4. La foresta nera

Era destino che il risveglio di Puccini avvenisse assai presto. E infatti in quella stessa seconda quindicina del luglio '83, mentre il trionfante autore del Capriccio sinfonico riceveva a Lucca le calde congratulazioni dei compagni e degli amici, a Milano, Amilcare Ponchielli riceveva l'invito di recarsi per qualche giorno a riposare a Caprino Bergamasco. L'invito gli veniva da Antonio Ghislanzoni. Il poeta dell'Aida e di molti altri libretti, il romanziere di Artisti di Teatro e di molti altri romanzi, il critico musicale e battagliero, si era, chissà per qual mistero, trasformato in albergatore ed aveva aperto lassù una «pensione di famiglia».

«Vieni a vedermi nelle mie nuove e – forse – più proficue mansioni» aveva scritto a Ponchielli. «Ti farò mangiar bene e bere meglio, con due vantaggi: che potrai dormire senza che si parli di teatro e di libretti d'opera e non pagherai il conto…»

E l'amico illustre, sia per curiosità che per svagarsi dalla fatica dei recenti esami, ora stava avviandosi con un trenino che sostava anche troppo a tutte le stazioni, verso il breve riposo e la frescura. Assopito in un angolo del suo scompartimento forse pensava che Ghislanzoni gli stesse preparando un atteso Caligola quando una voce amica lo scosse dal torpore.

Era la voce di Ferdinando Fontana che, anche lui, aveva ricevuto l'invito di recarsi lassù, all'albergo del Poeta.

«Mi capiti a proposito» disse subito Ponchielli. «Avevo proprio bisogno di chiederti un libretto.»

Fontana si illuminò di gioia.

«Sarei felice di lavorare con te.»

«Anch'io» rispose Ponchielli «ma qui si tratterebbe di lavorare assieme per un altro… Sai, quel tal Puccini, quel ragazzo lucchese ch'è uscito ora dal Conservatorio.»

L'entusiasmo di Ferdinando Fontana scese subito a sottozero. Pure, senza impegnarsi, concluse con molti: «vedrò, vedremo, se avrò tempo, in questo momento sono così preso…» che promettevano assai poco di buono.

Col Ghislanzoni non era nemmeno il caso di parlarne. E lassù, a Caprino Bergamasco, di tanto in tanto il cantore di Gioconda faceva ricadere il discorso sulle qualità di quel giovine, che bastava una spinta per farlo camminare a gran galoppo. Ma visto che con la prosa poteva ottener poco, data la premessa che Giacomo non possedeva né mezzi né interi per pagarsi un poeta, pensò, quando tornò a Maggianico in quel di Lecco, dove villeggiava, di inviare al Fontana questa supplica in poesia:

Ascolta la voce del cuor
Che in te non batte invano.
Ben so che dell'oro il fulgor
Se splende nella mano
Fa inver di piacer tripudiar
E ti eleva a quel ciel
Che la vena ci suol risvegliar
Senza alcun vel.

Però qui si trattava di beneficare un musicista del tutto sconosciuto eppur pieno di possibilità:

E in questo caso
Deh accorcia il naso
E sii benigno
Siccome il Cigno
Che arriva placido
In fondo al mar.
Non esser acido
Col mio compar.

La strampalata poesia ha successo. Fontana si mette una mano sulla coscienza e con l'altra accorcia il naso, ossia rinuncia ad ogni pretesa finanziaria. Giacomo ne è informato, non crede a se stesso. Si precipita a Milano, s'incontra col Poeta, s'intendono, diventano amicissimi di colpo ed insieme partono per Maggianico tra le braccia del Nume tutelare. La tavola è imbandita per la colazione. Fontana, che siede vicino a Giacomo e conosce le abitudini di casa Ponchielli, quando vede arrivare un piatto di salame sussurra rapido: «Se hai fame attaccati a questo, perché sul seguito c'è da fidarsi poco». Ma a Giacomo quella mattina il mangiare importa poco. L'importante è di poter avere un libretto.

Con questa lettera informa la mamma del grande avvenimento, dei progetti futuri e, ahimè, dei conti da pagare:

Sono andato da Ponchielli a Maggianico e mi sono trattenuto quattro giorni. Parlai col Fontana, poeta, che trovasi a villeggiare lì vicino a Ponchielli, e si fissò, quasi, per un libretto: anzi mi disse che gli piaceva la mia musica, ecc. Ponchielli poi entrò anche lui di mezzo e mi raccomandò caldamente. Ci sarebbe un buon soggettino che ha avuto un altro, ma che il Fontana avrebbe piacere invece di darlo a me, tanto più che mi piace molto davvero, essendovi molto da lavorare nel genere sinfonico descrittivo, che a me garba assai, perché mi pare di doverci riuscire. Potrei in tal modo prendere parte al concorso Sonzogno. Ma l'affare, cara mamma, è incerto.

Pensi che il concorso è italiano, non ristretto e locale come credevo; poi il tempo è breve… Ci ho da pagare quindici giorni di pensione, e se vengo a Lucca mi ci vogliono venti lire per riscattare l'orologio e lo spillo che sono a… respirare aria di monte. Baci.

Con il danaro per la pensione, il buon dottor Cerù spedisce anche le venti lire. Giacomo paga, spegna orologio e spillo, torna a Lucca col libretto de Le Villi.

Ai compagni che vanno a incontrarlo alla stazione pare trasfigurato. Dal discorso che fa loro, non più riconoscibile: «Ragazzi, vi sono molto grato della vostra gentilezza. Ma d'ora in poi vi prego di tenervi alla larga da casa mia. Non sperate che venga a bighellonare con voi di notte per le strade o di giorno al caffè a far chiacchiere inutili. I miei giorni e le mie notti sono ormai contati…».

«Che?… Devi morire?…» qualcuno gli ribatte per scherzare.

«No: lavorare per vivere, ed arrivare in tempo a presentare l'opera al concorso del Teatro Illustrato del Sonzogno. Se non perdo un minuto ci riesco. Ma è necessario che mi ritiri subito nella Foresta nera in preda alla «Tregenda». Perciò in via di Poggio porta chiusa e che il Dio del mio genio mi tocchi col dito mignolo il cervello.»

E gli amici gli risposero in coro: «Così sia!».

Il Dio del suo genio lo assiste con larghezza. Ma invece lo tradirono la fretta e la calligrafia. Basterebbe a documentarlo uno sguardo alla partitura, vera foresta nera, seminata di sgorbi e scarabocchi, che fecero drizzare ai giudici i capelli e che probabilmente li esasperarono al punto di bocciare in pieno l'opera. Il premio fu dato a La fata del Nord del maestro Guglielmo Zuelli, che più tardi invece che per il Teatro si incamminò per la carriera d'insegnante nei Conservatori.

Trent'anni dopo quel responso, il Zuelli, raccomandando al Puccini, ormai celebre, un allievo, rievocava la sua vittoria giovanile con questi quattro versi:

Sebben di Sonzogno vincessi il concorso
Il pelo rimisi qual fossi un grand'orso:
E tu che perdesti il concorso Sonzogno
Vincesti la gloria e a me restò il sogno!

Ai quali Puccini, affettuosamente e poeticamente rispose:

Amico mio carissimo
Tu scrivi in poesia
Ed io farò prestissimo
Due versi purchessia.
Trent'anni son trascorsi
Dal tempo delle Villi!
Ma non abbiam rimorsi,
Più o men pei nostri trilli.
Tu per la gran salita
I giovani accompagni
Con fede ribadita.
Convien ch'io non mi lagni
Perché son sempre in sella,
Lungi da noi i ristagni,
Guardiam la nostra stella:
Pel ritmo della vita
La nota è sempre quella!

Però, in quel tale momento, quando a Milano aspettava il responso e gli giunse nettamente negativo, il ritmo della vita parve che gli si fermasse nel cuore. Ad accrescere il nero delle sue giornate, la mamma s'ammalò, e a Giacomo non restava che ritornare a casa in attesa di eventi, di cui Ferdinando Fontana gli aveva fatto intravedere liete possibilità, dopo una memorabile serata nel palazzo di Giovannina Lucca, editrice di musica, importatrice accanita delle prime opere di Wagner in Italia e prima fondatrice di quella Casa che poi diventò Casa Ricordi. Fontana, a quel ricevimento, aveva portato con sé l'avvilitissimo Giacomo che là s'era incontrato con Arrigo Boito e il critico e musicista Marco Sala. Invitato a suonare, Puccini si mise al piano ed attaccò con impeto rabbioso le condannate Villi.

Impressione di meraviglia. Alla fine fu Boito che gli disse: «Caro Maestro, mi rallegro molto della sua bocciatura. Ora mi pare necessario di ricorrere in appello».

Che quelle non fossero soltanto parole di conforto, si convinse Puccini solo quando gli giunse una lettera di Ferdinando Fontana che lo sollecitava a tornare a Milano dove, ad iniziativa di Boito, si era aperta tra ammiratori e amici una specie di sottoscrizione per far rappresentare l'opera al Dal Verme a dimostrazione che i concorsi troppo spesso non servono a nulla.

Giacomo immediatamente ripartì. E questa volta lo accompagnava il fratello Michele che, non resistendo più alla tentazione di farsi largo anche lui nella metropoli, per fare colpo con solenne eleganza sulle future allieve, s'era armato d'una formidabile tuba da portarsi nelle grandi occasioni.

La sottoscrizione per Le Villi procedeva benissimo. Ferdinando Fontana aveva ritoccato il libretto, ottenendo che Ricordi lo stampasse gratis. Pronti erano i bozzetti della scena. E l'impresa Steffanoni era dispostissima ad accogliere l'opera purché la somma per le spese raggiungesse le lire 450 ch'essa aveva richiesto.

Giacomo, e di riflesso Michele, sono giubilanti. E la mamma, sempre a letto malata, dimentica ogni dolore ricevendo questa lettera:

Cara Mamma, come avrà saputo, io do l'operetta mia al Dal Verme. Non le avevo mai scritto perché non ero sicuro. Concorrono a darla molti signori di qua e anche persone di vaglia come Arrigo Boito, Marco Sala, ecc., i quali si sono impegnati per una somma ciascuno. Ho scritto ai parenti e al Cerù perché mi aiutino per le copie chè ci vorrà duecento e più lire. Per ora non so, potrebbe anche essere di più. Speriamo bene che cambi! Lei come sta? So che sta sempre al solito, povera mamma. Michele sta bene e la saluta tanto, poi si scriverà più a lungo: ho tanto da fare che non ho tempo neppure di scrivere alla mia buona e cara mamma! Stia allegra. Un bacio.

Alla vigilia dell'andata in scena, il 31 maggio del 1884, i giornali milanesi accrescevano la vibrante attesa con l'annuncio che aveva un fondo polemico e diceva:

Questa sera, al Teatro Dal Verme, ha luogo la rappresentazione di un'altra delle opere presentate al concorso del Teatro Illustrato, una di quelle che non ebbero né premio né menzione onorevole. Ne è autore il signor Puccini. S'intitola Le Villi e il poetico soggettino è stato tradotto in versi da Ferdinando Fontana. Il Puccini, lucchese, è allievo del nostro Conservatorio.

Incamminandosi verso il teatro di Largo Cairoli, quella sera, Giacomo chiese al fratello: «O Michele, tu quanto hai in tasca?».

«Io? Neanche un soldo. E tu?»

«Io sì… Ho quaranta centesimi.»

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