5. Ingresso in via Omenoni

All'indomani della prima rappresentazione de Le Villi al Dal Verme, Marco Sala, per sfogarsi subito, cominciava così il suo articolo critico sull'Italia:

Puccini alle stelle! Le Villi entusiasmano. Applausi di tutto, tuttissimo il pubblico dal principio alla fine. Si volle udire tre volte la prima parte e si è domandato vivamente il bis, non ottenuto, del duetto fra tenore e soprano e della «Tregenda». Povera Commissione del Concorso del Teatro Illustrato che non ha accordato a Puccini nemmeno la menzione onorevole, non l'ha neppure nominato, l'ha buttato in un canto come uno straccio…

E, dopo aver fatto l'analisi dell'opera, finiva profetizzando:

Riassumendo, un grande successo e un gran compositore alle viste.

Mentre i critici milanesi stavan tutti occupandosi di lui, Giacomo col fratello Michele e Ferdinando Fontana entravano al telegrafo tendendo pomposamente all'impiegato questo telegramma per la signora Albina:

Successo clamoroso – superate speranze – diciotto chiamate – ripetuto tre volte finale primo.

Fontana ritirò la ricevuta d'una lira e disse: «Ora si va allo Stoker a mangiare qualcosa… Pago io».

«Vorrei vedere…» ribatté Puccini.

«Come?… Mi impediresti di pagare?»

«No… Intendevo dire: vorrei vedere come si mangerebbe se non pagassi tu.»

All'alba si lasciarono raggianti, sicuri che la critica avrebbe fatto colpo su chi intendevan loro. Passarono tre giorni prima di averne la certezza. Ed ecco che in primissima mattina dei colpi violentissimi battuti alla sua porta fanno balzare Giacomo sul letto. E Ferdinando Fontana si precipita esclamando: «Su, vestiti, poltrone, che alle dieci ci aspetta il signor Giulio».

Un quarto d'ora dopo, musicista e poeta erano fermi in via degli Omenoni, davanti agli uffici della Casa Ricordi, ad aspettare che a San Fedele battessero le dieci, per la puntualità.

Imponenti e massicci gli otto Omenoni, curvi com'è loro dovere di cariatidi, guardavano dall'alto in basso i due soci in attesa, ed al Puccini parve che il barbone penultimo a sinistra, quello che con la mano si tiene l'altro braccio, sussurrasse ai compagni: «Ecco: tra momenti varcheranno la soglia, saliranno le scale, saranno ammessi all'ambita presenza del padrone e despota della musica italiana. Forse quel giovane dagli occhi intenti e la bocca semiaperta come se ascoltasse la saggia parola del suo primo editore, lo rivedremo uscir di qui pienamente felice…».

Il signor Giulio, dopo la presentazione fattagli da Fontana, si tolse gli occhiali che ripulì lentamente con un leggero fazzoletto di batista, e socchiudendo le palpebre, serrando le labbra sottili, alzando il viso scarno e la barbetta bionda verso l'intimidito Giacomo, gli disse: «Ho ascoltato l'altra sera la sua operina… Bene: la prendo, a un patto…».

Puccini non fiatava. Gli mancava il respiro. Aspettava il patto.

«A patto» continuò Giulio Ricordi «che lei me la divida nettamente in due atti… Dico questo per renderla più teatrale, ossia più commerciale. Fontana studierà librettisticamente la modifica per rendere logica la nuova struttura… Non sarà un gran lavoro neanche per lei…»

«Oh!… non è il lavoro…» mormorò Giacomo.

«E allora che cos'è?»

«Nulla… nulla… Ha ragione… Farò sempre quel che crede.»

«Quello che credo…» aggiunse sorridendo il signor Giulio «è che lei vorrebbe mettersi subito a scrivere una seconda opera…»

«Ah sì!…»

«Bene. Gliene do la commissione. Si metterà d'accordo qui col Fontana per trovare un bel soggetto… Passi pure domani a firmare il contratto. Le saranno versate mille lire.»

Giacomo impallidì e per miracolo non svenne. E se non svenne fu perché l'editore, traendo da un mucchio di lettere un foglietto, glielo porse dicendo: «E adesso legga. Sono due righe di Verdi che la riguardano…».

«Riguardano me?»

«Sì: legga pure.»

Quelle righe dicevano:

Mi hanno scritto tutto il bene del musicista Puccini. Segue le tendenze moderne, ed è naturale, ma si mantiene attaccato alla melodia, che non è né antica né moderna. Pare però che predomini in lui l'elemento sinfonico: niente di male. Soltanto bisogna andar cauti in questo. L'opera è opera, e la sinfonia è la sinfonia; e non credo che sia bello fare uno squarcio sinfonico pel solo piacere di far ballare l'orchestra.

Accompagnando i due giovani alla porta il signor Giulio concluse:

Caro Puccini, si tenga bene a mente queste parole per il suo futuro: «L'opera è l'opera e la sinfonia è la sinfonia…». E arrivederci domani.

Giacomo quel mònito lo ricordò per tutta la vita.

La scena avveniva la mattina del 4 giugno. Il giorno 8, La Gazzetta Musicale di Milano pubblicava in frontispizio a caratteri vistosi questo annuncio:

Tito di Gio. Ricordi, Editore di Musica in Milano, Roma, Napoli, Firenze, Londra, Parigi, notifica di aver acquistato la proprietà assoluta e generale della stampa, rappresentazione e traduzione per tutti i paesi dell'opera Le Villi, versi di Ferdinando Fontana, musica di Giacomo Puccini, rappresentata con immenso successo al Teatro Dal Verme di Milano. Ha dato inoltre incarico al Maestro Puccini di scrivere una nuova opera su libretto di Ferdinando Fontana.

Ma sul sole che nasceva sì limpido e vivo all'orizzonte, si addensò d'improvviso la più nera nube: ai primissimi di luglio, la sorella Ramelde telegrafava a Giacomo che la mamma era morente.

La cara e santa Albina, che aveva accompagnato minuto per minuto i primi passi della sua creatura, ora che la missione era compiuta, poteva serenamente abbandonarlo al suo certo cammino. Poteva chiudere gli occhi vigili e incrociare le mani che lo avevano sorretto e far tacere il cuore che non aveva avuto battiti che per lui.

Sulla sua bara fu deposta una corona d'alloro dalle bacche dorate: era la corona che amici e ammiratori avevano offerto a Giacomo la sera dell'ultima rappresentazione de Le Villi.

Strazio immenso. Bisogno ardente di scappare da Lucca dove tutto gli parlava di Lei, di tornare a Milano, di buttarsi al lavoro che, solo, può soffocare il dolore.

E pochi giorni dopo questa lettera sconsolata alla sorella Ramelde ch'era la prediletta:

Penso sempre a Lei. Questa notte me la sono anche sognata. Oggi poi sono più triste del solito. Qualunque trionfo potrà darmi l'arte, sarò sempre poco contento mancandomi la mia cara mamma. Sta sollevata più che puoi, e fatti quel coraggio ch'io ancora non ho potuto farmi.

Nel suo nuovo alloggio, al num. 13 di piazza Beccaria, Puccini sta ultimando il rifacimento dell'opera, convinto più che mai che il consiglio di Ricordi era stato eccellente. Nella edizione in due atti, la sera di Santo Stefano di quello stesso anno, Le Villi si rappresentano con completo successo al Regio di Torino. E nella primavera successiva al San Carlo di Napoli.

Si dice che San Pietro la terza la benedice sempre. Ma stavolta il Santo smentì il suo proverbio: a Napoli, l'opera fu subissata di fischi. Un insuccesso epico e inesplicabile. E non dovuto certo a cattiva esecuzione. Anzi, l'iniziale freddezza del pubblico imponente fu proprio vinta dalla Torresella che, applauditissima alla fine della sua aria, com'era consuetudine di allora, corse a strappare Puccini dalle quinte per portarlo alla ribalta a ringraziare. Non l'avesse mai fatto! Gli applausi s'arrestarono di colpo. Si gridò all'autore: «Lei che c'entra? Vada via!». E Puccini, atterrito da quell'accanimento personale, s'allontanò a tal punto da trovarsi, cinque minuti dopo, tutto solo in un piccolo caffè di via Toledo, dove non seppe mai come fosse entrato. Sudava freddo, consultava l'ora. Si convinceva che in teatro era meglio non tornar più. Quando gli parve che fosse giunta la fine, passo passo s'incamminò verso il San Carlo. Il pubblico sfollava con commenti ch'era meglio non sentire. Il disastro era stato completo. Niente s'era salvato: non l'«Intermezzo», non la «Tregenda». Nulla.

Altro che «Puccini alle stelle», come avevano gridato a squarciagola i milanesi unanimi. E Giacomo, preso il primo treno, ripartì per Milano, maledicendo il golfo ed il Vesuvio e osannando al Naviglio e al Resegone.

«Partito preso» disse tranquillamente il signor Giulio.

«Caccia al genio nascente…» ribadisce Ferdinando Fontana.

«Ti aspettiamo per banchettarti dopo trionfo Napoli» telegrafano gli amici di Lucca.

Meno male, pensa, che laggiù non ne san nulla. E per convalidare la convinzione degli amici e documentare in modo evidente che l'opera passando di teatro in teatro gli sta rendendo un sacco di quattrini, decide di comprarsi un brillante.

Coi mensili che comincia a passargli la Casa Ricordi, può ben permettersi questo lusso, farsi questo regalo. Tanto più che il brillante che ora gli luccica nel mignolo è chimico, preso con dieci lire dal famoso Rituali.

Ma arrivato a Lucca la sua proba coscienza si ribella all'inganno. Non per via del brillante ma per la verità dell'esito di Napoli.

Ideatore e organizzatore del banchetto, sa che è Alfredo Caselli, un ricco droghiere appassionatissimo d'arte e amico del Carducci, del Pascoli, di Alfredo Catalani. E Giacomo, alla vigilia del progettato simposio, non resiste e lo affronta: «Senti, Caselli, mi faresti il piacere di sospendere il banchetto?».

«Che dici?»

«Dico» e te lo dico in confidenza «che disgraziatamente Le Villi a Napoli ebbero un insuccesso clamoroso.»

«Lo so… Lo sappiamo tutti… Abbiamo letto i giornali.»

«Ma allora?»

«Allora che?… Cosa vuoi che ci importi? Se l'opera a noi piace, peggio per chi torce la bocca. Noi festeggiamo te, la tua arte, il tuo nome, la tua musica, in barba ai napoletani che ascriveranno quei fischi a loro disonore. Stai dunque tranquillo: allo spumante sarò io che alzerò il calice alla tua gloria presente e alle moltissime prossime e future.»

Per il brillante invece le cose andarono molto meno lisce. Ché, all'indomani del banchetto, Giacomo si vide capitare in casa, burbero ed accigliato, il prozio dottor Cerù il quale, senza perdere tempo entrò subito in materia.

«Tu sai» cominciò solennemente «che, come meglio ho potuto, quando avevi bisogno di denaro ti sono sempre venuto incontro…»

«Vuole che non lo sappia?»

«Ma ti sei dimenticato, e lo noto con molto dispiacere, che mi avevi promesso che appena ti sarebbe possibile mi avresti rimborsato.»

«Ho promesso e mantengo.»

«Lo vedo bene come mantieni…»

«Come fa a vedere?»

«Basta guardarti il brillante che hai in dito.»

Fu allora che Puccini, togliendosi il fastoso gioiello e tendendolo al dottore, sorridendo rispose: «Lo tenevo per lei… Se vendendolo riesce a rimborsarsi, parola mia d'onore gliene compro uno vero».

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