19. La principessa crudele

Ripensando alla primissima origine di Turandot, devo dire che essa è nata da un pranzo, nato a sua volta da una delusione. Pranzo intimo a tre, cominciato con celata amarezza e finito tra vividi bagliori di speranze.

Simoni ed io dovevamo far vedere a Puccini accoratissimo che la bocciatura d'un progetto di libretto ideato per lui non ci aveva per nulla, non dico offesi, ma nemmeno turbati. Che giudicavamo giusta la sua sentenza di condanna e perciò eravamo disposti a tornare da capo. Non sarei esatto affermando che fosse quello il nostro schietto sentimento, ma il Maestro ci parve sì deluso e dolente di esserlo, che ci proponemmo di togliergli l'incubo attraverso un simposio offertogli da noi:

«Questa sera alle otto, alla Fiaschetteria».

«Va bene, ragazzi.»

Con tale appuntamento si chiuse il burrascoso pomeriggio primaverile.

Qualche mese prima, Puccini incontratosi in terra di Toscana con Simoni a cui voleva bene fin da quando egli, tra i pochi coraggiosi, aveva difeso Butterfly dopo il linciaggio, gli aveva detto:

Sono senza lavoro come un disoccupato. Me ne rodo e torturo. Metto le mani sul pianoforte e mi si sporcano di polvere. Sento passare gli anni, e dei più belli… Perché, quando torni a Milano, non ti metti d'accordo con Adami per cercare insieme qualche cosa di buono per me?

L'accordo fra noi due fu pronto e facile. Più difficile era trovare quel qualche cosa di buono che il Maestro sognava. Tuttavia ci mettemmo al lavoro e in pochi giorni si inventò un soggetto di tipo dickensiano, che, se convinceva poco noi, non convinse affatto Giacomo che sperava tanto. Egli temeva anche che dopo quel primo fallito tentativo non ci occupassimo più di aiutarlo nelle ricerche. E perciò vidi il suo viso d'un tratto illuminarsi quando a cena finita Simoni, con uno scatto ed impulsivo, proruppe: «Senti, Giacomo; un'idea. Se pensassimo a Gozzi?… Se ci abbandonassimo a un bel tema fiabesco, inconsueto, fantasioso e bizzarro?… Una grande fiaba che magari riassumesse come in una sintesi le più celebri fiabe che davan tanta noia a Goldoni?».

«E perché no?… Una volta ho persino riletto Turandot… Recentemente, in Germania l'ha musicata Busoni. Ma, credo, tale e quale come la rappresentano talvolta i teatri di prosa d'avanguardia, per offrire ai registi decadenti delle possibilità coloristiche e parodistiche.»

«No… Non così, non sotto questa forma» ribatté Simoni «ma cercando di immettervi tutta quell'umanità di cui Gozzi non s'è mai preoccupato.»

«Magari si riuscisse a modernizzare, a umanizzare con nuovo sentimento la vecchia cartapesta. Voi due ci potreste riuscire, ed io sarei felice di levarmi dalle rotaie del frusto melodramma e incamminarmi per vie non battute e inconsuete!»

La scintilla era dunque caduta precisa a suscitare vampate alte e festose sulla malinconia iniziale di quel pranzo. E tra fumi e faville, ecco balzar fuori limpido e lucente il nome della principessa crudele. E tra una sarabanda di figure cinesi e un profumo di esotici aromi e di settecentesche ciprie, farsi largo imperiosa e regale, affascinante e crudele, enigmatica e travolgente, Turandot la bellissima.

Puccini era partito all'indomani raggiante di nuova fede, portando via con sé per rileggerla la fiaba gozziana nella versione dello Schiller stampata dal Lemonnier. E pochi giorni dopo la scelta del soggetto diventava definitiva.

Karadà – mi scriveva per dare anche al mio nome una risonanza cinese –vi rimando il volume di Schiller. Ora si tratta di adattare stilizzare interessare imbottire gonfiare e sgonfiare il soggetto. Così com'è non va. Ma lavorato, masticato, deve venir fuori qualche cosa di Signor ladro… e cioè Sorprendente. Oh! Gioia! Arriverà materiale scenico dalla Germania. Ho già un libro di Reinhardt, ma c'è poco di Turandot. Troverò anche musica cinese antica e indicazioni e disegni di diversi strumenti che metteremo sulla scena e in orchestra. Ma voi due veneti dovete ora dar forma moderna interessante varia a quel Gozzi vostro parente. Non fatene parola. Ma se riuscite, e dovete riuscirvi, vedrete che bella cosa originale e travolgente riuscirà. La fantasia vostra, con tante baldorie dell'antico autore, deve per forza portarvi a grandi e gustose cose. Forza dunque.

In una lunga serie di successive lettere vengono in discussione le maschere veneziane. Puccini ne ha paura. Raccomanda:

Non abusate coi mascherotti veneziani. Quelli debbono essere dei buffoncelli filosofi che qua e là buttano un lazzo e un parere ben scelto e adatto al momento. Ma non devono essere degli importuni e dei petulanti.

Noi gli scriviamo di esserci decisi a sopprimere le maschere. Risponde:

Oggi appena avuto il vostro espresso ho telegrafato di primo impulso approvando l'esclusione delle maschere. Ma non voglio con questo mio grido influire su voi, sul vostro cervello. Potrebbe anche darsi che, conservando con giudizio le maschere, si abbia un elemento nostrano il quale, in mezzo a tanto manierismo, poiché lo è, cinese, porterebbe una nota nostra e soprattutto sincera. Le fini osservazioni di Pantalone e compagni ci riporterebbero alla realtà della nostra vita. Insomma fare un po' come Shakespeare fa spesso, quando mette tre o quattro tipi estranei che bevono e bestemmiano e dicono male del re. E questo l'ho visto nella Tempesta, tra gli Alfi, Ariele e Calibano. Ma però potrebbero anche guastare, se viceversa voi trovaste da arricchire e da sbizzarrirvi con l'elemento cinese. Perciò concludo che io non ci metto per ora né sale né pepe. Fate voi e che il buon Dio vi inspiri.

Ma le righe più belle e significative, nelle quali è tutto il suo credo artistico, son queste scrittemi non appena gli comunicai che con Simoni ci si era messi ardentemente a lavorare:

Dunque siete discesi in lizza!… Forza e spremetevi il cuore e il cervello e preparatemi quella tal cosa che faccia piangere il mondo. Dicono che è segno di debolezza la sentimentalità. A me piace tanto essere debole! Ai cosidetti forti lascio i successi che sfumano. A noi quelli che restano!…

Dalla ingenua fattura dell'antica favola persiana bisognava dunque far zampillare freschissima la sorgente, nascosta e soffocata da tanta ingenuità. Carlo Gozzi aveva infatti composta la sua Turandot per rispondere a coloro che lo accusavano di cercare il successo fondandosi tutto sui prestigi dei macchinismi scenici e delle fantasmagorie, tentando stavolta di avvicinarsi all'atmosfera semplice e poetica della fiaba. E se altri, prima di lui, aveva attinto allo stesso tema, da Shakespeare che nel Mercante di Venezia sostituisce con i tre cofani di Porzia i tre enigmi, a Molière che nella Principessa d'Elide s'ispira al carattere della principessa cinese fieramente ribelle all'amore, voleva ben dire che una solida base drammatica c'era, pur che si sapesse abilmente trarne profitto.

Turandot, che per allontanare i principi pretendenti che da ogni parte del mondo giungono con le loro carovane alla Corte di Pekino, propone loro tre oscurissimi indovinelli, pena la morte a chi non li risolva, e non vale il tragico esempio dei molti che han lasciato la testa per tentare la conquista della sua bellezza irraggiungibile; Turandot, mèta sognata delle notti ardenti, inflessibile e indomabile sino all'ultimo, doveva rivivere tra un groviglio di avvenimenti, di costumi, di cerimonie, di usanze bizzarre e feroci nelle quali è trascurata e travolta l'onesta coscienza delle maschere veneziane.

I continui suggerimenti del Maestro servivano ad aprirci nuove luci. E spesso bastava un tocco, un segno, un'intenzione, un dubbio, a far scaturire nuove fasi, a dare alla trama improvvise svolte originali, ad arricchirla nella sua nuova essenza spirituale, nei suoi particolari, nelle laccature della decorazione. Così, abbandonati Gozzi e Schiller, trasfigurate le maschere in ministri, innestato alla trama un personaggio eminentemente pucciniano, la poetica Liù, commossa e commovente antagonista, nasceva a poco a poco una Turandot nostra, piena di quell'umanità che Puccini voleva.

*

La prima stesura della trama ci recammo a leggergliela a Bagni di Lucca dove egli ci aspettava con una sorpresa. Le lettura avvenne alla villa del barone Fassini, che era stato per molti anni in Cina addetto alla nostra Ambasciata e che aveva arredata la sua casa con ogni sorta di cineserie. Ed ecco che appena fu deposto il manoscritto su un tavolinetto laccato, ruppe il silenzio come per incanto la chiara voce di un cariglione che suonava l'antico Inno Imperiale con la solennità di una cerimonia sacra ed augurale. Stupore nostro, risate dei presenti, gioia soddisfatta di Giacomo che aveva preparato la trovata. Le note di quell'Inno diventarono più tardi in mano sua il vasto corale che chiude il secondo atto. Il primo, appena completamente verseggiato, gli fu letto in una Torre di Maremma, Torre della Tagliata, dove d'inverno Puccini amava talvolta rintanarsi per le sue cacce. Ora egli poteva mettersi al lavoro.

Ma quante trasformazioni, quanti cambiamenti, quanti rovesciamenti di atti e scene, mentre il Maestro componeva! E quante smontature, arresti, scoramenti!… Se per caso ci sentiva stanchi, delusi e talvolta seccati della sua incontentabilità, si ribellava e con impeto festoso faceva squillar alto e sonoro il richiamo:

Turandot procede bene. Mi par d'essere sulla via maestra. Sono al terzetto delle Maschere, tra poco arriverò agli enigmi…

Scherzava per rincorarci:

Dovete tirar fuori i vermicelli del sentimento e della commozione. Urge commuovere alla fine, perciò niente retorica. Il travaso d'amore deve giungere come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che estatico lo assorbe attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli gementi…

In quanto alla sua musica diceva:

Io troverò delle frasi degne dei vostri aurei polimetri. Mi succhierò il cervello col cannulo di cristallo, per riempire di fosforo il pentagramma… E tutto per voi, per noi, per il popolo, per il mondo! Salvatote, o vati!

Di mano in mano che le difficoltà si venivano spianando e il lavoro procedeva, aumentava la fede. L'opera era ormai alla fine quando, improvvise e tragiche, cominciarono le preoccupazioni per il male. Nessuno voleva crederci. Nessuno voleva pensare che quel male fosse grave. Ma il presentimento ci atterriva. In questa lettera della fine d'ottobre del '24, c'è un brivido di disperazione e palpita nascosta una speranza per la sua vita e la sua arte, con uguale spasimo:

Caro Adamino, che volete che vi dica?… Sono in un periodo tremendo. Questo mio mal di gola mi tormenta, ma più moralmente che per pena fisica. Andrò a Bruxelles da un celebre specialista. Partirò presto. Aspetto risposta di là e aspetto Tonio che ritorni da Milano. Mi opererò? Mi si curerà? Mi si condannerà? Così non posso più andare avanti. E Turandot è lì. I versi del duetto finale sono buoni e mi pare che sia quello che ci voleva e che aveva sognato. Così il duetto è completo. Al ritorno da Bruxelles mi metterò al lavoro...

*

Non è tornato più.

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