18. Il Tabarro e Ferdinando Martini

Al piccolo teatro Marigny di Parigi aveva visto un dramma granguignolesco, La houppelande (il tabarro), che si svolgeva tutto su un barcone ancorato sotto l'arco di un ponte. Un fosco dramma di gelosia con un finale impressionante. Il padrone della barca strangolava l'amante della moglie, uno scaricatore, e al sopraggiungere di lei nascondeva il cadavere nel suo ampio mantello, che tragicamente apriva sotto gli occhi della traditrice terrificata. Non la vicenda lugubre l'aveva interessato, ma quell'atmosfera di fiume che creava intorno ai personaggi un pathos singolare e nuovo.

È per questo che vi avevo chiamato… Ma, per combinazione, una settimana fa, recatomi a trovare Ferdinando Martini a Monsummano, di discorso in discorso gli accennai al Tabarro. E gli piacque talmente che m'offerse di tentarne lui stesso la riduzione lirica. Perciò gli mandai subito il testo francese, che, come capirete, non posso farmi restituire…

Confesso che la cosa non mi turbò. Anzi, me l'aspettavo. Durante il viaggio troppe volte, sul ritmo delle ruote, m'ero ripetuto: non sperare, non sperare… Nessuna delusione, quindi, nessun rimpianto.

Il destino aveva decretato che con Puccini non sarei mai riuscito a spuntarla.

S'andò a dormire. Avevo deciso che all'indomani me ne sarei tornato a Milano senza pensarci più.

Ma, sorpresa incredibile, al mattino, con la prima posta, ecco che giunge da Monsummano un plico. Il Maestro mi sembra molto contento quando legge. E sorride dicendomi: «È Ferdinando Martini…».

«Che sta già lavorando?»

«No. Mi rimanda il Tabarro

«Con i primi versi?»

«No. Scrive che ha tentato, e per dimostrarmelo m'acclude una romanza. Ma giudica in coscienza che fare un libretto non è cosa per lui… Mi chiede scusa se, credendo di farmi piacere, s'era spontaneamente offerto. E mi augura di trovar presto chi possa accontentarmi.»

Mi passò la lettera. Poi mi passò i versi: un'implorazione di Giorgetta al suo amante. Una calda invocazione d'un bacio con l'ansia del pericolo che la tresca sia scoperta.

Quei versi me li sono conservati come un ricordo caro di quel grande e purissimo scrittore che ho sempre ammirato con tanta devozione.

Sono, da allora, rimasti inediti nel mio cassetto. Ma la tentazione che adesso mi spinge a pubblicarli credo che non offenda la sua sacra memoria. E perciò non resisto. La stessa rinuncia del Martini aveva certo origine dalla scrupolosa convinzione che i suoi versi non erano per musica. Ma la musica è nella sua poesia. Potete giudicarne. Giorgetta dice:

Perdonami… Son qui… ti voglio bene
e tenera e sommessa
io ti consolerò delle tue pene;
sono sempre la stessa.
Vieni, vieni amor mio
che l'ora avanza nell'animo angosciato…
Fa che tornin la fede e la speranza
del bel tempo passato.
Vieni… Non senti che l'aura ti porta
il bacio mio che vola?
Questa tristezza mia, la riconforta
d'una dolce parola.
La luna è sorta, la notte è serena,
splendon le stelle ancora…
Ma il tempo fugge… Vieni…
Un bacio appena e spunterà l'aurora.
Tutto è silenzio, non si muove foglia,
par che nessun qui viva,
e sola addormentandosi gorgoglia
l'onda, sopra la riva.
Parigi risvegliandosi dimane
udrà, nel primo albore,
caro invito bandir le sue campane:
amore, amore, amore.
E tu questo amor mio come non senti
che i nostri cuori allaccia?
Oh! a molcere il rigor dei miei tormenti
lasciami addormentar fra le tue braccia!

«Questa rinuncia» riprese Puccini «me l'aspettavo. Ma aspettavo anche di esserne sicuro e di riavere di ritorno il testo della Houppelande per affidarlo a voi… Eccolo. Leggetelo e studiateci dentro. Troverete in margine alcune amplificazioni qua e là del dialogo, fatte, per mio suggerimento, dall'autore Didier Gold. Non tenetene gran conto: non mi sembrano efficaci. Questi francesi, quando scrivono versi, sono sempre rimbombanti e pletorici… Sapete quanto io ami la semplicità… C'è anche un proemio, una specie di préface che dice, per esempio: “…Car son rêve était grand, glorieux, olympique… Et près du gouvernail que l'eau caresse et mord Ouvrant sa houppelande en grand geste épique, il osa se dresser tout nu devant la Mort…”.

«A me, cosa volete che vi dica, la gloria epica e olimpica del padrone del barcone non fa né caldo né freddo. Quello che mi interessa è che la signora Senna mi diventi la vera protagonista del dramma. Questo genere di vita dei battellieri e scaricatori che trascinano la loro squallida esistenza nei traffici del fiume, rassegnati, è in pieno contrasto con l'ansia che palpita nel cuore di Giorgetta. Sete di terraferma, rimpianto del chiassoso tumulto del sobborgo, delle luci di Parigi. L'amore carpito a quarti d'ora non le basta. Il suo sogno è di evadere, di calpestare il marciapiede, di lasciare la cabina sull'acqua, dove è morto il suo bimbo… Ecco i bagliori e le ombre che devono dare al fattaccio un aspro e delicato sapore di acquaforte…»

«Capisco… Vi capisco…»

«Bene. E allora decidiamo così: appena lo potete, buttate giù una scena qualunque, a vostra scelta. Mandatemela ed io giudicherò se sia il caso di andare avanti o meno. Accettate?»

«Sì. Accetto.»

«E speriamo che tutto vada bene.»

Io non speravo: ne avevo la certezza. Ma esperimenti su una scena staccata non ne volevo fare. Mi ricordavo le parole del povero signor Giulio: «Puccini è un tipo strano. Bisogna offrirgli la cosa bell'e fatta…». Raccolsi in pieno le forze della mia volontà e in poco più di una settimana sceneggiai e verseggiai completamente il lavoro. Diedi a Luigi, l'apache scaricatore amante di Giorgetta, un piglio da rivoluzionario, ribelle alla miseria di quella schiavitù che lo piegava ad incurvar la schiena coi sacchi sul groppone. A Giorgetta una febbre di libera vita nell'ossessionante ricordo di Belleville, delle vecchie amicizie, delle gite domenicali al Bosco di Boulogne in gaia comitiva. A Michele, padrone del barcone, una malinconia della vecchiaia e il dolore contenuto e sospettoso di non poter più tenere avvinta la giovane compagna sognatrice. Arricchii di episodi nettamente pucciniani il passaggio sul molo. Ci inserii persino un cantastorie che diffonde tra le midinettes i foglietti volanti d'una canzone di Mimì, che s'accompagna su una stonata gironda, poi, coraggiosamente, spedii tutto al Maestro e aspettai il responso. M'arrivò telegrafico: “Vostro Tabarro sembra tagliato da Prandoni. Benissimo. Vi abbraccio.”

*

Vi fu un quarto d'ora in cui Giacomo Puccini pensò all'operetta. Veramente a pensarlo ed allettarlo furono i signori Berte ed Eisenschitz, direttori del Karltheater di Vienna, i quali, trovandoselo sottomano in un momento passeggero di attrito con Tito Ricordi, che era succeduto al suo gran padre Giulio nella gerenza della Casa editrice, gli proposero di scrivere dieci o dodici pezzi, con lautissimo compenso, per una trama ideata da Wilner e Reichert, librettisti di Lehàr. Il soggettino lì per lì non spiacque a Giacomo che, dato quell'urto momentaneo con Tito, firmò il contratto. L'incarico di comporre il libretto in prosa e in versi, secondo il canone operettistico, fu dato a me.

Quando Puccini ebbe in mano il primo atto, iniziò il suo lavoro e musicò due pezzi: Il sogno di Doretta e un duettino comico. Musica deliziosa, lieve, aerea, piena di grazia e originalità. Ma una notte, nella sua nuova villa di Viareggio, si ribellò ad un tratto all'idea di continuare: «Che, che…» disse «non è affare per me. L'operetta non la scriverò mai!».

All'indomani rimandò il contratto a Vienna. Preghiere, proteste, discussioni, per risolvere, in qualche modo che non fosse una risoluzione contrattuale, la faccenda. E alla fine l'accordo che la trama di Rondine si sarebbe trasformata in opera lirica. Con questa nuova intesa mi misi al lavoro. Per il primo atto la commedia musicale ne uscì agile, elegante, oso dire perfetta. L'impianto era eccellente. Ma per i due atti successivi la trasformazione fu dura, laboriosa, faticosa. Ad ogni scena sorgevano improvvise aspre difficoltà non facili a superarsi e aggravate dal fatto che lo scoppio della guerra aveva non soltanto resa impossibile la comunicazione coi librettisti viennesi, ma anche penoso questo contratto con gli editori austriaci che non volevano saperne di rescinderlo. Malgrado Puccini avesse trasfuso nella Rondine la sua limpida e scintillante vena e creato una partitura tecnicamente e coloristicamente perfetta, l'opera, che risentiva della sua ibrida origine, non ebbe quella vitalità che la prima rappresentazione a Montecarlo nel marzo del 1917 aveva fatto prevedere. Nel maggio dello stesso anno la Rondine trionfava anche in Italia al Comunale di Bologna, ma poi le successive mediocri esecuzioni, tra cui quella di Milano, non fecero progredire il suo cammino.

*

Ma già nell'anno precedente, 1916, Puccini era ansioso di accingersi ad un altro lavoro:

La Rondine è finitissima – mi scriveva – mi pare molto bene. Mi sono messo a strumentare il Tabarro. Non avete niente di nuovo come soggetti? Io non riesco a trovar nulla. È desolante. Cerco, cerco, mi pareva di aver trovato altri due atti ma forse non è affare.

Invece quell'affare maturò. Giovacchino Forzano aveva sottoposto al Maestro la trama del Gianni Schicchi. In pochi giorni il bellissimo libretto fu completo ed ottenne già alla lettura un completo successo. In contrasto al tragico Tabarro che, da tre anni musicato, aspettava di essere abbinato ad un altro atto di genere opposto, nasceva ora quel capolavoro di opera comica. E con l'altro atto centrale di Forzano, la mistica Suor Angelica, si compieva il Trittico. I due nuovi atti furono musicati in pochi mesi, senza sforzo, senza incertezze, senza cambiamenti che facessero impazzire come nei tempi lontani i suoi collaboratori vicini ed a lui devotissimi: Suor Angelica fu l'ultima opera del Trittico ad essere musicata. Ma Giacomo che aveva da tempo sognato di portar sulla scena il profumo di un chiostro, vi si abbandonò con tale gioia che non sentì più la fatica, felice com'era di respirare nella sua melodia quell'effluvio di menta e d'erba cedrina che lo investiva quando si recava di tanto in tanto a visitare la sua sorella maggiore, votata da anni in clausura nel monastero di Vicopelago sulla collina di Lucca. E non appena ebbe pronto lo spartito, volle andare lassù a portare alle monache vere la primizia delle sue monachine da teatro.

Il maestro all'indomani mi raccontò con commozione i particolari di questo avvenimento che per un'ora irradiò di luce profana quella penombra sacra:

Le monache, tutte intorno al pianoforte, raccolte, attente, quasi senza respiro. E mia sorella al mio fianco che mi voltava le pagine. Anche lei era musicista e lassù insegnava il canto e l'armonium alle novizie. Io suonavo accennando le parole. Fase per fase, i primi episodi, con la maestra, le suore, le zelatrici; la scenetta dei desideri e del raggio di sole sulla fontana del giardino avevano dilettato e interessato. E incuriosiva e preoccupava la chiusa e misteriosa tristezza di Suor Angelica. Forse ciascuna delle ascoltatrici ritrovava nella mia musica un po' della sua anima, un poco del suo cuore. Ma quando s'arrivò alla scena della zia principessa, mi fermai imbarazzato. Le monache non potevano capire, se non spiegavo loro il dramma della protagonista. Bisognava illustrare il suo passato, dire di quel peccato d'amore che aveva macchiato la sua fresca purità e adombrato il blasone della sua tetra casa. Dire di quel bimbo che le era stato portato via appena nato, di quella colpa che l'aveva condannata al convento. E infine esporre in pieno la ragione della improvvisa visita della zia principessa che veniva ad annunciarle brutalmente che quel bimbo era morto. E bisognava, soprattutto, arrivare alla disperazione di Suor Angelica, al suicidio, al pentimento, alla grazia invocata, al miracolo che le recava il perdono divino. Non era facile, non era facile, non riuscivo a trovare le parole adatte. Tuttavia il meglio e il più velatamente che potei, spiegai tutto. E quando ebbi finito, mi accorsi che molti occhi umidi mi fissavano in silenzio. Ripresi a suonare. Quando giunsi col canto alla implorazione atterrita di Angelica: “Madonna, Madonna, salvami per amor di mio figlio!…”, tutte le monachine, sommessamente, pietosamente, con ferma convinzione esclamarono: “Sì! sì, poverina!… È salva, è benedetta, è nel regno dei cieli”.

Le sorelle assolvevano unanimi la sorella ideale, peccatrice, in dolce pianto e cristiana bontà.

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