly è viva e verde e presto risorgerà. Lo dico e lo sostengo con fede incrollabile. Vedrai. E sarà tra un paio di mesi. Non posso dirti dove, per ora. A giorni andrò a Torre. Ma questa mia ti consoli e ti distragga dalla momentanea disfatta mia. Sii allegro come lo è il tuo affezionatissimo Giacomo.

Tito, che conosceva profondamente le indolenze del suo uomo, aggravate dall'abbattimento in cui era precipitato, una mattina si recò da lui in via Giuseppe Verdi con sotto braccio uno spartito di Butterfly.

«Giacomino» cominciò scherzando «l'altra notte ho fatto un sogno: tra glicine, nenufari e crisantemi, lo zio bonzo di Cio-cio-san m'è venuto cordialmente incontro indicandomi i punti da modificare, per non rinnegare da capo la sua nipotina. Vuoi vedere?… Sono segnati qui… Ecco: prima di tutto frondare tanti tanti episodi inutili che precedono l'entrata di Butterfly. Togliere ogni riflesso musicale di Bohème a quell'entrata… Non è molto lavoro, come vedi… Basta girare la frase.»

«E il secondo atto?»

«Dividerlo in due. Chiuderlo col coro a bocca chiusa.»

«Resterà troppo breve il terzo.»

«Appunto perciò pensavo che vi potresti aggiungere – e ci starebbe bene – una romanza, quando Pinkerton appare. Che ci metti a trovare una nuova melodia?… Stamattina è venuta da me la Commissione del Teatro Grande di Brescia. Vogliono ridare l'opera in maggio. Mancano due mesi. Hai tutto il tempo di pensare alle modifiche, che anche Toscanini aspetta a Buenos Aires. E vedrai che, contro tutto e contro tutti, rimettiamo trionfalmente a galla lo spartito.»

E così avvenne. Il 28 maggio, Butterfly, nella sua definitiva edizione, trionfava a Brescia e il mese successivo in America.

Oggi è l'opera più rappresentata nel mondo.

A Tito Ricordi, cui si deve la tenace certezza nella resurrezione della piccola giapponese, si deve anche la scoperta di un musicista negro che diventò senza volerlo un collaboratore pucciniano nella preparazione della Fanciulla del West.

Lo snobismo parigino, in quel periodo, s'esaltava per i negri che trovavano buon terreno alla loro immigrazione. E questo musicista primitivo che portava i ritmi dissonanti e barbari del jazz nella città della luce, era circondato da un curioso interesse. Tito, che subiva l'influsso mondano dell'ambiente dove di tanto in tanto si tuffava, aveva accaparrato decine di quei pezzi che sottopose, appena tornato, a Puccini, il quale, sempre avido di novità, trovò che le musiche erano ricche di ritmo e di colore e che quel colore assimilato e trasformato da lui poteva servirgli per l'atmosfera del dramma americano che stava studiando. Anche stavolta era Davide Belasco che forniva il soggetto.

Il Maestro, un giorno, di passaggio per Parigi diretto a Nuova York, s'era incontrato con l'amico marchese Piero Antinori che da Nuova York ritornava, e gli aveva chiesto che cosa si rappresentasse laggiù di interessante nei teatri di prosa.

«Da mesi» aveva risposto l'Antinori «al Teatro Belasco furoreggia The girl of the golden West, ossia “La fanciulla dell'Occidente d'oro”. Ti consiglio di andarlo a vedere. A me pare che se ne possa ricavare un buon libretto d'opera…»

E, appena arrivato, Giacomo si recò a sentire il dramma, ne fu preso, iniziò le trattative con Belasco, subito concluse, dato che l'autore di Madama Butterfly era ormai del Maestro grande ammiratore e grandissimo amico.

Tornato in Italia, s'accordò con Carlo Zangarini, per dar mano alla riduzione librettistica. Il dramma di Belasco richiedeva, specialmente al terzo atto, una radicale trasformazione. E quell'atto della foresta californiana, fu tutto ideato dal Maestro e composto secondo i suoi sicuri intendimenti. Lavoro non facile né breve, al quale s'aggiunse Guelfo Civinini, rapido, volonteroso, delicatissimo poeta che rimaneggiò da cima a fondo tutta la stesura di Zangarini e si chiuse per mesi col suo musicista a Torre del Lago, fino a che l'opera non giunse alla fine. Puccini aveva promesso a Gatti Casazza, allora direttore del Metropolitan di Nuova York, la primizia dell'opera, e nel novembre del '910 si imbarcò per l'America col fido Tito Ricordi che sarebbe stato il regista della prima edizione. Le prove si svolsero in completa atmosfera di fraternità, con Toscanini e Davide Belasco che finalmente vedeva la sua prosa trasformata in poesia musicale. Messa in scena stupenda, esecuzione impareggiabile, con Caruso e la Destinne, attesa enorme, incasso mai raggiunto fino allora al Metropolitan, tale che alla seconda rappresentazione, cosa mai avvenuta, si pensò di raddoppiare i prezzi.

Eppure, quel grandissimo successo, confermato in Italia sei mesi dopo al Costanzi di Roma, a Nuova York non piantò radice.

La fanciulla dell'Occidente d'oro non giocò più a poker con lo sceriffo la vita dell'amato dinanzi agli occhi del pubblico americano. Né l'opera, sempre viva nel repertorio italiano, ebbe larga ripercussione, come le precedenti, nel resto del mondo. No, non furono certo mesi lieti per me quelli trascorsi fra l'aprile del 1912 e il settembre dell'anno successivo. La fortuna mi svolazzava intorno come a un fiore, mettiamo di papavero, ma non appena tendevo le mani per ghermirla mi voltava le ali e via che dileguava. Io mi guardavo le due mani vuote senza che la speranza mi cadesse dall'anima. Dicevo: ricapiterà, potrò afferrarla, e mi reggeva questa fede, anche se ogni volta si tornava da capo.

Il mio potente ed amato protettore, Giulio Ricordi, s'era proposto di mettermi a contatto con Giacomo Puccini. Non osavo neppure di pensare che il grande editore potesse avvicinarmi al suo grande Maestro.

A rincorarmi, Giulio Ricordi m'assicurava che Puccini aveva detto proprio a lui che voleva trovare un giovane di buona volontà che lo seguisse nelle sue idee in un'opera prossima. Il soggetto era già scelto. Una commedia dei fratelli Quintero, Anima allegra, nell'interpretazione di Tina di Lorenzo, l'aveva molto interessato.

«Puccini» m'ammoniva il signor Giulio «è un tipo strano, anche se non pare. Bisogna saperlo prendere. Presentargli la cosa bell'e fatta. Egli m'ha esposto la sua visione del libretto. Vorrebbe un atto completamente nuovo, ossia nella commedia inesistente. C'è quel racconto della protagonista, quando descrive le nozze zingaresche alle quali ha assistito e confessa che in un impeto infrenabile d'amore per tutto l'universo s'arrampica sull'alta torre a suonar le campane, perché la loro voce salga con la sua fino lassù nel cielo a benedire… Ve ne ricordate?…Ebbene: trasformando in azione il racconto, ne deriverebbe un secondo quadro all'aperto, pieno d'interesse e di colore… Volete, ma alla svelta, tentar di costruirlo?… Beninteso che io non vi ho detto niente, non vi ho dato nessun suggerimento. Puccini deve credere che si tratti di una vostra trovata che coincide con la sua… Non è un bella carta che vi do in mano da giocare con coraggio? Io vi auguro di vincere.»

Le rosee previsioni si avverarono. Puccini, in linea di massima, pareva ormai convinto. Ma pochi mesi dopo, con la morte di Giulio Ricordi, Anima allegra a poco a poco tramontò. Non rimase all'orizzonte che un piccolo bagliore. Poi si spense anche quello. L'atmosfera spagnola del soggetto, che avrebbe trascinato inevitabilmente verso il colore di Carmen, coprì di denso buio l'azzurrità splendente del cielo di Andalusia.

Col cuore pieno d'amara delusione mi riaccostai all'interrotta Capanna. Tutto andava a rovescio, alla deriva. A quale sterpo potevo più aggrapparmi?… Ritentai con Puccini. M'offersi di recarmi da lui. Rispose, lasciando cadere l'offerta.

Per Anima allegra sono sempre nel gran dubbio e perciò passo le giornate molto tristemente. Sorga il soggetto per me, dolorosamente passionale… Ma il tempo passa e del migliore.

Quando, dopo il successo della Capanna, fu lui che mi chiamò, ero tanto deluso che partii con la certezza di fare un viaggio a vuoto. Unica gioia era di poter finalmente vedere per la prima volta i luoghi consacrati dalla gloria del Maestro.

Torre del Lago-Puccini. La prima stazioncina da Viareggio verso Lucca ora ha aggiunto il suo nome. Ma quando vi prese fissa dimora, l'aveva definita in due righe così: «Torre del Lago – gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, turris eburnea, vas spirituale, reggia: abitanti centoventi, dodici case».

Di quelle dodici case una era la sua. Ma col progredire della fortuna s'era andata arricchendo, tra il crescere del leccio e l'infittirsi dei cespugli nel giardino che si allargava sino al lago. E la notte, dal vasto studio a terreno, Puccini amava di raggiungere il pontile e là sostare fumando sigarette e guardando all'altra sponda tremare i lumi della Piaggetta e di Massarosa.

Su quel pontile, la notte del mio arrivo, mi parlò della Senna.

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