3. Il paterno Ponchielli

Varcando per la prima volta la soglia del Conservatorio e guardandosi intorno intimidito, là nel vasto cortile dal severo porticato, indubbiamente Giacomo quella mattina pensava a Verdi che, nel '32, non poté esservi ammesso.

Nell'esame non era, come lui, riuscito primo: giudizio negativo sul pianista e riservato sulle attitudini alla composizione. La scusa per respingerlo e non fare, più tardi, una brutta figura con i posteri, fu che egli aveva oltrepassato di quattro anni il limite di età. Ora, il pensiero quasi umiliava il giovane che si sentiva indegno della sua entrata facile. Per consolarsi, rivedeva la mamma alla vigilia della partenza, quando, chiamatolo in disparte, mettendogli in tasca una busta con un po' di denaro, aveva detto pacatamente, senza lagrime: «Eccoti tutto quello che ho potuto racimolare… Parti sereno e va' a far fortuna a Milano… Se Dio non nega il dolore alla mia vita, non negherà nemmeno il pane alla tua mensa…».

Tre giorni dopo, un giovedì mattina di dicembre del 1889, Giacomo è nella sua stanzetta in vicolo San Carlo e scrive a casa:

Ieri ho avuto la seconda lezione di Bazzini e va benissimo. Per ora ho questa sola, ma venerdì incomincio l'estetica. Mi son fatto un orario così disposto: la mattina mi alzo all'otto e mezzo. Quando ci ho lezione, vado. In caso diverso studio un po' di pianoforte. Ora compro un Metodo ottimo di Angeleri, che è uno di quei Metodi dove ognuno può imparare da sé benissimo. Seguito: alle dieci e mezzo faccio colazione. Poi esco. All'una vado a casa e studio per Bazzini un paio d'ore. Poi dalle tre alle cinque via da capo col pianoforte, un po' di lettura di musica classica. Anzi, mi vorrei abbonare ma ci sono pochi bigei. Per ora passo il Mefistofele di Boito che me l'ha prestato un mio amico, certo Favara di Palermo. [È quel Favara che, poi, s'è reso celebre con la Raccolta di Canti Siciliani] Alle cinque vado al pasto frugale, ma molto frugale, e mangio un minestrone alla milanese che per dire la verità è assai buono. Ne mangio tre scodelle, poi qualche altro empiastro, un pezzetto di cacio coi bei e un mezzo litro di vino. Dopo accendo un sigaro e me ne vado in Galleria a fare una passeggiata in su e in giù, secondo il solito. Sto lì fino alle nove e torno a casa spiedato. Arrivo a casa, faccio un po' di contrappunto, non suono perché la notte non si può suonare, e dopo infilo il letto e per addormentarmi leggo sette od otto pagine di un romanzo… Ecco la mia vita…

La mamma legge la lettera e poi la passa al dottor Cerù che, soddisfatto, lisciandosi la prolissa barba bianca, commenta: «Bene, bene… Ha messo giudizio… Vado a farla vedere all'Angeloni».

E anche l'Angeloni legge, sorride, conclude: «Molto bene. Che bravo Giacomino, che non pensa più alla caccia ma a studiare».

Il fratello Michele ne informa gli amici. E alla sera, vagando su e giù per Fillungo, quei ragazzi s'immaginano di passeggiare per la Galleria dove alla stessa ora Giacomo – beato lui – sigaro in bocca sorride alle popòle milanesi. Poi, infilato il letto, dan di piglio a un romanzo e, per non essergli da meno, leggono qualche pagina prima d'addormentarsi e sognare Milano.

Così a Lucca si segue l'emigrato che a sua volta sente la nostalgia di Lucca e degli amici, ma si guarda bene dal lasciarla trapelare. E poiché immagina che i suoi scritti facciano sui compagni un certo effetto d'ammirazione e invidia, comunica di essere stato alla Scala a sentire l'opera nuova del Catalani, ch'era la Loreley: «La gente non va in visibilio, ma io dico che artisticamente è una bella cosa e se la rifanno ci torno».

Scrive durante la lezione di drammatica dove si secca molto e non vede l'ora di tornarsene a casa perché deve comporre un Quartetto d'archi per Bazzini che, come insegnante, afferma, è il Padre Eterno.

Quella sera va in scena il Simon Boccanegra di Verdi, rifatto. Ma che prezzi, alla Scala:

Le sedie chiuse costano 50 lire e son già date via tutte. L'abbuono è di 130 lire per il carnevale e quaresima. Per una sedia chiusa ci vogliono 200 lire oltre l'ingresso che fanno 330 lire. Che razza di roba! Come è ricca Milano! Maledetta la miseria!

E conclude:

Ieri sono andato a Monza sul tramvai. Stasera vado a mangiare i fagioli dal Marchi.

Non bada dunque a spese: di giorno a Monza sul tramvai, e alla sera fagioli, ahimè, conditi con un olio pessimo, cosa che a lui, lucchese, non va giù. Non sa come dirlo alla madre, ma quanto pagherebbe per averne soltanto un pocolino di quello buono buono, quello di casa sua.

Alla fine si decide:

Cara Mamma, avrei bisogno d'una cosa, ma ho paura a dirgliela perché capisco anch'io che lei non può spendere. Ma stia a sentire, è roba da poco. Siccome ho una gran voglia di fagioli (anzi un giorno me li fecero ma non li potei mangiare a cagione dell'olio che qui è di sezamo o di lino), dunque dicevo… avrei bisogno di un po' d'olio ma di quello nuovo. La pregherei di mandarmene un popoino. Basta poco. L'ho promesso di farlo assaggiare anche a quelli di casa. Dunque se le mie geremiadi frutteranno, mi farà la gentilezza (come l'ungo, già si parla di olio) di mandarmene una cassettina che costa quattro lire da Eugenio Ottolini, il quale l'ha mandata anche al tenore Papeschi. Qui fanno le opere a tutto andare. Ma io nulla… Mi mangio le mani dalla bile.

Il puledrino di razza dunque freme e si mangia le mani pure mordendo il freno. Chiede un popoino d'olio, ma tanta è la umiliazione di dover ricorrere a casa che impreca alla miseria e invidia quelli che l'hanno superata e possono scialarla, così crede, coi frutti del lavoro.

Passano i mesi e gli anni. Dopo la prima annata è cessato il sussidio della Regina Margherita ed è il prozio Cerù che provvede ad aiutarlo. Anche questo gli brucia, sebbene il vecchio protettore gli abbia detto: «Quando avrai fatto soldi, con tutto tuo comodo, mi rimborserai». E per Giacomo, grande galantuomo, era come se avesse firmato una cambiale a scadenza. Per levarsene il pensiero avrebbe voluto che la scadenza fosse per l'indomani, e svincolarsi da ogni aiuto e correre da solo con le sue sole forze verso il traguardo.

La miseria contro cui si ribella canta dentro di lui tutte le melodie. Sente che la musica gli scorre nel sangue, affluisce al cervello. Non lo spaventa la fatica dello studio tra una vita di stenti. Ha un freddo cane ed aspira «a un paltò di quelli belli, che son fuori dal Bocconi». Ma può farne a meno dato il calore che ha nell'anima, una fiamma che sempre lo riscalda. E poi – pensa – ce n'è ancora per poco. È vicina l'epoca dell'esame di promozione. E al dottor Cerù che lo informa di aver trovato la via per raccomandarlo ai suoi esaminatori, Bazzini e Ponchielli, fieramente risponde:

Voialtri a Lucca, l'avete sempre con le raccomandazioni. Maledetto chi l'ha inventate. Si vede che Carlo Ludovico vi ha sciupato la testa a tutti. Voialtri non sapete che tipi sono Ponchielli e Bazzini. Ci sarebbe da farci pigliare in tasca.

Non ha dunque bisogno che nessuno, grazie a Dio, lo raccomandi. I suoi maestri gli vogliono bene, l'hanno in considerazione. Prova ne sia che ha l'onore e la gioia di accompagnare spesso a casa Ponchielli, dopo le lezioni. Anzi un giorno, arrivati sulla porta, il Maestro gli ha detto: «Se non fosse già tardi, ti farei salire su di sopra… Ma se vieni domani potremo parlare insieme di tante cose».

L'invito lo lusinga e lo agita. Immediatamente ne informa la mamma, anche perché lo sappiano il Cerù, il Maestro Angeloni e gli amici, ai quali, preso oramai com'è dalla composizione del suo saggio finale, non ha tempo di scrivere:

Domani torno da Ponchielli. Ci son stato anche stamane ma ho potuto parlar poco perché c'era anche la sua signora. Mi ha promesso di interessarsi di me con Ricordi, e mi ha detto che gli esami finora sono andati bene. Lavoro accanitamente per ultimare il mio pezzo che è adesso a un buon punto.

Come lavori, lo sa soltanto lui. Cioè no, lo sa anche Ponchielli, il quale interpellato dal Bazzini sul saggio pucciniano in cui ha molta fiducia è costretto a rispondergli: «Che ti devo dire?… Tutte le mattine mi consegna tali scarabocchi che io non mi azzardo nemmeno di guardarli».

Giacomo, infatti, nel fervore febbrile della composizione, butta giù in fretta e furia, a brani, su foglietti staccati, le sue idee. Fissa e consegna. Consegna e torna a fissare. L'impeto è tale che il pensiero precorre la mano. Note su note, e sbalzano fuori i temi e gli sviluppi. È sicuro della sua tecnica come è sicuro della sua ispirazione. Quando i fogli volanti saranno coordinati e messi insieme, allora si vedrà. E fin dalle prime prove, in Conservatorio si comincia a vedere che il Capriccio sinfonico del giovine licenziando esce dal comune saggio scolastico.

Bazzini dice a Ponchielli: «Questo ragazzo è qualcuno».

E Ponchielli gli risponde: «Io ne sono sicuro».

I due giudizi dilagano subito per Milano. In Galleria si guarda al toscano di Giacomo con simpatica curiosità, che si tramuta in schietta ammirazione quando si legge sulla Perseveranza del 15 luglio 1883 l'articolo di Filippo Filippi ch'era il critico più autorevole e temibile dell'epoca.

Nel Puccini – comincia – c'è un deciso e rarissimo temperamento musicale. Unità di stile, personalità, carattere…

Altro che fogli al vento, altro che scarabocchi!

Non ci sono né incertezze né cincischi e il giovine autore, preso l'aire, non si smarrisce, non va fuori del seminato. Le idee sono chiare, robuste, efficacissime, sostenute da molta verità, da molta arditezza d'armonia.

Che volete di più? Ma non basta ancora, che il Filippi proclama esservi nel Capriccio sinfonico

tanta di quella roba come ben pochi ne hanno fra i compositori più consumati nelle prove dell'orchestra e dei concerti.

Riassumendo:

La tinta predominante è forte, ardita, quasi aspra ma simpatica: le riprese sono ingegnose. Le perorazioni efficaci hanno rilievo dalla distribuzione delle armonie, dall'ingegnoso lavorìo dei bassi. C'è nel tempo di mezzo un pensiero dominante bellissimo, svolto e ripetuto con sempre nuovi e crescenti effetti.

Giacomo legge e rilegge. Compra molte copie della Perseveranza e le spedisce, francobollo da due centesimi, agli amici. Alla mamma aveva scritto fin dalle prime prove: «I maestri sgranarono gli occhi e corrugarono la fronte…». Ma adesso che lo sforzo è compiuto, si sente stanco e sperduto. Gli pare che quel tutto sia nulla. La eco degli applausi è svanita, le critiche hanno fatto la loro giornata. Questo non è un inizio, è già un passato. E l'avvenire immediato consiste nel rimettere la sua poca roba nella valigia e ritornare a casa. Nel lasciare la stanzetta di vicolo San Carlo, dove ha trascorso i tre anni di studio, lo prende una gran malinconia. Va al Conservatorio per accomiatarsi dai maestri. Tiene per ultimo Ponchielli.

«Quando parti?»

«Domattina.»

«Quando torni?»

«Dio lo sa.»

Il buon Ponchielli lo guarda. Gli legge nel profondo. Gli dice: «Ti capisco…».

Giacomo sente qualcosa che dall'anima gli sale agli occhi: sono lagrime. Il Maestro, per non essere preso anche lui dalla commozione, gli dà larghe manate sulle spalle.

«Su, su, figliolo… Devi essere contento… Più successo di così… Nessuno mai è uscito trionfatore come te… Allegro, dunque: chi ben comincia è alla metà dell'opera… Sì, la frase è banale e tu, adesso, è l'opera bella e intera che vorresti. Bisogna aver pazienza. Sai che non t'abbandono…»

«Ha parlato con Ricordi?»

«Sì, ieri. Gli ho detto del tuo saggio… Aveva già letto l'articolo del Filippi. Ma sai bene come sono gli editori. Bisognerebbe presentare loro la cosa bell'e fatta. E per farla, naturalmente, t'occorre un librettino…»

«Chi può pagarsi questo lusso… chi?»

«Appunto. Mentre tu torni a casa, studierò la faccenda.»

«Ma se crede, Maestro, potrei restare qui ad aspettare.»

«Fa quello che ti dico.»

«Lei solo può salvarmi.»

«Sempre ho creduto in te. Adesso più che mai. Ma occorre andare cauti nel fare i primi passi. Per ora, dormi sui tuoi allori meritati… Qua, un bell'abbraccio, e fede. Vedrai che a Lucca ti festeggeranno… Magari sono capaci di offrirti un banchetto coi fagioli…»

«E certo ben conditi.»

«Ecco, bravo, ora ridi. Preferisco di lasciarti sorridente. Dormi i tuoi sonni tranquilli. A tempo opportuno, stai pure certo che ti sveglierò.»

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